Edizione n. 1

INTRODUZIONE. Cesare Lanza – Si fa presto a dire liberal

Questa nuova pubblicazione nasce con una semplice e ambiziosa, pur nella modestia,  buona intenzione: vuole proporsi come un luogo di riferimento e di aggregazione per persone di mente libera da pregiudizi e di cuore pulsante di emozioni e passioni,  ma anche indipendente da qualsiasi subordinazione… persone comunque slegate da vincolanti appartenenze a schieramenti politici, economici, religiosi, culturali e, non certo per mio ultimo desiderio, da qualsiasi organismo di potere che imponga discipline coercitive e censure.

Vi proponiamo, all’esordio, una periodicità bimestrale e una evidente povertà nella confezione, ma fin da ora desideriamo che la periodicità possa presto diventare più frequente, pur mantenendo la stessa dignitosa austerità, indispensabile forse, ma anche e di certo progettualmente voluta.

Aggiungo dunque che vorremmo entrare in punta di piedi nelle case di chi ci accoglierà e che confidiamo di indurvi a leggere almeno qualche pagina di ciò che pubblichiamo. Da un numero all’altro, giorno per giorno, tutti gli articoli saranno trasferiti anche on line, sul sito www.lamescolanza.com

C’è una sola linea-guida, che accomuna tutti coloro che partecipano al nostro progetto: la voglia, insopprimibile, di libertà. Siamo consapevoli della difficoltà di stabilire un approccio comune alla vita, sulla base di questo principio, tanto elementare quanto complicato. Si fa presto a dire liberal. Si fa presto, certo: dunque, vediamo un po’… io esigo rispetto per la mia libertà e non accetterò mai di subire confini iniqui e limiti soffocanti o, peggio, imposizioni, obblighi, comandamenti restrittivi per la mia vita libera, le mie scelte libere; allo stesso modo, però, intendo rispettare le esigenze di libertà degli altri, non vorrò esercitare influenze, non vorrò stabilire tracciati e confini per gli altri…. Ma, allora, come si fa a individuare un giusto confine? Come si fa a capire, basta forse il buon senso? Come si fa a determinare la linea – precisa: non confusa, non compromissoria – che separa il mio diritto dal diritto degli altri, il mio dovere di verificare che la mia libertà non coincida con il malessere, la sofferenza degli altri?
O viceversa. A queste domande, essenziali per lo sviluppo civile di qualsiasi società in qualsiasi epoca storica, si può rispondere solo attraverso un dialogo sereno e leale, tra i vari soggetti chiamati o obbligati a confrontarsi tra di loro.

Lasciatemi precisare subito, non solo per auto-ironia, ma anche per evitare ragionevoli ironie altrui, che certo non ci proponiamo di cambiare, neanche minimamente, il destino di questo vecchio imperfetto, ingiusto e crudele mondo – che seguirà fatalmente i suoi sviluppi, un mondo che peraltro, almeno nei millenni che abbiamo finora conosciuto e studiato, ha saputo resistere, sta resistendo e in futuro resisterà a feroci tentativi di condizionamenti e imposizioni. Ci proponiamo semplicemente di portare un lieve e umile apporto di idee e contributi liberali.

Perciò, ho scelto senza esitazioni, per il nostro titolo, “L’attimo fuggente”. Mi rendo conto che la mia visione della vita è tanto semplice quanto complicata, tanto disperata quanto contraddittoria. Sono convinto infatti che la nostra esistenza risulti alla fine, per tutti, un “non senso” assoluto; di conseguenza, mi considero un pessimista cosmico. Ma, allo stesso tempo, per affrontare la fatica di vivere, con l’indiscutibile diritto di difenderci, o almeno isolarci, in una società che neanche più maschera il suo dilagante cannibalismo, cerco di ispirarmi, giorno per giorno, al più energico ottimismo che mi sia possibile. E se inseguire una stabile felicità è tuttavia, almeno a mio giudizio, assolutamente impossibile, per lottare contro questa impotenza e questa frustrante impossibilità non ci resta che l’opportunità di identificare e fermare gli attimi fuggenti. Che la vita ci consegna a volte quando meno li aspettiamo, regalandoci, io ritengo, illusoriamente, i valori che vorremmo chiudere in cassaforte nella nostra anima: l’amicizia e l’amore, la speranza, la fede, la generosità, la solidarietà…

I riferimenti a cui mi ispiro nella mia vita sono i più diversi, tra i tanti possibili vorrei citare i personaggi che ho scelto provocatoriamente: ne abbiamo pubblicato l’effigie in copertina.

Per trasmettervi il principio di libertà individuali realizzate nei più remoti e distanti territori. Giacomo Casanova, simbolo dell’amore senza frontiere e delle avventure coraggiose e trasgressive, con il gusto utopistico, e al fondo fallimentare, di godere di tutto ciò che si può. Sigmund Freud, che non ha avuto esitazioni nell’indagare nei labirinti misteriosi dell’anima: per me, una figura affascinante al punto che, ai suoi primi casi, ho dedicato, in collaborazione con un’amica, una poetessa (personaggio particolare, anche lei, la mia Alda Merini personale) il progetto di una serie televisiva. E Roberto Benigni, l’irresistibile giullare che – prevedo – prima o poi conquisterà il premio Nobel: perché alla metafora fulminante della risata, ovvero dello sberleffo che da sempre irride dittature e arroganze, aggiunge – oggi – il merito di farsi portatore di una colossale operazione culturale, la lettura, la spiegazione e la divulgazione di Dante.

Via via, nel primo numero, troverete altri impulsi di libertà e personaggi del passato o del presente, che hanno dato o danno vita ad attimi fuggenti. C’è un’analisi, e una ferma rivalutazione, della contestatissima fisiognomica: che si conclude, questa volta, con una breve riflessione sul premier Romano Prodi (nei prossimi numeri, si esamineranno altri protagonisti della politica). Poi, Paola Perego pubblica qui l’intervista esclusiva che le ha concesso, per il suo programma televisivo, uno dei più grandi maestri di musica del mondo, Lorin Maazel, per la prima volta disponibile, tradizionalmente riservato com’è, a parlare della sua vita privata.

Ancora: un bel profilo di un principe della Chiesa, Carlo Maria Martini, che sa assumere posizioni sorprendenti, controcorrente. E poi il ricordo del primo medico, Vesalio, che alcuni secoli fa ebbe la curiosità di scoprire cosa ci fosse all’interno di un corpo umano. Inoltre, una originale passeggiata nella storia, alla ricerca delle radici del fascino femminile. Una bellissima poesia di Corrado Calabrò: una vita di duplice successo, come poeta e scrittore, e come magistrato, oggi presidente dell’Autorità per la garanzia nelle comunicazioni. Un incontro tra un giovane autore televisivo di grido e un libero creatore di tivu, Marco Giusti. Sulla televisione, lo sfogo e l’arringa (a favore dei giovani e dei talenti repressi) di Roberto Faenza. Il ricordo di un coinvolgente scrittore senza regole, Piero Chiara, e una struggente, appassionante conversazione con Mario Soldati. E ancora: un grande filosofo, Tullio Gregory, che traccia un itinerario, storico e sentimentale, del cibo e del gusto della buona tavola. La storia di un ex ministro canadese, che si arrese alla realtà degli Ufo. L’appello e la denuncia che Gubitosi, il geniale inventore del Festival di Giffoni, affida alla nostra rivista per salvare la sua grande manifestazione cinematografica, insediata nel profondo sud. L’approccio al cinema di un giovane regista, Paolo Costella, uno “che ce l’ha fatta”. Un sulfureo racconto di Pippo Russo, sociologo e scrittore. Un sondaggio tra i nostri lettori su chi sia, oggi in Italia, il personaggio più libero (il più votato, a grande maggioranza, Vittorio Feltri). Il caso di Sabrina Colle, fenomenologia di una donna che ha scelto di non fare sesso, nè con il suo fidanzato Vittorio Sgarbi, né con altri. Un’analisi sulla cattiva politica italiana: la tragedia, senza disciplina di leggi, degli incidenti del sabato sera. Le declinazioni, di varia caratura, di espressioni di libertà: dagli aforismi alle impostazioni istituzionali, dalle canzoni ai film e alla televisione. Il racconto di una scrittrice esordiente: ai debuttanti sarà riservata infatti un’opportunità per pubblicare qui, per cominciare a farsi conoscere.

Infine, sperando che anche questo possa interessare, due progetti in cui sono impegnato personalmente. La prefazione, scritta da un amico psichiatra (a cui ho chiesto di tenermi d’occhio), per un mio libro, “Il Lanzachenecco”, in uscita in questo mese: un dizionario di personaggi, persone e personcine che ho incontrato nella mia vita. E il soggetto che ho scritto di un film (il mio primo film) – “La perfezionista” – che ho in programma di girare, temerariamente come regista, entro l’estate.

Buona lettura, allora. Con la preghiera sincera di farci arrivare opinioni e suggerimenti, idee e critiche, spero naturalmente di avere auguri a pizzichi, ma aspetto anche, perché no, e non respingerò certo, severe stroncature.

Cesare Lanza.
FISIOGNOMICA. Domenico Mazzullo – Romano Prodi, il premier sfiancatore”

L’inquilino di Palazzo Chigi sa come sfinire gli alleati e gli avversari: è un muro di gomma

Domenico Mazzullo *

Iolanda:
Che hai, paggio Fernando? Non giuochi e non favelli.
Fernando:
Io?… Ti guardo negli occhi che sono tanto belli.
Iolanda:
Oh! Il duca!… In fede mia,
E sarà stato un forte, padre, ma bello, via!
Renato:
L’animo generoso ogni bellezza avanza.
Iolanda:
Sì, ma non veggo l’animo e veggo la sembianza.
Se io mi fossi quale voi dite ch’io non sono,
Avessi pure il cuore divinamente buono,
Non troverei nessuno di virtù così sante
Da sceverar dall’animo la causa del sembiante.
La bellezza è l’impresa che i nostri sguardi arresta
Si cerca poi se al motto corrispondan le gesta.

(da Una partita a scacchi di Giuseppe Giacosa 1873)

Quel famoso Apronio, che è spaventosa voragine, gorgo di ogni vizio e bruttura, come lui stesso “significa” non solo con la propria vita, ma anche con il corpo e la faccia.

(da Orazione contro Verre di Cicerone)

Sono gli occhi, veramente, fra le nobilissime parti di tutto il corpo umano le principalissime, perché i principali segni della Fisionomia si traeno dalli occhi. È stato detto da’ più savi filosofi che, come il volto è l’immagine dell’anima, così gli occhi son l’immagine del volto.

(da De Humana Physiognomonia (1586) di Giovan Battista Della Porta)

La fisiognomica è un mezzo essenziale per la conoscenza degli uomini, e il viso di un individuo dice cose più interessanti di quelle che dice la bocca.

(Schopenhauer 1785-1860)

Non si trattò di una semplice idea, ma di una rivelazione. Alla vista di quel cranio, mi sembrò di vedere all’improvviso, illuminato come una grande pianura sotto un cielo infuocato, il problema della natura criminale: un essere atavistico che riproduce, nella propria persona, i feroci istinti dell’umanità primitiva e degli animali inferiori.

(da L’uomo delinquente di Cesare Lombroso)

Leggo dentro i tuoi occhi
da quante volte vivi
dal taglio della bocca
se sei disposto all’odio o all’indulgenza
nel tratto del tuo naso
se sei orgoglioso fiero oppure vile
i drammi del tuo cuore
li leggo nelle mani
nelle loro falangi
dispendio o tirchieria.

(da Fisiognomica di Franco Battiato)

 

Qualunque Enciclopedia, antica o moderna, alla voce Fisiognomica recita, con pedissequa eguaglianza, che la Fisiognomica è una disciplina “pseudoscientifica”, che pretende di dedurre i caratteri psicologici e morali di una persona, dal suo aspetto fisico, soprattutto dai lineamenti e dalle espressioni del volto. Il termine deriva dalle parole greche physys (natura) e gnosis (conoscenza).

Per chi, come me, è un cultore molto interessato di tale disciplina, l’aggettivo “pseudoscientifica” ad essa attribuito, suona immediatamente offensivo, non onorevole e ingiusto, ma quando, superato l’immediato sdegno, rifletto a mente fredda, devo ammettere, ahimè, che esso risulta appropriato e corretto. Se pensiamo, infatti, al concetto di Scienza come sono la Fisica, la Chimica, la Biologia, la Medicina stessa, che procedono per esperimenti e sono soggette all’onere della prova, allora effettivamente la Fisiognomica non può essere assimilata a queste.

Se, infatti, è vero che la Medicina in sé è una scienza, ma curare i pazienti è un’arte, per lo stesso motivo posso affermare che dedurre i caratteri psicologici e morali di una persona dal suo aspetto fisico, si avvicina molto di più all’arte che ad una scienza esatta che ha bisogno di rigidi parametri e regole matematiche.

Ma in fondo siamo tutti un poco artisti, in questa accezione, alcuni di più, alcuni meno, altri, sfortunati, per nulla, se è vero che ognuno, nel suo piccolo, istintivamente e non razionalmente e con una precisa volontà, cerca di discernere nell’altro, sconosciuto, al primo impatto, dai caratteri del volto soprattutto, le sue intenzioni verso di noi, amichevoli, indifferenti, o addirittura ostili.

E questa è stata una necessità da sempre, da che esiste l’uomo sulla faccia della terra, necessità ripeto indispensabile per la sopravvivenza dei singoli e della specie. Lo stesso avviene, in forma certo più rudimentale ed assolutamente istintiva, negli animali tra loro e nei confronti dell’uomo.

Chi ha la fortuna di possedere un cane, ad esempio, ben sa come questo compagno riesca sempre ad interpretare il nostro stato d’animo, da segni impercettibili che evidentemente emaniamo e vengono captati dalla canina sensibilità. Altrettanto noi, solo che siamo un poco attenti al nostro compagno, siamo in grado di leggere nelle sue espressioni, ma soprattutto negli occhi i suoi sentimenti e gli stati d’animo molteplici che attraversano il suo vivere accanto a noi.

Appassionato come sono di cose militari, ho scoperto, non senza sorpresa, che il moderno saluto militare, portando la mano destra alla visiera del cappello, eguale in tutto il mondo e in tutti gli eserciti è un retaggio del medioevo, quando i nobili cavalieri erano interamente ricoperti da ferree armature e avevano il capo coperto e protetto da elmi piumati, che celavano interamente il volto e il sembiante. Quando due cavalieri si incontravano, con la mano destra sollevavano, al di sopra della fronte, la celata dell’elmo per scoprire il volto in segno di amicizia e fiducia nell’altro e mostrare l’espressione non ostile. Da qui il moderno saluto militare. Si evince quindi come la nobile arte di scoprire l’animo dell’altro, attraverso i tratti del volto, sia vecchia quanto il mondo e quindi, un poco di storia non guasta e forse non annoia l’incauto lettore.

Già nel Mahabharata troviamo alcuni passi che mostrano quanta importanza gli indiani accordassero allo studio dei tratti del volto per capire le pieghe più nascoste della personalità di un individuo, e qualcosa di simile avveniva anche presso altre popolazioni dell’estremo e medio oriente, ma per arrivare ad una vera e propria teorizzazione scientifica bisognerà attendere la cultura greca di Ippocrate, per quanto riguarda la Medicina e di Platone e Aristotele soprattutto per ciò che riguarda la filosofia e la pedagogia. Basti pensare che solo quegli studenti il cui aspetto fisico suggeriva determinate capacità di apprendimento venivano ammessi alla scuola pitagorica. Crudelmente mi chiedo cosa accadrebbe oggi, se lo stesso principio venisse applicato ai nostri attuali studenti.

Nello stesso periodo nasce l’idea della correlazione tra l’anomalia fisica e la degenerazione morale, tòpos che si ritrova sin nella concezione greca del còsmos, nello stesso tempo ordine e bellezza, e in quella del kalòs kagazòs, bello e buono.

È attribuito ad Aristotele il primo trattato pervenutoci sull’argomento, la Storia degli animali. Esso si basa sulla teoria dell’interdipendenza di anima e corpo e si affida alla comparazione tra un tipo umano ed una specie animale; infatti, l’individuo con sembianze simili a quelle di un particolare animale è ritenuto in possesso di analogo temperamento: un naso aquilino denota nobiltà, la faccia bovina un’indole placida e così via. All’uomo ideale si attribuiscono le qualità del leone. Lo stesso concetto e le stesse analogie verranno riprese, come vedremo successivamente, da Giovanni Battista Della Porta, quasi duemila anni dopo.

Sempre ad Aristotele si attribuisce il primo trattato sistematico sulla fisiognomica, giunto a noi, il volumetto Physiognomica che però e più probabilmente, non è suo, ma della sua scuola. In esso vengono affrontati e sviluppati, in termini moderni e logici, i temi della corrispondenza tra l’aspetto umano ed il comportamento, senza però che da tale corrispondenza, con un’intuizione di grande modernità, si possano dedurre e formulare leggi rigide di interpretazione, “Ciò che è duraturo nella forma esprime quanto è immutabile nella natura dell’essere e ciò che è mobile e fugace in detta forma esprime quanto, nella medesima natura è contingente e variabile”, temi che furono ripresi e ampliati durante tutto il medioevo da scienziati e medici arabi come Averroè e Avicenna, sia da filosofi scolastici come Alberto Magno e Michele Scoto, che scrisse il primo libro a stampa sull’argomento.

Facendo un balzo temporale indietro, anche il mondo e la cultura latina, più propensi ad un’utilizzazione pratica, piuttosto che ad una speculazione teorica e filosofica furono cultori attenti e interessati dell’argomento: ad un Anonimo latino del IV secolo a.C: dobbiamo un de Phisiognomonia e Marco Tullio Cicerone fu un grande conoscitore ed utilizzatore pratico degli studi fisiognomici nella sua attività politica, oratoria e giuridica.

Se riprendiamo la citazione iniziale, tratta dalla Orazione di Cicerone contro Verre, vediamo che per il retore, non solo la vita di Apronio, ma anche e soprattutto il corpo ed il volto “significano” la sua malvagità ed abiezione morale. Il corpo ed il volto divengono argomento della orazione e nei suoi tratti sono ricercati gli indicia della colpa. Si tratta di una strategia d’attacco operativa, per lo più nelle orazioni di accusa, nelle quali Cicerone costruisce abilmente un ritratto psico-fisico dell’imputato, un artificio che consente l’interpretazione fisiognomica del carattere attraverso la descrizione dell’aspetto esteriore. I segni del volto avversario, che vengono a costituire un ritratto compiuto, sono funzionali ad un suo “riconoscimento morale”.

La moderna concezione qui delineata è quella di un corpo rispondente, nella figura, alla natura di ciascun uomo (figuram corporis…aptam ingenio humano) e quindi di una fisionomia capace di rivelare le più intime inclinazioni del carattere. “Bisognerà presentare le virtù e i vizi dell’animo, quindi mostrare il comportamento psicologico di fronte ai pregi e ai difetti fisici ed esteriori. Se il fine è dunque la persuasione, il volto deve essere in primo luogo la rappresentazione speculare di una deformità d’animo ancora più deplorevole: è questa che deve muovere la volontà del giudice”. Il culmine di questa concezione è raggiunto nelle Orazioni contro Catilina nelle quali color, oculi, vultus, taciturnitas sono indizi di colpevolezza, addirittura superiori agli indizi materiali. Sembra che Cicerone abbia anticipato di secoli il tanto vituperato e misconosciuto Cesare Lombroso.

Purtroppo anche gli studi fisiognomici, come tante altre cose importanti e giuste, furono bollati dalla Chiesa cattolica, come frutto di una cultura pagana e quindi avversati, ma per fortuna la umana curiosità e l’aspirazione ad una libertà di pensiero, sopite, ma non uccise da tali espressioni di arretratezza, risorsero con il genio di Leonardo da Vinci il quale si occupò tanto di questa scienza che si presume abbia scritto un trattato sull’argomento, oggi perduto. Caratterizza in modo spettacolare la ricerca di Leonardo l’interesse per la conoscenza non più solamente del mondo visibile, ma piuttosto di quello delle passioni intime, della sfera psicologica, ed è testimonianza di un mutato atteggiamento della cultura tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento.

Lo studio della anatomia e della fisiologia sono lo strumento che lo scienziato utilizza per investigare e conoscere il mondo umano visibile, il nostro corpo ed il suo funzionamento, la fisiognomica, dal canto suo, lo strumento principe per investigare i moti dell’animo. Grazie alle sue continue osservazioni nasce la teoria dell’occhio, cioè della pittura, come finestra dell’anima e si comincia a guardare alle zone più oscure della psiche. Per Leonardo è necessario che dalle azioni delle figure umane emerga ciò che hanno nell’animo. L’analisi fisiognomica viene poi ricondotta nell’ambito più ampio degli studi anatomici e vengono quindi prodotti schizzi in cui lo scienziato descrive con puntigliosa attenzione volti particolarmente caratterizzati, quasi delle caricature, e li confronta con la rispettiva conformazione del cranio. “Farai le figure in tale atto, il quale sia sufficiente a dimostrare ciò che la figura ha nell’animo; altrimenti la tua arte non sarà laudabile”.

Nasce così lo straordinario connubio tra studi fisiognomici e arte figurativa, cui accenno solamente, per dovere di spazio e che si svilupperà a partire dal Cinquecento per tutti i secoli a venire, sotto forma di ritrattistica, molto influenzata dallo spirito del tempo. Basti pensare a Giorgione, a Lorenzo Lotto, a Tiziano, al Caravaggio, ad Annibale Carracci morto di malinconia a 49 anni, a Rubens, a Rembrandt, a Velázquez, a Vermeer, a Goya, a Degas, a Van Gogh, a Munch, a Toulouse-Lautrec, a Klimt.

Tornando alla nostra storia della Fisiognomica, nel 1586 Giovan Battista Della Porta pubblica il De humana Physiognomonia, da lui stesso ampliato e tradotto in volgare Della fisionomia dell’uomo, pubblicato negli anni successivi, fino al Seicento, con lo pseudonimo di Giovanni De Rosa, per non incorrere, pericolosamente negli strali della Chiesa. È un’opera di sintesi del pensiero classico-medievale sull’uomo, che, prendendo le mosse da Aristotele, espone, nei sei volumi di cui è composta, i princìpi secondo i quali dall’aspetto e dal temperamento dell’uomo si possono trarre conclusioni sulle sue qualità mentali e sul carattere. Come per Aristotele, anche per Della Porta è ravvisabile in visi umani una corrispondenza con specie animali diverse: l’individuo con sembianze simili a quelle di uno specifico animale è ritenuto in possesso di analogo temperamento. Anche in questo caso all’uomo ideale si attribuiscono le qualità del leone. Ma l’Opera non si esaurisce qui; nel secondo libro, infatti, il corpo umano è sottoposto ad una minuziosa, quanto interessantissima disamina che va, ogni volta con minuziose specifiche, dal capo alla fronte, sino alle sopracciglia, tempie, orecchie, naso e così via sino alle estremità. Il terzo libro è interamente dedicato agli occhi, dei quali si esaminano la forma, i colori, le palpebre e i loro movimenti “Sono gli occhi veramente fra le nobilissime parti di tutto il corpo umano le principalissime, perché i principali segni della Fisionomia si traeno dalli occhi. La perfezione della Fisionomia si toglie dalli occhi, et i segni che dalli occhi si togliono sono i più veri et i più gagliardi di tutti quelli che si togliono dal volto; e quando i testimon delli occhi s’accordan con quelli del corpo, allor son verissimi; ma se quelli delli occhi discordan dagli altri, allor devi lasciar gli altri ed attaccarti a quelli delli occhi”.

Il quarto libro tratta di altri particolari, come capelli, peli, modi di camminare, bellezza o bruttezza del viso, abbigliamento, mentre il quinto, forse il più interessante è dedicato a delineare i vari caratteri, sulla base dei segni indicati nei libri precedenti. Della Porta ci fornisce così una sequela di ritratti morali ricavati dall’aspetto fisico: il giusto e l’ingiusto, l’uomo dabbene e l’uomo cattivo, il fedele e l’infedele, il prudente e l’imprudente, l’ingegnoso e in fine l’eroe. Una carrellata di tipologie caratteriali che ricorda I Caratteri di Teofrasto e che tutt’ora è di godibilissima e attualissima lettura per chi si occupa di psichiatria. Il sesto libro elenca una serie di rimedi per riparare ai vizi descritti nel libro precedente.

Intanto il Cinquecento volgeva rapidamente al termine ed avanzava a grandi passi il Seicento, il secolo di Galileo Galilei, di Cervantes, di Shakespeare, di La Rochefoucauld, di La Fontaine, di Rembrandt, di Velázquez, di Vermeer, di Pascal, di Spinoza, di Bacone, il primo a considerare, in chiave moderna il problema della follia, ma soprattutto di Cartesio, il quale con il suo Discorso sul metodo, pone le basi razionali del sapere scientifico. Nasce con lui l’illusione che l’oscuro possa essere messo in piena luce, per mezzo della ragione. Egli non parla esplicitamente di fisiognomica, ma nel suo libro Le passioni dell’anima cerca di sistematizzare il rapporto anima e corpo (res cogitans e res extensa), descrive ed investiga acutamente i segni esteriori dell’anima, gli occhi, il viso, il pianto, i tremiti, il languore, i sospiri.

Alla scuola di Cartesio si forma Charles Le Brun, primo pittore alla corte del Re Sole, Luigi XIV, che scrisse il più famoso trattato di fisiognomica del tempo, Espressione generale e particolare istituendo le basi razionali di questa scienza e attirando su questa l’interesse e l’attenzione mondiale. Il peso di questo autore fu tale che nella scelta degli ambasciatori di Luigi XIV conterà anche l’analisi fisiognomica: quelli che avranno facce non convincenti, secondo i criteri di Le Brun, saranno scartati.

Contemporaneo di Le Brun, ma in Inghilterra, fu il fisico e filosofo Thomas Browne, autore di un trattato, Religio medici nel quale teorizzò la possibilità di dedurre le qualità interne di un individuo, dall’aspetto esteriore del viso “nei tratti del nostro volto è scolpito il ritratto della nostra anima”. Successivamente Browne espresse esplicitamente le proprie convinzioni sulla fisiognomica nella sua opera magistrale Christian Morals, “Poiché il sopracciglio spesso dice il vero, poiché occhi e nasi hanno la lingua, e l’aspetto proclama il cuore e le inclinazioni, basta l’osservazione ad istruirti sui fondamenti della fisiognomica… spesso osserviamo che persone con tratti simili compiono azioni simili. (Su questo si basa la fisiognomica…)”.

Con questi ultimi due nomi si chiude il Seicento, il secolo della “ragione” di Cartesio, il secolo in cui l’Uomo cominciò a nutrire l’illusione che l’oscuro potesse essere messo in piena luce attraverso e per mezzo della propria ragione e che egli potesse finalmente essere affrancato da ogni schiavitù interiore, utilizzando quello che, a diritto, considera il più nobile segno di libertà, la propria capacità di giudizio. E proprio per difendere questa libertà gli uomini che ho nominato e tanti altri, furono costretti a lottare, rischiando anche la vita contro l’acerrimo nemico di questa stessa libertà, la Chiesa cattolica, che ha sempre visto e tutt’ora vede, nella libera espressione del pensiero razionale il pericolo più grave, da cui guardarsi e contro cui lottare.

Pensiamo che il Seicento fu anche, anzi soprattutto, il secolo che si aprì con il rogo di Giordano Bruno, il secolo di Galileo Galilei, del suo processo, conclusosi con la sua abiura “Eppur si muove”, per aver salva la vita, il secolo della Santa Inquisizione, dei processi alle streghe, dei roghi degli eretici, degli omosessuali e di tutti coloro che non si conformavano e sottomettevano ai dettami della Chiesa.

E se il Seicento può essere definito il secolo della Ragione, il Settecento, il secolo dei “lumi” è, senza ombra di dubbio, il secolo della Libertà. Non occorre soffermarci sugli enormi sconvolgimenti che dominarono la scena storica di questo secolo, dominato, per quanto riguarda il nostro discorso sulla fisiognomica, da due personaggi, anzi da due personalità in continuo conflitto tra loro: il pastore protestante zurighese Caspar Lavater e il docente di fisica dell’università di Göttingen Georg Lichtenberg.

Il primo, autore di un opera Frammenti fisiognomici si muove sulla scia della fisiognomica classica, tradizionale di Aristotele e Della Porta guadagnandosi un successo forse immeritato presso i contemporanei: egli si rese famoso con l’invenzione delle silhouettes, profili del corpo su sfondo bianco, con le quali cercò di definire per sempre tutte le caratteristiche possibili del volto umano, da studiare secondo criteri determinati, che legano tratti e caratteri, senza possibilità di modificazione. Colpisce il fatto che con Lavater, la fisiognomica sia divenuta un vero fenomeno sociale, caratterizzata da una frenesia da parte della nobiltà e della borghesia di inviare allo studioso le proprie silhouettes da esaminare. A questa curiosità non rimase immune nemmeno Goethe.

Di ben maggiore spessore, e forse proprio per questo meno famoso, è lo scienziato tedesco Lichtenberg che insiste sull’importanza che hanno, non i tratti fissi, ma quelli mobili della fisiognomica, quelli determinati da come i sentimenti, più che l’ereditarietà dei lineamenti, influiscono sul volto. Si torna, in questo modo ai concetti che per primi furono di Leonardo da Vinci. Così Lichtenberg propone di sostituire la fisiognomica statica di Lavater con una fisiognomica dinamica, che egli stesso definì “patognomica”, cioè lo studio delle passioni transitorie che deformano i corpi nelle varie circostanze della vita.

Certamente la concezione di Lichtemberg è molto più moderna di quella del suo antagonista, ma la patognomica è difficile, comporta un’attenzione capillare ai dettagli che un volto presenta, in tutti gli attimi in cui lo osserviamo e per di più non ci fornisce alcun sistema di riferimento sicuro, non ci sono misure del cranio, non c’è proporzione del volto e del corpo, cui fare riferimento. Tutto si gioca sull’interazione, sull’incontro tra me e un altro che devo analizzare. Inizia a farsi strada il concetto di relativismo scientifico in quanto l’osservatore è comunque soggettivo, mentre il corpo dell’osservato è in continuo cambiamento.

A cavallo tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, nacque e si sviluppò, incredibilmente, una nuova teoria pseudoscientifica, contigua alla fisiognomica, la “frenologia” per opera del medico tedesco Franz Joseph Gall, il quale, rifacendosi alle teorie di Lavater, teorizzò che le singole funzioni psichiche dipendessero e fossero originate da particolari zone o “regioni” del cervello, per cui, dall’esame della morfologia del cranio, dalle sue bozze, linee, depressioni, si potrebbe giungere alla determinazione delle qualità psichiche dell’individuo e della sua personalità. Attività particolarmente cara a Gall fu quella di collezionare crani di persone che in vita si erano particolarmente distinte in vari modi, per studiarne le caratteristiche e le irregolarità, che a suo dire avrebbero dato ragione della loro genialità. Parimenti a tante altre cose stupide e prive di ogni fondamento le teorie di Gall ebbero un notevole seguito e la frenologia divenne famosa e lo rimase per quasi un secolo.

In piena epoca napoleonica, ma in Inghilterra, nel 1806, Sir Charles Bell, illustre neurologo, pubblicò un trattato fondamentale per la fisiognomica, riguardo al problema dell’origine delle diverse espressioni umane: Anatomia e filosofia dell’espressione, opera considerata basilare per la ricerca che sarà poi ripresa da Darwin.

Quest’ultimo, infatti, utilizzando per la prima volta a scopi scientifici, una recentissima scoperta (1839) la fotografia, pubblicò, nel 1872, L’espressione dei sentimenti nell’uomo e negli animali opera che rappresenta senza dubbio una pietra miliare nella ricerca fisiognomica: e nella quale, infatti, con l’ausilio di numerosissime fotografie, teorizzò e sostenne una tesi innovativa e rivoluzionaria, ossia che le emozioni e le conseguenti espressioni nascono come segnali di un meccanismo fisiologico, individuale e della specie, con cui l’animale e l’uomo reagiscono all’ambiente, per difesa e per attacco, al fine della sopravvivenza e della selezione naturale.

Con Darwin, superata a piè pari l’epopea napoleonica, i grigiori della Restaurazione, i fulgori romantici del Risorgimento e delle guerre di Indipendenza, che portarono all’Unità di Italia, ci troviamo ormai in pieno positivismo scientifico, con la sua fede incrollabile assolutamente laica e rigorosamente ottimistica, nelle virtù, della scienza. Il positivismo con il suo continuo richiamo al positivo, inteso come dato dell’esperienza e del fatto concreto, può essere interpretato più che come una corrente filosofica, come un nuovo metodo, una nuova mentalità, incentrata sulla fede incondizionata nel progresso scientifico, che condusse le scienze naturali ad essere assunte al ruolo di strumenti prioritari di conoscenza della realtà. In tale clima nacque, si formò e sviluppò la sua teoria e la sua ideologia Cesare Lombroso (1835-1909) considerato a tutto diritto, universalmente il padre della moderna antropologia criminale o criminologia. Di Lombroso si è detto tutto e il contrario di tutto; fu considerato dai contemporanei un gigante nazionale e solo cinquanta anni più tardi lo si è chiamato servo venduto della borghesia, visionario pazzo, semplificatore privo di metodo, affrettato etichettatore e arbitrariamente superficiale nella costruzione scientifica o pseudo tale. In realtà, ritengo che gli acerrimi suoi detrattori, plausibilmente non abbiano letto le sue opere, o forse le abbiano lette, il che è anche peggio, dominati ed offuscati da un loro pregiudizio ideologico, contrario ad ogni procedere scientifico, attribuendogli con una accezione negativa concetti ed intenzionalità che non gli appartennero.

I principi generali della teoria di Lombroso sono espressi nella sua opera fondamentale L’uomo delinquente pubblicato nel 1876. In essa Lombroso distinse diversi tipi di criminali: 1) il delinquente nato, nel quale si assommano e riconoscono alcune anomalie regressive, riconoscibili per caratteristiche anatomiche e fisiologiche particolari, e per il quale la criminalità è insita nella propria natura, e che è considerato soggetto non recuperabile, 2) il delinquente epilettico, 3) il delinquente per impeto passionale (forza irresistibile), 4) il delinquente pazzo o debole di mente (mattoidi), 5) il delinquente occasionale portato al delitto da fattori causali diversi da quelli del delinquente nato; su di essi deve essere svolta un’opera di rieducazione in istituti carcerari ben organizzati.

L’interesse di Lombroso si concentrò naturalmente sul criminale nato, nel quale la spinta a delinquere sarebbe congenita, legata alla natura stessa della persona e come tale non rieducabile e men che meno curabile (teoria dell’atavismo), perfettamente in linea con le teorie di Darwin.

Egli dedicò tutta la sua vita a ricercare, nella fisionomia, nei caratteri esteriori dei criminali, quei tratti comuni, quelle caratteristiche fisiche che li accomunassero e che potessero essere considerate stigmate precise e riconoscibili, della loro tendenza, naturale e congenita a delinquere. Ipotizzò anche, dall’esame autoptico dei criminali, che queste inclinazioni ataviche fossero corrispondenti e quindi riconoscibili in anomalie anatomiche e strutturali che rendessero ragione della loro innata tendenza a delinquere.

Particolare attenzione doveva essere posta alla conformazione del cranio e delle ossa facciali che, nei delinquenti congeniti, presentavano alcune anomalie, come la ridotta capacità cranica, una fronte bassa e sfuggente, una struttura facciale sporgente, con mandibole fortemente sviluppate, ossa zigomatiche particolarmente pronunciate, seni frontali anormalmente sviluppati. Ulteriori segni rivelatori potevano essere deviazioni dal peso normale del cervello, forma atipica delle circonvoluzioni e della fossetta occipitale, anomalie delle orecchie, quali orecchie prominenti o a sventola, labbro leporino, difformità tra il labbro superiore e l’inferiore, sottigliezza anomala del labbro superiore, sviluppo anormale della dentatura. Nel clima ottocentesco di forte scientismo, di bisogno di catalogare, di sistematizzare, di misurare, di schedare, l’antropologo Lombroso raccolse, per comprovare le sue teorie, tantissimo materiale fisiognomico, specialmente fotografico, raccolto nel carcere, negli schedari della polizia (foto segnaletiche) e nelle sale settorie dell’Istituto di Medicina Legale da lui diretto, al fine di mettere in rilievo la diversità di chi era già stato dichiarato reo, di catalogare le stigmate della diversità colpevole, di certificare scientificamente le differenze del criminale, di mettere in relazione l’attitudine al crimine, con specifiche caratteristiche fisionomiche, corrispondenti a specifiche strutture caratteriali.

Osannato dai contemporanei Cesare Lombroso, cadde in disgrazia negli anni successivi al secondo conflitto mondiale, tacciato, dai suoi detrattori addirittura di razzismo, del tutto ingiustamente, a mio parere, ma comprensibilmente, nel nuovo clima culturale instauratosi, pregno della pseudoscientifica dottrina psicoanalitica, che naturalmente mal sopportava il determinismo lombrosiano e la sua concezione di una caratterologia predeterminata.

E per dare all’incauto e benevolo lettore un esempio di come possa procedere e quali risultati possa dare un’analisi fisiognomica attuale, intesa, come dicevamo prima, non come una scienza esatta che utilizza precisi parametri matematici, ma piuttosto come un’arte, mi si perdoni l’immodestia, ci siamo cimentati in un tentativo di ritratto fisiognomico di Romano Prodi.

È una persona che a prima vista può trarre in inganno. Sotto un aspetto bonario e pacato, aspetto suffragato da una intonazione di voce bassa e monotona e da un eloquio lento e caratterizzato da lunghe pause, nasconde una ferrea volontà ed una determinazione assoluta. È una persona che quando si propone un obiettivo lo persegue senza esitazioni o ripensamenti, senza incertezze o dubbi lungo la strada.

Lento piuttosto nel prendere le decisioni, ma fermamente determinato una volta che le abbia prese. In termini sportivi lo definirei un maratoneta, piuttosto che un atleta di scatto e velocità.

Non si lascia toccare dalle critiche o dalle opposizioni, che non scalfiscono le sue sicurezze. Si contrappone a queste come un muro di gomma, che apparentemente non oppone resistenza e si lascia deformare, tornando poi, elasticamente alla posizione iniziale. In questo modo sconfigge l’impeto dell’avversario. Non conosco se giuochi a scacchi, ma sarebbe un ottimo giocatore. Ama il rischio, ma solo quando è calcolato. Non agisce mai d’impulso, ma solamente dopo un’attenta riflessione. Imperturbabile, rigido con se stesso, ma soprattutto con gli altri, dai quali pretende moltissimo, poco disposto a perdonare. Permaloso. Dalla lunga memoria per quanto riguarda i torti e le offese subite, per le quali può chiedere il pegno anche dopo anni. Molto bravo e capace nell’attendere che il cadavere del suo nemico sia trasportato dal fiume. Di una cortesia e educazione formale perfetta, soprattutto con chi non stima e gli è avverso. Gelosissimo della sua vita privata, che custodisce con cura. Scarso e parco nell’espressione dei sentimenti, che sono però profondi e costanti. Opera una rigida separazione tra la sua vita pubblica e privata. Non si lascia coinvolgere facilmente ed è molto capace di dominare le emozioni e le passioni. Metodico sul lavoro e costante nell’impegno. Non soggetto a stress. Nella vita familiare è presente e partecipe. Non si concede lussi ed è parco nelle spese. Un buon amministratore dei propri beni. Un buon risparmiatore per ciò che concerne gli aspetti materiali, ma soprattutto sentimentali della vita. Non teme la morte, ma ne è infastidito.

* Dice di sé:
Domenico Mazzullo. Medico-Chirurgo, speta in Psichiatria. Psicoterapeuta. Assolutamente laico e quindi profondamente libertario. Romanticamente illuminista.[/expand] ESCLUSIVO. Paola Perego - Lorin Maazel: per la prima volta il Maestro parla di sè

I ricordi di una grandiosa carriera artistica e di una vita eccezionale, nell’intervista concessa alla conduttrice di Buona domenica. Il suo segreto? “Quando entro sul palcoscenico, mi dico sempre: sentire la musica e sorridere”
Paola Perego * 

“Maestro, grazie di averci concesso in esclusiva questa intervista. È davvero per noi un grandissimo onore. Grazie ancora. Lei ad undici anni ha ricevuto una sorta di benedizione artistica da uno dei più grandi maestri d’orchestra, Toscanini. Lei che cosa ricorda esattamente di quell’incontro e che ricordo ha di Toscanini?”

“Mi trovavo a New York, a dirigere l’orchestra di Arturo Toscanini. E durante la prova, credo di aver diretto una sinfonia di Mozart, il maestro Toscanini venne nel camerino, mi guardò e disse “Dio ti benedica!” “God bless you”, in inglese, e questo mi fece una grande impressione: un eroe, io un piccolino, un ragazzo, amavo naturalmente la musica, ma ne sapevo ben poco e trovandomi davanti ad un maestro, il più grande maestro di tutti i maestri di tutti i tempi, sentii un’emozione enorme”.

“Lei dice, sapevo poco, ma aveva undici anni. Ha diretto il primo concerto che aveva quattro anni e poi a otto anni e ancora a undici. Un bambino, a quattro anni, come può già essere in grado di dirigere un concerto. Come può sognare di diventare un maestro, un direttore d’orchestra. I bambini non sognano di fare i calciatori, gli astronauti, i medici?”

Maazel ride: “Io non sognavo niente. Stavo là, all’età di cinque anni, a casa mia, come tanti ragazzi, cercando di suonare uno strumento…”.

“E qual era questo strumento?”

Maazel: “Violino. Avevo una cugina che suonava molto bene il violino, ero molto geloso di lei, quindi mi dissi “devo suonare il violino anch’io” e allora piano piano, sa, iniziai a suonare, a essere seguito da maestri di musica che scoprirono che avevo l’orecchio assoluto, una buona memoria eccetera… Allora, così, probabilmente più per scherzo che per altro, mi fecero dirigere un’orchestra, ad una prova, per dieci minuti, per vedere come andava…”.

“È andata benissimo”

“E da quel momento in poi ho cominciato a dirigere piuttosto spesso. Arrivando a New York all’età di undici anni, già musicista, direttore d’orchestra maturo e sperimentato, ho potuto, forse, dare un piccolo contributo molto giovanile e molto innocente all’interpretazione della musica di quell’epoca”.

“Direi che ha dato un grande contributo. Ma ha perso qualcosa il bambino? Lei era già impegnato come un uomo adulto”

“Sì, ma avevo la fortuna di avere genitori che non volevano o avrebbero voluto sfruttarmi come enfant prodige, un prodigio che si esibisce. Andavo a scuola con tutti gli altri ragazzi, avevo i miei amici e una giovinezza completamente normale”.

“Insieme alla Sinfonica lei dedica a Toscanini questa tournèe, lunga un anno, dagli Stati Uniti ad Israele, passando per Roma. Ma vorrei sentire da lei qual è l’insegnamento di Toscanini?”

“Era un uomo molto passionale, si vede questo anche leggendo le sue lettere, aveva un cuore enorme, amava la gente, amava la musica, credeva, alla sua epoca, che la musica aveva una funzione sociale, che era una fonte di ispirazione, un punto di riferimento. E allora, volendo tanto bene alla musica, si dedicava con cuore e con questo cervello incredibile che aveva alla musica. Si intravedeva il cuore di un essere umano molto passionale, con le sue debolezze”.

“Lui portava questo messaggio di pace, di fratellanza proprio nell’epoca del fascismo”

“Sì, naturalmente, lui ebbe il coraggio di prendere delle posizioni molto chiare nei confronti del fascismo e della dittatura. Dichiarava ogni giorno, così, pubblicamente, di essere contro e, infatti, partì per gli Stati Uniti prima della seconda guerra mondiale, appunto per trovare un paese che era ancora, relativamente, democratico e libero”.

“Maestro, come si distingue una bella musica da una cattiva musica?”

“Beh, in una cattiva musica manca la vita, non vibra. Ci sono tanti esempi di questo genere di musica, molto ben fatta, almeno a guardarla, ma non viva”.

“Ho letto una sua dichiarazione, e credo che corrisponda a verità, dove lei dice che è la stessa differenza che c’è tra una buona cucina e una cattiva cucina. È vera questa cosa?”

Il Maestro sorride: “Sì, infatti, c’è un’esecuzione che si potrebbe comparare. Cioè fare il confronto con una brutta cucina, cioè un’esecuzione in cui manca il condimento, manca la vita, manca tutto… l’immaginazione che ci vuole per preparare un bel piatto. Quindi il pubblico dovrebbe essere sempre esigente. Tocca all’interprete prendere per mano il tifoso della musica ed entrare in questo mondo della musica che è senza dimensione, è un panorama vasto, che però può offrire un nutrimento straordinario allo spirito. Altri punti di riferimento rispetto ad un Mc Donald’s”.

“Ecco, a proposito di Mc Donald’s. È vero che quando i suoi figli le hanno chiesto di andare da Mc Donald’s lei gli ha cucinato delle polpette in casa per fargli capire la differenza?”

“Sì. L’esperimento è andato molto bene”.

“Lo dica anche a noi, perché avendo figli, magari funziona!”

“Sì. Dopo due bocconi, mi hanno guardato, là al ristorante, e hanno scosso la testa… “torniamo a casa, babbo, cucina tu!”.

“Questa mi sembra un ottimo suggerimento da dare. Ma lei che rapporto ha con l’Italia?”

“Sono venuto qui, come studente, tanti anni fa. Devo all’Italia quasi tutto. Andavo all’università, studiavo filosofia, ma questa era tutta teoria. Qui, in Italia ho trovato una vita nella quale erano coinvolti valori spirituali, intellettuali e umani che a me mancavano ed ho potuto fare la carriera piuttosto rapida che ho fatto dopo”.

Ma lei, di una donna italiana si è mai innamorato?”

“Beh, sì… insomma, come si potrebbe mancare a questa esperienza. E naturalmente un’italiana collegata con la vita italiana può offrire molto allo straniero. Ad un certo punto della mia vita, qui, mi sono sentito quasi italianizzato, certamente romanizzato. Anzi, all’epoca parlavo piuttosto bene il dialetto romano. Ma sa, dopo tanti anni, non vivendoci, si perde. Ma i ricordi non si dimenticano, li tengo nel cuore”.

“Certo, quelli sono la cosa più importante. Ho letto che è una persona molto riservata, non ama parlare della sua vita privata. Ama parlare di Maazel, grande maestro di musica e poi invece tutto il resto è tenuto sempre molto nascosto, possiamo dire. Come mai?”.

“Ma…ne ho parlato proprio adesso”.

“Ah, sì. Della signora italiana innamorata… Quanti figli ha, che papa è?”

“Sette”.

“Sette figli? Che meraviglia!”.

“E tre matrimoni. E con la terza moglie, con la quale vivo oggi, tre figli, 19, 17, 14. Maschio, maschio, femmina”.

“E che papà è?”

“Beh… amo molto questi figli e pare che loro mi amino anche un po’… siamo in contatto ogni giorno. Adesso con la webcam, una cosa incredibile, possiamo vederci… è un’altra esperienza. Quindi sono in contatto con loro molto spesso. Poi li invito, quando possono andar via dalla scuola, a partecipare alle esperienze della tournèe. Per esempio vengono per Pasqua, e sono molto contenti”.

“Toscanini aveva la fama di essere molto veemente. E lei a New York ha ricevuto un grande regalo, immagino. Una delle bacchette che Toscanini ruppe durante un momento di veemenza, mentre dirigeva l’orchestra. Lei è così veemente? E se potesse rompere una bacchetta addosso a qualcuno, addosso a chi la romperebbe?”

“Forse l’avrei fatto da giovane, perché questa veemenza viene da una certa immaturità psicologica. Ho avuto anche io questa esperienza… di aver rotto una bacchetta durante una prova. Non so come mai. Ma piano, piano, con il passare degli anni, cominciavo a capire sempre di più lo stato d’animo del musicista. Perché lui è là e vuol fare il suo meglio. Beh… ci sono musicisti che sono diventati impiegati, purtroppo, cioè, con la mentalità dell’impiegato. Questo naturalmente fa pena. Specialmente ad un giovane che arriva con le stelle negli occhi, volendo bene alla musica. E non era così, è diventato così. Probabilmente, a causa di una processione di direttori d’orchestra mediocri, che li hanno così scoraggiati… Quindi pensavo, essendo un giovane direttore d’orchestra, di poter risvegliare in loro quest’amore per la musica. Infatti, sono riuscito molte volte a vedere una scintilla d’interesse, finalmente, in quegli occhi. Adesso, ormai, sono molto più vecchio e vedo questi giovani musicisti con occhio paterno. E allora non mi arrabbio più. Faccio quello che faccio con una serenità che, diciamo, mi mancava prima”.

“E si vede. La emana questa serenità. Lei ha regalato anche al nostro Presidente della Repubblica una sua bacchetta”

“Sì. Proprio all’auditorio del teatro della Conciliazione. È stato un grande onore, per me, poter dare la bacchetta che ho utilizzato per un concerto al Presidente di un paese che amo con tutto il cuore. Una specie di regalo simbolico e che rappresenta l’amore che ho sempre per l’Italia”.

“Lei ha dei riti scaramantici prima di salire sul palco. Esistono comunque delle piccole superstizioni anche nel mondo della musica”

“Sì sì, esistono. Ma ad un certo punto mi dicevo: essere nervoso, trovare dei mezzi per evitare la “brutta” fortuna sul palcoscenico, di fatto, è un segno di egoismo. Perché siamo là per servire la musica. Noi non abbiamo importanza. Siamo là come servitori. Ed essendo nervoso non sei più capace di fare il tuo dovere verso il compositore. E allora è un danno all’esecuzione, agli amanti della musica, ai musicisti e a te stesso. Quindi dovresti essere lì, calmo, ben preparato, tranquillo e pensare soltanto alla musica. E quando esco dalle quinte sul palcoscenico, mi dico sempre due cose “sentire la musica” e “sorridere”.

“Bellissimo”

“Sorrido, perché ci sono moltissime mie fotografie nelle quali non sorrido per niente… e allora cerco sempre di pensare all’importanza del sorriso, perché la musica, infatti, è un sorriso per l’orecchio!”.

“Senta, in una carriera così lunga, ricca di tanti successi, c’è ancora un progetto che non ha realizzato”.

“Nel repertorio italiano, incredibile, ma il Rigoletto, non l’ho mai diretto. Tante di quelle opere di Verdi, sì, ma il Rigoletto no. Quindi ci sono ancora colline sulle quali arrampicarsi”.

“Quali sono le due frasi, le due frasi di quando si esce dal camerino prima di salire sul palco?”.

“Le due frasi sì… ascolta bene la musica e sorridi”.

“Allora noi ascoltiamo bene la musica e sorridiamo. Io la ringrazio veramente di cuore di questa bella chiacchierata. Grazie Maestro, grazie di cuore”.

* Dice di sé:
Paola Perego. Ho 41 anni, adoro i miei figli e il lavoro. Da vent’anni sono in televisione, cerco ogni giorno di imparare, prepararmi, migliorarmi. Sono passionale, curiosa: mi piacciono le novità. L’intervista con un genio della musica come Maazel mi ha dato un’emozione particolare anche perché era un’esperienza nuova: non è stato semplice indurlo a parlare della sua vita privata, non l’aveva mai fatto…

PROFILI. Luciano Frigerio - Carlo Maria Martini, il Cardinale controcorrente

Una vita particolare, al servizio del Vangelo: “Cerco una verità che sia sorgiva come l’acqua; cerco una verità che sia semplice come il pane; cerco una verità che sia chiara come la luce; cerco una verità che sia potente come la Vita”
Luciano Frigerio * 

Era una giornata invernale, fredda, ma ricca di calore ed accoglienza. Una di quelle giornate in cui il cielo di Lombardia – che è così bello quando è bello, chiosava il Manzoni – sembrava vivido e palpitante per assistere, in quel 10 febbraio 1980, all’ingresso del nuovo arcivescovo. Era quella la prima volta che chi scrive incontrava Carlo Maria Martini. Fu un ingresso singolare, percorrendo a piedi – tra la gente e con la gente – il tratto di strada che va dal castello sforzesco al Duomo. Camminava tra la gente con il vangelo in mano. Questa è la prima icona del Vescovo Martini, non ancora cardinale, lo diventerà nel concistoro del 2 febbraio del 1983 – che si staglia nella mia memoria e credo definisca, sopra ogni altra cosa, l’azione pastorale dei 22 anni a seguire. Quel giorno tra i tantissimi biglietti d’augurio ce n’era uno di don Giuseppe Dossetti che scriveva: “Da lei Milano ascolti il Vangelo, solo il Vangelo”.

Così è stato in quel primo giorno, quando la sua figura di uomo imponente e fine, raccolta in un lungo mantello nero che lo avvolgeva, lo faceva sembrare ancora più grande: e così è stato anche negli anni a seguire. Questa vocazione, al servizio del Vangelo, è significativa per delineare un aspetto fondamentale della biografia del cardinale che ha compiuto lo scorso mese di febbraio 80 anni. Uomo della filologia più rigorosa, non è mai caduto nell’idolatria del testo. Infatti, la critica testuale biblica – di cui padre Martini è stato studioso ed insegnante per lunghi anni – va alla ricerca della parole ebraiche e greche della bibbia nella loro autenticità e purezza, non per feticismo letteralista, ma per il fatto che è attraverso di loro che passa la Parola suprema.

Quella Parola che Martini ha posto “in principio” al suo stesso ministero pastorale. Infatti, le prime lettere alla Diocesi riguardavano, significativamente, La dimensione contemplativa ed In principio la Parola. Stupì non poco che il nuovo arcivescovo indirizzasse ad una città e ad una diocesi come quella di Milano, famosa per il suo attivismo e la sua instancabile operosità, lettere che invitavano alla dimensione contemplativa della vita e all’accoglienza della Parola. “L’esegeta – scriveva un collega di Martini, padre J.P. Charlier – ha bisogno di un microscopio per esaminare minuziosamente il testo; ma il credente ha bisogno anche di un cannocchiale per discernere i grandi orizzonti verso cui punta il messaggio”. Martini ha compiuto questo duplice movimento attraverso tutta la sua vasta predicazione e la sua enorme bibliografia.

Fino al 2002 si contano più di 1360 titoli. Il suo magistero non è mai stato, e ancora lo scorgiamo negli interventi di questi ultimi anni, astrattamente intellettuale, anche quando percorreva gli itinerari erti della teologia o si inoltrava nei sentieri delle interrogazioni culturali. È incredibile la sua capacità di parlare alle intelligenze dei laici. Riprendendo le affermazioni del filosofo Augusto Del Noce, ripeteva, talvolta, anche a modo di provocazione, che la differenza oggi non è data tanto dell’essere credenti o non credenti, quanto piuttosto dall’essere pensanti o non pensanti! Il suo progetto di Chiesa è stato sintetizzato chiaramente dall’allora teologo – ora Arcivescovo di Chieti e Vasto – Bruno Forte che lo descrive così: “promuovere la crescita di una Chiesa di cristiani adulti, che in maniera attenta, intelligente, critica e responsabile sappiano vivere al cospetto del Dio di Gesù Cristo e lo testimonino credibilmente, nel conforto dello Spirito Santo, di fronte alle inquiete sfide del post-moderno”.

Martini è sensibilissimo al fremito che pervade questo nostro tempo, tempo post-moderno. Ne insegue i percorsi, ne raccoglie le domande, ne accetta le sfide. Lo ha fatto per anni a Milano quando istituì la cattedra dei non credenti e ne ha affinato il metodo da quando è a Gerusalemme, dove prega, studia e – dice lui – fa opera di intercessione, nel senso etimologico della parola, cammino in mezzo (inter-cedere) a diversi contendenti, senza voler dare ragione o torto né all’uno né all’altro, ma pregando ugualmente per tutti. “La situazione politica odierna è così intricata e aggrovigliata che anche un competente farebbe fatica a spiegare, oggettivamente, ciò che è avvenuto, perché e come. Non conosco l’arabo, so l’ebraico biblico, ma non quello moderno. Non ho titoli per giudicare. Ho preferito […] mettere in pratica la parola di Gesù: “Non giudicate per non essere giudicati”. Chi comincia la lista delle ragioni e dei torti? Si va all’infinito. E non se ne uscirà se non con qualche passo nuovo”.

È per questa sua sensibilità al nostro tempo che gli intellettuali di qualsiasi estrazione – solo per citare qualche nome, da Biagi a Bo, a Bocca, a Cacciari, a Eco, a Montanelli, a Scalfari – sono rimasti affascinati da un dialogo che non è mai formale e schematico, che è libero dagli scogli dell’apologetica, ma anche dal sincretismo generico e privo di quella unzione che talvolta trasuda dall’eloquio delle alte cariche ecclesiastiche. Il filosofo Cacciari ha giustamente sottolineato che “al centro della riflessione e dell’esperienze di Carlo Maria Martini sta il problema filosofico-teologico dell’ascolto”.

Un ascolto che è, innanzi tutto, verticale e si esprime nell’accoglienza dell’Altro divino, ma un ascolto che è anche orizzontale e che si manifesta nell’accoglienza dell’altro umano, della sua ricerca, delle sue verità, delle sue speranze e delusioni. È proprio questa sua capacità di ascolto e la sua sensibilità di fronte alle situazioni umane che gli permettono di non temere ad inoltrarsi nei territori di frontiera. Ora che non ha più una responsabilità diretta nella conduzione pastorale della Diocesi si muove con maggiore libertà affrontando gli ambiti delicati dell’etica ed i suoi intereventi non lasciano indifferenti sia all’interno della Chiesa sia all’esterno. In particolare il suo dialogo con il prof. Marino in relazione ai delicati processi della genetica umana e la sua presa di posizione in relazione al caso Welby non hanno mancato di suscitare consensi e perplessità.

In tutta la sua attività pastorale non sono mancate difficoltà e la stampa ne ha sottolineato fortemente il suo presunto carattere antagonista nei confronti dei Giovanni Paolo II prima e di Benedetto XVI in seguito. Si potrebbero citare a decine le pagine dei quotidiani che hanno dato voce a questa rappresentazione del cardinale. Preferisco, al fine di evitare dimenticanze, citare l’esempio di un settimanale non italiano. Siamo nell’aprile del 1998, il cardinale Martini, arcivescovo di Milano, viene presentato come il favorito per il papato e potrebbe diventare arci-modernista del Vaticano. Scopriamo perché. “Sembra uno di quei tanti papi del rinascimento: alto, elegante e magro, con capelli grigi pettinati piatti all’indietro, un naso ad uncino e penetranti occhi azzurri. Potrebbe essere uscito da un affresco di Raffaello. Ma l’apparenza potrebbe ingannare. Carlo Maria Martini, il cardinale arcivescovo di Milano è il favorito per diventare il prossimo papa e potrebbe diventare l’arci-modernista del Vaticano”. È questo il suggestivo attacco di un articolo comparso su The Economist dell’11 aprile 1998. La rubrica che lo ha ospitato è Charlemagne, che il settimanale economico dedica ai fatti europei. Dall’articolo emerge un ritratto di un cardinale molto attento alle questioni sociali, preoccupato dei destini di un’ Europa che non può limitarsi all’unione economica e “più flessibile di Giovanni Paolo II (di cui si definisce amico) su certi problemi sociali”.

Un articolo molto gradevole, che si concentra molto, però, su prospettive politiche e trascura del tutto gli aspetti di ordine pastorale che – come abbiamo visto- caratterizzano gran parte del magistero e dell’azione del cardinale Martini. È vero che Martini ha affrontato con coraggio le prospettive europee – nella 16° assemblea a Varsavia, viene nominato Presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee (CCEE); inizia il mandato con la Pasqua del 1987 e lo conserva fino al 1993 – rivendicando la possibilità di puntare anche su Ninive (città dell’antica Mesopotamia citata nella Bibbia come grande metropoli pagana e intesa da Martini come metafora delle metropoli post-cristiane del nostro mondo) così come ha riconosciuto l’allora cancelliere tedesco Helmut Kohl, che ha definito Martini “un grande europeo”. Ma la sua convinzione non è politica, bensì religiosa. La sua convinzione è che la “libertà non deve isolare. Chi vive la fede cristiana non può fare a meno di riunire, per quanto possibile, gli uomini in comunità viventi a fianco di Gesù Cristo”. Alla radice della visione culturale di Martini c’è la ricerca corale della verità, necessaria in questo tempo in cui – per usare l’immagine del filosofo danese Søren Kierkegaard – “la nave è in mano al cuoco di bordo e ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta, ma ciò che mangeremo domani”.

La ricerca della verità che era già, emblematicamente, evidenziata nel motto episcopale che ogni vescovo sceglie all’inizio del suo ministero: pro veritate adversa diligere. Naturalmente, come ha fatto notare il teologo Pierangelo Sequeri, è il diligere che fa problema. Il tema, a prima vista, lo fa quel solenne pro veritate, ma perché proprio diligere? Non basta sopportare, tollerare, accettare? E perché non resistere, affrontare, sfidare persino?”. Non ci sarà, forse, anche un filo di ironia nella scelta del termine, in vista della salutare sorpresa che un simile paradosso è destinato a suscitare? Forse l’astuzia sta proprio qui. Il diligere, le diversità le irretisce, le disorienta. Ed è proprio quell’ostinato diligere che ha retto i passaggi cruciali dell’esperienza di vita di Martini. Il fermo invito a non lasciarsi divorare dal pessimismo, la pacata ironia di fronte ad ogni lagnoso indugiare, “la nonchalance del garbato sottrarsi all’inutile polemica, l’apertura dello sguardo alla bellezza spirituale”. A Martini si applica in modo pieno un’invocazione della liturgia ambrosiana: “Signore, dona sempre al tuo popolo pastori che inquietino la falsa pace delle coscienze”. E Martini le ha inquietate e continua ad inquietarle, per qualcuno, anche all’interno della Chiesa, forse anche un po’ troppo! Così in una pagina molto intensa si esprime Martini a questo proposito: “Cerco una verità che sia sorgiva come l’acqua; cerco una verità che sia semplice come il pane; cerco una verità che sia chiara come la luce; cerco una verità che sia potente come la Vita”.

Dopo aver lasciato la guida della diocesi, si è aperta per Martini una nuova stagione che lo ha portato a vivere per gran parte dell’anno a Gerusalemme. “Cosa mi ha portato a vivere a Gerusalemme? Quando me lo chiedono rispondo che non lo so. È stato lo Spirito. Sono quelle ispirazioni di cui non si può rendere ragione logica”, così si esprimeva nell’ottobre del 2005 conversando con una delegazione dell’istituto Paolo VI di Brescia. In realtà, la proverbiale riservatezza di Martini che in 22 anni di episcopato, raramente, ha parlato di sé, lo spinge anche in questo caso a non manifestarsi. Ma sappiamo che la sera del 12 luglio 1959, da Amman, attraversando il deserto e il fiume Giordano, padre Carlo Maria Martini giungeva a Gerusalemme. L’indomani, nel settimo anniversario della sua prima Messa, alle quattro del mattino, avrebbe celebrato l’Eucaristia al Santo Sepolcro. “Fu proprio in quel momento che ebbi una folgorazione sulla risurrezione di Cristo” ha confessato. Quell’incontro con la città santa fu una sorta di inizio assoluto nella vita di Martini perché – è ancora lui a dichiararlo – è stato come il “ricevere un’appartenenza che era un dono dall’alto”, una celebrazione del primato della grazia divina. È questo il motivo per cui credo che Gerusalemme sia la chiave decisiva nella comprensione della biografia spirituale di Martini. Le altre due città della sua esistenza sono segni di una risposta. Roma è la sede dell’esperienza intellettuale nella ricerca, attraverso lo studio e l’insegnamento all’Università Gregoriana; Milano è il luogo dell’esperienza della carità, del ministero, della relazione con gli altri, della dedizione pastorale. Ma alla sorgente di tutto c’è sempre Gerusalemme come icona della grazia, come espressione della dimensione contemplativa di tutto ciò che noi riceviamo come puro da Dio, da cui ci sentiamo amati senza nostro merito e perdonati gratuitamente”.

Queste parole affidate a Famiglia Cristiana sullo scorcio del suo ministero episcopale a Milano, fanno comprendere come la Città Santa delle tre religioni monoteistiche sia stata la stella polare del suo itinerario personale. Effettivamente, parlando di Gerusalemme, ricordava un famoso testo rabbinico che così dichiarava: “dieci porzioni di bellezza sono state accordate al mondo dal creatore, e Gerusalemme ne ha ricevute nove. Dieci porzioni di scienza sono state accordate al mondo dal Creatore, e Gerusalemme ne ha ricevute nove. Dieci porzioni di sofferenza sono state accordate al mondo dal Creatore, e Gerusalemme ne ha ricevute nove!”. Gioia e dolore, speranza e desolazione si mescolano in Gerusalemme in maniera inscindibile. Anzi, la storia in Sion è più pesante che nel resto del mondo, è una città in cui le emozioni sono sempre forti, le persuasioni vivaci e intense, le contrapposizioni, anche solo verbali, molto esplicite. È dunque, Gerusalemme, una città della verità, eppure nel suo nome si cela il rimando alla parola shalom, che vuol dire pace”. Una città terrestre e celeste, di adesso e di poi. Si delinea così il sogno di questa città. Essa non ci fa decollare dalla storia verso cieli mistici, bensì ci àncora al presente costringendoci ad impegnarci nella giustizia e nell’amore. È per questo che se Gerusalemme è la radice spirituale dell’esperienza di Martini ne è anche l’approdo ultimo. “Sento di essere nella lista di chiamata”, dice. Ma quella che vede non è la fine, bensì “il fine”, il compimento di una vita ricca di bene, “della quale ringrazio il Signore”.

“Ho combattuto la buona battaglia, ho conservato la fede”. Le parole che sono risuonate nel silenzio della basilica del Getsemani, a Gerusalemme, sono di quelle che non si dimenticano. Cita san Paolo, il cardinale Carlo Maria Martini, dall’amatissima seconda lettera a Timoteo, per quello che pare a molti un testamento spirituale, espresso con la semplicità e l’autorevolezza di sempre, quasi a suggellare l’incontro con i 1.300 pellegrini della diocesi ambrosiana. Arrivati in Terra Santa, dove Martini ormai risiede abitualmente, per festeggiare i suoi 80 anni, compiuti il 15 febbraio, e il cinquantesimo di ordinazione sacerdotale del cardinale Dionigi Tettamanzi. Due anniversari importanti per un pellegrinaggio, che ha avuto al suo cuore proprio i due riti solenni svoltisi alla presenza di entrambi i cardinali. Il primo nella chiesa di Santa Caterina a Betlemme, dove Martini ha presieduto la Messa, e il secondo a Gerusalemme con i vespri nel terzo venerdì di quaresima, celebrati appunto al Getsemani. Incontri nei quali l’affetto, la gratitudine hanno avuto soprattutto il senso di una riflessione sulla sua vita.

Così come è stato evidente fin dall’omelia in Santa Caterina, pronunciata sedendo accanto al cardinale Tettamanzi, che lo aveva poco prima ringraziato “per l’amore e il servizio che hai donato per ben 22 anni alla nostra Chiesa e che continui a donarle”, per l’eredità preziosissima della lectio divina, “forma privilegiata per amare e gustare nella sua bellezza e forza la Parola di Dio”.

“Da parte mia”, spiega il cardinale Martini, “provo molta gratitudine perché, sebbene in questi 80 anni abbia vissuto esperienze diverse, certamente il tempo più bello e più gioioso è stato quello che ho trascorso a Milano, dove sono stato riempito di bene”.

Una sorta di viaggio nel passato, il suo, definito da poche pietre miliari, dalle tappe fondamentali che gli stanno davvero a cuore, riletto seguendo, come sempre, il filo d’oro della Parola e facendo, anzi, scuola della Parola anche da Betlemme.

Il tutto, con lo stile che gli ambrosiani hanno imparato a conoscere e ad amare durante l’intero episcopato martiniano, quello di un’essenzialità, che pare accentuatasi con l’età, capace di colpire al centro delle questioni, anche le più problematiche, interpretandole attraverso il Vangelo.

“Leggevo ieri un passo della Scrittura che dice: “Speriamo il bene perché i tempi sono cattivi”, scandisce, infatti, il cardinale. “Questo non significa passare sopra alle sofferenze, ma rendere più acuto il nostro sguardo per vedere che non c’è proporzione tra le sofferenze del tempo presente, che sono piccole cose, rispetto alla gloria che ci attende”.

* Dice di sé:
Luciano Frigerio. Nato a Milano nel 1957 è sacerdote diocesano dal 1981. Dottore in Teologia. Pubblicista dal 1987. Vice direttore del settimanale della diocesi di Milano “Città Nostra” nel 1988. Cappellano di S. Santità dal 2000. Direttore settimanale della diocesi di Milano “Luce” dal 1993. Membro della federazione italiana settimanali cattolici (FISC) dal 1988. Membro comitato di redazione della rivista ufficiale del Giubileo 2000 “Tertium Millennium”. Collabora con la Rai dal 2001.

RITRATTI.Pigreco - Andrea Vesalio, libertà e anatomia

Fu il primo dissezionatore di cadaveri, il primo a chiedersi cosa ci fosse veramente all’interno di un corpo umano… La nascita del libero pensiero attraverso l’anatomia
Pigreco * 

Era uno degli ultimi giorni di settembre di un non molto lontano 1997, quando ebbi il privilegio di assistere alla più entusiasmante lezione universitaria della mia vita. Era una lezione di Storia dell’Anatomia, tenuta dall’allora Direttore di uno storico dipartimento di anatomia, di un prestigioso ateneo romano. Il mio fu un privilegio poiché, a seguito della prematura morte del Direttore da allora, durante tutti gli anni della mia permanenza presso quel dipartimento, nessuno dei suoi allievi cattedratici, seppur stimati anatomisti, fu più all’altezza di sostenere l’argomento con la stessa disinvoltura, passione e spessore culturale.

Mi ero appena laureata in Biologia. Nella mia breve e timida esperienza di ricerca per la preparazione della tesi di laurea, avevo già vissuto amare delusioni, di quelle che lasciano il segno, che mi avevano fatto maturare verso l’ambiente universitario una certa diffidenza, ma che in ogni modo non avevano spento ancora il mio entusiasmo.

Nel dipartimento di anatomia ero capitata per caso, o forse per destino come fui indotta a credere poi, per svolgere il tirocinio obbligatorio ai fini dell’abilitazione professionale. Allora non sapevo che l’anatomia mi avrebbe catturato, che sarebbe diventata per me una passione e che presso quel dipartimento avrei lavorato per otto anni, muovendo i primi passi attraverso la carriera universitaria, professione che scoprii poi non “appartenermi”. L’istituzionalizzazione della cultura può condizionare il libero pensiero, specie in ambito universitario, dove vigono gerarchie, ingerenze, dove i compromessi sono all’ordine del giorno e per questo scelsi consapevolmente, con dolore, ma senza pentirmene di non proseguire.

Torniamo, però, alla lezione di Storia dell’Anatomia, la quale mi aveva procurato nei giorni addietro un certo turbamento ed un sotteso disagio, poiché intuivo che si sarebbe trattato di un momento ufficiale, formale, di quelli cui la mia indole timida e schiva non era proprio avvezza. Tutti i cattedratici del dipartimento ed io, unica giovane tirocinante, avremmo dovuto presenziare in omaggio al Direttore, oltre che in segno di benvenuto alle matricole iscritte alla facoltà di medicina.

L’inquietante diapositiva di apertura, degna scena di un film dell’orrore, fu già di per sé sufficiente a stemperare la mia ansia, ad accendere la mia curiosità, nonché a farmi dimenticare i volti annoiati dei miei colleghi e quelli distratti delle nuove reclute universitarie. Si trattava un dipinto anonimo del XIV secolo, rappresentante vecchi arnesi per la vivisezione animale e per la dissezione del corpo umano, strumenti simili più a martelli, scalpelli e punteruoli di un muratore, o ai coltelli di un macellaio, piuttosto che ai sofisticati dispositivi dei moderni anatomisti. Il Direttore continuò raccontando il pensiero e le opere dei grandi medici e scienziati del passato di consolidata fama, quali Ippocrate, Galeno, Avicenna, Leonardo, ma fu la vita e la personalità di un medico, immeritatamente, meno noto, quella che allora maggiormente mi colpì, ed alla quale poi negli anni mi affezionai ed ebbi modo di approfondire. È la storia di Andrea Vesalio, un Uomo libero.

Per comprendere lo spessore della personalità di Andrea Vesalio ed il suo ruolo nella storia dell’anatomia e del pensiero medico-scientifico intesi in senso moderno, è necessario fare diversi passi indietro, poiché, come in tutti i romanzi che si rispettino, sono necessari “preamboli, prologhi ed antefatti”, storie prima della storia.

Per secoli civiltà antiche come quella greca e romana, trovarono naturale accecare i ribelli, dilaniare ed impalare i corpi dei soldati nemici, pur vietando sotto pena di morte la dissezione dei cadaveri deceduti di morte naturale al fine di studiarne l’anatomia, dato che per legge era vietato “osservare parti interne degli uomini”. Fu Galeno (138-201 d.C.), senza dubbio il più grande medico dell’antichità dopo Ippocrate, che realizzò la summa delle conoscenze di epoca classica nel campo dell’anatomia, arricchite da osservazioni personali effettuate su animali. Una sola volta gli fu concesso di studiare un cadavere in decomposizione tirato fuori da un sepolcro, ed un’altra volta riuscì a scrutare la parete addominale su un malato, devastata e messa a nudo da una peritonite grave. Il pensiero di Galeno può essere sintetizzato in concetti precisi, a loro modo veritieri, che sono alla base della sua dottrina. “L’anima” ha sede nel cervello. “Lo spirito vitale” si trova nel cuore. “Lo spirito vegetativo” è nel fegato e pervade le vene.

A Galeno va sicuramente il merito di aver gettato le basi per un’evoluzione in senso teorico-pratico dell’anatomia e dell’arte medica, ma gli errori contenuti nei suoi libri anatomici erano molti ed alcuni di loro davvero inspiegabili, come ad esempio il cuore con parte destra e sinistra comunicanti o l’utero diviso in due parti (una per i figli maschi e una per le femmine). Ancor più inspiegabile fu però il successivo completo disinteresse, la totale mancanza di curiosità, per l’osservazione dell’anatomia umana (che durò per ben millecinquecento anni!), che fece sì che la sintesi di Galeno attraversasse pressoché intatta tutto il medioevo. La chiesa sicuramente svolse anche in questa vicenda la sua parte oscurantista e coercitiva, eleggendo il lascito scientifico di Galeno adottrina ufficiale e proibendo gli studi sui cadaveri per lungo tempo, poiché riteneva che questa pratica fosse dissacrante verso le creature di Dio. Per secoli chi metteva in dubbio un’affermazione di Galeno era un eretico e doveva ricredersi sotto tortura della Santa Inquisizione.

Così per secoli si perpetrarono errori, si spensero entusiasmi e la curiosità, e si trasformò la medicina piuttosto in un rituale magico, con tanto di prescrizione di pozioni ed amuleti. Alle soglie del rinascimento, molti errori galenici avevano ancora le loro conseguenze pratiche, come il fatto che il pus fosse un buon segno, essenziale alla guarigione della ferita o che la frutta fosse estremamente dannosa (Galeno aveva attribuito la longevità del proprio genitore ultracentenario al fatto che non toccasse mai alcun frutto). L’errore sicuramente più grave fu però l’abbandono delle regole igieniche, che Galeno considerava come un’antica superstizione, avendo osservato che gli animali vivevano benissimo senza lavarsi le zampe, e le loro ferite si rimarginavano senza cure. La chirurgia, ancora, era nel medioevo affare da barbieri, guardata con disprezzo e disgusto dai medici.

Finalmente a partire dal XIV secolo, nell’ambito di alcune università quali Bologna, Leida, Montpellier e, non ultima Padova, si iniziarono ad aprire i cadaveri con finalità mediche. Sono gli anni in cui Mondino de’ Liuzzi, (Bologna 1270-Bologna 1326) arricchirà le sue lezioni con dissezioni pratiche, in cui Alessandro Benedetti (1450-1512), divulgava l’importanza delle autopsie nella formazione medica e, soprattutto, professava l’utilità di realizzare strutture lignee smontabili, i teatri anatomici, che consentissero a numerosi studenti le migliori condizioni di osservazione. Nello stesso periodo Berengario da Carpi (1460-1530), fu il primo anatomista a rinnegare apertamente l’autorità di Galeno e ad approfondire l’anatomia quando era a Roma a servizio di Cesare Borgia, dissezionando clandestinamente cadaveri nella camera mortuaria dell’ospedale S. Spirito. Le ripercussioni del tentativo di innovazione di Berengario da Carpi furono però irreparabili, poiché la sua carriera fu stroncata dall’accusa di vivisezione umana. Era rischioso accusare Galeno di inesattezze; anche il medico Paracelso era stato cacciato dall’università di Basilea dove insegnava anatomia, per avere bruciato platealmente in aula le opere di Galeno, meritandosi l’appellativo di Martin Lutero della medicina medievale.

La vera “rivoluzione anatomica” giunse solo nel 1543. Curiosa coincidenza storica, lo stesso anno in cui Copernico presentava il De revolutionibus, la sua teoria rivoluzionaria sull’astronomia, il giovanissimo medico belga Andrea Vesalio (1514-1564) pubblicò De humanis corporis fabrica, libri septem, che fece scorrere un rivolo di sudore gelato sulla schiena di più di un barone dell’anatomia. “Non avrei potuto fare nulla di più meritevole”, disse Vesalio di se stesso “di dare una nuova descrizione completa del corpo umano, di cui nessuno comprende l’anatomia”. Il De fabrica era qualcosa di più di un semplice trattato di anatomia, era anche un opera d’arte. Il successo delle idee di Vesalio era, infatti, sostenuto nella sua Opera dalle illustrazioni costruite con l’artista fiammingo di grande talento Jan Stephan van Calcar, un allievo di Tiziano, che mostrava i risultati da lui raccolti e rettificava i numerosi errori tramandati dalle diverse scuole, attraverso suggestive tavole anatomiche di rara bellezza. Dipinti in cui scheletri umani e corpi scorticati, ovvero corpi privati dello strato di pelle superficiale in modo da delinearne i fasci muscolari, “posavano” con espressioni coinvolgenti, malinconiche, affrante, solenni, comunque, tipiche più dei vivi che dei morti.

La passione per la dissezione di Andrea Vesalio, forma italianizzata del nome fiammingo Andrè van Wesele, iniziò da bambino, quando cominciò a sezionare malcapitati piccoli animali, quali topi, cani e gatti. Figlio “d’arte medica” da generazioni, di famiglia benestante, spinto dall’ambizione e dall’entusiasmo si trasferì a Parigi, per cogliere, studiando, le migliori possibilità che il mondo della medicina offriva. A Parigi, allora baluardo della cultura conservatrice, cominciò ad approfondire l’Anatomia, come allievo di Jacques Dubois (Silvius). Vale la pena ricordare che Silvius, era uno dei prestigiosi e autorevoli maestri dell’anatomia classica. In seguito, Vesalio disse che a Parigi “non vi aveva imparato nulla di davvero importante”. Difficile carattere quello di Vesalio poiché, incurante delle regole accademiche e senza alcuna diplomazia, dopo aver aiutato un insegnante, Guinterd’Andernach, a dare alle stampe un trattato d’anatomia, disse che, per quanto riguardava la struttura del corpo umano, egli era un ignorante.

Negli anni trascorsi a Parigi, Vesalio era solito procacciarsi ossa nel Cimitero degli Innocenti, grazie all’accondiscendenza dei guardiani e ad esaminare i cadaveri dei criminali impiccati a Montfaucon, dilaniati dai cani randagi e dagli uccelli. Vesalio fu poi aiutato nelle ricerche anatomiche dal suo amico Podestà di Locarno, che gli permetteva di utilizzare per i suoi studi in gran segreto i corpi dei giustiziati su un patibolo istallato ai margini della città. Pare che Vesalio riuscisse a dormire diverse notti di fila accanto a cadaveri in decomposizione, infatti, allora ancora non esistevano le attuali procedure che consentono di “fissare”, ovvero di effettuare una specie di mummificazione sulle salme, al fine di bloccarne i processi di decomposizione.  Tale supplizio deve esser toccato anche al giovane artista van Calcar che poi gli illustrò le opere, e che solo per questo sacrificio, ipotizziamo dovesse essergli anche fedele amico.

Dopo l’esperienza parigina, Vesalio venne in Italia, stabilendosi a Padova, dove completò gli studi e si laureò in medicina nel 1537. Già il giorno successivo fu nominato lettore di chirurgia, incarico che all’epoca prevedeva anche l’insegnamento teorico e pratico dell’anatomia. La dissezione dei cadaveri non era proibita all’epoca presso la facoltà di Medicina. I cattedratici erano soliti tenere lezioni magistrali di anatomia da un pulpito, dal quale leggevano ciecamente ed acriticamente gli scritti di Galeno. Gli studenti, assistevano dalla tribuna, tentando di riconoscere gli organi indicati da un inserviente, “l’ostensor”, mentre la salma veniva smembrata da un barbiere. A proposito della modalità di descrivere il corpo umano da parte dei professori priva di curiosità, di passione e di desiderio di conoscenza, nonché mosso da un forte senso pratico Vesalio disse: “ogni cosa è insegnata nel modo sbagliato, si perdono intere giornate su questioni assurde e, nella confusione all’osservatore si offre meno di quanto un macellaio nella sua bottega potrebbe insegnare a un dottore” e ancora riferendosi all’insegnante tradizionale “gracchia dall’alto della cattedra con rara presunzione”.

Vesalio, nel corso delle lezioni pubbliche scese dal pulpito e cominciò, con grande stupore dei suoi colleghi, a licenziare barbiere ed ostensor ed a sezionare personalmente i cadaveri, spiegando sia gli organi sia la tecnica usata. Partiva affermando la superiorità dell’osservazione pratica rispetto alla sola, sterile teoria. In breve tempo acquisì una notevole reputazione tra gli studenti ed accese la livida invidia nei colleghi. Nel 1538 pubblicò Tabulae anatomicae sex (sei tavole anatomiche), ampi fogli volanti costituiti da schematici disegni e da concise didascalie, iniziando la sua personale produzione anatomica didattico-scientifica, che cominciò ad accentrare le prime ire dei vecchi baluardi dell’anatomia classica anche in altri contesti accademici.

Vesalio raggiunse l’apice della notorietà appunto nel 1543, con il suo capolavoro De humanis corporis fabrica, libri septem. Di Vesalio va anche sottolineata la precocità, poiché Egli terminò quest’opera monumentale quando aveva solo ventotto anni. Con il De fabrica Vesalio aveva davvero segnato un punto di rottura e di non ritorno nei confronti delle conoscenze anatomiche del passato. Egli stesso nella prefazione scriveva “Non mi nascondo che il mio tentativo, a causa della mia età, sarà poco autorevole e non rimarrà senza critiche per la frequente denuncia di assiomi galenici non rispondenti al vero…..”. Pur senza compiere alcuna scoperta sensazionale, Vesalio contribuì in modo radicale al rinnovamento degli studi anatomici, prima di lui materia morta, che improntò su criteri rigidamente scientifici, rifiutando di difendere acriticamente e dogmaticamente la dottrina galenica. Vesalio era un uomo libero, curioso, ambizioso, ma portatore di quel tipo di ambizione che risponde ad una realizzazione del proprio talento. Egli era mosso anzitutto dal desiderio di conoscenza, ma era completamente al di fuori della logica coercitiva e reverenziale universitaria e svincolato dai condizionamenti della Chiesa. Vesalio era interessato solamente a scoprire la verità, secondariamente ne venne che Galeno aveva sbagliato.

Va posto l’accento sul fatto che Vesalio, non attaccò mai personalmente Galeno, per il quale anzi nutriva una grande ammirazione e ne riconobbe gli indiscutibili meriti come padre fondatore della medicina, ne rettificò solo numerosi errori. Vesalio ad esempio dimostrò che gli uomini e le donne possiedono lo stesso numero di costole e che il femore umano non è curvato come quello canino, ma dritto. Il De fabrica riscosse un enorme successo, ma Vesalio che mal tollerava le ingerenze dei colleghi e sapeva essere anche molto offensivo, subì numerosi attacchi.

Del tutto singolare fu l’ipotesi avanzata da alcuni accademici, in un ultimo flebile tentativo di difesa dell’anatomia di Galeno, i quali affermarono che il femore umano fosse diventato dritto (come osservato da Vesalio) piuttosto che restare ricurvo (a parere di Galeno) a seguito del fatto che nei secoli gli uomini avevano tolto le toghe ed iniziato a portare pantaloni stretti. Nel 1551, ancora, il suo maestro di Parigi Sylvius pubblicò “Confutazione delle calunnie di un pazzo contro gli scritti di Ippocrate e Galeno”. “Vi esorto”, scriveva in una delle sue affermazioni più blande “a lasciar perdere un certo pazzo ridicolo, del tutto privo di talento, che impreca ed inveisce contro i suoi maestri”.

Come in tutte le storie di grandi uomini e di libertà che si rispettino, l’epilogo è purtroppo triste, amaro, pieno di rabbia. Nonostante la grande influenza del De fabrica, che non poté più essere messa in dubbio, disgustato, amareggiato dalle critiche e dalle persistenti ostilità dei suoi oppositori, temendo probabilmente le accuse dalle autorità ecclesiastiche, Vesalio lasciò prematuramente e definitivamente nel 1544 l’insegnamento ed accettò l’incarico più rassicurante di medico personale dell’allora imperatore Carlo V e poi del suo successore Filippo II. Per un medico di allora questo avrebbe rappresentato il successo ed il coronamento di un sogno, anche se a noi piace romanticamente immaginare che per Vesalio non fosse così. Vero è che Egli, nella disincentivante vita di corte, del tutto opposta a quell’ideale di riservatezza e di libertà che lo studio richiede, interruppe i suoi studi e non scrisse mai più nulla. Vesalio, inoltre, non fu mai completamente libero dagli attacchi degli accademici, anche a corte. Sempre Sylvius, il Maestro del periodo parigino, nell’ennesimo attacco di rabbia per il presunto affronto di Vesalio a Galeno scrisse all’Imperatore Carlo V così: “Imploro sua maestà Imperiale di punire severamente, come merita, questo mostro nato e cresciuto nella sua stessa casa, questo pessimo esempio di ignoranza, ingratitudine, arroganza ed empietà, di sopprimerlo perché non avveleni il resto d’Europa con il suo soffio pestilenziale”.

Infine, anche Vesalio commise degli errori. Al cospetto di Filippo II, questi gli consentì di sezionare il cadavere di un giovane nobile di casata, morta da poco. La morte era però solo apparente. Appena aperto il torace, scoperto il cuore, Vesalio si accorse che pulsava (e se ne accorsero anche i presenti). Condannato a morte dall’Inquisizione sotto l’accusa di aver sezionato un uomo vivo, Vesalio avrebbe potuto finire sul rogo. Egli ebbe però da Filippo II commutata la pena in un pellegrinaggio in Terra Santa, durante il quale avrebbe dovuto recarsi al Santo Sepolcro e consegnare un’offerta. Vesalio così partì, lasciando moglie e figlie a Bruxelles, e proseguì fino a destinazione consegnando al custode del Santo Sepolcro, vescovo di Concha, i 500 ducati che gli erano stati affidati dal re. Si ammalò nel viaggio di ritorno alla volta di Venezia. I particolari della sua fine non sono chiari. Alcuni viaggiatori raccontarono di averlo visto scendere a Zante ammalato e lì morire.

Mi piace terminare con i brevi versi a Vesalio dedicati dal medico inglese Luis Bragman nel 1932 nel suo A Rhymed History of Medicine ovvero Storia della medicina in rima.

 

Dissection gained a good repute    

Restituì dignità alla dissezione

and helped the ancient wrongs refute                  

e contribuì a confutare antichi errori,

Vesalius, iconoclas,                                                                        

Vesalio, anticonformista,

untrammeled by autority                                                              

indipendente dal potere

grave doubts on Galen’a dictumus cast                

levò seri dubbi sui dogmi di Galeno

and made a new anatomy                                     

ed inventò una nuova Anatomia.

* Dice di sé:
Pigreco. É il simbolo dell’unione tra Lettere e Scienza ed il nome del “topo libero” di un noto romanzo di Stefano Benni, il cui tragi-comico addio ancora mi commuove. pigreco1972@libero.it.

VERSI. Corrado Calabrò - Firma con svolazzo

Corrado Calabrò * 

È rimasto nell’aria solo il nastro

d’un pacchetto-regalo che non c’è.
Come predisponevano l’alloro

a Olimpia per ignoto vincitore
e intrecciano a maggio la zagara

per abiti che attendono una sposa
così resta sospeso al tuo passaggio,

un nastro di profumo, e fa da cappio,

da assegno postdatato, da cambiale.
Capita di trovare sul registro

la firma di persone che nessuno

ricorda d’aver visto al funerale.
(2001. Da Una vita per il suo verso. Poesie 1960-2002, Mondadori)

* Corrado Calabrò. Nato a Reggio Calabria, vive a Roma. Magistrato, Presidente dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, poeta e scrittore. Dal 1960 al 2006 ha pubblicato diciotto libri di poesia (con Guanda, Mondadori, Crocetti e altri editori, tra cui dieci stranieri). È anche autore di un romanzo di successo: “Ricorda di dimenticarla”, Newton & Compton, 1999, finalista al Premio Strega, dal quale stato tratto il film “Il mercante di pietre”, regista Renzo Martinelli. Le sue poesie sono tradotte in sedici lingue.

PROFUMO DI DONNA. Barbara Leone - Il settimo velo non deve cadere!

L’eros e il piacere visto dal misterioso e imperscrutabile universo femminile
Barbara Leone * 

Dicono di no, pensano di sì… Ma le donne, le donne son fatte così…. Il ritmo è lo swing e il frammento mi ritorna alla memoria cadenzato dal melodioso accento napoletano di mia nonna Maria, che nei fascinosi anni Venti era stata incantevole soubrette di varietà e cantante, anzi sciantosa, di rinomata avvenenza. Si muoveva sinuosa sui fondali di un palcoscenico siciliano quando le sue orecchie cominciarono a pulsare di rumori inanimati, bolle d’aria attorniarono i suoi maliosi occhi verdi e lei disse: “Il gentile pubblico si scuserà se mi ritiro” e prima d’inabissarsi, lentamente, fece in tempo a guadagnare la soglia del camerino e di planare languidamente tra le braccia di mio nonno, che era il medico del Teatro Massimo di Catania e la sposò dopo sei mesi. Le mie zie, anzi prozie, che erano poi le sorelle del nonno, definirono lo svenimento una sceneggiata napoletana, bofonchiarono che la perfida creatura aveva adocchiato il pollo (mio nonno Francesco era un uomo belloccio) e lo aveva ghermito con le sue subdole arti di sciantosa che – udite udite – ne doveva aver fatto più lei che Carlo in Francia. Si bisbigliò pure che la napoletana fosse stata amica della de Lempicka, una celebre pittrice che – si insinuava – non solo dipingeva donne nude, ma (e qui si abbassava la voce) ci andava anche a letto. Mia nonna fumava col bocchino d’ambra, un lungo bocchino fasciato d’oro, soffriva di strani mali, indefinibili e incurabili, mali che lei ostentava e che facevano parte della sua malia. Quando venni al mondo, non aveva più la bellezza di Afrodite quando schizza dal mare, ma conservava il fascino misterioso di quella generazione che aveva donato alle impacciate signore di fin de siècle quella libertà che dall’anima si propaga al corpo e viceversa.

Era la generazione di Vipera, dei capelli alla garçonne, delle gonne al ginocchio, la generazione delle donne perfide, voluttuose, misteriose e fatali dell’Angelo azzurro, donne consapevoli che, sulla scia di Ninì Tirabusciò, dalla Divina Greta e dall’ambigua Marlene Dietrich avevano mutuato il diritto di non camminare più a occhi bassi e gambe strette. Ah, che meraviglia!

“Ma se pure i baci suoi danno il veleno / son contento di morire sul suo bel seno”. “Nonna, ma che vuol dire ?”. “Ah gli uomini – sospirava lei -, gli uomini sono come l’acqua, vengono dal cielo sotto forma di pioggia e risalgono al cielo come vapore”. Allora certo non potevo sapere dell’allusivo mito di Giove, che si trasforma in pioggia d’oro e feconda roridi grembi, ma l’idea della congiura, della grande congiura ordita dalle donne sin dagli albori del mondo, si fece strada, allora, come un animale notturno nel fondo del cuore di una creatura che cercava di capire la verità. E non fu un’impresa facile nemmeno per l’adolescente che poi diventai perché, a differenza degli Egizi e degli Aztechi che adorarono il Sole, le donne adorano l’Ombra e nell’Indefinito ogni forma può assumere configurazioni diverse, spesso arbitrarie, lunatiche e imprevedibili. Mi resi conto che spesso persino le donne stentano a capire l’agire delle donne e questa fu una sconcertante scoperta. Leggevo Rilke, allora, nella bambagia della malinconia e mi sollevai dalla sedia quando Reiner Maria parlava del liquido amniotico dell’universo, dell’Eterno ritorno e lasciava intendere perché in fondo al cuore degli uomini s’acquatta la paura per le donne. Non si conoscono le idee, ma i tic, le piccole manie e soprattutto la tribù in cui si collocava la divina Nefertari, che in lingua egizia vuol dire la Bella che viene.

Si dice che il Faraone Ramses II ne fosse soggiogato e insieme impaurito. Il suo buon uso della lingua e dell’intelligenza divennero celebri a Corte, tanto che quando il Sovrano usciva frastornato e un po’ barcollante dagli appartamenti della soave regina si insinuava che la signora avesse offerto al Sire una guida assai lieve e sapiente, con relative glosse, lungo i sentieri dell’estetica e dell’erotica raffinata. Profumi, incensi, ombretti, coni di lapislazzuli triturati per il blu del contorno occhi: le egiziane sono le prime donne del cui trucco e imbellettamento si abbia contezza e certezza. E dunque l’arte di rendersi più belle, desiderabili e seducenti coincide con le più antiche civiltà stabilmente insediate sulla faccia della terra e questo perché il bisogno di migliorarsi, di mostrarsi al meglio di sé stesse, è insita nella natura femminile. Prima di uscire di casa, le donne “s’intalleano” dicono a Napoli. Il termine è intraducibile, ma indica quell’indugio, quell’esitazione, quella perplessità che nasce dal dubbio di aver trascurato qualcosa, di “non essere in ordine”. Del resto nessuna donna si sente mai completamente in ordine. L’espressione “scusi il disordine”, quando una signora riceve un ospite, è di prammatica e non è senza significato che ai semafori cittadini si vedano sempre le signore al volante protendersi verso lo specchietto “per un’occhiata di controllo”. E dunque quando le donne dicono “lo faccio per me stessa” non mentono, ma omettono (le donne omettono sempre, non mentono mai) la seconda parte del discorso, quello che sta alla base della sessualità femminile, perché a differenza di quella degli uomini che è concentrata in un solo punto, la sessualità femminile è diffusa.

Partiamo allora da questo dato per inerpicarci lungo il tortuoso sentiero dove gli Dei non tramontano mai. Una gran dama dell’aristocrazia torinese, raffinatissima, confessò una volta a un giornale patinato che aveva un amante, uno di quei rarissimi uomini che sanno parlare alle donne. “Lui – diceva – si sdraia accanto a me e mi sussurra all’orecchio parole ineffabili e a mano a mano che s’inoltra nel discorso io mi raggomitolo su me stessa, stringo le gambe allo spasimo, mi contorco, urlo, gemo fino a raggiungere il supremo piacere”. E l’intervistatrice, forse stupita: “Ma mentre parla la tocca?”. E la dama: “Ma che volgarità, lui mi parla e parlandomi mi fa volare, mi fa sognare, immaginare, sciogliere. C’è bisogno d’altro?”. Non crediamo, la signora era una femmina e sapeva che rispetto ai mezzi i fini sono sempre trascendenti, i fini sono le parole e non c’è bisogno di grande scienza per saperlo, basta aprire il Vangelo di Giovanni dove è scritto che in principio era il Verbo (dal latino Verbum, parola) e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio e non vorremmo aver peccato di blasfemia accostando il sacro al profano. Ogni parola dunque nasconde una valenza erotica, questo inconsciamente la donna lo sa fin da bambina, ogni sua mossetta è rivolta a sedurre il primo amante della sua vita, il padre.

Sa ancora per certo che il suo incedere nasconde un messaggio, il suo abbigliamento denuncia uno stato d’animo e costituisce una subdola certificazione d’invito, il mezzo sedere all’aria, l’ombelichino di fuori, il baldacchino del seno bene in mostra e poi la gestualità, la sapienza degli sguardi, il tono di voce… ah il tono di voce, ma è chiaro che con un mezzo tono la donna ti invita, con un’ottava in su ti fa capire, ti gela, ti respinge. E infine, a differenza degli uomini, una donna sa sempre, di prim’acchito fin dove potrà arrivare con l’uomo che ha di fronte e il giudizio è rapido, anzi fulmineo, deciso e inappellabile. Le grazie, certo, costituiscono un giudizio precostituito, ma la qualità dell’opera può essere migliorata. Ma avete notato che in quel libro di incantevole erotismo che sono Le mille e una notte sono predilette dagli sceicchi e dai Pascià le donne circasse e non solo per la pelle ambrata, le chiappe a ragazzino adolescente, i seni piccoli e morbidi, ma soprattutto per una qualità che le altre non hanno: l’anfora sinuosa fluttuante e sapiente che sorregge il loro busto.

La felicità è provvisoria, dice il filosofo, ma proprio per questo alle bambine circasse veniva insegnato l’arte dell’accoglimento dell’uomo. Quando le ragazzine raggiungevano l’età puberale venivano affidate a una maestra perché non si perdessero nel vuoto dell’incompiutezza. La felicità, insegnava la Tata, coincide con l’infedeltà, sempre a patto che ciascuna di voi neghi, neghi sempre, anche davanti all’evidenza. In secondo luogo, si diceva alle vispe bambine, occorre selezionare le esperienze perché da questo principio discende un paradigma di vita, una gerarchia di pensiero, una visione del mondo, un’architettura di intenti che vi aiuterà a superare le burrasche dell’esistenza. E questo era il lato teorico dell’attrezzatura. Per quello pratico si cominciava con le flessioni delle gambe che avrebbero condotto a conferire spessore, elasticità e mobilità alle pareti della vagina. Si associava quindi il comando della contrazione al preciso intento di ottenerlo. Infine si giungeva all’ultimo insegnamento, il più difficile. Nell’incontro con l’uomo – spiegava la maestra – la discontinuità diventa l’ancora di salvezza della donna la quale spesso non sa regolare i movimenti del suo bacino in sincrono con i “colpi” ricevuti dell’uomo, ma voi che avete imparato a comandare alla vostra vagina, quando l’uomo incalza retrocedete e solo dopo, ma immediatamente, restituite voi il colpo in modo che il ritmo bellico del maschio non si attenui e non subisca pause pericolose, che potrebbero condurre a pericolosi afflosciamenti dell’ascia di guerra. E non solo, nell’accogliere l’uomo non opponete resistenza, ma state rilassate e con animo grato e, quando vi sarete sentite completamente occupate, stringete l’ospite tra le mura della vostra casa tanto che lui si senta compreso e gradito.

Qui – è chiaro – non si tratta di un banale Kamasutra, che è l’arte di disporsi in posizioni diverse nel complesso gioco dell’incontro sessuale, ma di una scienza che proponeva nobilmente di evitare alle fanciulle la “barbarie” di un incontro erotico consumato, come spesso al giorno d’oggi, in frettolosa ignoranza. S’insegnava insomma la possibilità di vivere e di pensare l’eros, non di subirlo con disinvolta ignoranza. L’incontro tra una donna e un uomo, insomma, non può risolversi nella provvisorietà (il famoso, anzi famigerato ’na botta e via), ma ha bisogno di tempi lunghi, grazia, lentezza e sapienza. Si insegnava alle donne la cultura dell’amore che le rendeva non solo sapienti e desiderate, ma anche padrone del gioco. È l’erotismo, bellezze. E l’erotismo, diceva Henri Bergson, è precluso ai cretini. Con rispetto parlando, fa meglio l’amore chi è più intelligente con tanti saluti alle donne rifatte e detestabili che vanno di moda oggi. Dunque le circasse. Negli harem del Gran Pascià di Istanbul, dietro le regine circasse stavano le principesse turkmene, forti, fiere e decise, le cipriote dalla pelle color dell’alba, le africane sensuali, le bionde e filiformi che giungevano dal sottomesso Paese degli Slavi.

Il maschio-padrone era quasi sempre sazio, svogliato per troppa abbondanza, la scelta era difficile, spesso casuale, dipendeva dagli umori e della circostanze. Il Pascià faceva un cenno e si allontanava verso altre. Ma alla delusione seguiva spesso la consolazione. Ogni donna è sempre un po’ lesbica. Le donne si toccano con naturalezza, si palpano, non la fanno tanto lunga quando devono confrontare la rispettiva forma e consistenza del seno, si levano disinvoltamente le mutande quando abitano nella stessa casa, vanno a far la pipì a coppia, si mettono a letto insieme. Un grande medico dell’Ottocento, il tedesco Krafft-Ebing, scrisse che i rapporti fra donne sono naturali, quelli fra uomini molto meno e questo perché la donna è come la terra, può essere diversamente arata e seminata e ritornare intatta alla sua prossima stagione, per l’uomo invece l’omosessualità rappresenta il fallimento della sua attività creativa, l’uomo omosessuale ama per non essere. L’harem insomma era luogo più di frustrazione e noia che di piacere, il falò delle voglie, e spesso il trastullarsi tra donne annullava l’ansia di attese sovente inutili, le carezze saffiche talmente normali che la padrona stessa del serraglio, la più anziana e spesso la più autorevole, le disponeva non senza sadica ferocia. Donne giovani, naturalmente vogliose, accendevano con la lucentezza della pelle, la levigatezza dei corpi, lo splendore degli occhi, i desideri di altre donne più navigate ed esperte nell’arte di esigere e dare piacere.

In “Il diamante nero del serraglio”, un libro di Bietti, ormai dimenticato, che fa parte di quella letteratura cosiddetta sociale degli inizi del secolo scorso, lo scrittore australiano Brisbane immagina che una giovane egizia, alta e statuaria e dalla pelle color del mogano, sia acquistata da emissari del Pascià al Mercato di Alessandria e condotta, come un prezioso gioiello, nel recinto guardato da solerti e indifferenti eunuchi. È un pomeriggio di caldo sciroccoso, il Pascià è incuriosito per il nuovo acquisto della sua scuderia, ordina che si porti la fanciulla Alima in sua presenza. “Spogliati!”, ordina il difensore dei Credenti. Si sa che l’erotismo ha buone parentele con la reticenza, la disponibilità femminile non eccita nessuno. L’occhio a pesce lesso della Spada dell’Islam vaga sonnacchioso sulle curva della donna. La digestione è lenta, faticosa, il cibo era pesante. La controra induce al sonno, il Pascià fa un gesto vago con la manina grassoccia, i servi portano via Alima. “Mi pare – osserva l’Effendi – che avesse gli occhi un po’ storti”. Ma chi l’ha detto che la bellezza dev’essere perfetta? Venere per esempio era strabica, ma era la Dea dell’Amore: la perfezione è stucchevole. Chi osa pensare che Dante avrebbe portato a letto un monumento di virtù qual era Beatrice? E Petrarca al di là delle chiare, fresche e dolci acque, che cosa avrebbe combinato con Laura? La donna deve avere qualche difetto e saperlo valorizzare.

“La guerra è per il maschi, il sesso per le femmine”, disse il Profeta Maometto in quella raccolta di massime divine che è il Corano: Alima rientrò negli appartamenti delle donne piuttosto contrariata e sedette su un gradino a piangere, la lunga tunica di color rosa si tese intorno alle sue cosce brune, la pelle le luccicava già di sudore. “La capa delle femmine – racconta lo scrittore – le si avvicinò rapida e silenziosa, il suo sguardo guizzò esperto sul corpo della giovinetta apprezzando le sue larghe spalle brune o lanciando un’occhiata fugace ai suoi capezzoli color prugna che la scollatura del telo africano lasciava ampiamente intravedere. Non ti ha voluto, eh? Non te la prendere, e le carezzò i capelli crespi scendendo fino alla nuca. Non piangere, per un uomo non vale mai la pena piangere. Capissero mai qualcosa gli uomini… Come ti chiami? Vieni, andiamo alla vasca, un bagno caldo ti farà bene. Le tese la mano, Alima la seguì docile. Quando si inginocchiò sul bordo della grande vasca, il telo della ragazza, già sciolto dai lacci, si allentò e cadde dentro. Si curvarono entrambe per recuperarlo, ma il piede di Alima cedette sulle piastrelle bagnate e la fanciulla cadde seduta sul pavimento con un tonfo. “Ti sei fatta male?, disse la guardiana allungando una mano verso di lei. La ragazza guardò l’altra negli occhi, la mano della capa era morbida e salda sulla sua spalla mentre le si inginocchiava accanto e lei esalò un respiro lento. La protettrice sentì il suo fiato caldo mentre si piegava su di lei. La stese giù sul pavimento con mossa autoritaria e decisa e premette la bocca su quella dell’egizia. La sua lingua si spinse tra i suoi denti con un ardore che bilanciava la delicatezza della sua mano sulla sua pelle. Il suo braccio le circondò le spalle, si sdraiarono sulle piastrelle, i loro corpi si mossero con un ritmo brusco, esigente, fecero l’amore a volte dolcemente a tratti con un’impetuosità che assomigliava alle onde che si abbattono contro un frangiflutti, sotto gli occhi indifferenti degli eunuchi e delle altre donne ben abituate a questi spettacoli”.

Ma due vuoti non fanno un pieno, in questo senso gli amori tra due donne somigliano a una perpetua guerra, il vivere stesso diventa una guerra. “La donna è di per sé stessa sfuggente e indefinibile” sostiene Massimo Fini e inoltre, sempre secondo lo stesso autore, non ama molto che l’uomo s’inginocchi davanti al suo sesso perché quest’atto diminuisce il maschio, amano invece che il gesto sia compiuto da un’altra donna, anche qui è la radice del lesbismo. Il masochismo femminile, di converso, nasce dal presupposto che le donne belle amano il disprezzo verso il loro sesso, è un fattore di grande eccitazione mentre le brutte invece sono aggressive in quanto hanno già da sopportare la loro umiliazione, Amori e Furori, così Laura Laurenzi sintetizza i rapporti fra due donne che si abbandonano alla piena del cuore. Per essere ottime lesbiche, dice la Laurenzi, bisogna possedere requisiti essenziali, come Marlene Dietrich, androgina, quasi la sintesi stessa dei due sessi in una sola persona, e completamente estranea alle esigenze del sesso. “Ho sempre considerato il sesso qualcosa di estraneo, quasi dovuto alle insistenze dell’uomo. Ne avrei potuto fare tranquillamente a meno”, così scrisse di sé la divina Marlene, fiamma del peccato secondo gli schemi del cinema di Hollywood. Non meno algida di lei l’altra grande ambasciatrice del sesso fornita di superbe credenziali erotiche, la sulfurea Greta Garbo che la sua amante Mercedes de Acosta, quando la mollò per sostituirla con la magica Marlene, definì livorosamente “una servotta svedese, con la faccia toccata da Dio, interessata solo a denaro, cibo e sonno e sesso quando le faceva comodo”.

Difficili i rapporti tra donne, precari e quasi sempre insinceri. Le donne si sorridono odiandosi, nel loro mondo ha posto solo l’uomo che è un essere estraneo, un marziano del tutto indifferente alle loro problematiche. L’uomo infatti è più semplice, a volte addirittura un sempliciotto facile da raggirare, un essere lineare mentre le donne, tutte le donne, sono trasversali, serpentine – direbbe Carlo Doni, milanese, autore di Desinenza in A, un libro fondamentale, riproposto negli anni ‘60 e ‘70 e ora, pare, non più sufficientemente apprezzato. Hanno ragione le donne quando, parlando con astio degli uomini (e lo fanno molto spesso) dicono “è un bambinone”. E che abbiano ragione lo dice persino Nietzsche: “Dentro ogni uomo c’è un eterno bambino che vuole giocare”. Gli uomini vanno per linea diretta da Roma a Milano, le donne passano per Napoli, gli uomini sono dei cronisti, spesso puntuali e scrupolosi, le donne sono romanzieri, costruttrici di sogni, imprevedibili e umbratili, non per niente il loro astro è la luna. E non è certo un caso che il secolo in cui fiorì il grande romanzo coincide con l’analisi più precisa dell’animo femminile. Anna Karenina e Madame Bovary sono l’apoteosi della sensibilità e delle molteplici, imprevedibili sfumature dell’animo femminile. Il non detto nella grande narrativa ottocentesca, conta più del detto, il trionfo dell’eterno femminino, l’esplosione dell’ambiguità che costituisce il fondamento del suo fascino. Persino un uomo spiccio e pratico come Balzac vi soggiace.

Il mondo balzacchiano è quello della borghesia affaristica francese, dominato dall’avidità e dall’egoismo, eppure non esiste figura femminile che risulti priva degli ornamenti e del fascino della “totalità”. Perché la donna è un essere totale. “Alle donne le fotte l’amore”, diceva quel cinicone di Pitigrilli. Aveva visto giusto, le donne – in grado di rigirare un uomo come e quando vogliono – diventano deboli, fragili, indifese e tremebonde quando sono innamorate. In amore le donne sono capaci di dedizioni totali fino all’annichilimento totale della loro personalità. Prendiamo il caso di Eva Braun, che era una giovane, fresca e belloccia ragazza tedesca (oddio niente di che), e Hitler non solo poteva essere anagraficamente suo padre, ma era impotente, pervertito sessualmente, scostante, antipatico e aveva anche la forfora sulla giacca… eppure lei gli dedicò gli anni più belli della sua esistenza fino a sacrificargli la vita perché non stava scritto da nessuna parte che lei dovesse morire nel bunker della Cancelleria insieme al suo Fuhrer! La sospensiva, ossia l’annebbiamento, ovvero la perdita temporanea di ogni civetteria e potenzialità seduttiva. La donna innamorata non vede, non fiuta più, non caccia, non propone. Penelope era ancora giovane, vedova nei fatti perché nessuno le poteva assicurare che quel matto scavezzacollo di Ulisse sarebbe mai ritornato a casa. E a casa sua c’erano i Proci che, ad onta del brutto nome, erano guerrieri vigorosi, giovani e soprattutto vogliosi. Eppure lei stava lì di notte a disfare la tela che aveva tessuto di giorno. Fuor di metafora perdeva tempo, cercava scuse, rinviava come fanno tutte le donne che non vogliono (perché invece, quando vogliono, lo fanno subito). Che senso aveva questo illogico comportamento, se non il fatto che il parlare con lingua biforcuta sottintendeva una immensa pena d’amore? Nella sua folle astrazione, Penelope sentiva, sentiva il ritorno, sentiva di non sentire alcunché per un altro uomo che non fosse il suo barbuto eroe che intanto se la spassava in giro per il mondo. È vero purtroppo che, nella quotidianità, la donna è calcolatrice, ma davanti all’amore è meno interessata di un uomo, che quando può se la svigna come fece il pio Enea… che nottetempo prese il largo mentre all’afflitta innamoratissima Didone che stava sulla spiaggia delusa e amareggiata non restò che togliersi la vita perché un grande amore si può anche sostituire, ma non si rimpiazza mai.

Adesso che le donne spesso sono al di sotto di ogni tentazione, gli uomini ambigui e femminilizzati e le donne hanno preso il peggio degli uomini, in quest’epoca di omosessualità normale, diffusa e totale, le donne hanno perduto il loro più grande pregio, il mistero. Il mondo femminile una volta era misterioso e imperscrutabile, le dame concedevano ai cavalieri un cenno, un sorriso, un fazzoletto disinvoltamente smarrito, ma non si sarebbero mai sognate di parlare in pubblico delle “loro cose”, delle loro depressioni, delle lune storte, delle sindromi premestruali. La modernità, la finta spregiudicatezza, la pretesa di chiarire tutto, spiegare tutto, ha tolto ogni incanto alla seduzione e all’amore. “Il settimo velo non dovrà mai cadere” sta scritto in quel libro che, se non vogliamo considerare sacro, leggiamolo come breviario di umana saggezza. Si sta parlando della Bibbia. Nella Danza dei sette veli, Salomè lascia che cadano tutti i veli tranne l’ultimo, quello che metaforicamente rappresenta il mistero femminile e quindi l’incanto. Oggi siamo ai talk show al femminile, alle “casalinghe disperate”, una noia condita da un mare di banalità perché senza tensioni, senza complici intimità, senza quei veli di pudore che sono il sale del mondo femminile… le donne annoiano e fanno la figura di insipide zucche vuote.

Oggi che tutto si destruttura scientificamente, chi lo va a spiegare alle numerose sciampiste che appaiono nella tv che l’erotismo introduce, deve insinuare un disordine nell’ordine femminile, un elemento che renda la donna eroticamente eccitante? Una donna in costume da bagno, in bikini, anche ridottissimo, non eccita nessuno, ma un colpo di vento che solleva all’improvviso le gonne della divina Marilyn sul marciapiede di New York in “Quando la moglie è in vacanza”… ecco che la situazione diventa eccitante. Il bianco della gonna, il bagliore improvviso e travolgente delle cosce rapidamente spento dalla mano che tende a ricomporre i lembi slabbrati del pudore… è allora che si manifesta l’elemento incongruo, peccaminoso che rende la donna desiderabile. Una donna che il nostro tempo ha ridotto a una bambola gonfiabile col seno a palloncino che s’inizia da sotto la gola, le chiappe piallate a dovere e l’inguine accuratamente depilato perché nemmeno l’ombra rimanga della femmina che fu.

Siamo tutte più libere, al giorno d’oggi? E chi lo sa. Le servotte che rifacevano i letti a saccone dei pellegrini lungo la via Romea alzavano le gonne quando il viandante gli andava a genio e poiché non avevano l’impaccio delle mutande concludevano rapidamente e senza tanti infingimenti. Le contadine nelle campagne medievali non avevano problemi quando erano curve sui covoni di grano e i figli, se arrivavano, non erano un tragico rompicapo, ma servivano come mano d’opera e nei lavori sussidiari. Se proprio non si poteva tirarli su, li si mandava a padrone, una bocca in meno da sfamare. Si capisce che anche allora i preti tuonavano contro il peccato, la lussuria e la carne, ma, come dice Matteo Bandello nelle sue novelle, preti ma soprattutto frati, ben pasciuti e meglio armati, erano i benvenuti non solo nelle celle delle vogliose monache, ma anche nelle aie e nelle camere da letto delle padrone che non vedevano l’ora di rifarsi dell’inerzia di mariti affaticati, distratti da più fresche fanciulle, o troppo stanchi. Mariti come sempre cornuti. Siamo più libere noi donne, oggi, perché diciamo le parolacce e perché abbiamo un linguaggio sbrigativo da maschiacci. Ma delizioso, provocante il riso femminile che alludeva, prometteva e invitava, esiste ancora? E il risolino, il gridolino, la mano rapida e sapiente che apre, schiude lentamente il ventaglio delle veneziane per ammiccare, negare, invitare non era forse in termini erotici più stimolante di uno sguaiato show televisivo condito da allusioni volgari e pesanti?

Che sta succedendo alle donne? Una volta si faceva e non si diceva, adesso non si fa ma se ne parla. La repressione, si dirà, era un fatto di repressione e sia, ma senza la proibizione del frutto che peccato c’è e soprattutto che gusto c’è! La mela diventa insipida se non c’è la proibizione a cogliere il frutto. Eva ascoltò quella malalingua del serpente e fece un risolino che nascondeva un’intesa, uno sbocco sessuale. Quel risolino, forse un gridolino femminile appena accennato stava per “vorrei, mi piacerebbe tanto ma non posso, il Signore che ci ha posti in questo Paradiso terrestre dove non ci manca niente, il Signore onnipotente non vuole e io non lo farò” e si rivolse ad Adamo con un discorso che partiva da lontano, l’ambiguità, si capisce, è femmina e Adamo, che come tutti gli uomini antichi pensava di avere un ruolo, Adamo si propose e fece la mossa, staccò il frutto dall’albero (che come dice la Bibbia era l’albero del peccato) … Eva non aveva finestre sul viso, aveva baratri dentro i quali se uno spingeva solo lo sguardo rischiava di cadere e Adamo cadde e con lui quelli che, poi, furono definiti (a piacere) figli di Adamo o (esuli) figli di Eva. L’amore, il peccato (secondo la Chiesa) nasce dunque da una trasgressione e da un principio ora negletto, il ruolo dell’uomo. L’uomo senza un ruolo non è niente e nessuno.

Togliere progressivamente all’uomo il ruolo maschile è stato l’errore fatale delle donne. Le nostre nonne, che la sapevano molto più lunga di noi senza aver letto Freud, senza essere state a lezione da Jung e senza aver visto i telefilm americani, le nostre ave sapevano che l’uomo non va mai preso di faccia, non va mai avvilito e vilipeso, ma circuito, attaccato di sguincio, di lato per modo che le insinuazioni della donna (vedi Eva) sembrino a lui sue convinte decisioni. “Il letto parla” dicevano le nostre antenate e volevano intendere che il fascino (chiamiamolo così) della donna si esplica come mille cacciavite che smantellano l’armatura del maschio. Ma guai a dire, come quelle sciagurate femministe d’antan, che “l’uomo ha soltanto un codino fra le gambe”. Per quel “codino”, che la cultura maschilista aveva chiamato per secoli “il creapopoli”, l’uomo maschio fu svillaneggiato e paragonato al porco. Il coraggio, la determinazione, la parola, la forza furono sostituiti con valori femminili, bellini, carini, dolci, oh quanto dolci, che non avevano avuto mai parentela, nemmeno remota con il  mondo maschile. Smarrito ogni potere sociale, l’uomo ha perduto anche la potenza sessuale. Le donne hanno vinto, ma ahimè non hanno raggiunto quella felicità che speravano di raggiungere perché la vittoria è bella e soddisfacente se si prevale su un avversario ben armato e deciso, non si vince niente sul nulla e l’uomo di oggi è un nulla, a questo siamo arrivate. È stato inutile persino aver rubato all’uomo i pantaloni perché quando si diceva che “in casa i pantaloni li porta lei”, si intendeva dire che le femmine, tutte le femmine, nella loro sapienza antica, erano consapevoli della loro immensa potenza, sapevano di essere le più forti e tuttavia lasciavano al maschio la funzione che derivava dal suo ruolo più che dal suo fascino che spesso era di dubbia qualità. “La donna nutre, l’uomo protegge” sta scritto nella Bibbia: ma che devono proteggere ormai gli uomini quando la loro forza è azzerata, la loro funzione è ormai revocata in dubbio con l’inseminazione artificiale e le altre diavolerie della genetica, tutti ritrovati della scienza moderna che hanno tolto all’uomo persino la funzione di fuco dell’ape regina.

“L’eterno odio tra i sessi”, così Friedrich Nietzsche definisce il rapporto uomo-donna e per questa guerra la donna era certamente più attrezzata dell’uomo. La donna è creata per il sesso, è un monumento al sesso. Non esiste gesto femminile che non abbia una connotazione sessuale, dall’accavallamento sapiente delle gambe (apertura, disponibilità, chiusura), alla sistemazione sull’orecchio dell’ala dei capelli, che cala sugli occhi, dallo stringere sul seno il golfino aperto all’acconciare la gonna che sale sui fianchi. E per questa sessualità diffusa spesso la donna ritiene superflua la penetrazione, che il maschio invece considera essenziale testimonianza della sua potenza erotica. Per la donna una carezza, un’attenzione, una dolcezza, una stretta sapiente di mano, uno sguardo, spesso, vale più di un’erezione gloriosamente portata a termine. Diceva Freud che la donna “è naturalmente masochista”. Siamo donne e ci dispiace contraddire il maestro, la donna sa (o dobbiamo dire sapeva) che la sua funzione è dapprima quella di sollecitare, quindi quella di ricevere. L’uomo allora è un sadico? Diciamo la verità, abbiamo tentato di leggere Sade, ma il celebrato Marchese è un noioso moralista, i suoi libri sono di uno squallore abissale e la perversione, che è soprattutto, un fatto di intelligenza, un fatto mentale, che non ha nulla da vedere con borchie, cinture, fruste e stivaloni, non è affar suo. Non risulta, infatti, che il Marchese Donadieu abbia avuto commerci carnali con le donne. Sade ad esempio della donna trascura i piedi, ma signori, i piedi, insieme col “magico triangolo”, sono la parte più erotica delle femmine come insegna, in tempi recenti, la rossa Sarah, duchessa di Kent, detta la “porcona dell’alluce”. I piedi sono la parte del corpo femminile più vicina alla terra, alla natura, i piedi hanno un fascino primordiale e non per nulla i cinesi “educavano” il piede femminile fino a martirizzare le donne, costringendole a camminare entro rigidi stivaletti che riducevano l’arto a un moncherino. E non solo, nelle antiche civiltà orientali mostrare un piede nudo era peggio che mettere all’aria i propri organi genitali.

E la grazia femminile ? La sadiana Justine non è una donna graziosa. Certo la grazia non si acquista né si conquista, appunto. La grazia femminile è (oppure era) qualcosa di ineffabile e non per niente nell’invocazione a Maria la si definisce “piena di grazia”. Con la grazia si nasce, né vi sono scuole o ambienti chic che la insegnino, una donna snob non è una donna graziosa perché esce dai propri panni, esce da quel che è dentro mentre la grazia è armonia tra l’interno e l’aspetto esteriore della donna, la grazia è l’armonia stessa. Nella grazia e con la grazia la donna rimane bambina, vezzosa irresistibile bambina, e inoltre è sempre casta pur essendo maliziosa, la donna graziosa non è mai volgare, mai artefatta e non si serve di orpelli. La donna indiana, ad esempio, avvolta nel suo semplice sari, è elegantissima e graziosa. La grazia non si può comprare, la grazia naturalmente si accompagna all’eleganza. La grazia è un dono e la donna di oggi, sicuramente più bella delle donne di un tempo, spesso risulta priva di grazia. La donna di oggi ha strumenti che le sue nonne neanche si sognavano, ha le creme, il lifting, ha il chirurgo estetico, si costruisce labbra negroidi atroci, tumefatte, a salsicciotto, ma non si rende conto che la bellezza non sorretta da illuminazione interiore è inutile e volgare. La bella donna, come Cleopatra, deve avere difetti, lo abbiamo detto, ma anche quel guizzo che la distingue e la rende unica.

Oggi le donne sembrano uscite da uno stampino: levigate, ma mai impertinenti come si diceva una volta, anzi spesso così artefatte da suscitare disagio invece che desiderio e ammirazione. Marilyn Monroe non era graziosa, si sa, ma una bomba di erotismo. Grazia hanno le attrici (e le donne) francesi anche se non sono proprio belle. La donna deve esprimere un valore dicevano i nostri padri, che rispetto agli uomini d’oggi erano sapienti buongustai. La donna graziosa deve segnare uno spartiacque invalicabile tra sé e il mondo, delimitare, e senza appelli, un universo misterioso e fiabesco in cui agli uomini è vietato entrare perché privi degli strumenti per farlo, per questo la donna della strada, del cinema, della tv oggi non seduce nessuno. Le grandi star avevano falangi di uomini ai loro piedi, gli ammiratori staccavano i cavalli dalla carrozza per trainarle verso l’Olimpo perché loro erano come le stelle, si potevano ammirare, ma mai fissare troppo a lungo senza provare un senso di disagio, di smarrimento, di vertigine, un pozzo da cui non si esce se non con la pazzia o la morte.

* Dice di sé:
Barbara Leone. Facevo la violinista e mi divertivo pure. Ma mi diverto di più a scrivere. Amo gli autori russi e i poeti maledetti. Il mio compagno di vita e di avventure è un cane nero chiamato Maffino.

INCONTRI. Sergio Rubino - Ormai siamo tutti schiavi dei format

Faccia a faccia con il “papà” di Blob, il suo rapporto con la televisione di ieri e di oggi
Sergio Rubino * 

Parlare di televisione per uno che la fa, è sempre difficile. Quando poi devi farlo con un amico diventa, credo, ancora più difficile. Ma ho deciso di fare le cose per bene, da vero professionista, con tanto di quaderno con la scaletta dell’intervista e piccolo registratore-modello ancient regime (cioè anni 80) comprato apposta per l’occasione. Il mio intervistato è davvero un grande amico, per quello che attiene il profilo privato dell’incontro, ma è soprattutto uno dei più grandi talenti autorali della tv, oltreché giornalista, dirigente Rai, scrittore di successo, massimo esperto e critico di cinema, caroselli tv, pubblicità e… basta così, direi. Il tutto racchiuso in un fisico alla Orson Welles e in una bontà d’animo davvero rara.

Chi è? Ma il grande Marco Giusti, da molti conosciuto come il “papà di Blob” (e che anni fa mi dette l’occasione di cominciare a fare il mestiere d’autore tv). L’appuntamento è davanti alla Rai, quella del cavallo, alle undici e un quarto. Arriva con qualche minuto di ritardo (evviva, al mondo non sono il solo!) perché Sandra, la moglie, caporedattore degli spettacoli all’Espresso, lo aveva trattenuto. Saliamo nel suo ufficio al quarto piano, dopo aver espletato all’ingresso il rito del pass, ci sediamo l’uno di fronte all’altro, davanti ad una di quelle orribili scrivanie che fanno tanto azienda pubblica e alla vista del registratore mi fa: “ma allora dovemo fa na’ cosa seria?”. Io faccio cenno di sì, mentre riesco anche ad accendere e a mettere in play la cassettina. Il clima si fa serio, mi sento davvero un inviato ed evidentemente trasmetto anche a lui questa convinzione.

Comincio: Da bambino che rapporto avevi con la tv?

“La mia generazione è come se fosse nata dentro la tv. Ricordo che la finestra della mia camera a Grosseto, dava sui binari ed io guardavo fuori per ore i treni che passavano. Quando arrivò la tv, al posto dei binari cominciai a guardare Perry Mason, Pow-Pow, Scaramacai. Certo il cinema restava la mia passione, bello, grande, a colori, ancora oggi la possibilità di fare cinema è il mio sogno. Mentre la tv era un’altra cosa. Però la guardavi stando a casa e non era cosa da poco…”.

Ma quando hai deciso di fare la tv come mestiere?

“Mai. Non mi è mai piaciuto pensarla come un mestiere e ancora oggi mi illudo di non farla. Io vorrei fare cinema. Dopo il classico a Genova (figlio di un funzionario dello Stato, ha vissuto in molte città per il mestiere del padre), andai subito al centro sperimentale di cinematografia, ma non mi presero perché ci voleva la laurea. Quindi mi iscrissi ad architettura ed in cinque anni mi laureai con una tesi su Stanlio ed Ollio”.

Beh, quasi un segno del destino, ma alla tv come ci arrivi?

“Siccome era il ‘77 ed il mio grande amico Ghezzi (altro grande “guru” della tv, per anni in coppia con Giusti, ndr) era entrato in Rai mi chiamò a lavorare e sono rimasto là, quasi imbottigliato dagli eventi…perché forse per il cinema ci vogliono più palle, non lo so, devi avere un carattere particolare, più faccia tosta, essere un po’ più stronzo forse… comunque fare tv è stato molto divertente, Blob per esempio è stato una grande esperienza…”.

Ecco Blob, un programma straordinario, quasi una rivoluzione del linguaggio televisivo. Come nacque?

“Nacque da una serie di coincidenze, di situazioni, alcune delle quali già presenti. Arbore in tv aveva fatto un programma come Ritagli e frattaglie, c’era stato Schegge, io stesso avevo una rubrica fissa sull’Europeo, che riportava frasi dette in tv, che era già quella roba lì. Poi c’era il mattinale sul Manifesto con il meglio delle cose dette il giorno prima…”.

Mi ricordo, una sorta di bestiario, ma con un nesso narrativo creato ad arte…

“Sì quello…praticamente un racconto ottenuto “rubando” cose dette da altri in situazioni diverse, una cosa abbastanza complessa e abbastanza lunga. Una sorta di estetica del frammento portato alla sua massima espressione…”.

Il fuori contesto che si contestualizza…

“Sì, e anche l’idea di fare una tv critica rispetto alla tv. Io ero nato per il cinema, poi ho fatto il critico e quindi ho fatto una tv critica sulla tv, con un racconto fatto secondo un metro cinematografico. Blob adesso ha un po’ perso questa caratteristica, ma quando c’ero io, l’intenzione era quella di fare un piccolo film sulla realtà, con la cura e i tempi del linguaggio cinematografico”.

E secondo te, perché ancora oggi continua ad essere così seguito dal pubblico e preso ad esempio dai critici?

“Perché critica la tv, ne dà un’altra prospettiva, costantemente aggiornata. Anche se, come ho detto, ha perso un po’ della forza che aveva all’inizio quando si propose come linguaggio completamente nuovo, diverso”.

Da qualche anno fai una tv della memoria, cominciando con Carosello, e hai continuato con Cocktail d’amore, Stracult…

“Anche Limiti ha fatto molto in questo senso, come anche Fazio. Io forse l’ho fatta in maniera più attuale, per raccontare l’oggi…”.

In che senso?

“Guarda, io ritengo che senza storia e senza studio non si va da nessuna parte. Si può fare una tv della memoria, ma rivivendola oggi. In realtà più che l’analisi della tv di una volta, a me interessa lo sguardo dello spettatore che ha trenta-quarant’anni e che pensa a Bombolo e Alvaro Vitali. È più un’analisi sul gusto di quegli anni che sulla cosa in sé che, anzi, spesso è pessima. Ma, ripeto, il nostro sguardo su quelle cose è interessante. Per esempio Kill Bill di Tarantino…”.

Mi stavo preoccupando, erano quasi dieci secondi che non facevi riferimento al cinema…

“Eccoti accontentato. Kill Bill, dicevo, è fatto di tanti pezzi di film già visti che vengono mediati dall’occhio del piccolo spettatore del tempo”.

Ti vengo incontro: qual è oggi il rapporto tra cinema e tv? Sembra quasi che senza tv non ci sia cinema.

“È un rapporto innanzitutto di capitali, la tv li ha e il cinema no. O almeno non in quella misura. E poi c’è il grande insegnamento della fiction che il cinema ha ormai dato alla tv. Intendo quella fatta con grandi budget e, appunto, con un linguaggio cinematografico. Perché la tv di oggi è talmente brutta che si possono vedere solo film e fiction. Al contrario di quello che si pensa, oggi la tv vive non tanto sui reality, quanto sulla fiction e sui film, soprattutto quelli dei canali satellitari. Io stesso guardo praticamente solo Sky. A questo proposito ricordo una frase in About a boy, film tratto da un libro-culto di Nick Hornby, in cui lei, invitata da Hugh Grant, gli chiede: “Spero tu abbia la pay tv, altrimenti sei un poveraccio…”. Ormai è così, la tv fatta solo con sei-sette canali, non vale più niente”.

Hai nominato i reality che, come sanno anche i bambini, sono tutti dei format, ovvero programmi ideati molto spesso all’estero, adattati al mercato italiano e inseriti a scatola chiusa nei palinsesti. A questo proposito negli anni scorsi, grazie al lavoro di gente come Carlo Freccero (vulcanico direttore di Italia1 prima e Rai 2 poi), di Angelo Guglielmi (scopritore di Serena Dandini, Fabio Fazio, Piero Chiambretti) e alcuni altri, si sono prodotti molti programmi tutti diversi tra loro e si è investito sul lavoro degli autori diversificando in questa maniera l’offerta. Oggi invece c’è una sorta di coazione a ripetere e sempre in una sola direzione. Basti pensare alle sette edizioni del Grande fratello…

“Perché oggi per molti addetti ai lavori, fare tv è come andare al super mercato. Tu direttore o dirigente, pensi di fare tv comprando semplicemente un format esterno, chissà perché poi sempre dai soliti committenti, tra l’altro.

In realtà non fai altro che comprare un prodotto e metterlo in onda, stop. Quindi tutti noi autori che negli anni abbiamo fatto una tv “d’attacco”, sia in Rai che in Mediaset, siamo completamente tagliati fuori…”.

Perfettamente d’accordo. In più oggi siamo all’assurdo che quasi tutto è format. Lo dimostra il fatto che vengono considerati tali programmi che, pensati dieci anni fa, sarebbero stati normali programmi, frutto di normale lavoro autorale, così come dovrebbe sempre essere. Tanto che sono considerati format, programmi che format non sono per niente…

“È vero… io, in tal senso, allora ho fatto almeno venti format, in realtà erano solo programmi costruiti da me con un’idea, non format. Tutto questo non ha senso. La verità è che oggi, ormai, c’è un meccanismo di potere per cui conta più un produttore come Gori, Ballandi o Bassetti, che un direttore. Che tempo che fa è un bellissimo programma, ma perché considerarlo un format? Lo stesso vale per Parla con me o tanti altri. Sono talk-show, con un presentatore che intervista cinque-sei ospiti, ci mette dentro uno o due comici ed un pezzo musicale”.

Cioè, la declinazione naturale di questo tipo di programmi, la sua grammatica strutturale…

“…li riporta tutti al Costanzo Show…so’ tutti figli suoi…Ripeto, fa tutto parte di un gioco di potere in cui i produttori privati la fanno da padroni. Del resto basta guardare il palinsesto di Rai 2, tranne uno o forse due programmi, tutto il resto è prodotto e acquistato all’esterno”.

E questo è un peccato, perché taglia fuori tante professionalità interne…

“Però c’è il vantaggio che si possono far lavorare i figli. Perché se guardi bene, nelle varie aziende che hanno l’appalto esterno dei programmi, ci sono figli, nipoti e parenti vari di molti dirigenti…”.

E di fronte al proprio sangue, uno che può fare? S’arrende…

“E s’arrende si! E non diciamo altro che è meglio…”.

Molto meglio. Ma eravamo partiti dai reality, però. Perché così tanti?

“Perché è qualcosa che puoi identificare subito come tv. Non è cinema, è tv. E in questo modo riesci a celebrare l’oggetto che hai a casa. Accendi e guardi. È l’unica cosa che puoi vedere lì e lì soltanto. Non altrove come a cinema, teatro o alla radio. Anche agli inizi della tv, in programmi come il Musichiere, quando avevi personaggi come Totò protagonisti della prova, si realizzava quello che accade oggi con i concorrenti dei reality. Anche se, va detto, è un linguaggio ormai già vecchio, superato”.

Quindi il reality come oggetto di identificazione immediata della tv?

“Esattamente. È la possibilità di guardare, come facevo io con i treni dalla finestra della mia stanza. O come quelli che una volta si mettevano seduti sull’uscio di casa a guardare quello che accadeva lì, davanti a loro”.

Tu sei un dirigente RAI. Cosa vuol dire oggi fare servizio pubblico?

“Ahia…”.

È forse quello che fa Minoli?

“Beh, quello è più che altro Minoli che fa servizio pubblico. Anche se lo fa bene… vediamo… Ballarò è servizio pubblico, le inchieste di Riccardo Iacona sono servizio pubblico, così come Report, Santoro, Le Iene in qualche misura sono servizio pubblico, pochissimo Striscia, quando ci riesce e talvolta i Tg…”.

Certo, quando non parlano della moda estiva a Capri o del principe William che ha smesso di fumare… Quindi quasi mai!

“A pensarci, Pippo Baudo è servizio pubblico. Fa vecchia tv, ma fa bene il suo lavoro. Mi piace guardarlo e sotto questa accezione, fa servizio pubblico. Tieni presente, comunque, che la tv ha svolto la sua funzione educativa fino al 68. Dopo quella data ha smesso di insegnare qualcosa ed è diventata altro…anche se, in effetti, manca sempre una rubrica di cinema, di teatro o di libri perché certo non si può considerare servizio pubblico Marzullo…”.

Il problema è spiegarlo a lui! Vabbè…E la tv generalista, che futuro ha?

“Quando tutti avranno a disposizione i propri cento canali, sarà parte di quei cento canali e nulla più”.

La tv quasi sempre, o molto spesso, è fatta di facce…

“Ma anche di tette e di culi, come ha dimostrato l’inchiesta di Woodcock a Potenza…il vero reality dell’anno in fondo, è stato quello che si è fatto a Potenza”.

Già! Non sai mai chi sarà il prossimo ad essere nominato! E quelli che stanno dentro vengono chiamati nel confessionale, fantastico! Guarda, io quasi quasi a Potenza ci vado in vacanza…

“Giusto…anch’io quest’anno prenoto a Potenza… Sarà un’esperienza esaltante, ne sono sicuro. Ma tornando alle facce, intese come personaggi che connotano un palinsesto, la Rai degli ultimi anni ne ha molto poche…. E ti dirò di più: spesso ha anche “rubato” a Mediaset che nel tempo, sotto questo profilo, ha fatto un lavoro migliore del nostro…vero è che ultimamente non ci è stata data occasione di sperimentare, di “rischiare” forze nuove…mentre ad esempio con Freccero direttore di rete, così a memoria, ricordo almeno tre o quattro facce completamente nuove alla conduzione di programmi”.

Una la sperimentammo addirittura assieme nel 98’, in un programma che facemmo da Napoli sulla storia della tv. Era Enrico Lucci ancora non affermatosi con Le Iene. Ricordi?

“Come no? Cercammo di capire se, oltrechè in esterna e nei servizi “chiusi” (ovvero girati e poi montati), poteva funzionare anche in studio e in diretta…comunque riprendendo il filo del discorso, devo dire che ultimamente non si è rischiato nemmeno sulle idee”.

Concordo perfettamente. Manca la possibilità di lavorare sulle idee. E lo dico in qualità di autore che ha sempre lavorato ad un concetto artigianale di tv, intesa come laboratorio fatto da un gruppo affiatato di persone, che ruotano attorno ad un capo-comico, il quale si fa poi carico di trasferire il prodotto in video. Per essere chiari, quello che ho la fortuna di fare con Paolo Bonolis da quattro anni…

“Ecco, Paolo è una grande risorsa della tv. Uno che, come pochissimi, ha il coraggio di cambiare percorso, mantenendo intatta la curiosità per il mezzo e le sue potenzialità. Il suo Festival, ad esempio, è stato fortemente innovativo, pieno di trovate come quella di assorbire il dopo-festival all’interno della liturgia della gara”.

E del ritorno di Funari su Rai 1 cosa ne pensi?

“È stato un grande personaggio della golden era della tv, della tv intelligente di una volta, quella di Chiambretti, di Santoro, di Angelo Guglielmi, di Freccero. È una sorta di fantasma venuto dal passato…stiamo a vedere cosa farà…forse sarà una specie di Celentano…, ma per come è cambiata la tv, non credo che comunque possa reggere per molto. È un ingrediente troppo forte che va preso a piccole dosi. Come del resto oggi non si potrebbe più rifare Blob, perché sono cambiati i presupposti storico-culturali in cui quel prodotto è nato. Così è anche per Funari”.

Alla luce dei nuovi parametri il prodotto televisivo, come dicevamo poc’anzi, è mediamente molto brutto. Molti si giustificano dicendo che “diamo al pubblico, quello che il pubblico vuole…” È davvero così secondo te?

“Assolutamente no. È chiaro che se metti sullo schermo solo personaggi orrendi, storie di gossip e di orrori vari, il pubblico alla fine segue sta’ cosa perché è divertente. Ma non è quello che vuole. Il pubblico vuole delle storie, vuole essere informato di cosa accade. Se quello che accade è questo, è normale che poi alla fine scoppiavallettopoli o paparazzopoli. È come se fosse l’altra faccia di quello che hai visto, te la spiega. Tutto il mignottume, la corruzione che abbiamo visto dietro a certi programmi, erano abbastanza chiari da subito. In questo senso i fatti di Potenza danno la chiave per capirli, per spiegarli. È come se fosse un’altra puntata di tv educativa. Danno una certa lettura e te la spiegano. Ma se avessimo avuto una buona tv, non avremmo avuto bisogno di tutto ciò. Se hai un buon varietà, vedi quello e basta. Non ti chiedi perché in video c’è una che non vale niente, o se c’è, di chi è l’amante. In Italia, negli ultimi quattro anni, la corruzione e la vendita del proprio corpo sono state talmente forti, che alla fine doveva esplodere tutto. La cosa inquietante è che i segnali c’erano già tutti, a partire dalle copertine di Panorama e dell’Espresso, fino a certi brutti film con attrici ignote. Insomma se sapevi vedere, vedevi già tutto”

Chiaro come il sole, fratello. E per finire la madre di tutte le domande, progetti futuri?

“Due cose: una molto carina che è Spaghetti western a Venezia (e te pareva!, ndr), un programma molto importante sulla rassegna che la mostra internazionale del cinema di Venezia, dedicherà a questo grande genere cinematografico tipicamente italiano”.

E di cui tu sai tutto, come gli spettatori del Senso della vita hanno avuto modo di verificare, quando sei venuto ospite… e l’altra?

“L’altra è Matinèe, un magazine quotidiano della fascia di mezzogiorno, andato già in onda la scorsa stagione su Rai 2 con Max Giusti e Sabrina Nobile. Quest’anno, però, Giusti non può farlo per l’impegno assunto con Distretto di polizia e la Nobile è incinta. Quindi dobbiamo trovare dei nuovi conduttori, dei volti nuovi…”.

Bene, allora chiunque sia interessato può scrivere a Matinèe, Rai, viale Mazzini 14, 00195, Roma…

“Beh, non è proprio così…”.

Però suonava così bene! Ma ti ricordi quante volte lo si sentiva nominare quell’indirizzo nella tv di una volta? Mi sembra ancora di vederla la faccia della Orsomando mentre parla nel quadro in bianco e nero. Tanto che credevo lo dicesse solo per me che, bambino, la guardavo dall’altra parte del televisore…

“Anch’io credevo fosse solo per me… Allora ci ha fregati?”.

Beh, visto che poi io a quell’indirizzo, ho anche intestato qualche fattura e tu hai addirittura una scrivania da dirigente… tutto sommato direi proprio di no. Che dici?

“In effetti…”.

* Dice di sé:
Sergio Rubino. Una figlia di 19 anni, una laurea in giurisprudenza presa a Bologna (dove vivo quando il lavoro me lo consente). In tv ho lavorato con Fabio Fazio: Anima mia e Ultimo valzer; Serena Dandini: Comici e Pippo Kennedy show; Pippo Baudo: Festival di Sanremo 2003; Fiorello: in tv con Stasera pago io e Stasera pago io…in euro, in radio con Viva radio 2 e a teatro; Paolo Bonolis: Domenica in, Festival di Sanremo 2005, Serie A, Fattore C, Il senso della vita. Sono stato anche uno dei primi autori di MTV Italia, lavorando a quasi tute le produzioni della rete. Ho avuto la responsabilità dei programmi della fascia in chiaro di Canal Plus (attuale Sky) ed ho scritto i più importanti programmi musicali degli ultimi anni da Night Express, Italia 1, a Super, Canale 5, a Top of the pops, Rai 2. Da cinque anni sono l’autore del più grande festival d’Europa, il concerto del Primo Maggio da Piazza San Giovanni a Roma. E molto altro…

PROTAGONISTI. Mauro della Porta Raffo - Un amico, un certo Piero Chiara

“Scrivi che sono uno scrittore indipendente: indipendente dalle grosse formazioni politiche naturalmente portate all’allattamento di artisti e letterati”
Mauro della Porta Raffo * 

“Il 31 dicembre 1986 il giornale radio delle 19 comunicò la morte di Piero Chiara avvenuta a Varese in quello stesso giorno. La notizia mi colse alla sprovvista, nel pieno dei preparativi per i festeggiamenti di fine anno ed alla vigilia di un mio programmato breve soggiorno in Liguria che m’impedì, nei giorni successivi, di essere presente ai funerali.

Fu un momento di profondo dolore, suscitatore, peraltro, di innumerevoli ricordi.

A dire il vero, negli ultimi tempi, per una serie di ragioni e per mia responsabilità, ci eravamo allontanati, ma, comunque, ogni tanto, incontrati, specie in casa di Vittore Frattini, con reciproca, evidente contentezza.

D’altra parte, per circa quindici anni, si può dire che avessimo pressappoco convissuto: avevamo fatto politica insieme, avevamo discusso di letteratura, di cinema e di pittura, ci eravamo beccati violentemente ed insultati ferocemente giocando a biliardo e, soprattutto, a scopa d’assi.

Mi aveva guidato, sorretto e, credo, amato come un figlio, riponendo molte speranze in me. Ora, a distanza di qualche anno, non più velato da certe, da me supposte, incomprensioni, ho pensato di scrivere alcune brevi prose di cui “il Chiara” è protagonista e che, mi sembra, bene lo rappresentino.

Tutte storie rigorosamente “vere” o che tali mi erano sembrate, quando “raccontate da lui”. È con queste parole introduttive che nel giugno 2000 davo alle stampe il mio primo libro dedicato all’autore de Il piatto piange, che intendevo colà ricordare assai più come uomo e maestro di vita che come letterato.

Cinque anni dopo, in anticipo sulla naturale scadenza del ventennale della di lui dipartita che i media hanno di poi salutato con larghezza e in occasione del quale la Mondadori ha pubblicato nei Meridiani i suoi romanzi, proponevo un mio secondo e maggiormente articolato volume intitolato semplicemente “Piero Chiara”.

È da quest’ultimo che, per “L’attimo fuggente”, ricavo le righe che seguono le quali, tranne, ovviamente, quelle raccolte nel capitolo “Chiara visto da Chiara”, sono opera del sottoscritto.

“Raramente, dalla penna o dalla bocca di Piero Chiara uscivano frasi fatte e penso, quindi, che oggi mi avrebbe ripreso se mi avesse sentito dire, come, in effetti, ho detto: “Mio Dio, come passa il tempo!”. Eppure, è proprio così e fra non molto saranno vent’anni che Piero non è più tra noi.

Il 31 dicembre del 1986, verso sera ma non troppo tardi visto che il Giornale Radio delle diciannove e i Telegiornali delle venti ne dettero comunque notizia, la sua lunga lotta contro il male giungeva al termine e Chiara si spegneva nella bella casa di via Metastasio. Accanto a lui, piangente ed incapace, da allora fino alla morte, di riprendersi, la cara e dolce Mimma.

Lontano ed impossibilitato a partecipare al funerale, che, fra l’altro, si svolse decisamente “alla Chiara” (molti, sbagliando corteo, seguirono il feretro del padre di Dario Fo, sepolto anche lui a Luino, lo stesso giorno e nella stessa ora nel medesimo cimitero), lo immaginai in cielo, da subito impegnato in una bella partita a scopa d’assi con qualcuno dei suoi antichi avversari.

Verrà il giorno, Piero, in cui giocheremo ancora insieme a carte o a biliardo.

E ti batterò, giuro che ti batterò!”.

MdPR

 

Chiara visto da Chiara

“Nello stesso treno, ma in un’altra carrozza”.

“Quando cerco di spiegarmi la ragione del ritardo col quale sono arrivato alla narrativa dopo una vita che tuttavia non fu mai disattenta ai fatti letterari, e quando, scendendo più a fondo nelle domande che rivolgo a me stesso, mi chiedo perché ho scritto dei romanzi o dei racconti, mi accorgo che la mia impresa è stata un tentativo per uscire dalla solitudine parlando ad altri di me, dei miei guai e delle mie fortune.

Ho scritto per avere intorno qualcuno, come quando raccontavo a voce in un piccolo cerchio di amici e anche per capire me stesso e il mondo nel quale vivevo.

Altri, prima di me, avevano capito le stesse cose col mezzo della creazione artistica: avrei potuto per tempo unirmi a loro, fare gruppo, scambiare con quei miei coetanei la schiuma dell’intelligenza.

Erano, alcuni, fra i migliori poeti, scrittori, artisti della mia generazione o di quelle confinanti.

Ma una specie di bassa nascita, di vizio d’origine, mi ha sempre trattenuto.

Al tempo in cui loro studiavano e si formavano io ero altrove, a tener testa per mio conto alle onde della vita, in anse remote. Vivevo con esseri estranei all’arte e alla letteratura, mi mescolavo con professionisti, esercenti, giocatori, gabbamondo, gente di campagna e di città, ricchi e poveri: il magma umano che traversa l’esistenza senza osservarla, senza trarne balsami o veleni letterari.

Così, ho parcheggiato fin quasi a cinquant’anni in aree dominate dalla necessità, dove nulla si sublimava.

Come ho già detto altra volta, con gli uomini che rappresentano l’arte e la cultura del nostro tempo ho viaggiato nello stesso treno ma in un’altra carrozza.

Allo stesso modo di chi emigra in giovane età e torna anziano al suo paese, mi sono quindi trovato tagliato fuori da un mondo che avrebbe dovuto essere mio e nel quale ero invece vissuto come in un sogno.

Al pari dei vecchi emigranti ho cominciato allora a raccontare, a favoleggiare, a render conto di un continente che i letterati raramente percorrono. Ne è risultata per me una nuova solitudine.

Se prima, nell’esilio dell’ambiente che doveva essere mio, pativo di solitudine, ora, anche trovando ascoltatori, patisco di un’altra solitudine: quella degli anni, che si sono svuotati di speranze e si aprono ormai, uno dopo l’altro, come anticamere semibuie dove non c’è che un tavolo e una sedia per starvi, col capo appoggiato sugli avambracci, ad aspettare la vita, quella cui si riduce chi scrive e racconta di sé e del mondo nel quale è passato.

La solitudine del narratore, sospeso tra la vita e il sogno della vita, come il ragno al filo della sua tela”.

(da Sale e tabacchi, Il Corriere del Ticino, 1975)

Testimone diretto

“Come quel medico che scoprì i primi vaccini, il quale provava su di sé gli innesti, io sono tale scrittore che prova la vita su di sé, prima di raccontarla.

L’ho provata su di me in tante situazioni, in vari mestieri, in molti luoghi, in momenti di tranquillità e in epoche fortunose.

I miei libri sono quindi un’immagine del mondo presa da vari punti di vista da un uomo di umile origine e di pochi studi, ma attento alla vita e testimone diretto, se non addirittura protagonista, delle sue storie.

Dico “pochi studi” in rapporto a ciò che avrei voluto conoscere, perché in verità ho studiato tutta la vita, cioè ho molto riflettuto su alcuni libri fondamentali, su alcune personalità e sul alcuni fatti che ho giudicato essenziali.

Fin da ragazzo ho letto e riletto il Decameron fermandomi per anni sulle prime novelle che scoprii in un’antologia scolastica, quella di Martellino e quella di Chichibio…

Il Decameron mi ha occupato tanto, costringendomi a fermarmi man mano che lo leggevo, che le ultime novelle le ho lette solo qualche anno fa.

Lo stesso potrei dire, o quasi, della Vita di Benvenuto Cellini o di altri testi minori, come per esempio del Belcari…

Il Satyricon di Petronio Arbitro fu una scoperta della mia gioventù che mi accompagnò tutta la vita al pari del Lazarillo de Tormes.

Il Bandello fu un’altra delle mie passioni.

Il Manzoni è tuttora per me un continuo oggetto di studio e di riflessione.

Mi interessò moltissimo il Nievo.

Altri, di poco conto, scoperti in giovane età, mi colpirono fortemente: fra questi il De Amicis, che poi mi disgustò.

Erano pur sempre imprese narrative, e mi impegnavo a correggerle e a raddrizzarle secondo il mio gusto.

Ho letto con grande passione i romanzieri francesi e russi dell’Ottocento, in particolare Balzac, Flaubert, Dostoevskij e Gogol.

Poi Conrad, Stevenson e Melville. Anche Jack London.

Ma c’è stata una schiera di scrittori involontari che ho preso in considerazione durante gli anni nei quali ho lavorato nell’amministrazione della giustizia: quella dei marescialli dei carabinieri.

Ho letto migliaia di verbali nei quali uomini semplici e pieni del senso della realtà si studiavano di riferire i fatti nel modo più chiaro possibile.

I marescialli dei carabinieri non facevano riflessioni né si abbandonavano a introspezioni psicologiche: riferivano puramente e semplicemente.

Mi sono capitati sotto gli occhi dei piccoli capolavori di narrativa, dai quali ho imparato a raccontare vedendo nella mente i fatti come in un film e studiandomi di tradurli in parole semplici e precise”.

(da Sale e tabacchi, Il Corriere del Ticino, 1976)

Indipendente

“Scrivi che sono uno scrittore indipendente: indipendente dalle grosse formazioni politiche naturalmente portate all’allattamento di artisti e letterati, indipendente da chiese, clan e consorterie varie, intento solo al mio lavoro in un angolo di provincia, inchiodato dieci ore al giorno a due o tre tavoli dove lascio e riprendo uno scritto dopo l’altro, indipendente dalle teorie letterarie che vorrebbero incanalare l’invenzione oltre che il linguaggio.

Potrai anche scrivere che gli unici cortei ai quali ho partecipato, sono state le processioni del Corpus Domini, della Madonna della Cintura e di quella del Carmine, al mio paese, fino all’età di dodici o tredici anni.

Successivamente mi sono messo in fila solo nel caso di funerali, purtroppo frequenti, di congiunti e di amici.

Essendo così fatto, non ho mai, come altra volta ti dissi, firmato manifesti, petizioni, e per mia fortuna neppure suppliche a sovrani, principi, dittatori o simili, ma solo istanze quando servivo, in anni ormai lontani, nel Ministero della Giustizia.

Istanze di licenza, di aspettativa, di trasferimento e infine di congedo precoce, per entrare, finalmente, in stato di operatività creativa”.

(da Una lettera a un amico critico letterario, 1978)
A Luino

“Si giocava d’azzardo in quegli anni, come si era sempre giocato, con accanimento e passione; perché non c’era, né c’era mai stato a Luino altro modo per poter sfogare senza pericolo l’avidità di danaro, il dispetto verso gli altri e, per i giovani, l’esuberanza dell’età e la voglia di vivere.

Nei paesi la vita è sotto la cenere. Per vivere come si vorrebbe da giovani ci vuole danaro; e di danaro ne corre poco.

Allora si gioca per moltiplicarlo e si finisce per fare del gioco un fine, una mania nella quale si stempera la noia dei pomeriggi e delle sere.

Non ci si accorge che a due passi, fuori dalle finestre, c’è il lago e la campagna.

Si sta legati ai tavoli a denti stretti e neppure si pensa che lo studio, o un mestiere qualsiasi, potrebbero rompere quell’inceppo che si maledice e si adora, e aprire una strada nel mondo a chi nascendo si è trovato davanti l’acqua del lago e dietro le montagne, quasi a indicare che per uscire dal paese bisogna compiere una traversata o una salita, fare uno sforzo insomma senza sapere se ne valga la pena.

Qualcuno che si ribella o che viene scosso dalla necessità, se ne va a lavorare o a far ribalderie all’estero, o almeno fuori da quei limiti.

Gli altri continuano a giocare, a studiarsi e a guardar vivere l’un l’altro…

Passano una stagione dopo l’altra e aspettano il ritorno di quelli che sono partiti per poterli ascoltare quando raccontano in cerchio al Metropole o al Caffè Clerici”.

(da Il piatto piange, Mondadori, 1962)

Così andava la vita

“A mezzogiorno iniziammo la discesa per i colli verso Luino…

Non s’incontrava nessuno né per le strade né per i campi; e passando, onde accorciare la strada, tra filari di vigne spoglie, profittammo della solitudine per accosciarci a qualche metro l’uno dall’altro e far quello che avevamo sempre rimandato durante tante ore di gioco.

in quella posizione si vedeva Luino a filo terra e la sponda arcuata che si slanciava, leggera e vaporosa, nel lago punteggiato di barbagli.

Qualche nebbia saliva d’intorno tra i roccoli.

E il Peppino, con la sua voce chioccia da tedesco, e stentata per la posizione del corpo, diceva:

“Ma tì, ma tì, guarda come l’è pur anca bel a fa sta vita! Giugum, magnum, un quai danèe ghe l’èmm semper, lavurum pok o nagòtt, quant ghè de cudegà cudégum, pàssum l’inverno al kalt, d’està ‘ndemm a nodà.

E adess semm chì a vardà ‘l laag cun la bel’ariéta fresca in sui ciapp!”.

E dopo una pausa per prendere fiato, la sua risata secca di arpia appollaiata, senza eco nell’aperta campagna.

Così andava la vita in quei tempi e così andò ancora per anni, da una guerra all’altra, mentre altri fatti, altre gioie e tristezze venivano a complicare l’esistenza di quei giocatori”.

(da Il piatto piange, Mondadori, 1962)

 

Varese, perché?

“Ho sempre pensato che una cittadina lombarda, di buon clima, di ameni dintorni, sui cinquantamila abitanti, fra laghi e colline, potesse essere il mio rifugio ideale. Così sono vissuto a Varese, apparentemente la più banale e insignificante città del Nord Italia, ma ci ho scavato in questa città, ricavandone gli umori più sapidi, conoscendone uomini e cose, vizi e virtù”.

(da un’intervista alla Televisione della Svizzera Italiana, 1971)

 

Che fatica giocare!

Secondo il dizionario della lingua italiana il gioco è “attività piacevole cui ci si dedica per divertimento, per passatempo, per esercizio fisico o mentale o per azzardo” ed  ho sempre pensato che sia veramente strano che lo stesso vocabolo possa essere usato indifferentemente per tutte queste attività, diversissime tra loro e, in ispecie, per l’azzardo.

Il vero giocatore di biliardo, l’appassionato di cavalli frequentatore di sale, agenzie ed ippodromi, l’accanito amante della roulette, lo schiavo delle carte e dei dadi sanno, per esperienza, come in ciascuno di questi giochi tutto sia presente tranne il divertimento e come non possano certo essere considerati dei passatempo.

Per quanto riguarda poi l’aggettivo piacevole, anche se non può essere negato che un qualche piacere esista, esso può derivare soltanto dalla fatica, dall’assiduità e dall’impegno quando, raramente, coronati dal successo.

Moltitudini di scrittori si sono dedicati all’argomento e psicologi di fama hanno cercato di comprendere quali necessità, quali urgenze spingano l’uomo al gioco e, quasi sempre, alla rovina.

È anche indubbiamente necessario arrivare ad una distinzione tra gli amanti dei diversi giochi. Per quanto ci sia chi ne pratichi più di uno, in realtà i professionisti cercano di concentrarsi su di un singolo fra i tanti e precisamente su quello dal quale contano di trarre le fonti del loro sostentamento, ma, sempre, con notevole fatica fisica ed intellettuale.

Proprio a conferma di quanto finora detto mi torna alla mente un episodio che riguarda un personaggio di chiara fama, a noi vicino, che, per lunga pezza, aveva, in gioventù, frequentato con successo i più diversi tavoli, e specialmente quelli verdi, del biliardo e della roulette.

Un giorno, a Venezia, dove si era recato con la consorte, si trovò a passare, non so quanto casualmente, davanti al casinò e, come preso da un’improvvisa smania, disse alla moglie di attenderlo all’ingresso per cinque minuti, giusto il tempo di fare due puntatine al primo tavolo che avesse incontrato.

Passarono i famosi cinque minuti, il primo quarto d’ora, la mezz’ora e, alla fine, dopo più di un’ora e mezza di inutile attesa, la signora, anche leggermente preoccupata per la prolungata assenza del marito, si decise a sua volta ad accedere all’interno, dove i giochi fervevano.

Il luogo le risultava, ovviamente, del tutto sconosciuto, pieno di gente, di rumore diffuso, di fumo e di palpabile tensione.

Dopo essersi aggirata, smarrita, per le prime due sale, non sapendo a chi rivolgersi per chiedere informazioni, entrò titubante in quella di fondo, sull’ingresso della quale campeggiava la scritta privé, e, finalmente, scorse il marito che, in piedi tra due tavoli di roulette, sembrava seguire il gioco ed essere impegnato su tutti e due i fronti.

Incerta ma desiderosa, comunque, di farsi vedere, cercò invano di attirarne l’attenzione finché si decise ad andargli tanto vicino da essere necessariamente notata.

Uno sguardo bruciante sembrò come folgorarla per cui non le restò che defilarsi ed aspettare ancora qualche minuto, mantenendo nell’attesa un dignitoso silenzio.

Il tempo correva inesorabile, la mezzanotte si avvicinava e nulla sembrava potesse modificare la situazione.

Alla fine, stanca oltre ogni dire, preso, come si dice, il coraggio a due mani, pensò fosse l’ora di tornare alla carica.

Si avvicinò al consorte e, toccandolo sul braccio, gli fece notare da quanto tempo lo stesse aspettando.

Fu allora che, con voce carica d’ira appena contenuta, si sentì rispondere “Ma cosa credi? Pensi forse che mi stia divertendo?”.

Chi tira forte tira tre volte

Nei primi anni Sessanta a Varese, se si marinava la scuola si andava sempre a finire nei soliti tre o quattro posti: al bar Helen, in viale Milano, dove i biliardi erano in una sala sotterranea che ti dava l’idea di non essere raggiungibile da genitori o professori; al cinema Centrale, benemerito perché dalle dieci e trenta in poi faceva doppio spettacolo; alla Schiranna, sul lago di Varese, per una bella remata fino a Bodio, se il tempo lo permetteva.

Ma i più coraggiosi, a metà mattina, si presentavano al bar Centrale che, tenendo fede al suo nome, si trovava in piazza Podestà, vero centro cittadino.

Come detto, bisognava essere coraggiosi od incoscienti perché in quel bar i due biliardi erano allineati subito dopo il bancone e gli avventori, girandosi mentre bevevano, erano soliti seguire qualche colpo e ti poteva capitare che entrasse tuo padre, tuo zio o chi sa quale altro conoscente a bere il caffè o l’aperitivo.

Malgrado ciò, per lungo tempo, ho preferito il Centrale; sarà stata la migliore illuminazione dei biliardi, sarà stato il signor Francesco, il proprietario (che era così divertente) o forse sarà stato perché in una delle due salette interne, dove, quasi di nascosto, si giocava a carte, c’era sempre Piero Chiara che prima o dopo veniva a vedere come se la cavavano a biliardo i giovani.

Naturalmente, dopo neanche un minuto, aveva in viso un’espressione quasi addolorata.

Infatti, a quei tempi, il nostro motto era “chi tira forte tira tre volte” e, quindi, ci davamo dentro di tutta lena. Le palle correvano sul biliardo a più non posso e capitava di farle saltar fuori e di bere a garganella non controllandole.

Mi dava un certo perverso godimento esibirmi così di fronte ad un vero esperto che predicava un gioco di ben altra fattura e che sosteneva che solo con l’intelligenza ed il tocco si poteva vincere a biliardo.

Francesco, il proprietario, quando descriveva le nostre partite, diceva, in buon dialetto varesino, tiren de chi cannellaa, de chi stangaa e ci ricordava sempre che il primo strappo del tappeto verde costava centomila lire (una cifra enorme e spaventosa, ma in fondo non troppo, per quei tempi).

Chiara arrivava al Centrale verso le dieci, beveva qualcosa, leggeva velocemente la Prealpina per vedere cos’era successo il giorno prima a Varese, dava un’occhiata ai necrologi, come fanno tutti in città, e poi andava a sedersi nella prima saletta a sinistra all’interno del bar, dove, di solito, già lo aspettava il suo avversario, mescolando le carte e facendo solitari.

Il contendente, perché di dura contesa si trattava, era quasi sempre lo stesso e il gioco la scopa d’assi.

Non so quale fosse la posta di ogni partita, ma, in fondo, non era importante.

Quel che contava sembrava essere schiacciare l’avversario, sbeffeggiarlo a parole, averlo alla propria mercé.

Quando cominciava a giocare, Chiara non pensava più ad altro e le ore passavano senza che se ne accorgesse.

Verso l’una Francesco l’avvertiva che era tempo di andare a casa ma il distacco dal tavolo da gioco era sempre ritardato da “un’ultima mano” e molto doloroso.

Chi aveva perso pagava e, con aria dura, chiedeva la rivincita per il pomeriggio verso la cinque.

Il vincente offriva le consumazioni, beveva un ultimo aperitivo ed usciva salutando allegramente.

Tutti sapevano chi era Piero Chiara. Anche se non aveva ancora scritto i suoi migliori romanzi, era già famoso a Varese come novelliere e grande narratore orale e, poi, sembrava conoscere ogni cosa: la storia, la geografia, la letteratura e, incredibilmente, i fatti di tutti, il che gli serviva per architettare, quasi sempre riprendendole dal vero, un mare di storie.

La sua tecnica di narrazione orale, che, più tardi, ebbi modo di sperimentare tantissime volte, consisteva nel raccontare un aneddoto, nel verificarne l’impatto sull’uditorio, nel modificarne i particolari meno graditi, nel ripeterlo poi ad un altro gruppo di persone. Quando il risultato che intendeva raggiungere era ottenuto l’episodio poteva essere messo sulla pagina.

Lì al Centrale, però, contava che fosse ritenuto il miglior conoscitore di tutti i possibili giochi sul piano teorico, il più forte, anche se qualche tempo prima, al biliardo e fortissimo a carte da sempre.

Quel che me lo rese subito molto simpatico fu che non mi chiese mai perché non fossi a scuola (forse ricordava i suoi trascorsi scolastici) e che, pur essendo amico dei miei genitori, specie di mio padre, avesse un atteggiamento tale da far subito capire che non mi avrebbe mai “tradito”.

Così come lui faceva maratone di scopa, io le facevo di biliardo, più o meno sempre con gli stessi compagni.

Una mattina, non so più per quale motivo, avevo bigiato da solo e, non sapendo che fare, dopo aver provato qualche tiro e aver rifiutato di giocare a soldi con un mezzo professionista che era sempre là pronto a catturare gli sprovveduti per spremerli ben bene, mi addentrai nella saletta da gioco e vidi che Chiara, seduto e privo di compagnia, era impegnato in qualche solitario.

Facendo finta di nulla mi sedetti al tavolo vicino, presi un mazzo di carte e cominciai anch’io a fare dei giochetti.

Chiara mi guardava ogni tanto da sopra gli occhiali che portava avanti sul naso e non diceva una parola.

Passata una buona mezz’ora dovette convincersi che l’avversario, quella mattina, non sarebbe venuto e cominciò ad agitarsi sulla sedia.

Chiamò Francesco e gli disse di telefonare a casa di quel tale per vedere che fine avesse fatto.

Poco dopo gli fu risposto che non si riusciva ad averne alcuna notizia.

Mi sono spesso domandato, in seguito, quel che deve aver pensato in quei momenti. Quando un giocatore è deciso a giocare deve farlo ad ogni costo per non tradire le sue aspettative, per non mancare il pregustato godimento, per dar seguito ai sogni.

Così si guardò ancora intorno e vide che c’ero solo io.

Si alzò, mi venne vicino e mi disse: “Sai giocare a scopa d’assi?”.

Aspettavo quel momento con speranza e timore ma fui fermissimo nel dire “Sì!”.

“Bene”, dichiarò sedendosi, “Per cominciare ci giochiamo l’aperitivo”.

Sapevo di dover vincere per inchiodarlo alla sedia, per catturarlo e per la mia stessa gloria di giocatore.

Toccavo il cielo con un dito!

Il rosso e il nero

Ce l’avevo fatta! Chiara era seduto vicino a me in macchina e aveva finalmente accettato di farmi scuola sul campo.

Lo stavo tempestando da mesi, ma lui tergiversava.

Sembrava cercare scuse. Diceva che gli mancava l’animus, che la roulette bisogna affrontarla solo quando si è nello spirito giusto. Insomma, aveva cercato di stancarmi.

Ma, come si sa, l’entusiasmo del neofita la vince su tutto e così aveva dovuto cedere. Avevamo lungamente ragionato su dove andare: meglio Saint Vincent – circa due ore di macchina da Varese, però – o Campione – ci si arriva in un batter d’occhio ma sembra di essere in centro città perché, ad ogni ora del giorno e della notte, è pieno di varesini – o Sanremo o Venezia, già più lontane e più sicure?

Ma, poi, che importava che ci vedessero giocare considerato che si trattava di una volta soltanto?

Tanto valeva andare a Campione!

In macchina, lo stavo assordando con la ripetizione entusiastica di tutte le regole che mi aveva insegnato.

Per prima cosa bisogna conoscere come si divide in settori la roulette, cosa sono i “vicini dello zero” e quali sono, cos’è la “serie”, cosa sono gli “orfanelli” e poi cos’è la “figura” di un numero, eccetera, eccetera.

Per qualche tempo avevamo studiato, usando una piccola roulette ed un tavolo verde in miniatura che qualcuno gli aveva regalato e che teneva nel suo studio quasi in memoria di lontane avventure.

Insomma, mi sembrava di essere pronto da un punto di vista teorico con gli insegnamenti di cotanto maestro che, si diceva, aveva giocato e vinto in ogni parte del mondo.

Arrivati a Campione e posteggiata alla bell’e meglio la vettura, ci decidemmo ad entrare.

Mi ero vestito bene, di tutto punto, per l’occasione: un magnifico abito blu con panciotto ed una cravatta che mi pareva uno schianto.

L’edificio ed il suo interno sembravano corrispondere a quello che, da sempre, era il mio immaginario in merito.

Come tutti quelli della mia generazione, avevo letto Dostoevskij e seguito al cinema le avventure di James Bond.

Ebbene, lì all’ingresso, c’era l’atmosfera leggermente decadente che cercavo e la bella gente.

Avevamo studiato un piano d’azione, una strategia da seguire.

Secondo Chiara al casinò, prima di tutto, bisogna essere e rimanere calmi. Perciò, entrati, ci dirigemmo al bar per una piccola consumazione (niente alcolici, per carità!) e per ambientarci.

Poi bisogna andare alla toilette perché quando, dopo, si gioca non ci si può interrompere per nessun motivo.

Quindi, si entra decisi nella sala giochi e si dà una occhiata ai tavoli ed alla gente.

È meglio scegliere un banco poco affollato, se possibile defilato, sedersi e non stare in piedi perché si segue il gioco con più calma.

Si deve cercare una sedia vicina ad un croupier così, quando vuoi, gli porgi le fiche e gli dici ben chiaramente il numero con un sorriso, in modo da evitare, poi, ogni possibile contestazione, in caso di vincita, da parte di qualche altro giocatore, perché il croupier si ricorderà della tua puntata.

Chiara mi osservava, ma mi comportai perfettamente e non  dimenticai nessuno dei suoi suggerimenti.

Bene! Ora eravamo al posto giusto e bisognava solo sperare di essere nel momento giusto perché, con tutte le regole che ci sono, con tutti i sistemi che sono stati architettati, ci vuole sempre una buona dose di fortuna!

Avevamo deciso di giocare la ‘serie’.

Porsi i sei pezzi necessari al croupier comunicandogli la mia intenzione.

Questi avvertì il capo tavolo del gioco richiesto e cominciò a sistemare le fiche.

Malgrado tutto, per quanti sforzi facessi, la tensione era grande.

Il croupier annunciò Rien ne va plus; gli ultimi ritardatari si precipitarono verso il tavolo (perché, appresi allora, quella frase ha il potere di attirarti e di farti improvvisamente decidere alla giocata che, invece, un istante prima ti pareva poco sicura).

La pallina cominciò a girare e gli sguardi di tutti la seguirono.

C’è chi si prefigge, per scaramanzia, di non farlo, ma non si resiste. Vuoi vedere con i tuoi occhi dove la sorte decide di farla cadere.

E così, sia io che Chiara eravamo lì, pronti ad esultare. Solo internamente, però, perché, mi aveva detto, esteriormente nulla, si vinca o si perda, deve trasparire.

Puoi essere rovinato, ma il tuo aspetto, il tuo modo di fare deve restare ineccepibile. Ti alzi, saluti con un sorriso e ti allontani. Dopo, da solo, se ne sei il tipo, potrai piangere.

Puoi aver vinto una fortuna. Calma! Ti devi alzare, sorridere, andare alla cassa, farti cambiare le fiche in denaro, uscire come se nulla fosse. Dopo, da solo, puoi urlare di gioia, sempre se ne sei il tipo.

Come Dio volle (e l’attesa era sembrata lunghissima), la pallina si infilò nel trentasei e scoprii che avevo vinto.

La fortuna classica del principiante, mi dissi.

Aspetta e vediamo cosa succede adesso…

Con la mia espressione più impenetrabile, ma con voce improvvisamente falsa, dissi “La serie per tutto”, come avevamo studiato.

Il piano consisteva nello sperare che quel gioco uscisse cinque volte di fila (dopo tutto, con quei sei pezzi, si coprono dodici numeri) il che mi avrebbe consentito una buona vincita.

Incrociavo le dita e recitavo mentalmente gli scongiuri che conoscevo ed ogni cosa sembrava andar bene.

“La serie per tutto”.

Mi accorsi che lo stavo ripetendo per la quinta volta e pensai che se fosse riuscita quell’ultima puntata mi sarei alzato ed avrei offerto da bere a Chiara che, seduto vicino, evidentemente era anche un porta-fortuna.

Come nelle brutte favole, naturalmente, il quinto colpo andò a vuoto.

Il male non è aver perso i pochi soldi che inizialmente hai investito.

Il male sta nel fatto che un momento prima sogni ed un attimo dopo piangi.

Chiara mi disse di non farci caso: “Dopo tutto di tuo hai perso solo sessanta franchi; riprova”.

Naturalmente gli diedi retta e, preso dal gioco, quasi non mi accorsi che si era alzato e si era messo a girare fra i tavoli.

Sia come sia, da quel momento non azzeccai più un colpo; la serie non ne voleva più sapere di uscire e, alla fine, persi gli ultimi franchi che avevo, mi alzai, mi ricordai, malgrado tutto, di sorridere al croupier, ed andai a vedere dove si fosse cacciato il mio accompagnatore.

Mentre così facevo, me lo vidi venire incontro con un largo sorriso.

Sembrava tutto contento.

Mi rincuorò con due parole, mi offrì da bere al bar e cominciò a parlare di qualche bella ragazza che aveva adocchiato girellando.

Insomma, sembrava che il fatto che io avessi perso tutto quello che mi ero portato non lo toccasse minimamente.

Ero decisamente arrabbiato con lui!

“Comunque”, mi dissi, “mi tocca sopportarlo fino a Varese. Ma guarda un po’ che tipo che si è rivelato! Questa me la paga; domani a scopa lo uccido!”.

Andammo a prendere la macchina e, mentre ci accomodavamo all’interno, Chiara tirò fuori di tasca una mazzetta di biglietti di buon taglio e, contatili rapidamente, me ne allungò una metà.

Sbalordito, li contai a mia volta.

Duemilacinquecento franchi, un magnifico colpo.

Mi girai verso di lui, ma non dovetti chiedergli niente. Aveva già cominciato a raccontare.

“Vedi”, mi disse, “Mentre tu giocavi e ti stavo seduto accanto ho cominciato a guardarmi intorno.

C’è sempre la stessa gente in ogni casinò, e così intravidi poco lontano un conoscente o, meglio, un tale che avevo già visto.

Andava da un tavolo all’altro con in mano delle grosse fiche da almeno cinquemila franchi l’una.

Incuriosito, mi sono alzato per seguirlo.

Giocava il rosso e il nero su due diversi tavoli – un vecchio sistema – e sembrava andargli bene a giudicare dal malloppo che si portava in giro.

Come ho iniziato a stargli dietro, eccolo infastidirsi.

Non gli piaceva la mia presenza e, chissà come, dal quel momento, dove giocava rosso usciva nero e viceversa.

Così per sfizio, visto quel che stava succedendo, cominciai a puntare il contrario di quel che faceva lui.

Se metteva cinquemila franchi sul nero io ne mettevo venti sul rosso e vincevo.

Tutto ciò è durato pochissimo.

Stavo andando da una roulette all’altra, quando, improvvisamente, mi incrociò e mi si mise di faccia come ad impedirmi ogni via d’uscita.

Pensavo fosse infuriato.

Poteva credere (e, al posto suo, io l’avrei senza dubbio creduto) che quel cambio di sorte che aveva avuto fosse tutta colpa mia.

Chissà cosa aveva in mente.

Lo guardai, sulla difensiva.

“Senti”, mi disse, “Non ti voglio più vedere. Prendi questi cinquemila e sparisci”.

La fortuna va colta al volo: mai darle il tempo di ripensarci!

Ho arraffato la fiche, sono andato a cambiarla ed eccoci qua. Quella è la tua parte”.

Per la miseria! Una bella storia, un bel colpo ed io non avevo visto niente.

Che peccato non esserci stato.

“Comunque ci saranno altre volte”, mi ripromisi a voce alta.

Avevamo ormai ripreso la strada di casa da un po’ quando dissi quest’ultima frase e vidi Chiara che si agitava sul suo sedile quasi con fastidio.

“Ascolta. Non te lo dico con piacere. Anzi!”, mi fece, “Ma è meglio che te lo scordi. A costo di negare tutto quello che ho scritto sul gioco, a costo di negare tutto quello che ti ho detto e insegnato, impara una cosa: al casinò non si vince mai; è nei numeri”.

Cercai di interromperlo e gli feci notare che, dopo tutto, tornavamo con duemilacinquecento franchi a testa.

“Ricorda come li ho avuti”, mi disse.

“Solo così si può vincere al casinò!”.

 

Büsserach o Tremelan?

Nel 1944 Piero Chiara si trovava in Svizzera.

Il 18 gennaio aveva saputo che il Tribunale Speciale Provinciale Fascista di Varese aveva emesso nei suoi confronti un mandato di cattura (sarà, successivamente, condannato a quindici anni di prigione) e, così, il 19 era a Lugano dove fu incarcerato per essere entrato nella Confederazione Elvetica senza autorizzazione.

Non essendo in possesso di alcun mezzo di sostentamento, visse, per qualche tempo, quella che era la vita comune a tutti gli internati, passando in vari campi, dopo essere stato in quello di raccolta e smistamento.

E così, fu prima a Büsserach, nel Cantone di Solothurn.

Poi, a Tramelan nel Giura Bernese e, da ultimo, nel campo disciplinare di Crête-Longue, situato tra Sierre e Sion.

Al termine di questa trafila, fu rimesso in libertà e riuscì a mantenersi da solo facendo il bibliotecario, in due o tre posti, e, poi, l’insegnante di italiano a Zug.

Ricavo queste notizie (che non fanno che confermare quanto Chiara mi ha raccontato a suo tempo) da quel bel volumetto intitolato Piero Chiara per immagini, pubblicato da Benincasa in occasione della seconda edizione, a Varese, del premio letterario intitolato al nome dello scrittore luinese.

E così, proprio scorrendo queste pagine, mi è tornato alla memoria un episodio della sua vita che, diceva, gli era capitato nel fatidico ’44, in uno di quei campi svizzeri di concentramento, e che mi raccontava con una strana forma di orgoglio quando capitava di parlare, per qualsiasi ragione, di quei tempi. (Per lo più accadeva, invero, quando si rammentava che il ’44 era il mio anno di nascita).

“Allora”, cominciava, con lo sguardo come perduto in lontananza, “mi è capitato qualcosa che non è accaduto a nessun altro, che io sappia.

Non ho mai sentito raccontare nulla del genere, né ho letto romanzo, novella od altro in cui si parli di cosa simile. Insomma, mi hanno pisciato in faccia!” e sorrideva, soddisfatto, certamente, non tanto dell’atto in sé, quanto dell’unicità dell’accadimento che l’aveva coinvolto.

“Beh”, lo incalzavo, “Ma come diavolo è potuto accadere?” (Anche se, per caso, si era già ascoltata una qualche sua storia, conveniva sempre risentirla per verificare le varianti che apportava ogni volta al fine di arrivare nella sua mente alla stesura definitiva – quella più apprezzata dagli ascoltatori – che, quindi, poteva essere messa sulla pagina).

“Mi trovavo in un campo svizzero nella mia qualità di internato e, durante il giorno, si faceva opera di disboscamento per cui, alla sera, tutti eravamo molto stanchi e non vedevamo l’ora di andare a dormire.

Durante la notte, nelle baracche, non era in funzione la luce elettrica e non esisteva alcun altro impianto di illuminazione e per conseguenza, se ci si doveva alzare per una qualche necessità o ragione, lo si faceva muovendosi a tentoni.

Poco male, dopo tutto.

In breve tempo, avevamo imparato a conoscere ogni più piccolo recesso della camerata.

Per esempio, i gabinetti si trovavano appena fuori lo stanzone principale.

Due file di turche, a destra e a sinistra del corridoio, chiuse, per modo di dire, da una porta uguale a quelle che si vedono all’ingresso dei saloons nei film western, ma con una sola anta ed un catenaccio scorrevole all’interno.

Una notte in cui ero particolarmente stanco mi alzai dal letto per soddisfare una impellente necessità fisiologica (poteva capitare, con quel che si mangiava, di avere problemi del genere) e, quasi sonnambulo, mi trascinai verso le toilette, infilandomi nel primo bugigattolo disponibile e sistemandomi alla meglio sulla turca.

Probabilmente, a causa della stanchezza o della fretta o della concomitanza di tutte e due, non mi venne in mente di chiudere la porta col catenaccio e, così, all’improvviso, mi ritrovai uno dei miei colleghi di avventura che, evidentemente altrettanto stanco ed assonnato, nel buio, aveva aperto la porta dietro la quale mi trovavo ed aveva cominciato a vuotarsi la vescica.

Quando ti trovi sulla turca, in sospensione, non hai difese. Puoi solo gridare ed è quello che feci una volta totalmente risvegliato dallo zampillo di quel liquido caldo che mi bagnava il viso.

L’altro, spaventato, si ritrasse e così ebbe termine quella inusuale doccia.

Ne abbiamo riso per mesi, a ripensarci!” e ne sorrideva ancora…

Avvenimento raro se non unico ed, in fondo, come aveva sempre pensato, beneaugurante.

 

Nemo propheta in patria

Per quanto, dopo aver abbandonato il suo incarico di aiuto cancelliere presso il Tribunale di Varese (“Lasciata la Giustizia”, amava dire, facendo intendere chissà quali altre e più significative incombenze) a seguito del clamoroso successo de Il piatto piange, Piero Chiara – oramai “scrittore professionista” – fosse noto ed apprezzato in tutta Italia, per la gran parte dei suoi concittadini varesini, restava, senza molti complimenti, uno dei più fieri perdigiorno e veniva immancabilmente annoverato tra quanti passavano il loro tempo soprattutto correndo dietro alle sottane e giocando a biliardo o a carte nei caffè.

E d’altronde, cosa potevano sapere della sua fama letteraria il barista che gli preparava l’aperitivo o il fornaio, il garzone di macelleria e il piazzista che, ogni giorno, lo affrontavano a scopa piuttosto che a goriziana?

A quei tempi beati e, a dire il vero, anche prima, per anni, uno dei suoi più decisi e combattivi avversari fu un certo Rosmino.

Era costui un forte giocatore, impavido all’aspetto, pronto alla lotta ma irascibilissimo ed altamente superstizioso.

Di queste ultime sue pecche, per inciso, Piero non mancava di approfittare quando le loro sfide a carte si svolgevano nelle sale superiori del caffè Zamberletti, il più importante di Varese.

Si deve sapere che, allora, i camerieri di quel ritrovo servivano ai tavoli indossando un bel frac nero, colore, come noto, assai poco gradito a chi teme la sfortuna e crede nella jella.

Così, allorché una partita di particolare rilievo per la posta in palio stava per volgere al termine con esito per lui prevedibilmente negativo, a un cenno convenuto di Chiara, uno dei camerieri – completamente nero e silenziosissimo – si avvicinava al tavolo dove il gioco ferveva e si poneva alle spalle del Rosmino.

Questi, “sentendo” (più che vedendo) l’incombente figura, considerando l’intruso “un enorme uccello del malaugurio”, iniziava immediatamente ad innervosirsi, ad insultarlo insieme con il connivente avversario – che, da parte sua, seraficamente negava ogni responsabilità – a perdere il controllo di sé, a dimenticare le carte “uscite”, per arrivare, alla fine, sconfitto, a buttare tutto per aria.

Ora, questo Rosmino – anche per via della sua notevole bella presenza, della particolare complessione fisica (era un vero omone) e di una buona disponibilità economica (il che, in certi ambienti, non guasta mai) – era, in città, assai conosciuto e forse più dello stesso Piero.

Così – nemo propheta in patria – quando, un giorno, un inviato di un importante quotidiano nazionale arrivò a Varese per intervistare lo scrittore, indirizzato da qualcuno al caffè dove, in quel momento, quegli si trovava e chiesto, appena entrato, al barista, dove Chiara fosse, si sentì rispondere: “Eccolo là, è quello che gioca col Rosmino!”.

 

I soldi del sacrestano

Anni orsono, il parroco di Cibrione, frazione di Nibionno, in provincia di Lecco, ebbe la buona idea di creare una tessera (una specie di carta fedeltà, come ai supermercati) da riempire con i bollini per documentare la partecipazione dei fedeli più piccoli agli incontri di preghiera previsti per la Quaresima.

Alla fine, chi aveva completato la raccolta vinceva un santino!

È assai probabile che al pastore, all’epoca, l’idea sia venuta rileggendo o ricordando Le avventure di Tom Sawyer, di Mark Twain, laddove il vispo ragazzetto protagonista del celeberrimo romanzo, smanioso di dimostrare la propria conoscenza dei versetti della Bibbia senza studiarli, con trucchi vari, riesce a farsi dare dai compagni i bigliettini colorati che il pastore consegnava ai più meritevoli fino a vincere un premio salvo poi essere pubblicamente smascherato al momento della premiazione quando gli viene chiesto di dare prova della sua dottrina.

Così come Twain, andando con la mente ai propri ricordi di fanciullo, ha potuto lasciarci le vivide pagine or ora rammentate, chissà che, in futuro, altrettanto sia capace di fare qualche ragazzino di Cibrione!

Del resto, la chiesa e l’oratorio hanno ispirato molti ex chierichetti e tanti altri loro piccoli frequentatori a piacevoli memorie come dimostra quanto scrisse in proposito, con bella penna, Piero Chiara:

“I primi soldi che mi sono stati dati e dei quali ho potuto disporre, all’età di otto, nove anni, sono state le monete da dieci centesimi di bronzo che mia madre mi dava la domenica mattina perché andando a messa avessi qualcosa da mettere nel sacchetto del sacrestano quando passava a raccogliere l’obolo.

Mia madre mi dava una moneta ogni domenica. Dopo un paio di mesi, non avendo mai messo la moneta nel sacchetto, mi ero fatto un capitale di ottanta centesimi col quale tentai la sorte giocando a murella e a sette e mezzo con i miei coetanei.

La sorte mi fu favorevole, tanto che mi riuscì di mettere insieme un gruzzolo di parecchie lire.

Debbo dire, a mio onore, che una domenica mattina versai in una sola volta nel sacchetto del sacrestano non solo gli ottanta centesimi che mi ero trattenuto, ma altri quaranta centesimi.

Sentivo di aver giocato in società col parroco e mi pareva giusto farlo partecipare al guadagno”.

 

Maestro di storie simili a questa 

Verso la fine del mese di maggio del 1964, passeggiando sotto i portici di corso Matteotti nel pieno centro di Varese, occorse a B. di incontrare Piero Chiara, suo antico sodale fin dai tempi giovanili nella natia Luino.

Lo scrittore avanzava rapido, con gli occhi bassi, leggendo avidamente e con palese soddisfazione la pagina iniziale di un libro che teneva tra le due mani quasi fosse una reliquia.

Deciso ad attirarne l’attenzione, B. gli si parò d’innanzi e, dopo un naturale moto di sorpresa  dell’amico, ne riebbe in cambio un bel sorriso e l’accenno di un abbraccio.

“È il mio nuovo romanzo, La spartizione – gli disse Chiara cogliendone la curiosità – È appena uscito in libreria. Te lo regalo. Dammi la penna che ti faccio la dedica”.

In piedi com’era, scribacchiò velocemente qualcosa e consegnò il volume a B. che se lo mise in tasca riservandosi di leggere più avanti le parole dell’amico.

Come quasi tutti in città, conosceva già la trama licenziosa e, per l’epoca, altamente peccaminosa del romanzo.

Arrivato che fu a casa, mentre si toglieva il soprabito, passò il libro alla moglie che lo aveva accolto sull’uscio.
La donna l’aprì e, gettata un’occhiata alla dedica, subito scura in volto, gli disse: “Ma allora anche tu sei uno sporcaccione?”

Sorpresissimo, B. lesse a sua volta le poche righe.

Dicevano: “Al caro B., maestro di storie simili a questa!”

 

Col materasso sulle spalle

Altre volte mi è occorso di segnalare le scritte che a più riprese e seguendo spesso e soprattutto gli accadimenti politici o sportivi appaiono sui muri delle nostre città.

Nella maggior parte dei casi, sono senz’altro dettate dall’amore (o dall’odio) per questa o quell’altra squadra calcistica, per la Ferrari, per un particolare atleta o, viceversa, dal disamore nei confronti di un determinato partito o uomo di governo.

Di quando in quando, peraltro, esprimono qualcosa di diverso: una certa, sana trivialità popolare che mi pare, comunque, degna d’essere segnalata.

Mi riferisco (e mi auguro così facendo di non turbare troppo i benpensanti) alle frasi di origine e ispirazione sessuale le quali, quasi sempre, altro non sono che riproposizioni o, al massimo, rielaborazioni di quanto già scritto sui muri fin dalla notte dei tempi.

E così, da qualche giorno, nei pressi del mio studio una mano ignota ha vergato sul muro le seguenti parole: Chi ama la figa tiri una riga:…

L’autore si è preoccupato giustamente di utilizzare la parte superiore di una colonna del portico lasciando in tal modo e ottimisticamente molto spazio alle future adesioni.

E proprio qui casca l’asino perché di righe, finora, se ne sono aggiunte ben poche!

Mi rendo certamente conto della difficoltà di tracciare un segno là sotto cercando di evitare di essere notati ma comunque il fatto che siano tanto scarsi i consensi  mi pare debba essere rilevato quale segno dei tempi.

Ben altrimenti andavano le cose trenta o più anni fa allorché, alla vista di una consimile frase alla quale infinite manifestazioni di assenso si erano aggregate, Piero Chiara che mi era compagno di strada, dopo aver riflettuto a voce alta sulle differenze tra uomini e donne riguardo al sesso, ispirato, disse: “Peccato non essere una femmina: lo fossi, andrei in giro costantemente con un materasso sulle spalle per essere sempre e comunque pronto!”

 

“Diventare” Piero Chiara

Allorché gli capitò, in specie dopo il notevolissimo successo del film di Alberto Lattuada Venga a prendere il caffè da noi ricavato dal suo La spartizione, di essere “accusato” di “scrivere non più romanzi ma, direttamente, sceneggiature pensando da subito alle possibili, successive, succulente trasposizioni per il grande schermo delle storie che mano mano andava raccontando”, Chiara reagì – come quasi sempre gli occorreva a fronte di rilievi che considerava immotivati o risibili – dando ragione a quanti gli muovevano tali attacchi.

Anni prima, d’altronde, mi era capitato di essere presente nel momento in cui, replicando per iscritto ad una lettera di una signora che gli aveva fatto notare come le trame dei suoi romanzi non fossero frutto di invenzione ma prendessero semplicemente spunto da fatti e accadimenti “veri”, aveva dettato alla segretaria Gigliola una replica il cui incipit consisteva nell’affermazione “scrivo solo e soltanto per motivi economici; lungi da me ogni pretesa letteraria”.

Niente di più falso, ovviamente, vista, di contro, la tenacia con la quale in molteplici occasioni e, in particolare, in una celebre intervista concessa alla Televisione della Svizzera Italiana aveva voluto ricordare le belle parole che a proposito della sua opera aveva vergato l’insigne critico Carlo Bo quando aveva riconosciuto in lui “l’arte e le capacità del vero narratore”.

Convinto da sempre (come ebbe a ripetere in uno dei suoi Sale & Tabacchi sul Corriere del Ticino nel 1976) di scontare una sua, chissà quale e perché, “bassa origine” che lo aveva trattenuto dall’emergere alla fama letteraria prima, Piero, metabolizzati i successi de Il piatto piange e degli altri suoi romanzi d’esordio, quasi infantilmente, godeva del fatto di “essere diventato Chiara”.

E cosa ciò volesse dire lo si scopriva vedendolo frequentare con la cara Mimma il bel mondo al quale, negli anni giovanili, non aveva neppure osato guardare; lo si vedeva allorquando, finalmente, “come un signore”, gli fu possibile farsi fare le scarpe su misura; infine nel momento in cui, magnificamente abbigliato, fu in grado di sfoggiare mille e mille Borsalino e dozzine di diversi ed elegantissimi bastoni.

Bello era quindi essere un “nuovo Chiara”, anche se, ogni mese, invariabilmente, il vecchio Piero tornava a Luino e risaliva la “sua” via Felice Cavallotti alla vana ricerca di un monello che lì, infiniti anni prima, aveva liberamente e forse a piedi nudi giocato.

 

Il “Chiara” che non c’è più

Per quanto Luino e, in genere, la sponda magra – per distinguerla da quella piemontese, da sempre più ricca – del lago Maggiore abbiano, nella storia, dato i natali ad un notevole numero di personaggi comunque degni di memoria (si pensi, almeno a Giovanni Carnovali detto il Piccio, nativo di Montegrino, pittore massimo del romanticismo lombardo ottocentesco, o a Vincenzo Peruggia, che partì dalla Val Dumentina ed approdò a Parigi dove involò niente meno che la Gioconda), è con Piero Chiara che, nel 1962, città e contado raggiunsero una non immeritata fama, assurgendo la prima, con i suoi molti vizi e le non poche virtù, a vera protagonista de Il piatto piange.

I tanti lettori del Nostro impararono, da quelle belle pagine e dai molti romanzi e racconti che seguirono, a conoscere, oltre ai godibilissimi personaggi che l’abitavano, luoghi e percorsi letterariamente da allora imperituri.

Letterariamente, ho scritto, ed è, purtroppo, così, perché, oggi, un Piero Chiara improvvisamente risorto, di quella sua Luino ritroverebbe ben poco, visto che, con una tenacia certamente degna di nota, man mano, i suoi concittadini vanno demolendo o trasfigurando le case e i palazzi nei quali il Camola ed i suoi amici vivevano bellamente la vita.

Il Caffè Clerici, per esempio – laddove si riunivano i giocatori di biliardo – è chiuso, transennato, in attesa di restauro e destinato a chissà quali altri e diversi destini, nel mentre le vecchie insegne giacciono per terra, in un angolo, abbandonate.

L’antico ed esemplare Casotto di Mamma Rosa, per decenni lasciato al disfacimento e pronto alla demolizione, non potrà più raccontare i pomeriggi e le sere trascorse dagli sfaccendati del luogo in chiacchiere e a far flanella sotto lo sguardo benevolo della maitresse. E vanno, intanto, man  mano scomparendo, vittime dell’inesorabile trascorrere del tempo, non solo i fruitori italiani di allora, ma anche i tanti svizzeri che, non esistendo da loro una consimile istituzione, favoleggiavano del Casott da Luin e, quasi religiosamente, lo frequentavano a costo di pagare tariffa doppia.

E, d’altra parte, anche Varese – la città nella quale Chiara trascorse la sua maturità, impiegato, come diceva, “nella Giustizia”, e in verità dedito al gioco e alle belle donne – non è, da tempo, più quella.

Sono scomparsi il vecchio Caffè Centrale e il Bar Pini con i loro biliardi e le discrete salette nelle quali le carte la facevano da padrone fin verso l’alba.

Nella centralissima piazza Monte Grappa non c’è più il Caffè Socrate; più in là, è sparito anche il Bar Lombardi e anonime boutique, in loro vece, hanno conquistato il campo.

Resta, per fortuna, è vero, il Caffè Zamberletti del centralissimo corso Matteotti e resta la sua grande sala superiore, al primo piano, dove “il Chiara”, per lunghissime ore ogni giorno e per decenni, affrontava il mitico Rosmino.

Era costui un forte giocatore di scopa d’assi, grande e grosso all’aspetto, facilissimo all’ira e pronto a buttare per aria il tavolo verde se qualcosa,  a parer suo, andava storto.

Chiara, conoscendone l’invincibile superstizione, quando lo scontro volgeva per lui al peggio, con un cenno, invitava uno dei camerieri in frac nero a sistemarsi alle spalle del malcapitato, il quale, subito sconvolto da quello che riteneva “un uccellaccio del malaugurio”, perdeva le staffe e così la partita.

Memorabile e degna di essere esposta in una lapide da sistemare proprio allo Zamberletti la frase che Rosmino sibilò tra i denti a Piero dopo una pressoché infinita serie di sconfitte: “Vorrei avere la tubercolosi per poterti sputare in bocca!”

 

Come un cavallo

Verso la fine del mese di luglio del 1986, bighellonando come spesso mi accade per Varese, girato l’angolo che da via Volta introduce a piazza Monte Grappa, mi ritrovai improvvisamente di fronte Piero Chiara.

Avanzava deciso, percorrendo quei pochi portici con passo spedito e guardandosi intorno con una certa allegra curiosità, come chi, uscito di casa dopo tanto tempo, vada gioiosamente riscoprendo la propria città.

Nulla, all’aspetto, se non forse un’eccessiva magrezza che lo faceva apparire ancora più piccolo, lasciava intendere la malattia.

Gli andai incontro felice, sorridendo, e subito mi accolse stringendomi con calore la mano.

“Vedi?”, mi fece allegramente, “Mi hanno rimesso a nuovo. Il male è sconfitto. Sto bene. Tra poco vado al mare e poi a Cortina. Tutto come prima.”

Da anni, dopo il doloroso distacco, non lo vedevo se non di sfuggita e da lontano e le notizie sulla sua salute che, negli ultimi mesi, comuni amici mi avevano trasmesso non erano certamente incoraggianti.

Così, guardandomi negli occhi, si rese conto che era necessario rassicurarmi ancora di più.

“Sai”, mi disse allora, “è proprio vero che sto bene: piscio come un cavallo!”

Sollevato da quelle parole, scoppiai a ridere come certamente si aspettava e, di lì a poco, mi accomiatai non senza essermi fatto promettere un successivo e più lungo vis à vis.

“Come un cavallo”, pensavo tornando a casa e ricordando l’origine del suo male, “Vuol dire proprio che sta bene, visto che tutto era cominciato da lì”.

Sapevo quanto Chiara apprezzasse e conoscesse i cavalli e rammentavo le volte che mi aveva parlato con ammirazione della potenza della loro pisciata, capace di scavare un solco profondo nella superficie delle strade sterrate della sua giovinezza.

Non immaginavo allora che quello sarebbe stato il nostro ultimo incontro e che quella frase così “alla Chiara” sarebbe stata l’ultima che avrei udito dalle sue labbra.

Piero morì pochi mesi dopo, il 31 dicembre di quell’ormai lontano anno, risucchiato e distrutto dalla malattia che credeva di aver vinto, ma capace, negli ultimi istanti, di lasciare un emozionato ed emozionante testamento in poche parole.

Scrisse, infatti, ad un ignoto amico (e, quante volte, mi sono augurato che vergando quelle righe stesse pensando a me): “Non rattristarti e non piangere. Lo so, sarebbe bello vivere ancora qualche anno, tornare a scrivere, pensare a qualcosa di diverso da questo brutto pensiero, uscire a spasso, parlare senza fatica.

Ma non soffrire.

Me ne vado, non dico contento, ma appagato sì.

Dalla vita ho avuto tanto: belle donne, buoni amici, amori intensi, soldi, gioie e dolori nella giusta misura.

Poi, senza che avessi fatto nulla per meritarmelo, a cinquant’anni è venuto questo dono dello scrivere, e questo successo, quale che sia.

Di più sarebbe stupido pretendere”.

MdPR

* Dice di sé:
Mauro della Porta Raffo. Semplicemente bellissimo, aspiro, e mi manca poco, a poter ripetere quel che a suo tempo affermava il maestro ebanista di Karl Popper: “Mi chieda pure quello che vuole, io so tutto!”

COLLOQUI. Rachele Zinzocchi - Faenza, la tivu non deve educare

Alla vigilia de I Viceré, il regista attacca la Rai e, in genere, i mass media: non hanno il coraggio di cambiare e spalancare le porte, soffocano le giuste ambizioni e i diritti dei giovani
Rachele Zinzocchi *

“La televisione non deve educare. Quali sarebbero poi gli educatori?… Non possiamo permetterci di delegare ad altri – come alla tv – la questione dell’educazione. Il problema semmai è che la televisione, a modo suo, vuol già educare. È la sola vera agenzia pedagogica del Paese. E svolge assai male questo compito, che non le spetta né deve spettarle. Ma il centro del potere, oggi, sta nei mass media. Lì “il potere” ha messo radici: e dove c’è potere, non c’è libertà. La tv pubblica è il simbolo dell’illiberalità assoluta. In mano ai politici, la Rai è l’unica azienda al mondo in cui il consiglio d’amministrazione è diviso tra maggioranza e opposizione: la tv finisce per diventare strumento a uso e consumo di qualche gang del potere, che non rischia, non fa passare il nuovo: cestinando tutto il potenziale talento di tanti giovani, in grado di creare novità. Viviamo in un mondo restrittivo, coercitivo: per portare avanti le proprie idee, si è costretti a una lotta mostruosa”.

Parole forti quelle di Roberto Faenza. Che peraltro esprime con voce dolce, quasi soave, mentre conversiamo nel suo studio al primo piano di una palazzina a pochi passi dal Colosseo, a Roma, in una strada da cartolina. La sua “soavità”, però, è forse quella di chi, ormai, “c’è passato tante volte”, dopo una carriera quasi quarantennale, e ha idee, molto chiare, su come va il mondo massmediatico.

In che modo siamo arrivati a toccare simili temi, così scottanti e così attuali oggi? Attraverso qualcosa di più, forse, di “una semplice intervista” – peraltro importante alle soglie dell’uscita, a ottobre, del suo nuovo, attesissimo film, I Viceré, con Alessandro Preziosi e Cristiana Capotondi, ispirato al romanzo di Federico De Roberto. Ho provato a immergermi nel mondo e nella vita di Faenza: costellata di scelte libertarie, senza timore delle conseguenze e, dunque, pagate spesso a caro prezzo. Una vita di indipendenza e inesauribile voglia di novità, che si respira lì, in quelle stanze, tra le affascinanti locandine dei suoi successi (Sostiene PereiraI giorni dell’abbandonoPrendimi l’anima), e l’andirivieni di tanti giovani, che gli chiedevano consigli.

 Faenza, torinese di nascita, ma cittadino del mondo, non è “solo” regista, sceneggiatore cinematografico. È “quel” regista, che ad esempio con I Viceré, ha avuto una tra le idee più innovative e libertarie della storia del cinema: lasciare al pubblico, ai giovani, la possibilità di realizzare il trailer del film. È la prima volta che un regista mette sul sito del proprio film in lavorazione cinque sequenze di tre scene fondamentali, esortando chiunque a usare quei materiali per realizzare un potenziale trailer, da mandargli in visione. Tra queste proposte sarà infatti scelto il trailer, che farà poi da lancio alla pellicola. E a selezionarlo, sarà – ancora – un gruppo di giovani, studenti del “master” che Faenza coordina a Roma. Pare che, di possibili trailer, ne siano arrivati almeno un migliaio: segno che, quando si concede libertà, la risposta c’è, immediata. E nessuno perde tempo, e anzi molti colgono quell’“attimo fuggente” grazie a cui una propria idea può divenire realtà. Perciò, che lo si ami o lo si odi, lo si ritenga un regista scomodo o persino incoerente, Faenza è a suo modo anche un pensatore: scrittore, saggista, e soprattutto – come accennato – docente. Laurea in scienze politiche, oggi insegna per i giovani de La Sapienza, a Roma, Facoltà di scienze della comunicazione, dopo una lunga esperienza all’università di Pisa.

“Parliamo di libertà…”, gli propongo io. Perché ogni tappa della sua vita sembra contrassegnata da un’indipendenza di fondo: idee precise e voglia di esprimerle, sempre. Aveva 25 anni quando debuttò alla regia con Escalation, film dal tema già scottante, sulle diverse facce del potere descritte attraverso il rapporto tra un padre borghese e il figlio hippy. Nel ’74 poi, a soli 31 anni, ha creato la prima radio libera, aprendo il fronte delle radio indipendenti. Per non parlare di Forza Italia!, del 1978: fu definito una “feroce satira sul potere e su 30 anni di storia politica italiana”, e venne ritirato dalle sale il giorno del sequestro Moro, rimanendo bandito per anni. Oggi, poi, sul sito de I Viceré si legge l’eloquente frase: “Un ritratto feroce di ciò che siamo noi italiani”. “Non ha mai perso – gli dico – la voglia di “graffiare”… È così?”.

“Sì… Anche se, devo dire» risponde «che l’idea di libertà che avevo all’inizio, quando ho cominciato, non è la stessa con cui mi ritrovo adesso”.

“Che intende?”.

“Occorre riflettere sul concetto di “libertà”. Quando si è giovani, magari si fa il liceo… e ci si trova a scegliere che cosa fare da grande, si ha una certa aspettativa sul mondo che ci attenderà. Quando ero giovane io, e io facevo io il liceo, non mi aspettavo proprio che questo mondo fosse così… Come l’ho scoperto dopo». Cioè? «Un mondo così poco libero, così restrittivo. Solo col tempo mi sono reso conto che – specie nell’ambito della comunicazione, dei mass media – il margine di libertà è veramente ristretto. Oggi chiunque voglia fare qualcosa nel cinema, nella televisione, nei media, nella cultura, si scontra subito contro uno scoglio, il primo e il più grande: quello della libertà. Che manca. La libertà è davvero esigua, limitatissima e ristrettissima. Le dirò di più: probabilmente, se tanti anni fa avessi saputo qual era il futuro cui andavo incontro, avrei fatto un altro mestiere. Perciò è bene che quanti si apprestano a diventare autori… sappiano subito che viviamo in un mondo molto coercitivo, molto difficile”.

“Affermazioni impegnative…”, penso. E da che dipende questa situazione? Faenza spiega: “Purtroppo, il mondo dei mass media è diventato oggi il vero centro del potere. Il potere è lì: e là dove c’è potere non c’è libertà. O comunque c’è una libertà molto limitata e si è costretti a condurre una lotta che ha del mostruoso, mi creda, per portare avanti le proprie idee”.

“Non le sembra di essere troppo radicale?”.

“È una realtà che tocco con mano ogni giorno stando a contatto coi giovani, nel mio lavoro d’insegnante”, spiega. “E ogni giorno vedo l’immenso divario esistente tra le aspirazioni, le capacità d’espressione che ci sono, e i margini di posizionamento: purtroppo pressoché nulli, a fronte delle migliaia e migliaia di ragazzi che sarebbero davvero di talento, ma che dinanzi a sé trovano spesso solo un imbuto che li respinge”.

“Andiamo con ordine…”, dico, mentre cerco di chiarire la sua visione delle cose. “Lei diceva che all’inizio aveva un’altra idea di libertà. Che significa? Che le cose un tempo non stavano così?”.

“Beh, di certo quando facevo il liceo io la situazione era diversa”, risponde. “Tanti anni fa il mondo deimass media non era così essenziale, così determinante. Esistevano margini molto più ampi. Il potere non si era ancora annidato nei media, non si era ancora abbarbicato così pervicacemente al mondo della comunicazione di massa”.

Lo interrompo: “Sì, però alcuni problemi in termini di “libertà di espressione” Lei li ebbe ben presto… Il filmH2S, definito un “apologo sessantottesco”, uscì, sì, nel 1969, ma fu sequestrato due giorni dopo. E forse non è un caso che, poi, addirittura “espatriò”, andando negli Stati Uniti per insegnare al Federal City College di Washington…”.

“Sicuramente. Certe questioni valgono oggi come allora», risponde «con la sola differenza che, nel frattempo, la situazione è ancora peggiorata. Il punto consiste… nei “capitali”. Chiunque faccia un lavoro che ha a che vedere con la comunicazione non può non tener conto dei capitali. Neanche il poeta può più scrivere in libertà, come accadeva in altre epoche: anch’egli deve avere almeno una casa editrice che lo pubblica – a meno che non si tratti di uno che, proprio, non ha alcun interesse ad essere conosciuto». La questione-capitale, dunque, c’è sempre stata. «Beh, lei ha citato gli Stati Uniti: pensi solo che io, dopo le note traversie di Forza Italia!, per molti anni non ho più potuto lavorare in Italia. Non è che non volessi: non potevo proprio. Semplicemente, non mi davano i soldi per lavorare, per realizzare i film che volevo fare. D’altronde, Forza Italia! metteva alla berlina chi lavorava in televisione e, siccome dagli Anni Settanta in poi il cinema ha iniziato ad essere finanziato dalla tv, io non ho più avuto la possibilità di trovare in Italia capitali per produrre i miei progetti. E sono stato costretto ad andare all’estero. Come dicevo, però, nel tempo il “capitale” si è fatto sempre più ferocemente restrittivo: si è ferocemente imbarbarito”.

Una libertà strozzata, insomma… E questo, ad avviso di Faenza, a causa dei mass media intesi come luogo del potere, a cui il potere si sarebbe unito a filo doppio così che i media “dominano”, esercitano un potere sulle coscienze. Mi sovviene che il filosofo tedesco Martin Heidegger, già negli anni Venti del secolo scorso, aveva previsto qualcosa di simile. L’avvento dell’epoca della scienza e della tecnica, della tecnologia, che avrebbe determinato le regole della concettualità comune: andando con ciò a chiudere, però, il vero senso dell’esistenza umana, che è invece apertura a un’alterità costantemente da scoprire. Heidegger però sosteneva le proprie posizioni a partire da presupposti precisi e determinati riguardo la cosiddetta tecnologia, e anche quella che oggi chiameremmo la comunicazione mass-mediatica come forma del pensiero. D’altronde, anche Faenza non mi pare ritenga i mass media un problema in sé, bensì in quanto divenuti tutt’uno col potere. “Ma – mi chiedo allora, e chiedo a lui – qual è questo potere? Ha parlato di “capitali”, di “capitale”… Si riferisce anche a intrecci, nodi di carattere politico?”

“Guardi, qui non si tratta tanto di problemi politici”, spiega. “La questione è più profonda. E faccio subito un esempio”. Sentiamo… “Prendiamo la televisione, che a mio avviso è il cancro del nostro Paese, il tumore della nostra società”.

“La televisione?…”, gli chiedo, alquanto stupita.

“Non parlo naturalmente della televisione in sé, spiega “ma di questa televisione. E per essere esatti, mi riferisco alla tv pubblica”. “Si spieghi…”. E Faenza: “Vede, la tv commerciale, privata, è appunto privata. Nessuno può contestarle niente. Pensiamo invece alla tv di Stato, al canone che essa impone di pagare e alla sua programmazione. La gente, per la tv pubblica, deve pagare il canone: trovo assolutamente privo di senso che si vada a pagare, per vedere poi in onda sulla tv pubblica le medesime cose che si vedono sulla tv privata… Ora, la tv pubblica”, continua “è proprio l’esempio di ciò che sostenevo: il concentrato della illibertà assoluta”.

“Qui non ci sarebbe di mezzo solo il capitale. Qui i mass media sono in mano ai politici, la televisione è fatta dalla politica. La Rai è un’azienda in cui il consiglio d’amministrazione è diviso tra maggioranza e opposizione. E non esiste altra azienda al mondo così: nessuna altra azienda che funzioni in questo modo. Un’azienda deve essere retta da un Consiglio d’amministrazione che vuole che l’azienda stessa sia produttiva…”.

E invece la nostra tv pubblica, l’azienda Rai, che fa? “Quello che vediamo tutti i giorni”, continua. “Avendo una televisione fortemente condizionata dal potere politico, non abbiamo neppure il coraggio del capitale, il coraggio di rischiare. Non si fa che proporre e riproporre all’infinito quello che, magari, è andato bene quando è andato, e dunque… perché cambiare le cose? Questo è il ragionamento. Ad esempio si dice: “Vanno bene i reality? Ok, allora per dieci anni facciamo solo reality”! Oppure: “Vanno bene le vallette? Ok, allora per dieci anni solo vallette!”. Questo accade ogni giorno. I dirigenti della televisione hanno un’incapacità culturale di vedere oltre ciò che hanno appena fatto. Non sono in grado di intuire nulla: nulla che non sia la riproduzione di se stesso. Montanelli, con grande acume, ripeteva spesso che i dirigenti televisivi avrebbero dovuto essere arrestati non per quello che fanno, ma per quello che non fanno. Naturalmente, in questo contesto, niente che abbia un minimo potenziale di innovatività, niente che sia anche solo un minimo inusuale, che sia nuovo e non, sempre ancora, la stessa solfa. Nulla di nuovo – se provi a proporlo in tv – ha la possibilità di passare. Per questo, purtroppo, un serbatoio infinito di espressività che c’è nel nostro Paese finisce inevitabilmente per non trovare sbocco. I dirigenti non hanno la capacità di utilizzare uno strumento come la televisione, che è invece straordinario. Questa non è tv. È, a mio avviso, un’idiozia a uso e consumo di alcune gang del potere. Ma un’azienda non può reggere così”.

Lo sfogo non si placa. E Faenza continua: “La stessa situazione, comunque, si ritrova anche nel cinema. Oggi per esempio i film giovanilisti vanno bene… Allora dovremmo fare solo film giovanilisti! Tutto ciò che non è cinema giovanilista, per quelli che detengono le leve del potere, non va bene. Ma sia chiaro: non perché hanno prova del fatto che, davvero, altre soluzioni o idee non possano avere successo: bensì solo perché è più comodo per loro pensarla così… È un mondo profondamente illiberale quello in cui viviamo”.

Rifletto su queste affermazioni, e domando: “Si tratta di una situazione tutta e solo italiana, secondo lei?”.

“No, però certo noi qui paghiamo parecchio il peso di quanto dicevo prima” risponde. “Una televisione fatta dalla politica, non esiste altra azienda al mondo come la Rai. Essendo così condizionati dal potere politico, la voglia e la forza del rischio da noi mancano completamente. Siamo molto arretrati, indietro anni luce: la voglia di rischiare, ad esempio, negli Stati Uniti c’è, eccome. Hanno minor timore della sfida del nuovo. La tv americana è tra le più avanzate: loro lavorano molto sulla realtà. Noi invece lavoriamo solo sul passato: i Santi, i Papi… La nostra tv è totalmente incapace di avere un rapporto con la realtà”.

Sul momento resto perplessa: “Ritengo che la tv sia proprio – almeno un po’ – lo specchio della realtà in cui viviamo… Lei la pensa diversamente?”. E lui: “La tv dovrebbe essere proprio lo specchio della realtà: il problema è che, in questo modo, finisce per non esserlo. Una tv così costruita è totalmente inabile a vedere la realtà. Non vuole vederla: non può. E, per non vederla, si dà due opzioni:  fare una riesumazione in chiave “clericalistico-chierichiettistica” del passato – come le vite dei santi… e davvero non se ne può più! – oppure inventa reality, che a mio avviso spesso sono l’opposto della realtà vera”.

“Ma qual è”, chiedo “questa realtà di cui la tv sarebbe specchio naturale? Di cui dovrebbe essere specchio e finisce per non esserlo?”…

“La società vera, in cui viviamo tutti noi, in ogni suo aspetto, più o meno bello”, chiarisce. “La tv americana, per tornare all’esempio, è molto più addentro alla società di oggi”. La fa vedere com’è davvero? “Beh, parla molto dei problemi della società, li mette in video direttamente, parla delle donne… Per carità, ha i suoi limiti, ma di certo quella degli Stati Uniti è una tv dentro la realtà. La realtà che da noi, invece, finisce sempre con l’essere ogni volta bandita. E non a caso, mentre la nostra tv è fatta per lo più da ottuagenari, quella americana è realizzata da giovanissimi. Ci sono registi di 25 anni che fanno serie tv di grande importanza. Noi siamo incapaci di convertire l’enorme serbatoio presente di gente giovane, in gamba, in produttori di televisione. Non ci pensiamo neanche lontanamente”.

“Chiariamo un punto. Lei parla di una tv che dovrebbe essere specchio della realtà e non lo è… Certe cose – parecchie – non Le piacciono… Però Le chiedo: in questi mesi, da più parti e verso parecchi programmi, c’è un’accusa precisa diventata ormai inflazionata, quasi scontata nella sua ripetitività, verso chi fa televisione. Suona più o meno così: “La tv dovrebbe educare”… “La tv di oggi è diseducativa”. Per costoro – critici, detrattori…- la tv dovrebbe essere strumento d’educazione, mentre non educa, e non trasmette i (presunti) corretti valori… Ma perché la tv dovrebbe, avrebbe il compito morale di educare? Ciò non spetta forse a ben altre istituzioni, ben altre personalità, ben altri contesti, realmente deputati al non demandabile compito dell’educazione? E poi… Chi andrebbe a stabilire le regole di siffatta educazione? Chi verificherebbe la loro presunta correttezza – chi cioè potrebbe mai arrogarsi con diritto tale importante compito? Chi andrebbe a controllare? E chi controllerebbe  i controllori? Ma c’è di più. Andando oltre, e a prescindere da questo, l’idea di una televisione, di un mezzo di comunicazione, dalla finalità esplicitamente educativa, formativa del pensiero delle masse, mi appare quanto di meno libertario, di più illiberale – direi quasi statalista, nel senso peggiore del termine. Sentirei aria di censura, di imposizione di una communis opinio, in una futura omologazione dei cervelli. Un’aria di censura ancora più forte di quella che lei ha, con le sue parole, finora evocato. A mio avviso, la tv non deve educare, non ha il compito né tanto meno l’obbligo di educare: ad altri spetta questo onore – e onere. Lei che ne pensa?”.

Lunga la mia domanda… Immediata la sua risposta: “Vede, il problema se la televisione debba educare non sussiste. E sa perché? Perché la televisione già educa. E questo è un male. Oggi, purtroppo, abbiamo un’unica grande agenzia di educazione: la tv. E non dovrebbe essere così. La scuola non è più ohimè, in questo momento, un luogo di educazione. I ragazzi guardano la tv ore e ore al giorno… A scuola vanno come se andassero in trincea: non gliene importa molto, non apprendono più di tanto. Il problema è proprio questo: che la televisione educhi, che sia fonte d’educazione. Perché lo fa nel modo più sbagliato, realizzando una cattiva pedagogia e, alla fine, diseduca. Questa tv non è in grado di portare niente che abbia a che vedere con la realtà dei ragazzi, delle persone. È fuori dal mondo. Ci si può chiedere certo che cosa, allora, la tv debba dire, di che cosa debba occuparsi. Ma il punto fondamentale è che la tv non deve proprio educare, non dovrebbe proprio farlo! Vorrei proprio sapere chi dovrebbero mai essere gli educatori in questo Paese… E noi non possiamo assolutamente permetterci di delegare ad altri un compito così importante come quello dell’educazione. Figuriamoci: neppure gli insegnanti oggi, spesso, sono capaci di educare… Occorre grande attenzione su questo punto. La televisione non dovrebbe proprio educare, stop”.

A questo punto domando: “Una tv alternativa, come lei la dipinge – almeno virtualmente… Una tv che fosse vero specchio della realtà come la intende, affresco vero  della società in cui viviamo oggi. Ecco, una tv così sarebbe una tv libera, liberale? Qui ci sarebbe libertà?”

“Sarebbe già un mondo diverso”, dice “fatto di persone in grado di proporre programmi differenti, format e idee innovative. Il problema è che questo mondo si pone in contrasto con quell’altro, finora predominante: il mondo dei dirigenti televisivi, convinti che il pubblico voglia per forza vedere certe cose e basta. Il loro punto di forza è l’audience. Se un determinato programma è stato visto da milioni di telespettatori, ne deducono automaticamente che solo quello vada bene: lo assumono a modello unico del programma vincente e di successo – contro qualsiasi altro progetto. Ma non hanno realizzato un vero confronto con una concreta alternativa, per giungere a questa conclusione: non hanno provato, sperimentato qualcosa di davvero nuovo – per poi magari anche rifiutarlo. Il primo mondo, quello dei giovani, delle novità, nel confronto-scontro con quello dei dirigenti tv, finora è andato a perdere. Non avendo già alle spalle i consensi dei numeri (semplicemente perché non hanno potuto esprimersi), vengono censurati prima ancora che sia data loro possibilità di provare. Una censura aprioristica e totale. E sa qual è la cosa peggiore?”.

“Che cosa?”. “Che ormai”, prosegue “questa censura imposta sta diventando sempre più un’autocensura. La maggior parte degli autori non ci prova neanche più, non tenta neanche più di avanzare proposte innovative. Sa che tanto sarebbe perfettamente inutile, che le novità vere sarebbero bocciate. Tanti autori vedono qual è il palinsesto e… si arrendono prima”.

“Qualora le cose stessero davvero così”, proseguo “la cosa più grave sarebbe una sorta di chiusura dei cervelli che finirebbe con l’autoimporsi: quasi una omologazione, una istituzionalizzazione forzata”.

“Vede, una valanga di autori pieni di idee, di capacità innovative, vengono letteralmente convinti al nullismo”, spiega. “Tanto le loro intuizioni non sarebbero mai recepite. Si adeguano a ciò che i dirigenti credono che la gente voglia. Con le conseguenze negative del caso. Le faccio un esempio, tratto dalla mia esperienza personale: tempo fa è andato in onda un mio film, Alla luce del sole, sulla vita di don Pino Puglisi, il parroco assassinato a Palermo dalla mafia nel 1993 e interpretato da Luca Zingaretti. Era rimasto ibernato per sei o sette mesi: il direttore della Rai, all’epoca, disse che non avrebbe avuto ascolto. Bene. Sa come è andata a finire… Ha fatto record di ascolti. Milioni di telespettatori. Questo non significa che il mio film fosse più bello degli altri: semplicemente, andava “provato” col coraggio di provarci, di sperimentare un’idea nuova. E il successo, infatti, c’è stato. I dirigenti non capiscono che, banalmente, la gente può voler vedere anche altre cose. Io sono stato fortunato: il mio progetto alla fine è andato in onda. Ma quanti altri ce ne sono che non vengono trasmessi, con tale principio? È questa libertà che andrebbe ritrovata, e lasciata al pubblico, a chi ha tanto da offrire. Altrimenti non si potrà che riproporre di continuo questa tv stanca, affaticata, priva di stimoli. Ma si sa: i nostri politici, anziché preoccuparsi di dare alla tv pubblica una sua connotazione, preferiscono mettere nei luoghi del potere questo o quel personaggio. E nient’altro. Il resto non è neppure all’ordine del giorno dei loro pensieri”.

“Mi sembra però che Lei non molli…”, intervengo. “Adesso è riuscito a far approvare I Viceré, che uscirà prima nelle sale cinematografiche e poi, in versione più lunga, anche sugli schermi tv. E parrebbe proprio un progetto coraggioso: non solo un film, ma un ritratto feroce di ciò che siamo noi italiani”.

“Coi Viceré abbiamo ottenuto un grande risultato”, spiega. “Portare a conoscenza del pubblico un romanzo rimasto censurato da oltre cento anni. Tanti registi, ben prima di me, avrebbero dovuto fare questo film: Visconti, Rossellini… Ma nessuno c’è mai riuscito. In primo luogo, per l’opposizione della Chiesa: è sempre stata ostile a questo romanzo, ma sbagliando, a mio avviso. Il film è ambientato in un monastero di Catania, dove avvenivano cose riprovevoli: ma solo perché la maggior parte erano costretti a farsi monaci dalle famiglie, magari per punizione, e non avevano una vocazione autentica. La Chiesa, anziché portare a conoscenza una situazione che non dipendeva da lei, bensì da un errore di impostazione altrui, ha preferito mettere all’indice questo romanzo, semplicemente. L’altro ostacolo, neanche a dirlo, la classe politica. Il romanzo di De Roberto sembra scritto oggi, tanto è attuale: un ritratto impressionante del ceto politico italiano, che vale allora come oggi, nella sua vocazione al trasformismo – promettere una cosa e, quando si è arrivati al potere, farne esattamente un’altra… Sono anni che lavoriamo a questo progetto. Abbiamo voluto omaggiare un autore come De Roberto, tanto importante quanto trascurato ed emarginato. Lui per primo ha capito chi siamo davvero noi italiani. E ha fatto una radiografia impietosa, ma reale, del nostro Paese e dei suoi vizi d’origine: la famiglia – che te la raccomando! – la Chiesa – che specie in questo caso è quello che è – e la politica, che è peggio delle prime due”.

“In questo modo però”, commento “ciò che lei si appresta a portare sugli schermi si avvicina parecchio a quello specchio della realtà che dicevamo prima… Lei va a rappresentare attraverso De Roberto, prima al cinema e poi in tv, quella che ritiene essere la realtà di oggi, in cui tutti viviamo. E con ciò è libero. Lei… E i suoi personaggi, le figure che parlano attraverso il film – di esprimere ciò che pensa, le sue idee… Io leggo, ancora una volta, come un atto di libertà, di uno spirito che è riuscito, nonostante tutto, a riaffermarsi come indipendente, e vuole dare la stessa libertà agli altri. Si sente così? Ancora una volta: uno spirito libertario?”.

“Sì, lo sono, probabilmente un po’ più di tanti altri…”, dice, con un sorriso amaro. “Ma il problema vero è che nessuno oggi è libero! Libero veramente, intendo… Nessuno può esserlo fino in fondo. Anch’io ho i miei vincoli…». Dipendono dai condizionamenti indicati prima? C’è sempre il “capitale”… «Anch’io devo trovare i soldi per fare i miei film, anch’io devo scendere a patti… E comunque è vero: purtroppo chi non fa parte dei giri di potere ha più difficoltà a vivere. E io, appunto, non faccio una vita facile… Anzi, sta diventando sempre più complicata, sempre più ardua. Il margine di “navigazione” si restringe ogni giorno di più”.

“Però non ha mai mollato!”, lo interrompo. Ma la risposta, ancora una volta, arriva con un velo di sottile malinconia: “Eh sì… Però sa com’è: quando le cose vanno così, e ci sono sempre più ostacoli da superare, alla fine passa quasi la voglia di star lì a lottare per tutto…”.

“La libertà ha un prezzo…”, commento. “Però, a mio avviso, c’è sicuramente un aspetto della sua attività artistica che ritiene impagabile: il suo rapporto coi giovani, a cui non cessa di dare ascolto e spazio ogni volta che può. La possibilità per loro di realizzare il trailer de I Viceré è significativa…”.

“Sì, e Le dirò che ho in progetto un’altra iniziativa molto interessante” e il suo sguardo si illumina… “Spero di trovare i finanziamenti per realizzare una grande agenzia di creatività italiana su Internet: un luogo dove tutti coloro che abbiano qualcosa da dire, da comunicare – racconti, canzoni, video, anche semplici fotografie – possano incontrarsi. Spero di poter debuttare il 15 settembre. Questo è ora il progetto cui tengo in modo particolare: e credo di poter dire che avrà un buon successo. I risultati di un sito come You Tube sono il segno che ci sono milioni di persone nel mondo, che tentano di far vedere qualcosa di diverso”.

Appuntamento a settembre, dunque, per vedere concretizzata l’idea di Faenza di uno spazio contro ogni censura. Un attimo fuggente, probabilmente, da cogliere al volo.

* Dice di sé:
Rachele Zinzocchi. Trentun anni, fiorentina di nascita ma romana d’adozione, una laurea in filosofia teoretica alla Scuola Normale Superiore di Pisa – sulla metafisica e la finitezza umana – e un amore ancora oggi viscerale per ciò che significa “pensare”: oltre che per la possente lingua tedesca. Giornalista per desiderio di libertà nella comunicazione, è stata folgorata sulla via di Damasco da una grazia divina.

DALLA STORIA. Tullio Gregory - Il gusto del cibo: itinerario storico sentimentale

Il cibo non dà piacere se non è sovrabbondante… il gusto non risponde tanto a un bisogno di sostentamento, ma è un modo di concepire la vita e il rapporto con gli altri
Tullio Gregory * 

Parlando sul gusto è quasi obbligatorio ricordare quel che scriveva Voltaire alla voce goût dell’Encyclopédie:

“Il gusto, questo senso, questa capacità di distinguere i nostri alimenti, ha dato origine in tutte le lingue conosciute all’uso metaforico del termine gusto, per designare la capacità di avvertire le bellezze e le imperfezioni in tutte le arti […]. Ci sono grandi paesi in cui questo gusto è sconosciuto: sono quelli in cui la società non si è perfezionata, ove gli uomini e le donne non si riuniscono insieme, dove certe arti come la scultura e la pittura di esseri viventi sono vietate dalla religione. Dove la vita di società langue, lo spirito si isterilisce e le sue finezze si smussano, non c’è modo di educare il gusto”.

Pagina notissima ove ormai è definitivamente registrato, dopo circa due secoli, lo slittamento semantico della parola gusto per indicare non solo uno dei cinque sensi, ma una facoltà capace di valutare opere dell’ingegno, e anzitutto i prodotti artistici. Prima della modernità, l’uso metaforico del termine gusto era ignoto: ed io mi limiterò qui al gusto come piacere del cibo e della tavola, per il quale tuttavia valgono egualmente le considerazioni di Voltaire sullo stretto legame fra la fenomenologia del gusto e il vario sviluppo storico delle civiltà: sol che si pensi ai continui riferimenti simbolici che inseriscono il gusto del cibo nella storia dell’incivilimento e fanno dello stesso gusto un prodotto culturale, come ogni altra esperienza e attività dell’homo sapiens. Fin dalle società primitive la manipolazione degli alimenti non risponde solo al bisogno nutrizionale, ma si colloca in un cosmo intellettuale e fantastico ove si incontrano uomini e dei, sacro e profano, morti e viventi, caricando il cibo di valori che trascendono la sua natura materiale.

Del resto è proprio attraverso il gusto del cibo che – per ricordare solo due mitologie mediterranee, la greca e l’ebraica – si verifica una rottura nell’ordine cosmico e umano voluto dalla divinità.

Si ricordi Prometeo, la cui prima colpa non è aver rubato il fuoco a vantaggio degli uomini, ma avere ingannato Zeus nello spartire le parti di un bue sacrificato: “Prometeo – ricorda Esiodo nella Teogonia – divise in parti, con animo benevolo, un bue di notevole mole, cercando di ingannare il pensiero di Zeus: per l’una delle due parti egli pose infatti le carni e le viscere piene di grasso, sotto la pelle; per l’altra invece preparò con astuto artifizio delle bianche ossa di bue, nascondendole sotto il bianco grasso”. Zeus scelse la porzione coperta di grasso, e si trovò in mano solo le ossa: da allora, prosegue Esiodo, “nacquero sciagure per gli uomini mortali”; Zeus tolse agli uomini il fuoco (che l’astuzia di Prometeo restituirà loro) e ordinò di plasmare “un essere simile a una vereconda fanciulla”, Pandora, da cui deriverà “la stirpe delle donne […] sciagura grande per i mortali”.

Nel mito del Genesi, non è solo la piacevolezza del frutto proibito – bello a vedere ancor prima che buono da gustare – a determinare la storia mortale dell’umanità, ma il piacere che Yahwè prova di fronte al sacrificio di Abele: “dopo un certo tempo – si legge nel Genesi – Caino portò una parte del prodotto del suolo come offerta a Yahwè; ed anche Abele presentò una parte delle primizie del suo bestiame, e precisamente le parti grasse. E Yahwè guardò con benevolenza Abele e la sua offerta, ma non guardò con favore Caino e la sua offerta”; di qui l’odio di Caino per Abele, l’uccisione del fratello, la condanna della stirpe di Caino.

Il grasso, considerato elemento fondamentale nella costituzione del corpo umano, soprattutto del sistema nervoso e del cervello – è ciò che attrae Zeus come Yahwè, perché il grasso è alimento proprio degli Dei.

Forse una storia del grasso – nelle sue varie declinazioni animali e vegetali – potrebbe costituire il filo conduttore non solo di una storia del gusto del cibo, ma di tutta la civiltà mediterranea: se è vero, come scriveva Adolf Deissmann, storico delle religioni, che i suoi confini sono definiti dalla coltivazione dell’ulivo. Potremmo aggiungere che per i grassi animali il mondo mediterraneo molto deve alle invasioni barbariche, all’incontro cioè con civiltà diverse da quella greco-latina. Perché sono proprio le invasioni barbariche che hanno profondamente modificato gli usi alimentari dell’Europa romana, introducendo e diffondendo fra l’altro un nuovo modo di utilizzare gli spazi incolti, boschivi e paludosi con una cultura silvo-pastorale: si ampliò il consumo della carne e soprattutto del maiale, (fondamentale nell’alimentazione medievale), dando al lardo e allo strutto una posizione centrale nelle culture non solo nordeuropee ma anche norditaliane, estendendosi poi nelle aree mediterranee.

Anche l’avvento di altri prodotti e le modificazioni di gusto e di usi alimentari segnano variamente la storia della nostra civiltà. Dopo l’invasione dei popoli nordici, gli arabi hanno determinato mutamenti profondi che hanno trovato soprattutto in Andalusia e in Sicilia i loro punti di diffusione. Infatti non solo nel campo delle lettere, della filosofia, delle scienze il debito dell’Europa rispetto alla civiltà islamica è di enorme portata, ma anche nel campo del gusto e della civiltà della tavola. Attraverso le vie commerciali aperte dagli arabi e dai loro usi gastronomici si è conosciuto in Europa – passando attraverso la Spagna e la Sicilia – il riso che dalla Mesopotamia i commercianti arabi portarono in Andalusia già nel secolo X; altrettanto importante è l’arrivo della coltivazione della canna da zucchero (non ignota ai trattatisti greci e romani) originaria dell’India, conosciuta forse dagli arabi in Mesopotamia, presto diffusa nel Mediterraneo poiché era già coltivata in Spagna nell’VIII secolo e in Sicilia nel IX. Lentamente lo zucchero sostituirà l’uso del miele, più economico, ampiamente diffuso nella cucina latina antica e medievale. Ma si ricordi che il miele era carico di simboli religiosi, nutrimento degli dei e degli antenati, proprio di una vita paradisiaca, tanto da costituire, con il latte, caratteristica della terra promessa da Yahwè al suo popolo.

Anche un prodotto tipico del mondo mediterraneo come gli aranci e i limoni si devono alla civiltà islamica, insieme alla melanzana (originaria dell’India, già in Spagna nel secolo X) e agli spinaci, originari del Nepal, presto diffusi in tutto il mediterraneo. Ma basterebbe ricordare un altro prodotto che già nella sua classificazione indica la profonda mescolanza delle culture: parliamo dell’uvetta, uvetta sultanina (o del sultano), di Corinto, di Smirne, di Malaga, cioè di tutto il mondo mediterraneo. Potremmo ancora ricordare, oltre alla preparazione largamente diffusa del cuscus, il mondo dei dolci, a cominciare dal marzapane, dai dolci di mandorle, alle frittelle dolci ben documentate nella cucina araba, andalusa e siciliana. Presenze islamiche si ritrovano nei più antichi ricettari latini e volgari che risalgono in parte alla corte di Federico II, uomo come è noto di vasta cultura, attento al mondo arabo con il quale intrattenne rapporti non solo politici, ma filosofici e scientifici. Nei ricettari che si diffondono dalla sua corte si vede già il definirsi di una cucina e di un gusto aperto tanto alle influenze arabe come ad altre culture europee con ricette all’uso saraceno, germanico, francese, inglese. Agli arabi sembra si debba anche la scoperta dei modi di produrre pasta secca filiforme: ittriyya (ancor oggi in alcuni dialetti italiani, tria). Presto nasceranno le fabbriche di pasta secca in Sicilia (già centro di produzione nel XII secolo secondo la testimonianza del geografo arabo Idrisi), e il prodotto si diffonderà via mare, entrando molto lentamente nella cucina italiana centro-meridionale, secondo vari formati, sostituendo la pasta fatta in casa, inizialmente più economica, e conosciuta fin dall’antichità latina (laganum: pasta di farina di grano, in sfoglie, di vari formati e usi).

Dopo l’incontro con la cultura gastronomica araba, è l’incontro con il Nuovo mondo che modifica profondamente gusti e usi europei. Ricordiamo lo stupore dei re cattolici di fronte ai nuovi prodotti esibiti da Cristoforo Colombo di ritorno dal suo primo viaggio, come narra la Historia general de las Indias di Francisco López de Gómorra. Colombo “prese dieci indios, quaranta pappagalli, parecchi tacchini, conigli (che chiamano hutias), batate, peperoncini, mais, con cui fanno il pane, altre cose strane e differenti dalle nostre, come testimonianza di ciò che era stato scoperto […]. Presentò al re l’oro e le merci che portavano dall’altro mondo; ed essi e quanti si trovavano davanti a Colombo molto si meravigliarono a vedere che tutto quello, eccetto l’oro, era nuovo come la terra in cui nasceva […]. Provarono il peperoncino, spezia degli indigeni, che bruciò loro la lingua, e le batate che sono radici dolci, e i tacchini che sono migliori dei polli e delle galline. Si meravigliarono che là non ci fosse grano, ma che tutti mangiassero pane di quel mais”.

Non erano solo questi i prodotti del Nuovo mondo: si ricordi ancora la cioccolata (per gli Aztechi nutrimento degli dei) e, fra la frutta, l’ananas: fu Ferdinando il Cattolico il primo europeo che la provò, come attesta Pietro d’Anghiera. Non si dimentichi, fra tutti i prodotti dell’orto più fortunati in Europa, oltre alla patata, il pomodoro o anche poma amoris, pomi d’amore; prodotti entrati in uso più tardi, giacché sarà solo alla fine del Seicento e ai primi del Settecento che la salsa di pomodoro comincerà, faticosamente, a essere presente nei ricettari. Forse la prima testimonianza è Lo scalco alla moderna di Antonio Latini pubblicato a Napoli nel 1694 ove compare una salsa di pomodoro “allo stile spagnolo”; in realtà sarà solo lungo l’Ottocento che l’uso del pomodoro e della sua salsa si andrà diffondendo in Italia e poi altrove. Come è noto, anche la patata dovrà attendere il Settecento per trovare una consistente presenza sulle mense europee.

Se la storia della diffusione dei nuovi prodotti – e dei nuovi usi e gusti alimentari – accompagna e segna la storia degli incontri di civiltà, la storia nel vario configurarsi e esprimersi del gusto del banchetto, della tavola imbandita, rispecchia anch’esso le strutture di ogni cultura, al di là del valore sacro del convito, non solo incontro fra uomini e dei, ma segno di ricchezza, di amicizia, di rispetto per il viaggiatore, per il pellegrino.

Vorrei qui ricordare, perché non sempre presente nelle storie del gusto, che in tutti i banchetti essenziale è il vino: esso zampilla senza fine dalle fontane del paese di Cuccagna e scorre a fiumi nel paradiso di Allah secondo il Libro della scala. Del resto non solo la produzione di bevande alcoliche, così come la cucina del cotto, è caratteristica delle più antiche società umane – segno distintivo dalla società degli animali –, ma il vino è ben presente nelle mitologie mediterranee, trovando in Dioniso e in Noè gli inventori e protettori, ed ha largo spazio negli antichi simposi (si ricordino i simposi socratici) come nei riti cristiani.

Se si volesse seguire un’evoluzione del gusto del bere – inseparabile dal gusto del cibo – e prima ancora l’evoluzione della coltivazione della vite e della vinificazione, alcuni mutamenti decisivi segnano la modernità: quando si cominciarono a selezionare i vitigni e circoscrivere le culture e quando si definiranno nuove tecniche di produzione e di commercializzazione. Non a caso alla figura – forse in parte mitica – di Dom Perignon, a cavallo fra Seicento e Settecento (fu cantiniere dell’abbazia di Hautvillers dal 1678 al 1715), si attribuiscono una serie di invenzioni e accorgimenti pratici che non riguardano solo la produzione dello champagne: l’uso del tappo di sughero (in luogo del tappo di stoppa), i metodi di chiarificazione dei vini bianchi (prima sempre torbidi e tendenti al rosato), la selezione dei vitigni. Alle spalle di queste innovazioni fra Sei e Settecento, l’uso della bottiglia per la conservazione e il trasporto del vino, in vetro spesso, forse invenzione di Sir Kenelm Digby, diplomatico, corsaro, filosofo inglese della prima metà del Seicento.

Vi sono altri aspetti che ritengo parimenti importanti nella storia del gusto del cibo e del convito. Giacché il gusto del cibo si articola in altre forme di gusto: dal gusto per certi prodotti, ai riti dei servizi, al piacere per l’abbondanza e per lo spettacolare. Tutto questo è documentato storicamente, soprattutto per le classi alte e benestanti.

In particolare, la civiltà del gusto del cibo e del banchetto, per molti secoli – dall’antichità ai tempi moderni – è legata all’abbondanza: il cibo non dà piacere se non è sovrabbondante, smisurato, quasi a testimoniare visivamente che il gusto del cibo non risponde tanto a un elementare bisogno di sostentamento, ma deve completarsi con una simbologia che coinvolge non solo altri sensi, ma un modo di concepire la vita e il rapporto con gli altri. Anche nelle mense di classi meno abbienti, nei giorni di solennità festive, il banchetto si caratterizza per la sovrabbondanza dei cibi e delle portate.

Dunque tanto nel cibo quanto nel vino la ricerca dell’abbondanza fa parte della storia del gusto e rispecchia le tensioni e i desideri di una società, soprattutto la voglia di superare ogni limite imposto dalla stessa condizione umana. Il gusto del cibo, quindi la golosità, non è solo un’infrazione ai dettami della dietetica o delle religioni, ma un segno del desiderio di trascendere lo status limitato dell’uomo. L’eroe (si pensi a Ercole che divora animali interi), il potente – principe o cardinale – il guerriero mangia molto, soprattutto carne. È segno di rango, di classe, di superiorità sociale. Carne rigorosamente cotta allo spiedo, preparazione che richiede servi addetti al camino, oltre ai mezzi per procurarsi il prodotto; il contadino generalmente mangia poca carne, qualche animale da cortile, le parti povere del maiale, tutte cotte nel paiolo con abbondanza di verdure. È una cottura che non richiede sorveglianza e il contadino può andare a lavorare nei campi una volta appeso il paiolo al camino. La differenza fra axa (arrosto) e elixa (non propriamente bollito, ma cotto in un paiolo con molte verdure) è fondamentale: differenzia non solo due diversi gusti del cibo, ma anzitutto una differenza sociale. Quando a Carlo Magno – come racconta il suo biografo Eginardo – i medici consigliano, per curare la gotta, di mangiare elixa, ma non axa, il re li prende a odiare e limita il suo pasto quotidiano a quattro portate oltre alla carne axa (qua ille libentius quam ullo alio cibo vescebatur) che i servitori gli portavano sugli spiedi.

La predilezione per i grandi pezzi di carne arrosto è all’origine, sembra, della trasposizione semantica di una parola dal lessico di corte alla gastronomia: si tratta del baron che indica un taglio di macelleria (agnello, montone, bue) dalla sella (la zona delle costate e del filetto) fino ai cosci. Suntuoso e smisurato pezzo di arrosto, soprattutto se di bue, che una volta fu presentato a Enrico VIII, gran mangiatore, così solenne nella sua magnificenza da indurre il re a nominare sul campo barone, quel suntuoso pezzo di carne.

Anche per il gusto del vino l’abbondanza è una caratteristica essenziale; il sobrio Petrarca ne elenca così gli effetti: “secundum me igitur, primus crater pertinet ad sitim, secundus ad laetitiam, tertius ad voluptatem, quartus ad ebrietatem, quintus ad iram, sextus ad litigium, septimus ad furorem, octavus ad somnum”.

Nelle lodi del gusto, Lorenzo Valla sottolineava con vivacità polemica, contro ogni etica rigoristica, il valore e il significato del vino nelle società umane: “Per i vini ogni lode è inadeguata – scrive –. Noi uomini siamo superiori agli altri animali per due cose, nell’esprimere con la parola i nostri sentimenti e nel bere vini. Però non sempre è piacevole parlare […], mentre sempre è piacevole bere […]. Non solo i poeti rendono onore a Bacco, ma anche i filosofi, il maggiore dei quali, Platone, pensa che sia uno stimolo e un incitamento dell’ingegno e della virtù se la mente e il corpo siano riscaldati dal vino”.

E Rabelais dirà ancor più decisamente: “Notate, amici, che con il vino si diventa divini […]. Poiché esso ha il potere di colmare l’anima di ogni verità, ogni sapere e ogni filosofia”.

Non a caso, in alcuni penitenziari medievali, quando la classificazione dei peccati segue il sistema dei cinque sensi, i peccati legati alla gola consistono soprattutto nel “sumere immoderate cibum et potum, delectatio in delicatis prandiis, sumere grossa prandia cum aviditate et delectatione, incipere ex necessitate et terminare in delectatione”, nonché protestare “contra cocum si cibaria non sunt bene preparata”.

È questo mondo di grandi mangiatori e bevitori che i ceti poveri proietteranno nel paese di Cuccagna, nel paese di Bengodi, la grande utopia gastronomica che attraversa tutte le culture e che sostituisce, nella storia dell’immaginario gastronomico, il mito di un primitivo paradiso tutto vegetariano.

Al gusto del cibo come piacere dell’abbondanza, corrisponde la quantità delle provviste, soprattutto quando si hanno ospiti di un certo rango. Vincenzio Cervio autore del celebre volume Il trinciante (Venezia 1581) ricorda quanto è necessario far trovare al cuoco privato del papa, quando questi venga a far visita a un illustre signore e si trattenga presso di lui. Poiché il papa mangia da solo, è necessario che il suo cuoco abbia a disposizione una speciale provvista. Scrive Cervio “non sarà di bisogno che mi affatichi in far la lista del magnare per sua beatitudine, perché il suo scalco fa che la sua dispensa vada seco sempre prevista [il papa quindi ha già presso di sé gli alimenti di cui nutrirsi]. A tal che basterà che in dispensa nostra vi siano alcune cose exquisite, a ciò che il suo cuoco segreto le possa avere a posta, che saranno fasani, fasanotti, starne, starnotti, pernici del becco rosso, un pavone frollo, una pollanca d’India frolla [tacchino], un capriolatto, leprotti, capretto giovane, piccolo e grasso, ortolani freschi, beccafiche grasse, tordi, quaglie, lodole e altra sorta di pollastri grossi e pollastrini, piccioni domestichi e selvatichi, paparetti, anetre, germani, beccacce, rufolatto [cinghialotto] caprio [capriolo], mongana, castrati, seccaticcia [carne essiccata] e altre cose necessarie conforme alla stagione”. Si ricordi che il papa resta per periodi brevissimi presso un qualche signore lungo il suo viaggio, anche se a volte veniva costruito apposta un palazzo in legno per lui e per la sua corte.

I libri di cucina, medievale e rinascimentale, rispecchiano il vario articolarsi del gusto dell’abbondanza e della grandiosità, non disgiunta dalla magnanimità di borsa e di spirito. Basterebbe ricordare come il viaggio della regina Cristina, convertita al cattolicesimo, sia tutto costellato di grandi banchetti sino al finale incontro con il papa a Roma.

Se questa è la linea dei grandi libri di gastronomia italiana, lungo il Seicento la cucina francese iniziava un notevole processo di semplificazione: soprattutto alleggeriva i modi di cottura, emarginava l’uso delle spezie e dell’agrodolce, nella successione delle portate spostava i dolci e la frutta dall’inizio del pasto alla sua fine, introducendo altresì l’uso dei roux e dei brodi ristretti per l’elaborazione di salse legate che amalgamavano i sapori per fusione e non per addizione. Da questo punto di vista è fondamentale il Cuisinier français di François Pierre detto La Varenne pubblicato nel 1651. Si apriva la strada alla grande cucina borghese che si affermerà nell’età dei lumi, al cui centro si colloca quella solenne apologia della cucina moderna che leggiamo nei Les Dons de Comus ou les delicatesses de la table, opera anonima, forse di due dotti gesuiti, Pietre Brumoy e Guillaume-Hyacinthe Bougeant (1739), vero manifesto della cucina moderna che non a caso faceva seguito a Le cousinier moderne di Vincent La Chapelle (1735). I due gesuiti, dopo aver celebrato la cucina come arte, entrano nel cuore della disputa fra antichi e moderni, ancora viva nella cultura francese e europea e ne davano una testimonianza non marginale: “gli Italiani hanno educato tutta l’Europa e son loro senza dubbio che ci hanno insegnato a far da mangiare […]. Ma ormai da due secoli si conosce la buona cucina in Francia e si può affermare, senza pregiudizio, che essa non è mai stata così delicata e di un gusto così fine. Si distingue oggi, fra le persone del mestiere e le persone che si vantano di avere una buona tavola, la cucina antica e la cucina moderna. La cucina antica è quella che i Francesi hanno messo in voga in tutta Europa e che si seguiva generalmente fino a una ventina di anni fa.

La cucina moderna, stabilita sui fondamenti dell’antica, ha meno apparati e, con altrettanta varietà, è più semplice, più propria e forse anche più saggia. L’antica cucina era molto complicata e di un dettaglio straordinario. La cucina moderna è una specie di chimica. La scienza del cuoco consiste oggi nel distinguere e quintessenziare le carni, trarne succhi nutrienti e leggeri, nel mescolarli insieme in modo che nessuno predomini e il tutto si faccia assaporare. Così, come i pittori con i colori, il cuoco realizza una sintesi rendendo omogenei i vari componenti, in modo che dai differenti sapori risulti un gusto fine e raffinato, direi un’armonia di tutti i gusti uniti insieme”. Con compiacimento illuministico, quasi materialista, i due gesuiti proseguono: “il gusto corporeo e il gusto spirituale dipendono egualmente dalla conformazione delle fibre e degli organi destinati a operare le diverse sensazioni: la finezza di questi due tipi di gusto prova certamente la finezza degli organi che sono loro propri, e di conseguenza si può risalire dal gusto corporale a un principio molto delicato che gli è comune al gusto puramente spirituale”.

Si ricordi peraltro che l’età della rivoluzione scientifica – fra Cinquecento e Seicento – era stata anche l’età della scoperta di nuovi strumenti e metodi per cucinare. È la cucina con molti fornelli in piano – oltre al camino e al forno – con la possibilità quindi di diverse cotture in contemporaneo, con differenti temperature; cosa altrimenti difficile, se non impossibile, quando la zona di cottura era il camino, al massimo un forno.

Resta fondamentale, abbiamo accennato, il gusto per lo spettacolare, legato anche alla grandiosità delle dimensioni: soprattutto finché prosegue l’uso del sistema di servizio alla francese, già prima all’italiana, antecedente quindi all’uso che si afferma nel corso dell’Ottocento del servizio alla russa (sequenza di piatti porzionati uguali per tutti). Così, ancora agli inizi dell’Ottocento, il gusto del grandioso troverà la sua la sua apologia nella celebre Physiologie du goût (1825) di Brillat-Savarin: del quale raramente si ricorda la figura di giovane avvocato deputato del Terzo Stato all’Assemblea costituente del 1789, poi in esilio come moderato, viaggiando fra Europa e Stati Uniti, poi nuovamente alto funzionario dell’amministrazione francese dopo il 1797. In quest’opera, con la quale Brillat-Savarin considera di aver portato a livello scientifico l’arte della cucina e del convito, l’autore presenta le sue provette gastronomiche che costituiscono, egli dice, una delle più importanti scoperte del secolo. Provette per misurare la qualità e dignità dei commensali e valutare insieme il livello sociale dell’ospite. Varie sono le provette, in una continua ascesa di raffinatezza e di costo, fino all’estrema, ove in una successione mirabile compaiono, in apertura, un volatile di sette libbre riempito di tartufi “fino a diventare uno sferoide”, “un enorme foie gras di Strasburgo a forma di bastione”, una grande carpa del Reno e un luccio farcito, quaglie, fagiani, ortolani, cento punte d’asparagi, per terminare con una piramide di meringhe alla vaniglia e alla rosa. L’invitato avrà superato questa prova se esclamerà: “oh!, mio signore, il vostro cuoco è uomo ammirevole, non si trovano queste cose se non da voi!”. Segue una “osservazione generale” di cui dovremmo tenere conto, come estremo segno della grande cucina. Scrive Brillat-Savarin: “perché una provetta produca certamente il suo effetto è necessario che essa sia comparativamente in grande quantità: l’esperienza, fondata sulla conoscenza del genere umano, ci ha insegnato che le rarità, le più saporite, perdono il loro effetto quando non sono in proporzioni esuberanti”. A queste condizioni le “provette” producono il loro effetto come lo stesso Brillat-Savarin poté sperimentare: “tutte le conversazioni cessarono per la pienezza dei cuori […]; io vidi succedersi su tutti i volti il fuoco del desiderio, l’estasi del piacere, il riposo perfetto della beatitudine”.

Viene in mente la sapida scientia dei teologi e mistici medievali come l’estremo godimento della contemplazione di Dio.

Nella più recente cucina – quella introdotta dalla cosiddetta nouvelle cuisine proseguita dalla cucina creativa – tutto questo è abbandonato, e purtroppo con ostentato disprezzo. Non solo per avere cibi più leggeri e naturali – fino ad annientare la distinzione cultura-natura, cotto-crudo – ma nel tentativo di demitizzare una grande tradizione gastronomica, con le salse madri e le lunghe cotture, con l’arte del trinciante e la ricchezza dei servizi. Di qui l’apologia del minimalismo, dell’esercizio calligrafico, della fascinazione del piatto vuoto, del valore simbolico del frammento. Cucina che deve “suscitare la meraviglia”, la sorpresa: un nuovo barocchismo, distruggendo la grandiosità dei servizi, ha portato al nichilismo gastronomico. Nella cosiddetta cucina creativa la tavola è governata – come è stato scritto da un suo apologeta – dal sapore del bello che tende a ricongiungersi al gusto del bello, lasciando, anche a livello lessicale, quel valore primario del gusto del cibo che ha accompagnato la storia dell’umanità fino al tramonto dell’Occidente.

In questo nichilismo gastronomico trovano spazio componenti diverse: l’ideale della bellezza beauty farm, anoressica e filiforme, la petulanza di dietologi inappetenti, l’autorità di guide compiacenti, la ricerca di presentazioni gastronomiche capaci non di soddisfare il gusto ma di stupire, la frequentazione di ristoranti per vedere o essere visti. Qui il cibo ha perso ogni valore, trasformato in un insipido grafismo. All’estremo opposto, il trionfo dei fast-food avvilisce il gusto con maleodoranti tritati e squallide fritture. Sta nel mezzo una variegata civiltà tradizionale, spesso contadina, ove si sono rifugiati alcuni autentici artigiani del gusto come esperienza sensoriale totale, interessata alla realtà del cibo, nella sua fisicità e nei suoi valori, non misticamente ed esteticamente contemplativa. Lontano, forse non ancora nato, un nuovo Carême.

* Dice di sé:
Tullio Gregory. Professore di Storia della filosofia all’Università di Roma La Sapienza, accademico dei Lincei, Direttore dell’Istituto CNR “Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee”, Direttore dell’Enciclopedia Italiana di Scienze Lettere ed Arti (Istituto Treccani). Storico del pensiero filosofico e scientifico, nelle sue ricerche ha privilegiato aspetti e momenti di passaggio e di crisi nella storia della cultura europea, fra Medioevo ed Età Moderna. Non disdegna la storia e la pratica delle Scienze enogastronomiche.

ALIMENTAZIONE. Tiziana Stallone - La rivincita dei grassi

Privare l’uomo, senza una valida ragione clinica, a priori ed acriticamente, degli alimenti che contengono “grassi” è cosa spesso inutile e, talvolta, dannosa: comunque, assolutamente contro natura
Tiziana Stallone * 

Scrivere delle “pillole” di Scienza dell’Alimentazione su l’Attimo Fuggente, perché?

Innanzi tutto perché alla Scienza, quella vera, non è mai riservato abbastanza spazio. Le accattivanti pseudo-scienze, invece, sono sempre pericolosamente in agguato e ricevono fin troppa visibilità, poiché queste millantano scorciatoie e forniscono certezze, laddove la Scienza è più lenta e dubbiosa. In secondo luogo, perché alla Nutrizione, troppo spesso, è sottratta la dignità di Scienza. Per vestire le mode del momento, gli alimenti si spogliano dalle molecole che li compongono e dalle rigide formule della chimica e della fisica che li regolano, e si trasformano per l’occasione in disintossicanti, astringenti, energetici, afrodisiaci, anticellulite, antibiotici, disinfettanti, anti-depressivi o quant’altro ritorni utile ad un articolo d’effetto o alle logiche di mercato.

Le diete sono ancora più fantasiose, spaziando dagli storici regimi alimentari Scarsdale e Weight Watchers, alle più moderne diete Beverly Hills, a punti, dissociate, del minestrone, dei colori, dei gruppi sanguigni, delle intolleranze, del pH, della zona e dell’indice glicemico. Poi c’è la pasta che fa ingrassare, la frutta che fermenta ai pasti, la spremuta toccasana per l’influenza, la margarina più sana del burro, il selenio che rallenta l’invecchiamento, le uova piene di colesterolo, c’è l’intolleranza ai lieviti ed al pomodoro, il latte che con gli agrumi fa acido ed il caffè del bar con troppa caffeina, sì poi ci sono loro, gli onnipresenti “miti alimentari”, in altre parole le false credenze nutrizionali bocciate dalla Scienza, a cui, però, continuiamo a credere.

Esperti di nutrizione, inoltre, sono da anni invitati alla radio, sui giornali e riviste per decantare le virtù di frutta e verdura, per sviscerare le proprietà delle spezie ed i poteri terapeutici del peperoncino, per proporre confezioni per i giorni di festa e per suggerire “compensazioni” post-abbuffata; cattedratici, che appaiono di sovente in televisione dietro a tavole imbandite, al fianco di celebri cuochi affaccendati a preparare manicaretti. Non è per nulla deprecabile che pregiati professionisti si occupino di intrattenimento, di curiosità e di sottigliezze, mi è incomprensibile, però, il perché non propongano e diffondano anche altro. Sostituire il cuoco (professione per la quale nutro profonda stima) con lo psichiatra, basterebbe ad esempio a tramutare il folclore in Scienza, e consentirebbe di analizzare, ad esempio, le delicate dinamiche psichiche per cui (pur volendo dimagrire) le persone continuano a collezionare fallimenti ed ingrassare.

Le “pillole di Scienza dell’Alimentazione” nascono, quindi, con l’intento di intrattenere ed informare, fornendo verità scientifiche in campo nutrizionale e scardinando i falsi miti.

Speriamo di far cosa utile e gradita.

Vorrei aprire questa rubrica schierandomi dalla parte dei “grassi”, poiché essi godono, ingiustamente, di una pessima reputazione, partendo dalla citazione dei primi passi della appetitosa ricetta di un “cotechino fasciato”, che li rende protagonisti, tratta dal noto “La Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” (Manuale pratico per le famiglie, 790 ricette e in appendice la cucina per gli stomachi deboli) di Pellegrino Artusi, la cui prima delle sue quattordici prestigiose edizioni risale al 1891.

“Non ve lo do per un piatto fine, ma come un piatto di famiglia può benissimo andare, anzi potete anche imbandirlo agli amici di confidenza. A proposito di questi, il Giusti dice che coloro i quali sono in grado di poterlo fare, devono di quando in quando invitarli ad ungersi i baffi alla loro tavola. Ed io sono dello stesso parere, anche nel supposto che gli invitati vadano poi a lavarsi la bocca di voi, come è probabile, sul trattamento avuto.

Prendete un cotechino del peso di grammi 300 circa e spellatelo a crudo.

Prendete una braciola di magro di vitella o di manzo del peso di grammi 200 a 300 larga e sottile e battetela bene. Involate con essa il cotechino, ammagliatelo tutto col refe e mettetelo al fuoco, in una cazzuola, insieme con un pezzetto di burro…

Se col sugo vi piacesse condire una minestra di maccheroni, aggiungete alcune fettine di prosciutto grasso e magro, oppure di carne secca…Passate il sugo, unite al medesimo i funghi e con questo, cacio, burro e condite i maccheroni, servendo il cotechino fasciato, sciolto dal refe, con alquanto del sugo”

Il fatto che cotechino e burro contengano grassi è cosa nota, ma che cosa siano i grassi realmente, il perché l’uomo ne sia continuamente “tentato” ed il motivo per il quale la Medicina abbia rivolto verso di loro il pollice verso, non credo siano concetti ancora del tutto chiari.

Per “grassi” intendiamo uno dei tre principali gruppi di macronutrienti (assieme agli zuccheri ed alle proteine) che compongono gli alimenti. A causa del loro considerevole apporto calorico (più del doppio rispetto agli zuccheri ed alle proteine a parità di peso), il quale costituisce un’insidia per il mantenimento del peso corporeo, è stato attribuito il nome di “grassi” anche alle persone in sovrappeso od obese, alle quali oggi mi rivolgerò solo indirettamente, ma a favore delle quali mi schiero in ogni modo ed incondizionatamente. Parliamo di “grassi” al plurale e non di grasso perché, in realtà, essi sono un gruppo eterogeneo di sostanze, accomunate dalla proprietà di essere insolubili in acqua e di disciogliersi solo in solventi grassi (l’olio, infatti, non è miscibile con l’acqua). Grassi sono: i trigliceridi (insieme di tre acidi grassi e glicerolo) quelli che per intenderci formano il tessuto adiposo o adipe, visibile come parte bianca esterna al prosciutto e alla bistecca, come “tondini” nel salame o strie chiare nel salmone affumicato o palpabile sull’addome di persone con qualche chilogrammo di peso in eccesso. Esistono poi gli acidi grassi, non visibili ad occhio nudo, perché non si accumulano in un tessuto, ma circolano nel sangue, più semplici dal punto di vista della struttura chimica, delle lunghe catene lineari di atomi di carbonio, i quali possono essere saturi o insaturi (nome già a molti noto, che sottende un concetto di natura chimica e che si riferisce alla presenza o all’assenza di doppi legami). Gli acidi grassi saturi, bocciati come “cattivi”, sono di consistenza solida e di origine animale, con qualche eccezione (acido laurico, miristico, e palmitico) presenti anche in fonti vegetali (olio di cocco e di palma); gli insaturi, quelli “buoni”, sono invece liquidi e di origine vegetale (olio di oliva o di semi). Tuttavia, è il colesterolo, grasso di origine esclusivamente animale, quello che incute più timore e che occupa nell’immaginario collettivo la posizione numero uno sul podio dei nemici della salute.

Ai trigliceridi, agli acidi grassi saturi ed al colesterolo sono stati attribuiti misfatti ed attentati rivolti verso la nostra salute, per due ragioni principali. Primo, perché trigliceridi ed acidi grassi sono ipercalorici, e quindi favorenti sovrappeso ed obesità. Secondo, per l’attitudine di alcuni acidi grassi saturi e del colesterolo di compiere atti vandalici contro molti organi di vitale importanza del corpo umano, primo tra tutti il sistema circolatorio, ovvero, l’insieme del cuore e dei vasi sanguigni. L’accusa più grave mossa contro di questi è la loro attitudine a “sporcare” le arterie, in particolare le coronarie che irrorano il cuore, depositandosi ed infiltrandosi nell’intimo della loro parete fino a ridurne l’elasticità, con conseguenze severe come ipertensione, aterosclerosi, infarto ed ictus. Tutto questo è assolutamente vero, anche se questo inquietante quadro clinico si instaura in presenza anche di altre concause quali: predisposizione genetica, eccesso continuo e reiterato di assunzione di grassi alimentari, inattività, sovrappeso e obesità protratti negli anni, fumo ed eccesso di alcol. L’eccesso di grassi può ancora favorire patologie infiammatorie e tumorali. Il merito di gran parte di queste scoperte va indiscutibilmente a colui che ha condotto gli studi pionieri sul ruolo dei grassi nell’alimentazione, il dottor Ancel Keys (famoso per aver ideato le razioni K nella seconda guerra mondiale), biologo, l’uomo che con il lavoro e la passione di una vita ha rivoluzionato le conoscenze sugli alimenti, il padre della scienza dell’alimentazione intesa in senso moderno, originario di Colorado Springs, ma innamorato dell’Italia, tanto da viverci per anni, strenuo sostenitore della dieta mediterranea fino al 2004, anno in cui è venuto a mancare.

Il privare l’uomo, senza una valida ragione clinica, a priori ed acriticamente degli alimenti che contengono “grassi” è, però, cosa spesso inutile e, talvolta, dannosa, comunque, assolutamente contro natura. Il nostro senso del gusto percepisce, infatti, gli alimenti “grassi” come appetibili, per ragioni squisitamente legate alla nostra storia evolutiva. Per l’uomo primitivo, per il quale procacciarsi il cibo era un compito arduo e faticoso, saper riconoscere e poter prediligere i cibi grassi rappresentava sicuramente un vantaggio per la sopravvivenza del singolo e della specie, poiché poteva incamerare più energia anche da esigua quantità di cibo. È questo il motivo per cui, per la maggior parte di noi, yogurt e latte interi risultano più buoni degli equivalenti parzialmente o totalmente scremati, o per cui alcuni cibi come la panna, il cioccolato, le noccioline, i formaggi stagionati, la mozzarella di bufala e la ricotta di pecora, piuttosto degli equivalenti di mucca, e gli alimenti sott’olio sono considerati molto allettanti.

L’evoluzione ha attratto l’uomo verso i grassi, non solo per un banale computo delle calorie, ma anche per tante altre virtù racchiuse in loro. I grassi veicolano all’uomo preziose vitamine liposolubili (che significa disciolte nei grassi), quali le vitamine A, D, E e K, implicate in processi cruciali quali la crescita, la lotta ai radicali liberi (artefici delle ossidazioni biologiche, responsabili dell’invecchiamento delle nostre cellule), la coagulazione del sangue e la visione. I trigliceridi svolgono poi il previdente compito di riserva energetica e di deposito, in grado di coprirci da un punto di vista energetico quando siamo impossibilitati ad approvvigionarci (ad esempio a causa di un’influenza) essi, inoltre, coibentano, cioè proteggono dagli sbalzi termici e dalle basse temperature. Gli acidi grassi, piuttosto che una riserva, sono un vero e proprio carburante biologico di pronto utilizzo, essi circolano nel sangue al fine di essere captati al bisogno dai diversi distretti corporei. Gli acidi grassi hanno anche un ruolo “strutturale”, perché sono i “pezzi di ricambio” biologici, ad esempio delle membrane cellulari, abbondantissime nel sistema nervoso (costituito per bel il 50% da grasso!). Essi hanno anche un ruolo “funzionale” (nel regno animale), poiché sono i precursori di molecole antinfiammatorie, di messaggeri cellulari, ecc…. Lo stesso colesterolo è un importante elemento delle membrane cellulari, in grado di regolarne la fluidità, ma anche un precursore di molti ormoni, ad esempio sessuali e del surrene.

Esistono poi degli speciali acidi grassi, poliinsaturi (con più doppi legami), noti con il nome di omega 3 ed omega 6; essi sono “essenziali” (termine già noto perché attribuito alla vitamine), che in pratica non siamo in grado di produrre autonomamente, ma dei quali ne abbiamo una assoluta necessità, per cui dobbiamo farli pervenire esclusivamente da fonti alimentari. Gli omega 3 (derivati dell’acido linolenico), sono abbondantissimi nel pesce azzurro, nel tonno, salmone e aringa, nella frutta secca, nell’olio di semi di lino e di mais, nei legumi. Ad essi sono attribuite proprietà simil-terapeutiche, tanto che le industrie alimentari ne hanno infarcito yogurt, latte e margarine spalmabili. Gli omega 3, infatti, sono componenti delle membrane cellulari del sistema nervoso, per questo la loro assunzione è fondamentale in gravidanza, quando il cervello fetale si sta strutturando; essi sembrano proteggere dall’insorgenza di malattie neurodegenerative come l’Alzheimer o, addirittura, in grado di contrastare l’insorgenza della depressione. Essi sono anche i mattoni che costruiscono molecole anti-infiammatorie, e poiché le infiammazioni biologiche, non solo sono la risposta del nostro organismo agli attacchi sferrati da virus e batteri (le infiammazioni associate alle ferite cutanee ad esempio), ma anche la causa di molte patologie cardiovascolari, da questo si evince il ruolo preventivo degli omega 3 su malattie quali: ipertensione, aterosclerosi, infarto, ictus. In parole, mi auguro, semplici, gli omega 3 agirebbero come una specie di “fluidificatore” del sangue (azione simile a quella svolta con altri meccanismi dalla cardioaspirina). A riprova di questo negli eschimesi, assidui consumatori di pesce, sui quali si sono concentrati numerosi studi, il sangue è talmente fluido, da causare frequenti fenomeni di epistassi (emorragia nasale) ed il rischio cardiovascolare è molto basso. Gli omega 6, derivati dell’acido linoleico negli oli di semi, in genere, promuovono le infiammazioni biologiche. Attualmente la nostra alimentazione è carente di omega 3 e troppo ricca di omega 6, favorendo, in associazione all’obesità ed alle conseguenze cliniche ad essa correlate, il perdurare di uno stato di rischiosa “infiammazione cronica”. L’eccesso di omega 6, a sfavore degli omega 3, deriva ad esempio dal crescente consumo di prodotti da forno che fanno uso di oli di semi (biscotti, pane in cassetta, dolci, grissini, cracker), pesci e carni in genere di allevamento, piuttosto che selvatici, nonché dalla nostra disabitudine a mangiare pesce e legumi.

Come orientarsi in questo panorama così complesso? Quanti grassi assumere? Quali prediligere? Quali evitare? Sono davvero utili gli alimenti light?

Il vecchio, ma esplicativo, sistema del “vero-falso” può tornare utile, al fine di rispondere a queste ed altre domande e di fornire al lettore alcune indicazioni di ordine pratico.

Bisogna assumere grassi tutti i giorni. (Vero)

I grassi dovrebbero rappresentare il 25-30% delle calorie giornaliere introdotte con gli alimenti, da distribuire in modo uniforme in tutta la giornata. È consigliabile scendere al 20% solo il particolari condizioni cliniche (pancreatiti, dislipidemie alimentari, ecc…).

Privarsi dei grassi è dannoso e in ogni modo non ci impedirebbe di ingrassare. (Vero)

Rimuovere (idealmente) tutti i grassi dall’alimentazione peggiorerebbe, irreversibilmente, il nostro stato di salute (per tutte le proprietà dei grassi riferite) e non ci impedirebbe di ingrassare. Riducendo i grassi, infatti, rischieremmo di eccedere nella quantità di carboidrati (pane, pasta, patate, riso e frutta), a partire dai quali il nostro corpo è ugualmente in grado di formare grasso. Dall’ossidazione dei carboidrati (glucosio) si ricava, infatti, acetil coenzima A, il quale può essere bruciato per ricavare energia di pronto utilizzo, ma anche utilizzato per sintetizzare grasso di riserva. Possiamo, inoltre, ingrassare mangiando solo frutta mentre, invece, se ci nutrissimo per un periodo solamente di grasso allo stato puro saremmo magrissimi, poiché per avviare la sintesi dei grassi sono necessari in ogni caso i carboidrati.

L’olio extravergine di oliva è salutare e se ne può assumere in grande quantità. (Falso)

L’olio d’oliva, seppure orgoglio della tradizione mediterranea, perché possiede proprietà antiossidanti e cardioprotettive, racchiude anche un notevole contenuto calorico (un cucchiaio d’olio ha circa 90 chilocalorie!). È bene, dunque, utilizzare olio d’oliva tutti i giorni come condimento d’elezione (meglio se a crudo per preservarne tutte le proprietà), ma in quantità che non superi i 3-8 cucchiai al dì (a seconda dell’età, sesso, peso corporea, attività fisica, ecc…).

Il burro fa male. (Falso)

Il burro, criminalizzato oltre misura, può essere tranquillamente utilizzato a crudo ed in sostituzione dell’olio di oliva (che deve essere il condimento di elezione). Alcuni acidi grassi del burro sono, inoltre, utilizzati come substrato energetico dal muscolo in attività fisica di tipo aerobico. Nessun problema, quindi, per gli sportivi che desiderino prima dell’allenamento una colazione a base di pane, burro e marmellata.

Gli oli vegetali fanno sempre bene. (Falso)

Alcuni oli vegetali tropicali (di palma, cocco, ecc…), sono ricchi di acidi grassi saturi e per questo dannosi. Essi sono camuffati nelle etichette di composizione degli alimenti dall’accattivante nome di “grassi vegetali”.

I grassi di origine animale possono essere dannosi. (Vero)

I grassi animali più dannosi sono sicuramente i trigliceridi e gli acidi grassi saturi. Per proteggersi è preferibile rimuovere sempre il grasso visibile delle carni prima della cottura, o il grasso degli affettati. Si può preparare un appetitoso piatto di pasta all’amatriciana o alla carbonara anche ripulendo la pancetta dal grasso e facendola bollire per alcuni minuti, prima di aggiungerla nel sugo in preparazione. In questo modo scenderanno vertiginosamente anche le calorie nel piatto.

Tutti i grassi animali sono dannosi. (Falso)

Gli acidi grassi omega 3 sono preziosissimi (vedi testo), essi abbondano nei pesci grassi come tonno, salmone, pesce spada, sardine, e tutto il pesce azzurro in genere. Bene anche le varianti affumicate dei pesci elencati che conservano tutte le proprietà, cosa invece non valida per lo scatolame. Possiamo anche assumere gli omega 3 dal latte e derivati di animali che pascolano, ad esempio pecore e capre.

La margarina fa bene perché vegetale. (Falso)

La margarina conserva del regno vegetale solo un vago ricordo, poiché tutte le proprietà che prima appartenevano agli oli vegetali da cui la margarina deriva, sono andate perdute nel processo industriale di solidificazione (idrogenazione, che trasforma i grassi insaturi in saturi).

Non bisogna eccedere con i grassi. (Vero)

Sebbene i grassi, quelli buoni, siano un prezioso alleato della salute, è meglio non eccedere, per non rischiare di prendere troppe calorie. È utile, ad esempio, regolare i condimenti (olio e burro) sulla base delle pietanze che mettiamo nel piatto, condendo a mano leggera ad esempio se si mangia mozzarella o formaggi stagionati (ricchi di grassi), piuttosto che pesce magro o petto di pollo (poveri di grassi).

Gli alimenti “light” a ridotto tenore di grassi sono utili. (Vero e Falso)

Gli alimenti a ridotto tenore di grassi, sono in genere il latte ed i suoi derivati come yogurt, formaggi spalmabili o formaggi freschi quali stracchino, certosa e mozzarella. Essi sono utili nel corso di una dieta ipocalorica di persone adulte, a patto di non eccedere con le porzioni pensando che siano privi di calorie. I cibi light sono anche utili nel caso di ipercolesterolemia. Nei bambini e negli adolescenti, nelle donne in gravidanza e nelle persone normopeso e senza problemi clinici è sconsigliabile, invece, il consumo di tali alimenti, per non perdere l’apporto di vitamine liposolubili.

Le uova fanno male perché piene di colesterolo. (Falso)

Due o tre uova la settimana fanno bene, anche se esse contengono colesterolo. Eliminarle dall’alimentazione, invece, ci priverebbe di una fonte preziosa di proteine nobili, ferro e vitamine. Il fegato è in grado di produrre autonomamente colesterolo, quindi, se questo è assunto per via alimentare, il nostro organismo si regola diminuendone la biosintesi. È l’eccesso di colesterolo, non altrimenti smaltito (poiché non siamo capaci di ossidarlo per ricavare energia), che può essere dannoso per cuore e vasi.

I prodotti integrati con fitosteroli possono essere utili per ridurre l’introduzione di colesterolo attraverso gli alimenti. (Vero)

Yogurt, pane o altri cibi funzionali integrati con steroli vegetali (dai due ai tre grammi), contribuiscono a limitare l’assorbimento di colesterolo, e sono consigliati nel caso di ipercolesterolemie alimentari (da distinguere da quelle metaboliche, per le quali limitare l’apporto di grassi nella dieta è insufficiente e che necessitano di farmaci specifici). È importante porre l’accento sul fatto che i fitosteroli devono essere assunti alla fine del pasto giornaliero, con maggiore contenuto di colesterolo, poiché assumerli isolati, ad esempio agli spuntini, sarebbe del tutto inutile.

La carne di maiale è grassa. (Falso)

Da quando i maiali sono nutriti con mangimi a base di mais, invece che con le ghiande, il contenuto di grassi nella loro carne si avvicina più a quello delle altri carni bianche (pollo, tacchino, coniglio ecc…, magre), piuttosto che alle carni rosse (vitellone, manzo ecc.., più grasse).

Per abbassare il livello di trigliceridi nel sangue bisogna mangiare meno grassi (Vero e Falso).

In caso di ipertrigliceridemia è utile ridurre non solo i grassi nella dieta, ma anche gli zuccheri semplici (caramelle, dolci, bibite gassate, frutta, saccarosio, ecc…) e l’alcool.

Infine, è importante ricordare che è l’ “errore quotidiano”, sistematico e reiterato nel tempo ad influire significativamente sul benessere fisico, piuttosto che la “sporadica eccezione”. Il prelibato cotechino fasciato all’Artusi, ad esempio, pregustato nei giorni di festa o nel calore di un ambiente familiare, può altresì rappresentare una boccata d’aria, una piacevole trasgressione, un toccasana per l’altrettanto ricercato e ugualmente prezioso benessere psichico.

* Dice di sé:
Tiziana Stallone. Biologo e dottore di ricerca in anatomia umana, svolgo la libera professione di nutrizionista clinico. Le mie passioni: lavoro, musica, cinema, viaggi, alberi e cimiteri. tiziana.stallone@virgilio.it.

INTERVISTE. Paola Harris - Il ministro canadese che non voleva credere agli Ufo fino a quando...

ntervista esclusiva a Paul Hellyer, ex ministro della Difesa ed ex vicepremier del Canada. È il momento di rivelare la verità sugli UFO: i governi – quelli permanenti e quelli provvisori – devono assumersi le loro responsabilità
Paola Harris * 

Il nome di Paul Hellyer è balzato agli “onori” delle cronache ufologiche internazionali in seguito alle sue dichiarazioni e alla sua clamorosa proposta rivolta agli USA perché si arrivi, in breve tempo, a dichiarare la verità sul fenomeno UFO e sul cover-up imposto dai governi maggiormente coinvolti nella questione. Hellyer ha utilizzato termini molto impopolari, in politica. Nel corso dell’intervista che mi ha concesso, a Toronto, sono entrata subito in argomento, domandandogli:

Quando ha cominciato ad interessarsi all’argomento UFO? E quando ad interrogarsi su quello che volava nei nostri cieli? Era ancora ragazzo, fu quindi la classica curiosità giovanile, oppure fu nel periodo in cui lavorava per il Ministero della Difesa?

“Non è esatto. È stato di recente. Quando ero Ministro della Difesa, sulla mia scrivania arrivavano dei rapporti di avvistamenti. Indicavano solo se ci fosse o meno una qualche spiegazione naturale e io ero di gran lunga troppo occupato, all’epoca, per preoccuparmene. Ero il ministro che unificò le Forze Armate, il Royal Canadian Army, la Royal Canadian Navy e la Royal Canadian Air Force in una sola forza armata. Una mossa senza precedenti per il mondo occidentale. Robert McNamara, allora Segretario della Difesa statunitense, disse che questo era ciò che desideravano tutti i ministri, ma non avevano il fegato di farlo. In realtà, fu la guerra a renderlo possibile”.

Questo avvenne negli anni ’60 con Robert McNamara, segretario alla Difesa per la presidenza Kennedy?

“Sì, erano gli anni ’60, ma allora non mi interessavano gli UFO, avevo troppo altro da fare. La vera curiosità è venuta, credo, negli ultimi tempi, quando alcuni amici hanno cominciato a inviarmi del materiale, che però non avevo tempo di leggere, così lo mettevo da parte, sullo scaffale, in attesa di consultarlo in futuro. Devo ammettere che fu solo dopo che portai il libro del Colonnello Corso nel mio cottage a Muskoska, un anno fa, e mi sedetti a leggerlo, allora si risvegliò il mio interesse, perché sapevo che era vero. Mi dissi “Ehi, qui c’è qualcosa che voglio scoprire, perché è importante e vi sono molte tematiche politiche su cui dovrò riflettere”.

Chi le ha dato quel libro?

“Mi sembra sia stato Pierre Jeauneau. Pierre, è solito inoltrarmi parecchia roba. È sempre premuroso e sa quanto sono oberato di lavoro, è la verità, può constatarlo dalla mia scrivania”.

Lei è impegnato in molti campi.

“È vero. Lavoro giorno e notte. La gente mi chiede cosa faccio ora che sono in pensione, e la sola differenza è che lavoro, più o meno, solo sei giorni la settimana, adesso. Quando lessi il libro di Corso capii che era autentico. Mi sono chiesto “chi potrebbe essere in grado di scrivere una fiction come questa?”. In un anno, leggo solo pochi libri, ma quello di Corso era talmente convincente che fino alla fine non seppi decidere, al 100%, se si trattasse di fatti reali o di finzione. Esisteva anche solo una possibilità che fosse finzione? Conclusi che non era possibile, perché c’erano troppe date, troppi nomi e troppi riferimenti che conoscevo, in quanto ex ministro della Difesa, e che riconoscevo come corretti. Il libro immediatamente suscitò in me un forte interesse e una profonda apprensione”.

Risulta anche che lei abbia interpellato un generale a quattro stelle degli Stati Uniti…

“Non posso dire di chi si tratta, o quante stelle abbia. Stavo leggendo il libro e ne parlai con mio nipote, che si trovava in visita da me per un paio di giorni. Come la gran parte della gente, era scettico e non aveva problemi ad ammetterlo. Due settimane dopo mi chiamò. Mi disse di aver parlato con il mio amico generale in pensione e citò le sue parole: “È vera ogni singola parola e anche di più”. E poi aggiunse: “Quel libro, devo assolutamente leggerlo!”.

Beh, il libro fu un best seller e uscì in occasione del 50° anniversario dello schianto di Roswell. Vi sono gruppi che credono che l’incidente non sia neppure accaduto, mentre il Colonnello Corso, nel libro Il Giorno Dopo Roswell e nei suoi appunti originali – il diario L’Alba di una Nuova Era – racconta di aver visto un corpo a Fort Riley, Kansas, nel 1947. Quindi non si tratta solo del suo lavoro al Pentagono, ma del fatto che vide anche il corpo di un E.T., il che è molto importante. Mi sembra di capire che questo ha cambiato il suo modo di pensare rispetto a molte cose, che l’ha incuriosita e che ha preso la questione sul serio. Questo, perché riguarda la sicurezza nazionale o perché, da essere umano, ha cambiato il suo modo di concepire il mondo?

“Ha stimolato la mia curiosità e la mia apprensione, perché riconosco le questioni politiche quando me le trovo davanti. Sul piano politico, si prenda la dichiarazione del Generale Twining (Nathan Twining, membro MJ-12, N.d.R.), il quale definì questi popoli come “nemici alieni”. Dunque la mia prima domanda è: “Sono ancora considerati alieni?”. Perché, se lo sono, l’Esercito degli Stati Uniti si sta preparando ad annientarli. Poi mi sono chiesto, se (gli alieni) impiegassero una tecnologia superiore, cosa succederebbe? Subirebbero un attacco o adotterebbero tale tecnologia per reagire pesantemente alla provocazione? Quali sarebbero le conseguenze per gli Stati Uniti e per il mondo intero? È una questione di enorme importanza. Ovvio che, fra le altre considerazioni politiche, c’è che se questa tecnologia è tanto stupefacente potrebbe venire utilizzata per salvare in nostro pianeta dalla distruzione ambientale? Potremmo fare a meno di bruciare combustibili fossili e salvare la fascia di ozono, fermare lo scioglimento delle Calotte Polari e il conseguente innalzamento del livello del mare in tutto il mondo, o impedire la distruzione del sistema climatico? Credo che moltissima gente sia più preoccupata di quanto sia disposta ad ammettere ed è per questo che il clima è di enorme importanza. La terza considerazione è che, naturalmente, tutto ciò conferma che gli alti gradi non stanno raccontando la verità su Roswell. Questo è chiaro. Ho visto alcuni di loro in televisione, non molto tempo fa, e la linea di partito è ancora quella del pallone meteorologico, e ho sentito dozzine di altri dire di aver giurato segretezza. Così mi sono detto: “Aspetta un minuto! Non prendiamoci in giro! Far giurare segretezza a causa dello schianto di un pallone meteorologico?”.

Non ha senso!

“Beh, non è credibile! Quindi, per come vanno le cose, possono tacciare di mancanza di credibilità le persone che sostengono che questi schianti sono veri, ma a mio parere sono proprio quelli che sostengono che si trattò di un pallone meteorologico a non essere in alcun modo credibili. Questo è cover-up: sono convinto che ci sia stato un cover-up sistematico e ben riuscito, per mezzo secolo, se non di più. L’intero cover-up conferisce credibilità alla teoria di Lewis Lapham, il direttore di Harper’s Magazine, sui due governi. Immagino che ne abbia sentito parlare”.

Il governo ombra e il vero governo?

“Quello permanente e quello provvisorio, o il permanente e il provvisorio. Lapham ritiene che il Governo degli Stati Uniti permanente sia rappresentato dall’elenco dei cinquecento nomi di “Fortune”, dai maggiori studi legali di Washington che li assistono e dalle principali agenzie di che si occupano delle loro pubbliche relazioni, o per essere un po’ più schietti, della loro propaganda, senza dimenticare i mezzibusti, sia militari che civili. Sono loro a governare gli Stati Uniti e ogni tot anni, mi consenta una parafrasi da ex politico, organizzano una farsa chiamata “elezioni” e il governo permanente sceglie gli attori che dovranno calcare il palcoscenico e leggere il copione scritto dal governo programmato, assoldando attori che non improvviseranno troppo e che eseguiranno ciò che viene detto loro di fare, gli daranno dei soldi per essere eletti e nessun altro si presenterà, perché le elezioni sono diventate un affare troppo dispendioso, soprattutto negli Stati Uniti, dove servono somme astronomiche per essere eletti. Chi non abbia alle spalle l’establishment, non è neppure in lizza. La chiamano Democrazia, ma è solo un nonsenso. A mio avviso questo conferma l’esistenza di un vero problema nei paesi che definiamo democratici, dove noi siamo, sostanzialmente, i burattini di persone che si considerano proprietarie del nostro sistema sociale, quindi spesso non ha alcuna importanza chi eleggiamo, perché chi viene eletto non apporterà alcun cambiamento importante. Queste sono questioni politiche fondamentali, che mi interessano, anzi, ritengo che debbano essere affrontate e risolte in primo luogo per gli Stati Uniti, ma anche per tutta l’umanità, perché noi siamo subalterni agli Stati Uniti in tutto ciò in cui sono coinvolti. Basta prendere il giornale di oggi, per leggere che il nostro nuovo Ministro della Difesa sotto il nuovo governo di minoranza, Stephen Harper, ha dichiarato di voler riproporre la questione della difesa antimissilistica. Ho drizzato subito le antenne. Faremo dunque parte di questo business nel costruire un sistema studiato per misurarsi con gli “intrusi alieni”. Vogliamo farne parte? Sembra chiaro che vorremmo farne parte senza neppure sapere cosa stiamo facendo. Allora, vuol dire che il nostro Primo Ministro è… nel giro? Assolutamente no! Sono sicuro che non lo è. E che dire del nostro Ministro della Difesa, un semplice Generale di Brigata (grado, in Canada, inferiore a contrammiraglio, n.d.r.), lui può esserci, nel giro? Certamente no. Si allinea semplicemente al giudizio convenzionale secondo il quale va realizzato un sistema che ci protegga da missili nemici, da parte di solo il cielo sa chi, si associa alla linea politica, alla storia di copertura ed è qui che io dico “questo non mi sta bene”. Prima di cominciare a spendere soldi, dobbiamo avere fatti, cifre e informazioni reali, per giustificare l’impegno di risorse e di tempo, deviati da cose di gran lunga più importanti, entrando oltretutto a far parte di un progetto che probabilmente per noi non va bene affatto”.

Insomma, lei si rende conto di sostenere la causa del disclosure. Schierarsi a favore del disclosure (rivelazione, divulgazione di una realtà tenuta nascosta, n.d.r.), vuol dire sfilare il tappeto da sotto i piedi di molte potenti istituzioni, a partire da quelle finanziarie, religiose e politiche, il che è in fondo la ragione per cui un sacco di gente sta mantenendo “segreto il segreto”? Come pensa di affrontare questo lato della questione?

“Io credo nella ricerca della verità, nella “Buona Novella” sta scritto che la Verità vi renderà liberi. Non esiste altro approccio. Non si può vivere nella menzogna. Sono una persona religiosa e non sono minimamente preoccupato per il futuro del disclosure. Sono assolutamente convinto che scopriremo la verità, per me è semplicemente naturale e inevitabile che esistano altre razze, altrove nella galassia o nelle galassie, tecnologicamente più avanzate di noi e probabilmente più avanzate spiritualmente, e che dovremmo cooperare con loro, apprendere da loro e lavorare insieme per costruire un mondo migliore. Prima dobbiamo preoccuparci di migliorare il nostro mondo, poi avremo modo di collaborare per migliorare la galassia o le galassie. Queste sono le politiche che dovremmo adottare, e non spendere centinaia di milioni di dollari, quando ci sono milioni di persone sul nostro pianeta che muoiono di fame o di malattie. Sul piatto della bilancia da una parte c’è un progetto che costa qualche centinaio di milioni di dollari solo per soddisfare le brame del complesso militare e industriale, dall’altra la possibilità di salvare alcune centinaia di milioni di vite umane che altrimenti non avranno scampo. Non le stiamo aiutando affatto, eppure avremmo la capacità e le risorse per farlo e per dare loro una vita migliore”.

Ci stiamo addentrando in un discorso anche filosofico. Come ufologa, so che c’è una grande quantità di avvistamenti, li abbiamo sempre catalogati. Ve ne sono a migliaia e migliaia. Il fenomeno interessa il Sud America, l’Europa, l’Asia; ovunque abbiamo prove a sufficienza dell’esistenza di avvistamenti di questi oggetti anomali. Ma ora dobbiamo rispondere a un interrogativo di taglio filosofico: una volta ottenuta la verità, cosa ne faremo? Quale sarà la nuova dimensione politica? L’argomento viene sviluppato in una nuova area di cui si interessano il Dr. Michael Salla e Alfred Webre, chiamata “esopolitica”. Lei è d’accordo sul fatto che spetta a noi unirci per il futuro, persino a livello popolare, dal momento che i politici non lo stanno facendo, al fine di sviluppare politiche che riguardano il contatto?

“Sono convinto che si debba fare qualcosa. Plaudo ai loro sforzi. Dobbiamo fare qualcosa di positivo attraverso la cooperazione e Alfred Webre ha suggerito un periodo di dieci anni di contatto e cooperazione. Credo sarebbe straordinario e solo il cielo sa a cosa ci porterebbe. Ma credo che sarebbe di gran lunga più positivo che passare i prossimi dieci anni cercando di costruire un sistema militare in grado innescare un conflitto intergalattico”.

Che potremmo non vincere…

“Certo che non lo vinceremo. Ma questa è una possibilità che alcuni militari non prenderebbero mai in considerazione. Secondo loro andremmo avanti fino alla vittoria. Conosco la mentalità militare”.

È anche perché la guerra porta “soldi”. Abbiamo a che fare con un complesso che vive dei finanziamenti derivati da queste situazioni.

“Solo certe persone fanno i soldi e il resto di noi si indebita. Il nostro è un sistema monetario decisamente peculiare, che si può conoscere e non conoscere, è uno dei miei interessi da una vita”.

Sì! Vedo che ha scritto alcuni libri di economia. Non sapevo che fosse così prolifico in quest’area…. “Surviving the Financial Crisis” e “Agenda Plan for Action”… ha scritto molti libri sul sistema monetario.

“È un sistema particolare, che decide come si spendono soldi per vincere una guerra. Ma il modo in cui lo facciamo è indebitandoci ulteriormente e, di conseguenza, ogni volta facciamo un’altra guerra, la gente ha il fardello di un altro debito su di sé mentre pochi, i padroni delle industrie degli armamenti, sono i beneficiari. Ma i beneficiari delle industrie belliche non sono certo quelli che vanno a combattere. Sono quelli che vivono nel lusso continuo, sotto la guerra. Mentre è la povera gente che va a combattere, è la povera gente che perde i figli e i padri, gli zii e i fratelli, e che poi deve anche sostenere il debito pubblico, invece di essere libera di ricostruirsi una vita migliore. Dietro tutto questo ci sono enormi interessi politici. Interessi talmente grandi che ho difficoltà a trovare le parole per descriverli”.

Per la gente comune, se dovesse darci un consiglio, quale sarebbe? Molto di quanto lei ha avuto il coraggio di chiedere al Presidente Bush – come il riconsiderare la base sulla Luna – è stato riportato sulla nostra rivista “Area 51” – ma, a livello di gente comune, a coloro che si rendono conto che quanto sta dicendo è giusto e che è la verità, quale consiglio darebbe per un futuro migliore? Lei parla a livello politico perché ricopre una certa posizione, ma a noi, la “gente” cosa consiglierebbe?

“La gente dovrebbe tenersi informata per come può. Le notizie non mancano. È stata lei a fare cenno al Disclosure Project, al fatto che ha un po’ catalizzato l’attenzione dei media”.

Il Disclosure Project di Steven Greer ha avuto i requisiti di un evento mediatico molto ben orchestrato, per affrontare l’argomento UFO.

“Dobbiamo usare internet a livello globale, per diffondere le informazioni e usare questo veicolo affinché la gente chieda ai propri politici di agire. Da un po’ di tempo in Canada c’è un gruppo di amici che sta chiedendo al Comitato Difesa del Senato di aprire un’inchiesta e di ascoltare alcuni dei testimoni del Disclosure Project di Greer, e altri testimoni ancora, e di parlare con loro. Credo che in Canada ci sarà un riscontro da parte della stampa”.

Pensa che il Canada possa ricevere pressioni esterne per non farlo?

“È possibile, ma se si sottometteranno, sarà soltanto l’ennesima prova di quanto siamo subalterni rispetto a quello che l'”elefante bianco” ci dice di fare. Se sarà una nostra iniziativa, potrebbero derivarne delle pressioni. Mi spiego: di solito, le comunicazioni vanno dal Sud al Nord, ma a volte capita il contrario. Alcuni ascoltano la Canadian Broadcasting Corporation e altri network: se si riuscisse a ottenere una buona pubblicità, le notizie potrebbero passare il confine sud, raggiungere gli USA e incoraggiare gli Americani ad attivarsi. A quel punto, gli Americani dovrebbero chiedere ai membri del Congresso, cosa diamine stanno facendo con i loro soldi. Quali sono i progetti? Quali sono i progetti segreti e quali le conseguenze militari? Saranno gli Americani a dover spingere i membri del Congresso a chiarire la faccenda dei progetti segreti. E, ancora, dovranno chiedere se i politici considerano questi popoli alieni come nemici… e, se è così, perché? Dimostratecelo e mostrateci le prove. Credo che l’unica cosa da fare sia continuare a fare pressione sui politici dicendo: “Ehi, ti ho eletto per prenderti cura dei nostri interessi e non per fare quello che dicono i servizi segreti!”. Quelli non li ha eletti nessuno. Sono solo un manipolo di individui che si credono padroni del mondo, che fanno solo il proprio interesse, entro una cerchia ristretta in cui mentono l’un l’altro. E una volta che ti abitui alla menzogna, lo farai anche con il pubblico. Abbiamo la grande responsabilità di premere sui politici perché dicano che il momento è arrivato. Completo Disclosure. Vogliamo sapere e di conseguenza avere il potere di decidere se vogliamo imbarcarci in un progetto per salvare il pianeta in collaborazione con altri, oppure lasciargli mano libera per costruire una migliore e più potente bomba all’idrogeno, per far saltare i bunker e per fare molte altre cose che porterebbero, alla fine, a un pianeta virtualmente inabitabile, o relativamente inabitabile e la scelta, sembra essere quest’ultima”.

OK. Può darci un’anticipazione di ciò che scriverà nel capitolo del suo libro dedicato a questo argomento?

In sostanza, quello che ho appena esposto. A cominciare dalle prove portate da persone che hanno grande esperienza in questo campo. Ma non fornirò troppi esempi, per non intasare un intero capitolo e per non dilungarmi. Sceglierò, forse, otto o dieci testimoni fra i più attendibili, con esperienze dirette, e parlerò direttamente con loro, in modo da poterli citare in quanto affidabili e veritieri. Non penso sia molta la gente che sta dicendo la verità. Oggi è il momento del completo disclosure. Dovrò spiegarne le ragioni e ne svilupperò alcuni aspetti politici, anche come riflessi sulla politica monetaria. Vi sarà un filo conduttore che legherà tutto.

Tutto è collegato. C’è un aspetto “futuristico” in questo, una filosofia dell’esopolitica, sul come rapportarsi con questa realtà. In altre parole, “che si abbia voce in capitolo su come andranno le cose nel futuro”! La nostra è un’euforia contagiosa, che può spingere altri ad andare avanti, a dare loro una “speranza”. Perché un nuovo futuro è possibile. Comunque, quando uscirà questo libro?

Ci metterò un paio due anni per scriverlo. Voglio portare avanti una ricerca adeguata e renderla attendibile per quanto riuscirò a fare. Non ho una scadenza ma, allo stesso tempo, voglio iniziare prima possibile e spero di ultimarlo in tempo per le prossime elezioni presidenziali americane! Per certi versi, non è importante, ma per altri potrebbe fornire consigli agli elettori sul tipo di alternative cui dovrebbero guardare nelle scelte di partito, sia negli Stati Uniti sia in Canada. Sarà il mio ultimo tentativo, credo. Per questo voglio che venga bene. Cercherò di collegare i punti in un insieme.

Stati Uniti e Canada, ma aggiungerei che noi in Europa la stiamo seguendo attentamente. Perché, vede, qualsiasi cosa accada qui, si riflette dall’altro lato dell’oceano. Il suo contributo ci fa capire che tutto questo influisce su tutti noi.

È una comunità globale, tutti sono coinvolti e il sistema monetario è universale. Non mi riferisco solo al Nord America. Ciò di cui parliamo è universale. Il fatto che ci siano persone che muoiono di fame, in una parte del mondo, e gente ricca e ipernutrita dall’altra, è universale, non è ristretto ad una singola area geografica. Io, dal mio canto, mi concentrerò su quella che conosco meglio. Potremo avere un mondo di pace, se ci saranno donne e uomini di buona volontà. Ma non vedo, oggi, donne e uomini e donne di buona volontà. Siamo più interessati ad ucciderci a vicenda, piuttosto che aiutarci a vicenda. Dunque, se in qualche modo possiamo cambiare le cose, rivedere le nostre priorità per cambiare rotta, per la nostra vita e per le nostre spese, per emancipare l’umanità e per “le altre specie”, allora cominciamo a pensare che “desiderare un futuro positivo” non è un’utopia, ma una realtà positiva. È possibile, ne abbiamo i mezzi! Abbiamo la tecnologia, non ci manca nulla, tranne la volontà politica di farlo. Quella manca. Il Generale Eisenhower ci mise in guardia. Immagino che fosse al corrente della questione UFO, quando dichiarò: “State attenti al complesso dell’industria militare”. Probabilmente, aveva concluso che alcune informazioni da parte degli E.T. stavano andando a finire nelle mani sbagliate e che in qualche modo dovevamo ristabilire il controllo pubblico su quanto accadeva.

Ci ha dato un po’ di speranza. In Europa la maggior parte è cento volte indietro rispetto a lei. Aspettiamo il libro. Abbiamo bisogno di sviluppare una filosofia dell’esopolitica a livello della gente comune. Avere una persona del suo calibro che parla, aiuta a convalidare l’ottica dell’esopolitica. Aiuterà non solamente noi, ma l’intero pianeta. Grazie.

Speriamo di poter lavorare insieme e di produrre qualche risultato positivo.

* Dice di sé:
Paola Harris. Giornalista italo-americana, reporter investigativa nel settore della ricerca dei fenomeni extraterresti.

POLEMICHE. Rachele Zinzocchi - Gubitosi: il festival di Giffoni? Una libertà strozzata

In tutto il mondo ha successo la manifestazione cinematografica, incentrata sui giovani, “la più importante” secondo Truffaut. Imprevedibili trappole, invece, si scoprono nel profondo Sud
Rachele Zinzocchi * 

“Il Giffoni Film Festival ha sempre significato spinta verso il nuovo, superamento dei confini. Ma ora, per la prima volta nella mia vita e dopo quasi quattro decenni di attività, mi trovo a fare i conti con un ostacolo che mai mi sarei aspettato: una brutta “questione meridionale”, l’arroganza dei politici locali, la loro pochezza nell’interpretare i disagi veri del territorio. Il Festival di Giffoni fa invidia al mondo, ma qui non viene considerato. Io a Giffoni sono nato: c’ho portato il mondo e ho portato nel mondo Giffoni. Ma oggi sembra che non ci sia più la possibilità di supportare la creatività, la capacità di industria del Festival. Tutt’a un tratto mancano i finanziamenti: ed è con la mia regione, la mia provincia, che mi trovo oggi a competere, dovendomi preoccupare di dove possono aver piazzato le “trappole”, le mine pronte a soffocare la realtà di Giffoni. Ma io non ci sto. Protesto: dico no.

Sono pronto anche a far adottare il Festival da altri Paesi nel mondo, se sarà necessario. O si fa capire alla classe politica locale che bisogna osare, senza aver paura di una grande idea, oppure… addio a Giffoni e alla sua storia. In quel caso, vorrà dire che siamo davvero incapaci di reggere l’urto della modernità, invidiosi che qualcosa vada sul serio oltre i confini. Ci abbiamo messo 37 anni per crescere: ma bastano 30 secondi per finire nell ’oblio. E io sono abituato a vivere, non a campare. Chi campa poi muore. Ma chi vive, fa vivere”.

Non va per il sottile Claudio Gubitosi, ideatore e direttore artistico del Giffoni Film Festival. E, per la prima volta, decide di lasciarsi andare ad affermazioni davvero forti: destinate a suscitare scalpore. D’altronde Gubitosi e il “suo” Festival hanno alle spalle una storia che parla da sola. Lui ha fatto tutto da sé, 36 anni fa, partendo da zero: con l’entusiasmo e il coraggio che solo uno spirito libero, con voglia di novità vera, può avere. Gubitosi ha reso Giffoni, un paese allora ignoto ai più – “un posto remoto dell’entroterra salernitano” – una delle località più note a livello mondiale, con una manifestazione riconosciuta ovunque come evento leader nel proprio settore. Ma, si direbbe, proprio chi è più vicino a tutto questo, e dovrebbe gioirne maggiormente, sembra non comprendere – o non più – ciò che Giffoni è e può portare. Il pericolo? Finire per soffocare quello spirito di iniziativa, libertaria e liberale, che aveva a suo tempo partorito un’idea davvero innovativa: valorizzare i giovani, promuovere il loro sviluppo e la loro formazione, personale e professionale. Il problema, insomma, è rischiare di cancellare quella “U-topia” ideale di libertà e spazio per il nuovo, quell’ “Isola-che-non-c’è” e che, invece, è sempre stata realtà concreta nel Giffoni Film Festival.

L’idea nasce tanto tempo fa, dalla mente di Gubitosi, nel 1971: promuovere la cinematografia per ragazzi nel mondo, realizzando quello che era ed è tuttora l’unico Festival ove la giuria è composta esclusivamente da minorenni. “Nasce piccolo il Giffoni Film Festival”, ha più volte spiegato Gubitosi, “in un momento storico in cui sembra una follia parlare del leggero cinema per ragazzi, mentre si addensa la pesante atmosfera degli anni di piombo”. Eppure il Festival spicca il volo: “Un segnale che qualcosa di positivo al Sud si può ancora fare”. “Anzi, proprio le debolezze del mio territorio sono state i miei successi”, racconta.

“Quando tornavo a Giffoni, dopo i miei viaggi in giro per l’Europa, avevo fisse in mente le immagini di città come Cannes, Berlino… E certo, rivedendo invece il panorama del mio paese, coi panni appesi ai balconi, tante cose che non andavano… un po’ di terrore l’avevo, che fosse impossibile costruire proprio lì un evento di portata internazionale. Ma c’erano solo due alternative: o badavo alle forme – e allora non mi restava che arrendermi! Oppure potevo chiedermi se l’idea che avevo era davvero grande. La mia risposta era sì. E allora non potevo lasciarmi condizionare dal contenitore: dovevo proseguire imperterrito per la mia strada, portando avanti la mia idea. Senza certo pretendere, però, di trasformare tutt’a un tratto il mio contenitore, Giffoni e la sua realtà. Dovevo guardare le cose da un punto di vista diverso. Allora ho “preso il calzino e l’ho girato”: ho capito cioè che città come Cannes e Berlino non erano poi così diverse dalla mio Giffoni. Anche loro erano popolate di persone che tenevano i panni appesi alle finestre, che per strada giravano in canottiera… E se città così potevano permettersi Festival grandiosi, allora anche a Giffoni si poteva fare altrettanto: realizzare un Festival vero, reale, non costruito nella plastica della pura apparenza, fatta di luci e forme che poi spariscono”.

Cotinua, con passione: “In quell’attimo ho capito di avere in mano un grande patrimonio, che andava solo messo a frutto. Ho colto al volo quell’attimo fuggente e tutto è cambiato: io, la mia vita, ma soprattutto Giffoni e il mio territorio, che ho potuto mettere in condizione di mutare completamente, grazie al Festival cui ho dato vita”. Così, lo spirito libertario di Gubitosi ha deciso di andare contro le presunte regole, contro ciò che a tutti sarebbe sembrato scontato: non tenendo conto dell’apparente limite, del confine rappresentato dal proprio paese, ma trasformando anzi quel confine in un trampolino di lancio verso il successo.

“Oggi il mio paese non è solo Giffoni”, dice. “È fatto da tutte le migliaia di comuni coinvolti nel Giffoni Film Festival, tutte i luoghi, piccoli o grandi, che si sentono in grado di poter vivere questo spazio nel tempo. Giffoni è diventato una sorta di testimonial, un punto di riferimento. Molti l’hanno ritenuto un azzardo: è stata invece una prova di coraggio, che oggi dà la forza anche ad altri di credere in se stessi”. Già nei primi anni Ottanta il Festival si impone alla ribalta nazionale. Nel 1982, una consacrazione cruciale e decisiva. Françoise Truffaut dice: “Di tutti i festival, Giffoni è il più necessario”.

La formula era già collaudata. “Il cinema dei ragazzi deve essere visto, discusso e giudicato esclusivamente da ragazzi», ha sempre detto Gubitosi “da giovani e giovanissimi a cui viene aperto il microfono per far sentire la loro voce, senza filtro di adulti che ne condizionino pareri e preferenze”. Lo scopo è sempre stato quello di «dedicarci ai ragazzi, alla loro voce e alle loro emozioni, alle loro menti e ai loro cuori, ai loro desideri e alle loro paure», con una grande attenzione verso il tessuto sociale ed antropologico dei giovani, come mostra la cura costante nella scelta dei film da presentare loro, selezionati fra circa 1600 lungometraggi e cortometraggi da tutto il mondo. E la stessa giuria del Festival è appunto composta da un mondo di giovani: o, meglio, dai “giovani del mondo”. Quasi 2000 ragazzi dai 6 ai 19 anni, provenienti da ogni parte d’Italia e da una trentina di nazioni, con diverse etnie, culture, differenti stili di vita e religioni. Ma anche questa è la ricchezza del Festival: riuscire a far sedere “ragazzi palestinesi e israeliani alla tavola dello stesso ristorante”, a far sì che “iraniani e americani si scambino la loro email per non perdersi di vista”. Non è solo cinema: è la realizzazione di una libera convivenza tra i popoli e tra le diverse idee.

Innumerevoli gli ospiti internazionali che negli anni sono arrivati a Giffoni: da Gorbaciov a Lech Walesa, passando per Robert De Niro, Meryl Streep, Ben Kingsley, Oliver Stone, Jeremy Irons. E italiani “mondiali” come Roberto Benigni: o Sergio Leone, Dino Risi, Giuseppe Tornatore, Michelangelo Antonioni, Raoul Bova, Riccardo Scamarcio… Ma se il primo passo è stato portare il mondo a Giffoni, la seconda, vera sfida – tuttora in pieno sviluppo – è stata quella di voler portare Giffoni nel mondo. Così è nata a Berlino la prima prova sul campo: cui poi hanno fatto seguito iniziative analoghe a Miami (con il Next Gen Film Festival), in Europa, in Polonia, in Albania, e proprio di recente il grande successo ad Adelaide, in Australia. Senza contare Los Angeles, con il Giffoni Hollywood.

Persino Dubai è stata coinvolta: e si è creato il Giffoni World Alliance, una sorta di “rete” mondiale in cui ogni snodo fa capo al centro, il piccolo-grande Giffoni. In questi anni il Festival di Giffoni è divenuto così ben più che un festival di cinema. È piuttosto a un’azienda culturale, un’officina della creatività al servizio dei giovani. Soprattutto perché, come Gubitosi ribadisce costantemente, la rassegna ha perso il carattere della stagionalità. Non si esaurisce cioè nei pochi giorni che costituiscono l’evento Festival, o nel periodo necessario all’organizzazione. Nuove iniziative vengono continuamente prodotte e svolte lungo tutto il corso dell’anno, dando lavoro così a tantissime persone: per lo più, proprio a giovani, che vengono formati sul campo e trasformati in professionisti dello spettacolo. E di grande aiuto non solo per la crescita della manifestazione, ma anche per la creazione di quell’humus necessario ad innervare lo sviluppo culturale della Campania. “Ho dato la mia vita per quest’idea”, spiega Gubitosi “e a tanti ho chiesto almeno un anno del loro tempo per aiutarmi a realizzarla. Oggi ho 60 collaboratori fissi, 180 persone che lavorano con me a contratto. Perciò questa è una vera industria, un’industria di cultura”.

“Un’oasi”, la definisce “in mezzo al deserto della sempre depressa area meridionale”. Oggi il Festival ha raggiunto i suoi obiettivi. Il segmento Children & Family rappresenta oltre il 60% del media business mondiale. Il sito internet www.giffoni.it vanta ormai oltre 10 milioni di accessi unici durante l’anno. Solo alla soirée del Festival gli spettatori sono in media 130mila, e si contano circa 220mila tra spettatori e visitatori nell’edizione annuale. Ricerche Abacus indicano un giudizio globale di gradimento pari oggi all’89.8%. E c’è un nuovo, grandioso progetto: la realizzazione di Giffoni Multimedia Valley, quella che Gubitosi ha chiamato “la vera rivoluzione copernicana di questo Festival”, “la grande città del cinema dei giovani», «un polo creativo come non ce ne sono altri nel Meridione”. Sì, perché il segreto della crescita sta forse proprio nella coerenza sempre mantenuta con la propria ispirazione originaria, la propria anima, quella che ha dato vita all’idea: i ragazzi e il loro valore. Dinanzi a una realtà come questa, si dovrebbe dunque poter andare a mietere solo successi, a trovare solo porte aperte… Purtroppo, le cose non vanno sempre così. E in questo caso la libertà, da sempre spirito del Festival, parrebbe rischiare di finire invece strozzata proprio dall’apparente ostilità di chi è più vicino a Giffoni. Laddove magari invece, nella lontana Australia, Gubitosi è accolte con tappeti rossi e ponti d’oro.

La prossima edizione del Festival si terrà fra poco, dal 12 al 21 luglio: e non a caso sarà dedicata al tema dei confini. “I confini per me sono un po’ come il giorno e la notte”, afferma Gubitosi. “La notte non mi fa paura, mi dà un senso di protezione. E ugualmente amo la luce. I confini per me sfumano: sono abituato a oltrepassarli. Fin da quando – e avevo solo 15 anni, nemmeno sapevo com’era fatta Salerno – sono partito da un “non-territorio”, un “non-paese”, e non ho avuto timore di imbarcarmi in un’iniziativa che poteva liberare il mio paese così come altri territori. Certo, la mia città, la mia stessa famiglia potevano prendermi per matto all’inizio… E in effetti ne ho passate di tutte. Ma sono andato avanti. Quello che però, oggi, mai avrei potuto immaginare è che, tutt’a un tratto, il mio confine diventasse proprio il mio paese. Mai mi sarei aspettato che, a pormi limiti, fosse il mio territorio. Com’è possibile che accada una cosa del genere ora, a distanza di quattro decenni dall’inizio di tutto? Perciò quest’anno ho osato: e ho deciso di dedicare esplicitamente l’edizione del Festival al tema dei confini”..

“Andiamo con ordine”, gli dico. “Qual è il problema che vede? In che modo il suo territorio, Giffoni, sarebbe diventato improvvisamente il limite – suo e del Festival?”.

“C’è un problema che sta venendo alla luce”, spiega “e mi dà particolare sofferenza. Si tratta di quella che, in passato, veniva definita la questione meridionale. Bene, io non ho mai capito cosa fosse esattamente. Ma purtroppo mi trovo nelle condizioni di aver iniziato a pensare che questa questione meridionale faccia sentire davvero il suo peso, negativamente, anche su iniziative di industria culturale come il Giffoni”. “Che cosa intende, esattamente?”.

“Che ci troviamo in mezzo a una grande esplosione creativa, un’infinita capacità di idee e di industria, come il Giffoni ha sempre mostrato: e però il territorio non è in grado di supportarla”, risponde. “Ho trasformato la cultura in industria, senza mai con ciò indebolirla: ma forse non sono riuscito a trasformare davvero la mentalità del mio territorio. Ci sono dei problemi storici nella terra in cui vivo: la micro- e macro-criminalità, le difficoltà di convivenza civile, di integrazione sociale, la sanità. L’immondizia storica tradizionale del Sud Italia, insomma: i suoi grandi problemi sociali. Questi nodi critici, questi drammi, si sa, ci sono sempre stati. Ma, in passato, il mio paese è riuscito a bilanciare simili problemi con l’attenzione alle altre questioni – di segno invece positivo –, come l’attenzione alla cultura ed ai suoi punti di eccellenza. Proprio per questo avevo potuto trasformare l’indiscutibile debolezza del mio territorio nella sua forza. Oggi, invece, pare che questo non sia più possibile: che tutt’a un tratto io debba trovarmi a fare i conti con i problemi storici della mia terra, pagandone le conseguenze. E tutte quelle che sono le pur grandi attività culturali, che vogliono esprimersi nel nostro contesto, soffrono: faticano a vivere, e a convivere, con un territorio che non riesce ad essere se stesso. Noi i nostri esami li abbiamo passati: abbiamo dato al territorio una visibilità unica e al sistema Italia la leadership nel mondo di questo prodotto. Ma non basta più. Anzi, la forza culturale di Giffoni pare diventata oggi, tutta insieme, la sua debolezza”.

“Ma cosa significa?…”, insisto. “Forse che, improvvisamente, le autorità locali si sarebbero ricordate di preoccuparsi di certi problemi, peraltro da sempre presenti al Sud, e solo di quelli, dimenticando invece la cultura, il resto?”. “Diciamo che mancano gli aiuti concreti, i sostegni: mancano finanziamenti che siano realmente adeguati”, risponde. “Nel mio caso, se mi si viene a dire che mi si tagliano i finanziamenti perché ci sono problemi di carattere procedurale, io davvero non capisco: significa che non si è fatta una scelta. A me non interessano i problemi economici che possono esserci in questo momento. Anche perché – sia chiaro – la Regione, la Provincia hanno a disposizione milioni e milioni di euro. E sa quanto, nel bilancio del Comune, risulta destinato al Festival di Giffoni? 600 euro. Una follia. Ricordo ancora che nel 1995, dal Presidente della Repubblica Ciampi, noi ricevemmo – e quando dico “noi” mi riferisco non al sottoscritto, ma al Comune: si tratta di opere pubbliche – ben 12 miliardi e mezzo di finanziamenti per la Cittadella del cinema. Oggi invece siamo costretti a pagare l’affitto, al Comune, per poter utilizzare la sala cinematografica!”. Non riesco a nascondere il mio stupore: “Il problema sta nel fatto che quei finanziamenti vengono destinati ad altre iniziative?” “Non è questo… Il punto è che occorrerebbe cominciare a fare delle scelte: selezionare le cinque cose davvero in grado di segnare la storia del nostro territorio, e sostenere quelle, prioritariamente rispetto ad altre. Mi spiego: a dover essere finanziate, per prime, sono la cultura, l’industria: non il singolo evento. L’industria – come Giffoni è – ha una continuità, una progettualità, con una struttura permanente, in grado di creare posti di lavoro. L’evento invece è sporadico, per definizione: brucia se stesso e i soldi che riceve. Di fronte a un concorso ippico, ad esempio, viene per forza da dire “Basta!”.

D’altronde, questo è diventato il mio motto: “Proviamo a dire no”. Anche perché, a questo punto, è inutile destinare 30 milioni di euro per creare la Giffoni Multimedia Valley, se poi le autorità tolgono l’anima e il sostegno a quello che è il progetto principale”. “A mio avviso”, continua “si devono valorizzare le cose serie – che durano e creano realtà durevoli. Il Giffoni Film Festival è stato, ed è, tutto questo. Ma ciò non ha comportato quella reazione politica che avrei ritenuto adeguata, e che mi sarei aspettato. Così, il mio vero problema ora non è tanto quello di competere con gli altri Festival italiani: quelli di Roma, Torino, Venezia. Non quello di competere con l’Europa, col mondo. È con la mia Regione, con la mia Provincia, che mi trovo a competere davvero: e questo lo ritengo quanto di più vergognoso, in assoluto”. “Stiamo parlando sempre delle autorità locali?”, chiedo.

“Di quelle cioè che, in teoria, dovrebbero essere più vicine al Festival?”. “Sì, la questione riguarda gli enti locali, non certo lo Stato e il governo italiano come tale… Anzi, è una vera fortuna che il Ministero dei Beni Culturali sia molto vicino al Festival! E comunque non è che la mia Regione non mi stia “vicina”. È che mi taglia i finanziamenti. E mi dà solo 20mila euro per 7 progetti internazionali, per cui abbiamo speso 800mila euro. Allora è ovvio che, se mi vengono tagliati all’improvviso 500mila euro su un milione e mezzo, non si può più andare avanti così”.

“Ma come si spiega” chiedo ancora “che questo capiti proprio adesso, tutto insieme?… Dopo anni in cui la situazione parrebbe essere stata diversa?”.

“È proprio questo che non capisco, e che mi sconvolge!”, risponde. “Le cose vanno così ormai da un anno e mezzo. E noto tutta una serie di segnali che non mi piacciono, che mi preoccupano. Vorrei ricordare a questi politici che non possono tagliare indiscriminatamente il 20 o il 30% dei finanziamenti come se si fosse a una “mietitura”. Non si possono buttare i panni sporchi insieme al bambino. Occorre selezionare. Anche perché, se tutto continuerà così, sarò costretto a tagliare il 50% del personale: una vera contraddizione, vista la realtà in cui versa il Mezzogiorno. E comunque una cosa, in particolare, mi ha dato fastidio: che alcuni politici siano stati proprio disonesti. A Natale, con un emendamento regionale, hanno pensato addirittura di prendersi in mano la gestione del Festival. Ma io non lo permetterò mai. Sono pronto a mobilitare il mondo intero, piuttosto. Le dirò: sono disposto ormai a quella che sarebbe la più grande provocazione della mia vita. A dire: “Vado via”. Piuttosto che finire così, sono pronto a far adottare il Festival: da chiunque, nel mondo”.

“Parole forti. Siamo davvero a questo punto?”. “Vede ciò che pesa su di me e sul Festival”, continua Gubitosi “ per me, sostanzialmente, l’arroganza dei politici locali, la pochezza da loro mostrata quando vanno a interpretare, sul piano internazionale, i problemi veri del territorio e, al contempo, una realtà come Giffoni. E io, che a Giffoni sono nato, devo invece investire il mio tempo preoccupandomi delle trappole che possono aver messo, chiedendomi dove debbo piangere, dove debbo andare a elemosinare… No, io protesto. Dico no, no e ancora una volta, sempre, no”.

“Pensa di avere dei nemici?”, domando. “Potrebbe trattarsi di un fatto personale?”. “Non direi… Sul piano comunale ci sono delle patologie personali: anziché avere un Comune a favore, ce lo hai contro. Ma è normale: non credo sia questo il problema. Ciò comunque non migliora la situazione. Qui stiamo parlando di qualcosa che nobilita Giffoni nel mondo, che porta vantaggi concreti e immediati a tutti coloro che abitano qui, dai ristoranti in poi. E invece sa che cosa ho dovuto subire dal mio Comune? Le faccio solo l’ultimo esempio… Una vera onta”.

“Mi dica…”.

“Mi è stata affibbiata una discarica enorme: con la rassicurazione – e questo è il peggio – che ciò avrebbe fornito ricchezze per la cultura, che si sarebbe rivelata addirittura un vantaggio per il Festival. E sa invece come è andata a finire?…”.

“Come?…”.

“Che siamo diventati un caso nazionale, sì: ma per l’immondizia scaricata a Giffoni. Tutta l’immondizia del Sud Italia è andata a finire nel mio Comune. Io quest’onta l’ho subita: e l’ho pure accettata. Da qualche parte l’immondizia – lo capisco – deve pur finire. Ma il grave è che la cosa sia stata fatta passare come un fatto che avrebbe prodotto ricchezza, che avrebbe garantito risorse per la cultura. Noi, da questa discarica, non abbiamo avuto un euro. Dove sono andati i soldi? Non ne ho idea. So solo che il mio Comune, adesso, paga il 30% in più sull’immondizia. E non capisco perché”. “Non vede possibili soluzioni?”.

E Gubitosi: “Finora non siamo stati in grado di fare “sistema”, di metterci insieme: questa è la mia amarezza… E, anche quando lo abbiamo fatto, la parte più debole è sempre stata quella del Festival. Non c’è mai stata una situazione paritaria. Ma ormai non si può più aspettare: occorre avviare un processo di educazione di una classe politica nei confronti di una grande idea. I francesi, ad esempio, sono bravissimi. La regione di Nizza concede – come finanziamento per il Festival di Cannes – 150 miliardi delle vecchie lire: e, in quindici giorni, la stessa Regione ne ricava 1500. Vogliamo capire che dobbiamo osare?… Che tutti devono imparare a pensare alla grande?… Oggi non possiamo più permetterci cose modeste. Noi ci abbiamo messo 37 anni per crescere: ma bastano 30 secondi per finire nell’oblio”.

“Si può rimediare, prima che sia troppo tardi?”.

“Sì…In fondo al mio cuore resto speranzoso: ancora auspico che possa tornare ad esserci presto un rapporto sereno tra idea, cultura ed enti locali. Ma sono stato molto chiaro: noi abbiamo sì il problema del Comune, della Provincia, delle Regioni. Ma la questione Giffoni è un caso di interesse nazionale: un problema nazionale. E allo Stato ho chiesto di intervenire: se non abbiamo un finanziamento vero, in grado di ripianare il deficit che, in questo modo, si è venuto a creare, allora… non c’è più bisogno che Giffoni vada avanti. Se non cambierà nulla, vorrà dire che siamo veramente nemici di noi stessi, incapaci di reggere l’urto della modernità: che si è invidiosi che qualcosa vada – come è sempre andato – oltre i confini. E allora addio a Giffoni, addio alla sua storia. All’improvviso, qualche altro Paese, qualche altra nazione, si prenderà il Festival…”

Questo l’appello estremo di Claudio Gubitosi, alle soglie delle 37esima edizione di un Festival che non è suo, ma di tutti: del paese, della Regione, così come dell’Italia e del mondo. E occorre salvarlo. Affinché non muoia il coraggio di sperimentare il nuovo – come si fa da decenni – e sia possibile, invece, andare avanti ad alimentare la speranza.

Soprattutto per i giovani e il loro futuro.

HO COMINCIATO COSÍ. Paolo Costella - La tua vita è come un film

Roma agli inizi degli anni ottanta è ancora la Roma di Sordi, Tognazzi, Mastroianni, ma è già anche quella di Verdone, Troisi, Benigni
Paolo Costella * 

Hai 18 anni. Vivi in una città di provincia. Ti piace il cinema. Hai girato qualche super 8 con gli amici. Scrivi per un quotidiano della città, recensendo le rassegne dei cineclub. È il momento del Nuovo Cinema Tedesco. A Wenders preferisci Fassbinder. A Fassbinder preferisci Herzog. Come Herzog il cinema per te è una sfida. E la tua sfida si chiama Roma. Ma non conosci nessuno. Non hai la minima idea di come si faccia ad entrare in quel mondo. Sai – immagini, speri – che con il cinema potrai esprimere qualcosa di te, qualcosa che nella vita di tutti i giorni, nel rapporto con gli altri e con te stesso, non riesci a tirare fuori. Ma ti vergogni persino a dichiarare che nella vita tu vorresti fare il regista. Non lo dici, ma lo pensi. Anzi lo sogni. Sogni che la tua vita un giorno sarà quella. Ma come arrivarci? Chiedi consiglio ad un amico caro, che ti segnala un corso di sceneggiatura con Ugo Pirro e Leo Benvenuti che sta per partire in quei giorni a Roma. Così non ci pensi su due volte, prendi un treno e parti.

Roma agli inizi degli anni ottanta è ancora la Roma di Sordi, Tognazzi, Mastroianni, ma è già quella anche di Verdone, Troisi, Benigni. C’è il cinema dei maestri e il cinema comico. In mezzo il nulla. Cinecittà è ancora il tempio di Fellini. L’Adriano ha una sola sala, dove si proiettano i film campioni d’incasso con Celentano.

La sera ti presenti in una piccola libreria dalle parti del lungotevere, vicino a Piazza Navona, in Via di Monte Brianzo, “Il Leuto”. È la libreria dello spettacolo, scaffali pieni di saggi, sceneggiature, monografie su cinema e teatro, una visione unica, mica come oggi che di libri di cinema sono piene tutte le librerie. Nel seminterrato, si riuniscono un gruppo di giovani aspiranti sceneggiatori. Ti presenti, conosci Alessandro e Domenico (Bencivenni e Saverni, che anni dopo scriveranno per la saga dei Fantozzi, per la Wertmuller, per Monicelli), Francesca, Claudia e Gloria (la Archibugi, la Sbarigia e la Malatesta, che faranno “Mignon è partita” e tanti altri film, rispettivamente, come regista e come sceneggiatrici), Umberto (Contarello, autore dalla Piovra a Mazzacurati), Massimo (Mazzucco, balzato recentemente alle cronache per il suo controverso documentario sull’11 settembre) e tanti altri.

Pirro ti parla per la prima volta delle regole necessarie “per scrivere un film” (che è anche il titolo di un suo fortunato saggio), Benvenuti invece ti confessa che non sa bene cosa insegnarti e si limita a raccontarti storie e aneddoti, invitando anche te a raccontargli le tue. Così per la prima volta scrivi qualche idea e Leo (Benvenuti) ne legge ai compagni alcuni passi, le commenta, le critica, le elogia. Ma non riesci a capire cosa sia veramente “fare cinema”. Provi a chiedere a Leo come si fa, effettivamente, a scrivere una sceneggiatura. E lui ti racconta che lui e Piero (De Bernardi) fanno i turni, come in fabbrica: dalle 10 alle 12 vedono Monicelli, dalle 12 alle 14 Verdone, poi nel pomeriggio Villaggio, Neri Parenti… Ti dice che parlano, il più delle volte, di tutt’altro e che magari, prima di salutarsi, si dicono due o tre cose che forse finiranno nel copione. Mistero. Sempre più fitto. Non capisci, ma la tua curiosità cresce.

Fino ad un giorno che Leo butta lì e domanda senza troppa enfasi: “C’è qualcuno che ha voglia di vedere un film stasera?”, ma non dice quale. Tu, che a Roma conosci solo “Il Leuto” e vivi in una stanzetta in periferia, alzi subito la mano. Cosa avrai mai da perdere? Come te solo un altro. Sali in macchina con Leo. E lui ancora non ti dice niente. La suspence aumenta. Leo ti dice che lo fa apposta, così capisci come si crea tensione in una storia e quando finalmente scoprirai la verità sarà una vera sorpresa. Ed ha ragione. Il meccanismo funziona. È una sorpresa, eccome se è una sorpresa. Nel laboratorio, rimasto aperto solo per l’occasione, ti accolgono due signori: uno imponente, con un barbone ed un altro smilzo, con una strana frangetta, entrambi con una parlata spiccatamente romanesca. Sono Sergio Leone e Dario Argento. Il film che vedrai, in anteprima, è il primo montaggio di “C’era una volta in America”, con Robert De Niro. È già un film culto, ancora prima di uscire. Ti tremano le gambe. Ti sembra troppo. Ti senti un eletto. Le luci si spengono. E si riaccendono quasi tre ore più tardi. Ma per te non sono passate tre ore, neppure tre minuti, è passata una vita intera davanti ai tuoi occhi. Non solo quella di Bob. La tua. Quella che hai sempre sognato. Sei ancora rimbambito in questi pensieri, quando il vocione del maestro ti chiede cosa ne pensi. Ecco, pensi: è il momento di fare un commento intelligente, che lasci a bocca aperta Leone, Argento, Leo, tutti. Una frase che ti apra le porte dorate del magico mondo. E invece cosa dici? Dici “grazie”, solo grazie. E poco ci manca che tu aggiunga “di esistere”. O forse addirittura lo fai. È un’occasione perduta? Tutt’altro. È l’inizio di un sogno. Perché capisci che quella cosa lì, che viene proiettata sul lenzuolone, al buio, è quello che tu vuoi davvero fare nella vita. Di quel mondo senti, per la prima volta, distintamente, il profumo. Inebriante. Magico, questa volta sì. Irresistibile. E capisci che di quel momento non potrai mai più farne a meno.

Ecco, se la tua vita fosse un film, qui finirebbe il Primo Atto. Ti sembra di avere già ottenuto tutto e invece non hai ancora niente. Ma almeno sai quello che dovrai fare, conosci la tua missione: entrare per davvero in quel mondo di cui hai sentito appena il profumo.

Il primo passo è il set. Vuoi vedere come si fa un film. Sai che Benvenuti ha scritto i primi film di Carlo Verdone. Hai sentito dire che Verdone sta per iniziare un film come attore che si gira dalle tue parti, in Liguria. Così prendi un treno. La direzione è quella che ti riporta verso casa, ma è solo uno scherzo del destino. Quel treno ti porta dove si fa il cinema. Hai chiesto a Benvenuti di avvertire Verdone del tuo arrivo. Nessuno ti ha assicurato niente. Anzi, ti hanno scoraggiato a partire. Ma sei partito lo stesso. E quando arrivi Verdone ti saluta con un sorriso di circostanza e ci mette due secondi a spedirti da un signore che già nella dicitura del ruolo che ricopre denuncia un che di militaresco e di assoluto: l’Organizzatore Generale. Ti presenti, dici che vorresti assistere alle riprese, che non vuoi essere pagato, che abiti anche lì vicino, che non darai nessun problema, anzi che vorresti tanto dare una mano. E lui cosa ti risponde? “Tu puoi pure stare, ma sappi che per me non esisti”. Dice proprio così: che non esisti. Quella frase, secca, definitiva, ti fa ripiombare in un solo attimo fuori da quel mondo alla cui porta ti eri appena affacciato. Il Generale vuole dirti che non vuole problemi con l’assicurazione, in caso di incidenti, ma questo tu lo scoprirai soltanto dopo. In quel momento realizzi solo che non esisti. Ed è già molto.

Sei invisibile. Ma ti presenti ogni mattina. Tutti fanno il loro lavoro. Tu non fai niente. Devi solo stare attento a non sostare davanti alle porte e a non mettere i piedi sopra i cavi. Si aspettano che prima o poi tu desista. E invece tu ci sei. Ogni mattina. Così cominciano a chiederti di “fermare la gente”. Significa che mentre regista e attori girano una scena, tu devi stare lontano tre isolati e chiedere gentilmente alle persone se possono aspettare un attimo, che stanno – state – girando un film.

Che film? Chi c’è? Si può vedere? Ti fanno domande cui sai a malapena rispondere, il più delle volte ricevi delle sfuriate da chi non ne vuole sapere di fermarsi: ché la strada è di tutti, “cosa pensate voi che fate il cinema, voi romani, di fare quello che vi pare?”. Quelli che dovrebbero essere insulti, alle tue orecchie suonano come parole dolci e beneauguranti. Voi romani. Voi che fate il cinema. Voi.

Passano i giorni. Qualcuno ti rivolge finalmente la parola. Alla pausa ora c’è un cestino anche per te. L’appuntamento per il giorno dopo non lo devi spiare di nascosto, ma ti viene comunicato la sera. Per farti guadagnare qualche soldo t’iscrivono come figurante. O ti aggiungono alle maestranze che montano e smontano le scene prima e dopo le riprese. Verdone, vedendo che piano piano t’inserisci, ti prende in simpatia. Il regista, Oldoini, ti invita a pranzare con lui e il cast. Di più: ti dice se hai voglia di seguire anche il montaggio e tutta la post produzione.

Così, finite le riprese, vai ogni mattina in Via Margutta, alla moviola, vedi e rivedi le scene (che avevi soltanto immaginato, quando eri impegnato a bloccare il traffico a centinaia di metri di distanza), che danno, lentamente, forma al film. Conosci i produttori, gli attori, gli amici che passano dalla moviola. Scola, Magni, Scarpelli, Angeletti e De Micheli. Lì per lì non te ne accorgi, ma un piede dentro a quel mondo, forse, l’hai finalmente messo. D’accordo, esistere non esisti ancora, ma la sera, quando vai a dormire, il tuo sogno, bello, in 35 millimetri, non te lo leva nessuno.

Una volta che sei entrato nel giro, ti dicono, il più è fatto. Sembra vero. Perché Verdone ti chiama per fargli da assistente nel suo prossimo film con Montesano. Il primo aiuto è Albino Cocco, già aiuto di Visconti, che t’insegna come si sta su un set, come si scandiscono i tempi del lavoro, come si coordinano i reparti, come si organizza un piano. Finché un giorno Albino litiga con la produzione e Verdone ti prende da parte e ti chiede se te la senti di andare avanti da solo. Non ci pensi un attimo, dici subito “sì”, anche se non te la senti affatto. Invece te la cavi. Leo Benvenuti, che del film è sceneggiatore, viene sul set ed è felice di vederti inserito. Ma tu guardi avanti. Quello che hai non ti basta mai.

Il tuo obiettivo non è più solo mettere un piede dentro al magico mondo. È metterne due di piedi. Piedi, gambe, testa, tutto. Vuoi fare sempre di più. Capisci che per fare la regia devi anche scrivere. Così scrivi. Prima da “negro” (“ghost writer” è venuto dopo, ma il senso è sempre quello: il tuo nome non appare e ti pagano niente), poi ti liberi dallo stato di schiavitù e firmi. Lavori senza sosta, come aiuto regista sul set e scrivi copioni per tanti attori, per lo più comici (del resto siamo a cavallo tra gli anni ottanta e gli anni novanta, il cinema italiano è ancora quello che è: dieci, quindici film d’autore, il resto commedia o film che non vedono mai la luce).

Ma c’è qualcosa che ancora ti manca. Quando scrivevi le tue recensioni per il quotidiano della tua città il cinema che amavi era un altro, niente a che vedere con le pellicole comiche che ti ritrovi a scrivere. Ti accorgi di avere tradito le ragioni che ti hanno spinto a lasciare la tua città per venire a Roma. Tutta la fatica che hai fatto ti sembra inutile. È la crisi che ti aspetta a metà del Secondo Atto. Non si scappa.

Così provi a lavorare con chi ti piace davvero. Marco Ferreri, per esempio. Liliana Betti, una sceneggiatrice con cui hai lavorato, sta per scrivere il prossimo film di Ferreri. E tu decidi di rinunciare a tutto quello che sei pur di lavorare con lui. Hai già firmato diversi copioni e ti presti ugualmente ad andare in giro per gli ospizi a raccogliere interviste che serviranno per la sceneggiatura (con protagonisti gli anziani), che altri, però, scriveranno. Hai lavorato in tanti film come primo aiuto e ti dichiari lo stesso disponibile a tornare a fare il secondo. Poi, per fortuna, le cose si aggiustano da sole. Finisce che fai il primo aiuto, che scrivi con Ferreri. Hai la fortuna di lavorare con un artista. Uno dei pochi, capirai in seguito. Ti accorgi che quello che hai fatto fino a quel momento era il mestiere del cinema. Questo invece è il cinema, il cinema vero.

Ferreri è solo in apparenza brusco, i suoi occhi celesti sono lì a dimostrare la sua grande, smisurata umanità. Così un giorno, brutalmente, ti chiede cosa aspetti a fare un film tutto tuo. Radu (Mihaileanu, il regista di “Train de vie”), che di Ferreri era stato aiuto prima di te, ti confesserà che Ferreri aveva fatto la stessa cosa con lui. Allora capisci che è arrivato il momento. Che ci devi provare. E improvvisamente hai la sensazione che dovrai cominciare tutto da capo. Il tuo obiettivo iniziale era entrare nel mondo del cinema. Poi è diventato quello di essere accettato, di crescere professionalmente, di scrivere, di avvicinarti al cinema che più ti piaceva. Ora è un altro ancora: è fare un film tuo. Tutto quello che hai combinato finora ti è servito ad arrivare fin dove sei arrivato, ma per fare il salto, il salto vero, c’è bisogno di tutt’altro. Le gambe tornano a tremarti. La tua autostima crolla sottoterra. E ti senti di nuovo solo. Ecco, qui, finirebbe il Secondo Atto, se la tua storia fosse un film. Ma tutte le storie, in fondo, possono diventare un film. Basta saperle raccontare. Bene.

Sei arrivato al Terzo Atto. Ora sei finalmente tu che devi scrivere la tua storia, la storia del tuo film. Il finale che più ti emoziona. Devi resistere alle tentazioni e cercare dentro di te quello di cui hai bisogno. Ti propongono di continuare a fare quello che hai sempre fatto. E tu rifiuti. Ti chiudi a scrivere una storia. La tua storia. Quella che hai sempre voluto raccontare.

Quando finalmente ci riesci, è il momento del giudizio. Tutti dicono la loro. Chi si aspetta qualcosa di diverso. Chi fa di tutto per convincerti che stai sbagliando. Tu devi ascoltare. O fare finta. Lotti. La tua sicurezza vacilla. Ti capita di cadere. Devi trovare la forza di rialzarti. Sei sempre più vicino alla meta. E sempre più solo.

Dovrai convincere qualcuno a darti i suoi soldi (o meglio, a trovare i soldi necessari alla realizzazione del film), qualcun altro ad impegnarsi a distribuire il tuo lavoro una volta finito, qualcun altro ancora a collaborare con te, con il suo mestiere o addirittura a metterci la faccia, come nel caso degli attori, che si affidano a te con il loro ingombrante bagaglio di insicurezze. Ma dovrai convincere soprattutto te stesso. Che quello che stai facendo è davvero quello che vuoi.

E quando, ancora una volta, il più sembra fatto, ti accorgi che la vera sfida è ancora da venire. Il film è lì. Nella tua testa. E sulle pagine del copione. Ma deve essere ancora fatto. E per farlo, per farlo davvero, devi fare la cosa più difficile: metterti in gioco. È un lavoro fatto di incontri, hai sempre sentito dire. È vero, e ora l’incontro più delicato è quello con te stesso. Devi trovare una sicurezza che non hai, che non puoi avere, se ti esponi in prima persona. Eppure è questo che gli altri si aspettano da te. Vogliono delle risposte, delle decisioni, un milione di decisioni. Tutti insieme. E subito. Ogni tanto è meglio darla una risposta, anche se non è quella giusta, ma darla comunque. Però poi capisci che non puoi sbagliare. Nessuno te lo perdonerà, tu per primo. La prima volta che dici “motore” ti sembra che la voce esca dalla bocca di qualcun altro. E invece dopo il tuo “motore” c’è qualcuno che dice “partito”, un altro che dice “ciak”, un altro ancora che urla il numero dell’inquadratura. Poi il silenzio. Tocca a te. Aspettano tutti te. Troupe e attori sono fermi, in silenzio. Finché tu non dici “azione”. E finalmente la scena si anima. È fatta. Sei partito. Tu e il tuo film. E adesso non ti fermerà più nessuno.

Oggi a Cinecittà non c’è più Fellini, c’è il “Grande Fratello”. L’Adriano di sale ne ha dieci. Celentano ormai i suoi sermoni li fa solo in tv. Sordi dà il nome ad una Galleria del centro. Solo Verdone figura ancora in testa al box office. Se vuoi incontrare qualcuno e discutere di cinema non devi scendere nel seminterrato di una libreria, basta che chatti in rete. Se vuoi girare un film puoi anche farlo da te, con pochi soldi. E senza necessariamente prendere il treno per andare a Roma. Tutto è cambiato. Quello che non è cambiato è il cinema. Le storie. Il sogno. Sia che lo vedi sul grande schermo in una sala buia, sia che lo vedi sul display del tuo telefonino. O forse sta cambiando anche quello. Chissà. E se anche fosse? In fondo, dov’è il problema? Cambialo tu, fallo a tua immagine e somiglianza. Non era proprio Fellini a dire che “il cinema è il modo più diretto per entrare in competizione con Dio”?

* Dice di sé:
Paolo Costella. Fino ad oggi ho fatto film con l’emisfero sinistro del cervello, quello logico e lineare. Realizzando qualche filmetto su commissione. Domani vorrei provare con l’emisfero destro, a fare un film brutto… tutto mio.

AMARCORD. Fiammetta Jori - Mario Soldati, una struggente intervista tridimensionale

Un incontro lungo e appassionante con il grande scrittore e regista sette anni prima della sua morte: riflessioni, nostalgie, ricordi… alla presenza di un testimone illustre, Cesare Garboli
Fiammetta Jori * 

Questa, del giugno ’92, fu una delle ultime interviste concesse dal grande scrittore-regista torinese; Soldati si stancava facilmente, ma accettò quando seppe che lavoravo per l’Avanti, quotidiano del partito sota (allora morenti entrambi), e che ero stata buona amica di Alberto Moravia. L’intervista non fu mai pubblicata e quello che segue non è il testo integrale, bensì lo “stralcio” doloroso che , a sette anni di distanza, ho cercato di comporre – come un ultimo omaggio ad un maestro – sull’onda dell’emozione fortissima per averlo perduto, pari per intensità a quella, mai da me dimenticata, di averlo incontrato. Al “distillato” emotivo di quei tre giorni, in cui girovagammo tra Tellaro, Camaiore e Forte de’ Marmi, ho voluto apporre il titolo che, con quella sua aria scanzonata e un po’ blasée, lui stesso ebbe l’amabilità di suggerirmi.

 

Strane coincidenze che talora, per qualche verso, riportano ad un pendant della memoria; in questo giugno ’99, con un piccolo mistero sul giorno esatto, poi diradatosi, e dunque il 18, Mario Soldati, classe 1906, una delle personalità sicuramente più interessanti e poliedriche del Novecento che volge alla fine, ci ha lasciati. Senza clamore ed in punta di piedi, Soldati è uscito “all’inglese” dalla confusa dimora terrestre per raggiungere, forse, una comitiva più nobile ed a lui più congeniale – e penso a Pasolini, Moravia, Giacomo Noventa, Anna Maria Ortese, Elsa Morante… – con cui continuare vecchie conversazioni interrotte ed iniziarne di nuove, magari con Petrarca, Shakespeare o Charles Baudelaire, amatissimo da Soldati che, parlandomi di poesia, l’aveva citato tra i suoi “poètes de chevet”, insieme a Gozzano ed al rimpianto Richelmy.

Rivedo, vividi, i suoi occhi inondarsi di lacrime nel confessarmi il timore, su cui ritornò più volte, che l’Arte, la Poesia, la Bellezza fossero in pericolo, non avessero più futuro in un mondo che gli pareva virasse verso un indefinibile orrore.

Risento le sue parole ed era un altro giugno, annata ’92; i buoni ricordi sono come il buon vino, li si beve volentieri. E il vino – diceva Soldati – è “la poesia della terra”.

A quell’epoca facevo delle interviste, per le pagine culturali dell’Avanti, che avevo battezzato “tridimensionali” per l’irrinunciabile presenza, e condicio sine qua non, di una terza persona che, avendo facoltà di intervenire in corso di intervista, sia per ribadire che per confutare quanto detto dall’intervistato, deriva la scontata comunicazione binaria, domanda-risposta, del classico vis-à-vis dell’intervista tout-court. Questo “terzo” occhio, per una misteriosa alchimia dialettica, costituiva, appunto, quella terza dimensione da me auspicata, creando una profondità di campo talora sorprendente, come, con affetto, me ne diede atto proprio Alberto Moravia che, quale primo intervistato d’onore, aveva accettato, nell’88, tra il divertito ed il rassegnato, di farmi da cavia nell’esperimento; a patto però che avessi io scelto, e non lui, chi avrebbe dovuto “presenziare” alla nostra chiacchierata. Proposi il comune amico Dario Bellezza, il poeta romano recentemente scomparso, ed Alberto, come ero certa, ne fu felice.

Raccontai a Soldati tutti i più “privati” retroscena di questa lunga intervista (che peraltro ebbe molto successo, come altre che seguirono) e la cosa mi sembrò divertirlo moltissimo, anche perché la stima e l’amicizia reciproche che legavano Moravia e Soldati affondavano buone radici in lontane frequentazioni adolescenziali sulle spiagge di Viareggio e Forte de’ Marmi, dove le famiglie di entrambi erano solite passare le vacanze estive. Ricordo, con tenerezza, che fu proprio sul filo della memoria di un Moravia perduto (Alberto era morto nel ’90 e Soldati l’aveva ricordato con lo stesso rimpianto che si ha per la giovinezza) che il mio incontro con Soldati assunse, fin dal primo istante, il clima emotivo più piacevolmente distante dal convenzionale cliché del giornalista che intervista il grande scrittore. (Il mio esser soprattutto poeta amo pensare che riscatti il mio “sembrare” giornalista, oggi come allora!)

Il “terzo” scelto da Mario Soldati era Cesare Garboli, fraterno amico nonché curatore, quale esimio saggista e critico raffinato, di molte raccolte delle opere dello scrittore-regista; e Garboli volle “giocare in casa”.

Ci recammo perciò, nella tarda mattinata, nella fascinosa dimora di famiglia del critico letterario, nel verde entroterra di Camaiore. Seduti sotto un olmo centenario, perfetta scenografia, mentre mi godevo, lusingata, la teatrale accoglienza di un Garboli, delizioso causeur ed ineccepibile padrone di casa, ebbi, fulminante, la certezza che, per quanto affettuosissimo con Soldati e con me affabilissimo (difficile che Garboli non suggerisca superlativi!), egli non sarebbe rimasto con noi che per qualche fuggevole istante. Ed infatti non mi sbagliavo; conosco bene il ricamo sapiente degli intramontabili escamotages diplomatici per cui si può dare la sensazione di esserci, senza esserci affatto. E Garboli in questo fu magistrale.

Così, dopo averci accompagnato nel suo studio, ci invitò a cominciare, scusandosi perché aveva delle cose urgenti da sbrigare. Lo vedemmo elegantemente dileguarsi nella penombra di stanze misteriose, da cui, languide e passionali, ci giungevano le note di un disco di musica classica. (Molto più tardi, chiesi, scherzando, a Soldati se un ottimo titolo per l’intervista avrebbe potuto essere, Ionesco docet: “Aspettando Garboli”. Mi parve, bonariamente, d’accordo.)

Dunque Soldati mi sorrise, intuendo forse che l’amico Cesare non aveva affatto le physique du rôle della “spalla”, per quanto fondamentale, di nessuno, neanche di un intervistato d’eccezione; ci accontentammo perciò del suo febbrile andirivieni, deliziati da apparizioni fugaci, di un grande effetto scenico. Non a caso, Soldati gli aveva dedicato uno dei suoi numerosi romanzi: “L’attore”…

“Nous sommes de notre enfance comme d’un pays”; è Saint-Exupery ad affermarlo. Soldati, qual è il suo paese del cuore, la patria dell’anima?

“È una buona domanda. Mah, ce ne sono tanti. Ma se proprio ti dovessi dire quale, almeno tre.

Uno è Torino, l’altro Genova e poi Roma, sì, anche Roma, per forza!”.

Troppo complesso il “cuore” di Soldati per essere di un unico paese; così dopo una esitazione, temendo forse di uscire dal senso della mia domanda, non poté non continuare:

“Ma anche Venia, sai; anche le montagne, certe montagne della mia vita, in Val di Susa. Il paesaggio dell’anima è dunque i viaggi che ho fatto. Due lunghi viaggi in America, a New York e in California. C’è un mio libro che si chiama “Fuori”, sono sei racconti molto lunghi; dovresti leggerlo. Uno è sulla Russia, poi l’Africa, la Grecia. Il più bello è quello della Russia, ancora oggi mi stordisce e rileggerlo mi diverte moltissimo. È un viaggio che ho fatto trent’anni fa con mia moglie, ed in quelle pagine c’è tutto quello che poi è stato della Russia. Anzi vorrei che fosse tradotto in russo, vorrei che Gorbaciov lo leggesse. Io non lo conosco ma vorrei conoscerlo, per me tutto quello che lui dice è santo. Stimavo molto anche Kennedy, ricordo che alla notizia della sua morte quasi piansi!”.

Dopo questa adorabile digressione, domandai a Soldati qual era, in tale collage impressionista, il paese che su tutti prevaleva e  la risposta arrivò velocissima: “Torino, el me Turin; sai, per i vecchi torinesi Torino è maschile”.

“Vengo subito, Mario!” – era la voce di Garboli fuori campo, un refrain. L’intervista procedeva ormai nei canoni normali, poiché prevedevo difficile lo sviluppo del mio assunto “tridimensionale”. Spesso Soldati, più ottimista di me e della sua segretaria, chiuderà qualche risposta con nervosi: “Ma, insomma, dov’è Garboli?”.

“Qu’as-tu fait de ta jeunesse?”, il lamento di Verlaine diviene, nella maturità, la domanda-chiave della vita. Le ha mai vagato questo verso struggente per la testa?

“È un bel modo per chiedermi qualcosa sulla mia giovinezza; l’amore per la poesia ci unisce allora, ecco perché ho avuto simpatia per te, subito. La poesia, Fiammetta, è un tramite immenso! Beh, l’infanzia è anche tutto quello che non ricordo, ma che è basilare. Purtroppo le cose della giovinezza se ne vanno….. ça va?”

Ça va! Sodati, lei è in qualche modo un “patriarca”; ha avuto due mogli, sei figli. “Io vi odio famiglie!” – tuonava Gide – e poi l’antipsichiatria americana degli anni ’70 ha condannato questo primo nucleo della società, definendolo un nido di serpenti. Insomma, c’è tutta una scuola di pensiero contro l’istituzione-famiglia. Per lei, Mario Soldati, figlio e padre, che cos’è davvero questo ineluttabile “pozzo” di affetti e, talora, di veleni?

“Ah, tu ami Gide? Io molto, molto! Ho scritto giorni fa un articolo per il Corriere su di lui e ancora non l’ho letto, spero che Medail me lo mandi. Sulla famiglia ti rispondo: ahimè! E’ una domanda terribile. Non vado avanti se non c’è Garboli”.

“Adesso verrà, dottore!” – lo rassicurava Gina, la sua amorevole segretaria – e Soldati:

 

“Vedi, ci sono due famiglie: una è quella che ti ha, l’altra è quella che fai…”.

Da tutti evocato, con passo felpato, arrivò Garboli e sembrò che l’argomento lo interessasse. Soldati, più disteso, continuò:

“Supponiamo di conoscere un trovatello, una persona senza famiglia; bene, quest’uomo si farà certamente qualcosa che somiglia ad una famiglia. Quindi la famiglia esiste in tutti i modi, anche se non c’è!”.

Su questa lapidaria affermazione, degna del migliore Soldati, Cesare Garboli, che evidentemente aveva sentito, grazie all’acustica incredibile delle case antiche, l’accenno a Gide, esplose in un colorito e dotto sermone sui diversi penchants esistenziali di Gide e Proust, evidenti, peraltro, nel taglio psicologico di taluni personaggi nelle loro rispettive opere:

“Proust è severo con gli omosessuali, perché li vede portatori di una anomalia, mentre Gide, in una pagina bellissima del suo “Si le grain ne meurt”, parla del “corpo guizzante” di un giovane algerino, con cui ha un incontro d’amore ed anch’io, che non sono pederasta, ho sentito una vera emozione. Il problema di Proust era l’onanismo, Gide invece era, mi scusi Signora, un “inculcatore”, uno di quei francesi con un sesso di quelli duri!”.

Questo exploit inatteso, tra l’hard ed il dottrinale (da me, peraltro, epurato di qualche prolissità e del verbo, ebbene sì, “scopare”, per cui Soldati, in una sorta di rigetto, di tipo lessicale e non morale certo, intimò severamente a Garboli di non usare mai più quella parola, orrenda, che lui detestava!), scivolò poi nei toni più pacati di una autentica confessione garboliana di cui tutti facemmo tesoro, come di una verità rivelata:

“Mario, tu lo sai, io odio ed amo la famiglia; è proprio il mio karma, la famiglia. Sono uno che desidera dissacrare le famiglie, separarle, distruggerle, eliminarle e, nello stesso tempo, come dicono anche i miei libri, ne ho una nostalgia ed un rimpianto infinito. Il mio “Matilde Manzoni” (“Journal” – Adelphi, il diario, curato da Garboli, dell’ultima dei nove figli di Enrichetta Blondel e Alessandro Manzoni.n.d.r.) è piaciuto molto a Soldati ed è  appunto questo: il rimpianto degli affetti familiari, il sogno e il desiderio della famiglia. Per me la famiglia è un tema molto doloroso; per Soldati è diverso, lui ha dei figli”.

Insistetti ancora: “Ecco, Soldati padre. Qual è il nodo di un rapporto sempre così complesso, tra figli e padre?”

“Mah, io ho amato moltissimo mia madre perché c’era troppo e mio padre perché non c’era mai! Vedi, nel rapporto con i figli c’è sempre del dolore, perché il dolore sta nella vita, dentro la vita. I figli sono cose belle, bellissime, ma anche il contrario. Vorrei che incontrassi mia moglie; Jucci ti direbbe delle cose interessanti sulla nostra vita con i figli. Io li amo tutti, moltissimo”.

Non mi lasciai sfuggire la presenza di Garboli e cercai di intrigarlo con una domanda che, di certo, l’avrebbe coinvolto: “Tra l’amicizia, l’amore, la passione, il denaro ed il successo, cosa mette al primo posto, Soldati? O, nella scala-valori, si pone un pari merito?”

“Ah, no! L’amicizia è senz’altro la cosa più bella”.

E Garboli, con tempismo di recupero: “Le darò, Signora, un libretto prezioso dove parlo di come è nata la mia amicizia con Mario. Ci conoscemmo nel settembre del ’62, a Villadeati, la residenza estiva dei Feltrinelli, nel Monferrato. Ti ricordi, Mario?”

E fu chiaro dallo sguardo solare di Soldati che anche lui ricordava molto bene, nonostante le nebbie del tempo, il “feeling” di quel primo loro incontro, evidentemente mai interrotto.

La sera, ritornata nella mia casa di Forte de’ Marmi, dove il giorno dopo ebbi l’onore di avere Soldati, con “la Gina”, mio festeggiato ospite per un the, lessi, nelle ultime righe del piccolo libretto bianco che Garboli mi aveva regalato (un Estratto dal n°426 della rivista Paragone – 1985), parole illuminanti su un’amicizia irrinunciabile.

Adesso che Mario Soldati è altrove approdato, la testimonianza privata diviene “orazione” all’amico, di ogni amicizia condiviso emblema:

“Amavo, di Soldati, certi racconti che mi sembravano inarrivabili; ma qualcosa dell’uomo, la sua immagine pubblica, infastidiva il mio moralismo giovanile. In quei giorni a Villadeati il mio moralismo si sciolse e la simpatia di Soldati trionfò. Forse le stelle si divertirono allora a lanciare un messaggio di semplicità inesplicabile. Era scritto, infatti, che dovesse nascere un’amicizia spensierata, giuliva, e come domenicale, che, in fondo, non aveva molte ragioni di esistere né di manifestarsi. Ma essa si sviluppo, di lì in poi, sempre più stretta e tenace, così tenace che oggi, passato poco meno di un quarto di secolo, non so più separarla dalla mia vita”.

Mi spiegai, quella stessa sera, il comportamento di quel Garboli “magnifico assente”, che ritenne pleonastico, forse, divenire “testimone” di una verità, come quella di Soldati, così storicamente interclusa nella propria da averne perso, quasi, l’ottimale distanza per un oggettivo giudizio, da sempre, peraltro, menzionato appannaggio della estrema “clarté” narrativa ed umana dello scrittore, di cui ancora Garboli aveva scritto (nella prefazione a “Rami secchi” – Rizzoli 1989, una raccolta di memorie, pensieri e fantasmi di un “ottuagenario in tumulto”). “È stupefacente come Soldati riesca a parlare di sé, come se il proprio “io” fosse l’anima di qualcun altro.

Dire “io” e trattarsi come una terza persona, è l’arte in cui Soldati è maestro”. E debbo, così, alla ragionata assenza di Cesare Garboli durante la nostra intervista, assenza che pure aveva contrariato me e deluso Soldati, se, in qualche modo affrancata dalla sua augusta presenza, ebbi, in meravigliosa esclusiva, l’onore di raccogliere, senza filtri né deviazioni, la forza delle parole, le trasognate divagazioni e l’incanto dei silenzi di un Soldati davvero indimenticabile. Ringrazio Garboli, per quegli gnocchi che ci aveva promesso e che invece non preparò; e paradigmatica dell’ironia di Soldati fu la sua risposta (era ormai arrivata l’ora di colazione) alla mia, certo troppo decadente, domanda su quanta parte avesse la speranza nei suoi giorni, quella che D’Azeglio definiva “il lusso dei falliti”:

“La speranza è sempre continuamente con me, anche se è una speranza senza futuro, perché cosa succederà domani, nel mondo, io so che non lo saprò. Però, ogni momento io spero…. per esempio, in questo momento, io spero vivamente che ci saranno da mangiare questi famosi gnocchi che Garboli ci ha promesso!!”.

Dal filosofico al prosaico, dal trascendente all’umorale, dal sogno alla ragione; prisma vivente di una dialettica complessa ed infinita. Ineffabile Mario Soldati. Sfaccettature nitide nei cangianti riflessi e perfette, nel taglio; metafora di Soldati, una pietra preziosa e rara, come quello “Smeraldo”, titolo intrigante di uno dei suoi romanzi più famosi ed a lui più cari, di cu così scrisse l’indimenticato Pier Paolo Pasolini: “Smeraldo: esso è un simbolo: ma di che cosa? Di tutto e di nulla. Esso è un simbolo e basta; ma infine non importa niente che sia simbolo di qualcosa. È il simbolo della simbolicità, e questo basta a renderlo pienamente, e quindi anche emotivamente, poetico”. Estrema la chiarezza in queste parole, unica eco alla grandezza è il silenzio.

“Dobbiamo alla memoria ogni nostra ricchezza spirituale”, era una citazione da Mario Soldati; ricordandogliela, volevo mi raccontasse le invasioni nel suo quotidiano di questa marea, costituita da ricordi, nostalgie e rimpianti. Su tutti, bruciante e bellissimo, Soldati, un po’ stanco, mi confidò un grande rimpianto:

“Dovevo fare un film con quel delizioso attore francese, grandissimo….. come si chiamava?”.

Ancora la suspense di una delle adorabili amnesie di Soldati; il dialogo fu costellato di smemoratezze soavi che arrivano, quasi, a sembrare gli unici vezzi, concessi dal tempo, ad una estrema lucidità mentale. Piccole civetterie dell’intelligenza. Intuii che doveva trattarsi di Gérard Philipe e lo dissi a voce alta; la voce di Soldati si unì alla mia:

“Gèrard Philipe, exactement! Ricordo la gioia che provai nel vederlo entrare nella mia camera a Parigi, in un albergo che non c’è più. Mah…. siamo stati insieme a lungo, ci volevamo bene, ci siamo abbracciati e poi; non abbiamo fatto il film.

Era così intelligente, giovane, gentile, straordinario! È un mio grande rimpianto; ricordo l’anno: il 1955”.

Fui intenerita da questo rimpianto mai sopito di Soldati, dal modo in cui me lo confessò, con un filo di voce e ciò mi fece anticipare una delle domande su cui pensavo di chiudere l’intervista: “Soldati, tempo fa mi colpì moltissimo un proverbio inglese da lei citato, nel corso di uno speciale televisivo a lei dedicato: “ We don’t owe the truth to anybody”. Non dobbiamo la verità a nessuno. Ma la verità profonda,  quella che per osmosi sarà in parte nei suoi libri, lei l’ha poi “detta”, nella vita?

Ci si racconta davvero, fino in fondo?

“Io credo quello che sono di averlo scritto; credo, senza volerlo, di averla detta la verità. A quel proverbio, comunque, ci credo; ….but, we, early or late, we say the truth….a qualcuno, almeno.

Pasolini, mio amato mentore letterario, ritorna ancora una volta; egli aveva scritto, in una sua nota critica sulla narrativa di Soldati che questi “aveva istituito una identificazione tra scrivere e sognare”.

E mai, come in quelle lentissime ore spese nel giardino della casa di Soldati a Tellaro o girovagando con lui in macchina per Camaiore, ho avuto certezza di quanto lo scrivere non sia che metafora sublime del vivere e che, perciò, l’esegesi pasoliniana benissimo poteva applicarsi all’esistere soldatino, di cui la pallida “dissolvenza” della vecchiaia accentuava il “sognare”, nella sua più alta eccezione.

A Tellaro, Soldati volle portarmi, in un angolo defilato del suo giardino, disteso come la prua di una nave immobile sul mare, a “dare un saluto” al suo vecchio cane, lì sepolto. Mi guidò, prendendomi il braccio, mentre gli rivelavo la mia adorazione per i cani ed il rammarico, surreale, che provavo per quella loro mancanza di parole, benché con gli occhi in grado di dirci ciò che è fondamentale.

Lessi in silenzio, sulla piccola lapide di pietra, le parole che Soldati, un uomo, aveva voluto inscrivervi:

 

QUI RIPOSA TREMOLO

UNO DI NOI

FORSE IL MIGLIORE

 

We don’t owe the truth…… Sono certa che della verità, immensa, di Mario Soldati facesse parte anche la tristezza, infantile nella disarmante esternazione, di cui intrise i racconti, affabulatori che mi “regalò”, durante la colazione che facemmo insieme, in una vecchia trattoria di Camaiore, dove era riverito habitué. Le lacrime agli occhi, mi disse, quasi mi rivelasse un segreto, che “l’unica cosa grande della vita era poter parlare della bellezza, dell’arte”; e, con tra le dita il suo leggendario mezzo toscano, mi incantò confidandomi il dramma di Scott Fitzgerald e della moglie Zelda, supremamente trasposto nelle pagine splendide di un capolavoro, che fu “Tenera è la notte”.

Rivedo in controluce la sua silhouette, inconfondibile, con il bastone a mezz’aria, mentre mi cantava, con il pianto in gola, le note iniziali del “Nessun dorma”, una delle romanze più celebri dell’immenso repertorio pucciniano. Stavamo uscendo dal ristorante, quando, nell’avviarsi verso l’automobile, si fermò di colpo, prendendomi la mano e, senza alcuna logica apparente, prese a canticchiare quell’aria della Turandot che anch’io adoravo; appoggiai istintivamente la sua voce con la mia e mi sorrise con malinconia.

Aveva sentito che il mio cuore era con lui, del resto infinite volte mi aveva colto lo stesso brivido ascoltando quell’acuto trionfante e disperato: “a l’alba vinceròòò!!”. Quell’alba lo atterriva e al cospetto della musica, come di fronte a Dio o a se stessi, non c’è maschera, ma solo verità:

“La musica, misteriosa, è l’arte delle arti. È la cosa più grande. Con Puccini è finito qualcosa; la fine è sempre la cosa più alta. Lui è stato l’ultimo grande, ma neanche, è l’ultima grandezza!”

Ecco, di Mario Soldati, le parole che non riesco a dimenticare: “La musica non c’è più! Oggi, dov’è la poesia?”. Non seppi consolarlo, mentre cercava di spiegarmi la sua disperazione, in cui riconobbi parte della mia. Incontrarlo ero stato ritrovare e riamare cari amici perduti, affetti immensi che la vita ci strappa, per sempre.

Moravia, il caro Moravia, diceva: “Questo è Soldati: c’è e non c’è. E’ sincero e recita la commedia”. Spero, veramente, che là dove si trova, forse più vicino di quanto crediamo, gli sia resa quella “sincerità” luminosa che, nel chiaroscuro della sua “commedia”, egli ha voluto donarci; lasciandoci, da sublime istrione, l’illusione di essere stati, noi, tanto bravi da trovarne la chiave.

Grazie, Mario Soldati!

Roma 20 luglio 1999

* Dice di sé:
Fiammetta Jori. Poeta, talora giornalista, che ha sempre creduto nell’ermafroditismo dell’intelligenza, molto spesso, purtroppo, disatteso. Il suo motto, che molto amò Mario Soldati, è “Faiblesse Oblige”.

RACCONTI. Pippo Russo - H. 22

Pippo Russo * 

Aprì la porta di casa e, freneticamente, tastò accanto allo stipite in cerca dell’interruttore, e dopo che l’ampio ingresso fu illuminato si voltò per chiudere; lo sguardo cadde sul calendario, su quell’ampio “h. 22” cerchiato in rosso. Sulla parete opposta il grosso orologio rotondo, puntoni neri in luogo delle cifre, segnava le 20,50. Con una mossa nervosa si districò dall’impermeabile color ghiaccio e lo lanciò sul divano; facendo due passi si liberò delle scarpe scure, e saltellando sfilò via i pantaloni neri. Nel breve tragitto verso il bagno seminò il dolcevita senape, e le calze e le mutandine che tirò giù con un solo gesto. Fu sotto la doccia in una manciata di secondi, e regolato il miscelatore su un livello alto di temperatura si lasciò investire da un getto robusto.

Per lunghi attimi rimase immobile, la testa reclinata indietro e gli occhi chiusi, al centro di uno scontro fra sensazioni; l’impatto frontale tra l’acqua bollente e il gelo della notte, che in pochi secondi si dissolse dalla temperatura corporea come un alone di fiato; il vago attrito di quel flusso sulla pelle intirizzita; la fretta e la voglia d’indugiare.

Mosse lentamente la mano verso il cannello della doccia, sottile e uniforme, appena ricurvo. Regolò il getto, che le si espanse tutt’intorno. Prese una saponetta dal ripiano e la passò lentamente sul collo; e poi sotto le ascelle, e ai fianchi. Si fermò. Ripose la saponetta sul ripiano, e la mano tornò verso il cannello. Con la punta delle dita ne scorse il dorso metallico, giù fino all’estremità, che ruotò fra pollice e indice; il getto tornò ad essere concentrato e le sferzò il volto, invadendo le narici. Si guardò intorno. Il vapore aveva appannato la vetrata, e aleggiava sopra la cabina per tutta la stanza da bagno. Modulò di nuovo sul getto espanso, godendone l’ampiezza su tutto il corpo, e poi ancora su quello concentrato, che con violenza le invase la bocca e ne sgorgò scendendo giù per il collo.

Uscendo dal bagno, l’accappatoio addosso e un asciugamano avvolto al capo, lanciò una rapida occhiata alla radio-sveglia a cristalli liquidi sul frigorifero: le 21,04.

Con passo deciso si avviò alla camera da letto; sedette di fronte ad uno specchio da camerino, orlato di lampadine, e accese. Poi sciolse il turbante e strofinò con energia: i capelli, cortissimi, erano quasi in ordine. Il minuscolo orologio da cruscotto fissato al lato basso dello specchio segnava le 21,06.

Fece scivolare l’accappatoio lungo le spalle, lasciando che le si afflosciasse attorno ai fianchi. Prese uno dei tubetti allineati alla destra dello specchio, svitò il tappo e spremette puntando in giù sul palmo della mano. Ne uscì una quantità eccessiva di crema idratante, che in parte le schizzò su una coscia. Con cautela poggiò il tubetto aperto sul tavolo e col tappo raccolse la lacrima che era rimasta in bilico; quindi rimirò la pozza bianca e densa spiaccicata sul palmo. Ripiegò le dita per tastarne la compattezza, sentì attraverso i polpastrelli la nutrienza di quella crema invaderle l’epidermide. La spalmò tra le mani e la passò sul viso, massaggiando lievemente la pelle ai lati del naso. Chiuse gli occhi mentre le mani scendevano sulla nuca a pressare lentamente, a ruotare, girando attorno al collo, e risalendo dietro le orecchie. Sentiva i pori assorbire ingordamente e rimandarle una sensazione di benessere nella quale si sarebbe dondolata a lungo, se dallo specchio non avesse visto le lancette della piccola sveglia in argento, sul comodino, segnare le 21,15.

Estrasse dalla scatola un barattolo di cerone e arò delicatamente con l’indice e il medio la superficie intatta. Lo passò sul viso, e man mano che esso assumeva una colorazione diafana vedeva incarnarsi quell’idea di bellezza lunare che le si era scolpita nella mente. Si sentì artista di se stessa, in bilico fra il sublime e lo scempio. Solo un grammo in più, o in meno, di cerone, e l’idea sarebbe svanita dalla carne e dalla mente lasciando dietro sé l’incompiuta d’un volto rinnegato. Eppure eseguiva quella geometria istintiva con mano ferma. E quando lo specchio le rimandò l’immagine definitiva dell’opera, trovò il pallore che era riuscita a disegnarsi uguale a quello che aveva immaginato. L’idea e la carne si sovrapponevano senza una sbavatura. Il cronografo poggiato alla sinistra dello specchio segnava le 21,21.

Rovistò in un tiretto alla sua destra e ne estrasse tre rossetti. Tirò fuori il primo dal bossolo e lo passò sul dorso della mano: era quello color ruggine. Conferiva alla pelle un tono vagamente robotico, depurato d’ogni calore umano. Qua e là comparivano micro-screziature a minarne la compattezza. Era il colore delle labbra d’una donna fredda, meccanica, in grado di mantenersi a distanza di sicurezza da affetti e sentimenti. Una donna che sa essere qui e altrove, insieme e contro, fedele e traditrice in un solo gesto. Il colore della remissività dominatrice. Guardò attentamente quella tonalità: troppo chiara da intonare al pallore del viso. Rimise il primo rossetto nel bossolo e passò al secondo. Tinse il dorso della mano d’un bronzo forte, vivido, che pareva sollevarsi in rilievo sulla pelle. Per un attimo ne rimase abbacinata, e pensò alle sue labbra colorate di quella tinta. Una bocca ambigua, sospesa fra l’ilare e il collerico, che sigillandosi in una fessura dava l’idea di nevrosi in elaborazione. Voleva qualcosa di meglio. Estrasse il terzo rossetto dal bossolo e tracciò una linea sul dorso, appena sopra le altre due: blu cobalto. Appena un grado di oscurità al di qua del nero. Il colore cupo che luccica nelle tenebre, e scurisce nel chiarore. In quell’ovale pallido le labbra avrebbero spiccato come un corpo estraneo, la protesi applicata per un’occasione eccezionale. La sua bocca avrebbe assunto un disegno sornione e carnivoro, paradiso o inferno, per chiunque volesse scoprirlo. Dal set di matite prelevò quella blu; era la più lucida e temperata, e le carezzò i margini delle labbra incidendo un tratto forte. Poi passò il blu cobalto con gesto lento, come volesse godersi la pienezza di ogni istante di quel chiaro che spariva, cancellato dal cupo. Serrò le labbra all’interno della bocca, e le lasciò sbocciare. Un disegno perfetto. Un vecchio orologio al quarzo dentro un cassetto scoccò la mezzora con una nota acuta: le 21,30.

Un tratto di eye-liner ampliò lo sguardo, e l’ombretto blu aumentò il chiaroscuro. Passò il gel sui capelli, pettinandoli con scriminatura a sinistra, poi diede il blu cobalto pure alle unghie, appena pronunciate. Osservò le mani ben stese, le dita divaricate a solleticare il vuoto, la compattezza dello smalto. Poi si guardò allo specchio, e vide un sorriso dipingersi sul volto: si era piaciuta. Iniziò a rivestirsi cingendo il polso col piccolo orologio blu che estrasse da una scatola cilindrica: le lancette dorate segnavano sul quadrante privo d’ogni riferimento un orario prossimo alle 21,40.

Da un sacchetto da shopping prelevò due confezioni. Scartò la prima e distese sul letto un completo intimo, mutandine e reggiseno di pizzo blu; dello stesso colore erano le autoreggenti dall’ampio orlo sigillate nella seconda. Le calzò tenendo un piede poggiato sul letto. Due carezze setose salirono per le gambe, che vennero coperte poco a poco. Le mani indugiarono su quella superficie liscia, percorrendola a ritroso fino al ginocchio. Indossò le mutandine. Agganciò il reggiseno. Sul display del videoregistratore lesse che erano le 21,43.

Quando tornò nel soggiorno aveva addosso un vestito da sera blu aperto sulle spalle e scarpe intonate dal tacco alto e robusto. Da uno sportello basso prese un bicchiere da champagne e si avviò con passo sicuro verso il tavolino al centro della stanza. Si sentiva a suo agio in quell’abbigliamento e in quel corpo, pervasa di una stima di sé che già estingueva l’appagamento per l’opera compiuta e si volgeva a ciò che di lì a poco sarebbe stato. Prese lo champagne dal secchio del ghiaccio e lo stappò; stringendo vigorosamente il collo della bottiglia governò il fiotto di spuma inclinandolo verso il secchio, poi riempì il bicchiere fin quasi all’orlo. Sorseggiò scrutando la profondità della notte che si stendeva oltre l’ampia finestra. Accanto al secchio del ghiaccio l’orologio da tavolo segnava le 21,55.

Poggiò il bicchiere vuoto sulla libreria, quindi si riportò al centro del soggiorno. Nonostante l’apparente calma, un fremito d’impazienza fece capolino. Lesse “21,58” sul display dell’impianto CD. Una mano scese verso la parte bassa del vestito, che prese a arricciarsi. Il lembo si alzò poco a poco, scoprendo le gambe. Chiuse gli occhi e sorrise, respirando col naso, e riaprendoli lesse “21,59”. L’orlo scopriva ormai il pizzo delle autoreggenti, e la mano si inoltrava verso l’interno coscia. Le gambe si divaricarono leggermente, e della madreperla luccicò nella luce soffusa.

Scoccarono le 22,00. La mano estrasse dall’orlo dell’autoreggente una piccola pistola, il cane già alzato, il grilletto privo di anello.

Con un gesto fulmineo la poggiò alla tempia.

* Dice di sé:
Pippo Russo. Vorrei sempre mettere nelle cose che faccio la stessa energia delle cose che vorrei fare.

SONDAGGI. Vittorio Feltri - Chi è il più libero oggi in Italia?

Cari Amici nei mesi scorsi, presentando la rivista “L’attimo fuggente”, ho posto ai lettori del sito www.lamescolanza.com una domanda decisamente impegnativa: “Chi è oggi la persona che, in Italia, si esprime con maggior libertà ed indipendenza di pensiero?”.

Ero curioso, e lo sono ancora, di capire come il pubblico percepisca il livello di “libertà” di coloro che, per professione o meno, agiscono, quotidianamente, in ambiti diversi della comunicazione, della politica, della cultura e dello spettacolo.

Il nostro indirizzo editoriale si fonda, infatti, su una filosofia libertaria, contraria ad ogni imposizione autoritaria, senza pregiudizi né arroganze, anzi con un dovere prioritario, spesso dimenticato: il “rispetto della persona”.

Ed ecco che le risposte, talvolta flash, talvolta argomentate dei lettori, rispecchiano profondamente la nostra idea di fondo: dare voce a tutti coloro che siano “liberi di mente”, senza appartenenze preclusive a schieramenti politici, ideologici o religiosi.

Di seguito vi proponiamo la classifica dei personaggi, considerati “i più liberi” e una rosa delle risposte giunte alla nostra redazione. Se mi consentite un’ultima annotazione: su tutti i nomi indicati nelle risposte inviate dai lettori, prevale quello del direttore del quotidiano Libero, Vittorio Feltri. (c.l.)

 

LA CLASSIFICA

 

Personaggio                                                  % Preferenze

 

1. Vittorio Feltri                                               000024.50%
2. Gianfranco Funari                                       000008.70%
3. Giuliano Ferrara                                          000007.00%
3. Beppe Grillo                                    000007.00%
4. Paolo Bonolis                                              000005.26%
4. Antonio Ricci                                               000005.26%
4. Se stessi                                                    000005.26%
4. Vittorio Sgarbi                                            000005.26%
5. Papa Benedetto XVI                                   000003.50%
5. Cesare Lanza                                             000003.50%
5. Luciana Littizzetto                                      000003.50%
5. Piero Ostellino                                            000003.50%
5. Sergio Romano                                           000003.50%
5. Marcello Veneziani                                      000003.50%

Da segnalare, tra gli altri, un voto per:

 

Barbara Alberti, Giulio Andreotti, Autore rubrica La Notte dei Gufi, Angelo Bagnasco, Luciano Barbera, Pippo Baudo, Maurizio Belpietro, Roberto Benigni, Enzo Biagi, Giacomo Biffi, Maurizio Blondet, Emma Bonino, Aldo Busi, Roberto Calderoli, Giovanni Cantoni, Daniele Capezzone, Francesco Cossiga, Massimo D’Alema, Antonio Di Pietro, Oriana Fallaci, Emilio Fede, Massimo Fini, Anna Finocchiaro, Dario Fo, Franco Frattini, Milena Gabanelli, Simona Izzo, Rita Levi Montalcini, Daniele Luttazzi, Vittorio Messori, Mio cugino di tre anni, Letizia Moratti, Fabio Mussi, nessuno, Giancarlo Padovan, Marco Pannella, Giovanni Sartor, Gino Strada, Marco Travaglio, Bruno Vespa,  Vittorio Zucconi.
Qual è, a vostro parere, la persona che oggi in Italia si esprime con maggiore libertà e indipendenza di pensiero?

La persona che oggi in Italia si esprime con maggior libertà di pensiero è, a mio parere, il direttore di LiberoVittorio Feltri. Per un semplice motivo: in un paese segnato da palesi incertezze e incomprensioni, colpisce il coraggio con cui questo giornalista esprime le proprie opinioni e le proprie convinzioni senza badare alle eventuali conseguenze.

Alberto, albylup@tiscali.it

 

Per me è Vittorio Sgarbi, sanguigno e sfrontato, pronto a ribaltare il tavolo ogniqualvolta si senta ingabbiato, avverso alle frasi fatte, ai luoghi comuni e al buonismo a tutti i costi. Questo sia in contenitori di politica sia di spettacolo.

Ivan, ivan.roncalli@tin.it

Franco Frattini

Letizia Moratti

Anna Finocchiaro

Fabio Mussi

Un’annotazione su Fabio Mussi, ora ministro per l’università e la ricerca. Mi ha colpito da sempre l’intelligenza e la persistenza nei suoi credo, peccato che sia ancora comunista e non più “amicissimo” di D’Alema, che vanta una particolare intelligenza politica. Peccato che a Fabio Mussi manchi la presenza fisica (o meglio “non buca lo schermo”) e un certo carisma, anche se è un bravo ballerino e istruttore di vela dell’amico Massimo D’Alema.l.stilli@tin.it

 

Luciana Littizzetto, secondo me, dice quello che pensa e va direttamente al punto senza tanta diplomazia che per determinati argomenti non è efficace.

Cristina, cfraschina@hotmail.com

 

Mi sono trovato in grande difficoltà nel poter rispondere alla sua domanda circa “La persona che oggi in Italia si esprime con maggior libertà e indipendenza di pensiero” perché alla soglia dei 65 anni non ho più alcuna fiducia nella serietà comportamentale  di chi dovrebbe dare il buon esempio e nella democrazia fasulla che oggi esiste in Italia.

Mi limito a segnalare un paio di suoi colleghi che rappresentano, a mio modesto parere, un esempio di serietà professionale, due direttori di quotidiani: Vittorio Feltri (Libero) e Giancarlo Padovan (Tuttosport).

Gianfranco Casalino, gianfranco.casalino@alice.it

 

Pur essendo uomo del sud, dico Calderoli, l’unico che finora ha dimostrato di non avere peli sulla lingua, a differenza di tutti gli altri.

Franco Ammendola, Reggio Calabria, freelio@alice.it

 

Beppe Grillo, che, al di là della giustezza delle sue prese di posizione sui più svariati argomenti, è comunque l’unico indipendente fuori dalle marce logiche di partito, sopravvissuto a innumerevoli tentativi di metterlo a tacere.

Monica, Modena, monica.marchio@email.it

La ricerca  della persona libera ed indipendente è un compito ormai arduo: viviamo in una società nella quale o ti schieri con qualcuno, con qualche idea oppure vieni emarginato e bollato dai più, quale persona priva di idee e morale.

Tornando alla ricerca…non è facile, ma certo qualcuno può ancora esserci: penso a Gino Strada ed Emergency che, sicuri delle loro ragioni e della loro attività, riescono, grazie a Dio, ad essere “intermediari di pensiero”, riuscendo spesso anche a far colloquiare tra loro etnie ed ideologie completamente differenti.

Un grande della tv e del giornalismo: Gianfranco Funari. A volte si è schierato ed a volte, invece, è stato l’anima della contestazione… ma comunque cerca di “urlare” le sue idee e la sua indipendenza da lobby politiche.

Forse, anche, il mitico Paolino Bonolis può rappresentare una goccia nel mondo della libertà.

Gabriele Amici, amici.gabriele@libero.it

 

Mi duole doverlo riconoscere, perché non ne condivido taluni (molti) atteggiamenti e modo di esprimersi, ma, oggettivamente, ritengo che Vittorio Sgarbi non mi pare asservito a logiche particolari, o almeno ha le idee talmente confuse che non lo da a vedere!

Cesare de Gasperis, cesare.degasperis@bnlmail.com

 

Secondo me, non c’è nessuna persona pubblica in Italia, in questo momento, capace di esprimersi davvero con libertà ed indipendenza di pensiero. Forse qualche giornalista, ma si contano sulle dita di una mano: nessuno, comunque, di quelli che fanno televisione. Persino la satira, ormai da anni, è sempre più politica, di parte, faziosa: mai indipendente, né libera per davvero.

Cinismo? Forse: ma questo è ciò che penso.

Ricky Filosa, riccardo.filosa@fastwebnet.it

 

Beppe Grillo. Ha cercato, cerca e sta cercando di rompere degli schemi che dominano la nostra società. Dice le cose come stanno: in molti casi ha previsto eventi catastrofici (vedi caso Parmalat e telefonia). Il suo gioco di fare la bocca della verità gli ha precluso la visibilità nei media tradizionali. Questo è il clima che si respira oggi in Italia, che quando sveli l’arcano della stanza dei bottoni vieni in tutti i modi censurato e allontanato. Spero che un giorno tutto ciò cambierà e vorrei aggiungere, caro Cesare: spazio ai giovani che sono portatori sani di libertà!

Alessandro Coppi, mau.coppi@tiscali.it

p.s. aggiungo Antonio Ricci (che viene dalla scuola grilliana, ma a volte tace per non contrastare altri interessi).

 

Di getto mi son venuti in mente vari nomi (da Feltri a Bagnasco, da Ferrara a quel pazzerello di Veneziani e tanti altri, compreso… me stesso!), ma non ho la mente lucida per sceglierne solo uno e motivare la scelta.

Alberto Lanfernini, Pesaro, alberto.lanfernini@tin.it

 

Gianfranco Funari in quanto reputo che non abbia peli sulla lingua, sia, oramai, per l’età, sia per i motivi che lo hanno portato a lavorare in un’emittente privata, Odeon, autorevole sì, ma modesta per il suo passato.

thejoker01@virgilio.it

 

La persona che oggi in Italia si esprime con maggiore libertà ed indipendenza di pensiero è l’autore di una rubrica di Affari&Finanza di Repubblica che si chiama La Notte dei Gufi.

Motivazione? Più libera di così… in questo tempo di egocentrismi sputtanati, volgarità da esibizione, guinzagli televisivi e trash da credenza (meglio se in argento inglese) l’anonimato come scelta non ha pari e respira poesia.

Gp, giovanni.pedone@bnlmail.com

 

Sull’ostracismo che subisce non ho parole, ma credo che il nome da scrivere sia: Beppe Grillo. La motivazione credo sia del tutto superflua…

Enrico, info@egoeco.com

 

Enzo Biagi, uomo libero che esprime elegantemente ogni suo pensiero e Massimo D’Alema, perché ha il coraggio di andare contro il suo partito, quando occorre.

Davide B., autumn73@virgilio.it

 

Paolo Bonolis. Lo seguo da sempre e penso di poter dire che la sua libertà di espressione si colga in maniera evidente osservando e, naturalmente, ascoltando la serenità e la tranquillità con cui parla.

Gianfranco Funari. È ancora un mattatore nonostante qualche acciacco. Non ha paura di dire ciò che pensa, anche se probabilmente la delusione per alcune vicende personali / professionali gli ha dato uno slancio ancora maggiore.

Cesare Lanza. Semplicemente per la costanza e l’impegno con cui riesce democraticamente a dare spazio alle opinioni degli altri esprimendo chiaramente la sua posizione.

Gianluca Ferrara, ferrer77@virgilio.it

 

Beppe Grillo. Uno dei massimi opinion leader in Italia, riesce a raggiungere un pubblico vastissimo dicendo cose che pochi hanno il coraggio di dire.

Certo anche lui ha le sue belle “autocensure”: non parlategli mai di “signoraggio” o “scie chimiche”, potrebbe dar fuori di matto e spedirvi qualche virus sul computer.

Davide Pagani, s999615@studbocconi.it

 

Aggiungo il mio contributo alla domanda; premesso che da noi l’informazione è “drogata” da tempo immemore e quindi abbiamo perso quasi del tutto il senso della libertà di pensiero, trovo che la persona più libera sia il Direttore Feltri (lui e la sua redazione), capace di criticare apertamente i fatti senza servilismo. Sarei tentato di aggiungere anche la banda di Striscia la Notizia, ma si fa facile ad essere liberi denunciando sprechi e malefatte, diversamente non li ho mai sentiti propositivi. Vorrei aggiungere, invece, che tra i faziosi, dichiarati (pochi) e non (il 99%), i più liberi sono senza dubbio il Direttore Fede e il Direttore Belpietro. Anche Baudo insieme.

Paolo Cabra, info@vivalimmobiliare.it

Non so se centro perfettamente il tema, ma apprezzo molto l’eloquenza creativa e libera di due donne: Barbara Alberti e Simona Izzo.

Riccardo, Napoli

 

La persona che oggi in Italia si esprime con maggior libertà e indipendenza di pensiero, direi che è proprio Lei, dottor Lanza, nostro rappresentante ideale, per l’onestà intellettuale, per l’obbiettività di giudizio anche se non condivide il punto di vista dell’altro. Per quel saper dirimere con garbo, anche la situazione più effervescente, senza mai perdere le staffe, con il rispetto della persona e delle altrui opinioni. Per la sua umanità, che riesce a comprendere, con la dovuta tolleranza le debolezze del cuore e le contorte passioni dell’uomo.

Segnalerei altri due nomi: il Direttore Feltri (che però, non ha il Suo pacato distacco e forse adotta verso gli altri un’ironia un po’ pungente) e Giuliano Ferrara che disquisisce sulla piaghe della nostra società con la sua aria bonaria, conciliante e sorniona…

M. Teresa Santalucia, Scibona, teresa@scibona.org

 

Ci ho pensato, ma non ho un nome che risponda alla sua domanda, nemmeno me stesso …

Paolo Tedeschini, tedeschinipaolo@hotmail.com

 

A mio modesto avviso la fucina di pensiero più libera e veramente democratica, libertaria e progressista è il Partito Radicale in tutte le sue manifestazioni. Quindi Pannella o Bonino sono i più “scevri” da ritorsioni o sudditanze psicologiche. Tutti i giorni dimostrano la loro limpida, morale libertà.

Marco Bernardi, vipasyana@tin.it

 

Sicuramente Vittorio Feltri e lo dimostra tutti i giorni attraverso gli articoli editi da Libero e nelle sue molteplici presenze televisive.

“Libertà e indipendenza” dimostrano anche Piero Ostellino e Sergio Romano, ma hanno la “colpa” di scrivere meno di Feltri, affrontando così un numero limitato di argomenti d’attualità.

Roberto Travasoni, r.travasoni@virgilio.it

 

Antonio Di Pietro, il cardinale Giacomo Biffi Giulio Andreotti, mi pare che esprimano liberamente il loro pensiero, in quanto più coerenti con i loro ideali e meno soggetti al proprio tornaconto. Per diversi motivi: Di Pietro è un pasionario e non riesce a soffocare il suo progetto ideale – giusto o sbagliato che sia per chi lo ascolta – e si può star certi che quello che dice è quello che pensa. Il Card. Biffi ha la forza di chi sa di stare dalla parte della Verità e non gli interessa il plauso popolare. Giulio Andreotti si può divertire a dire ciò che pensa, perché ormai libero da condizionamenti che, forse, in passato, potevano pesare di più a causa del suo ruolo.

Ciascuna di queste persone, poi, è libera perché non condizionata neppure da tratti di carattere un po’ indispettiti, come accade al ministro Mastella il quale sarebbe un buon candidato per questo “referendum” mediatico, se non fosse che a volte sembra dire cose più per far dispetto che per convinzione. Mi preoccupa la scarsa lealtà verso gli alleati. Di Pietro è uno che può sbattere la porta e andarsene. Mastella è uno che passa dall’altra parte. Mi dispiace perché l’ho votato.

mclmpv@infinito.it

 

Non credo che esistano tante persone che si esprimono liberamente. Forse solo la senatrice a vita Rita Levi Montalcini, sommo esponente del pensiero laico e scientifico, in prima linea per i giovani, le donne, chi soffre. Forse anche Roberto BenigniBeppe GrilloDaniele LuttazziLuciana LittizzettoDario FoMarco Travaglio… Ma per avere una persona davvero indipendente è molto probabile che si debbano fondere tutti questi nomi insieme, creando un mostro tipo Frankenstein.

Mariano Sabatini, m.sabatini@libero.it

 

Gli Italiani. Le donne e gli uomini che affrontano le loro giornate con la consapevolezza che i loro pensieri non saranno manipolati ad uso e consumo di alte sfere, ma per il benessere delle loro piccoli e grandi famiglie.

giovani che si avvicinano ad una pagina bianca per esternare senza limiti un’emozione, per imparare ad essere infiniti senza condizioni, per urlare fra di loro i pensieri e farli librare alti come fossero aquiloni senza fili, gestiti solo dalla libertà.

Gli anziani che vivono nelle piazze dei loro piccoli paesi e si raccontano storie e aneddoti dai sapori antichi, puri, limpidi, liberi da artifici.

Sono tutti loro gli autentici indipendenti del nostro Paese, coloro che non sanno neppure di esserlo, perché se lo sapessero sarebbero già manipolabili.

G.R.

FENOMENOLOGIE. Sabrina Colle -Una fidanzata atipica

Ha suscitato molto interesse il suo legame sentimentale anomalo con Vittorio Sgarbi, con la scelta di rinunciare a rapporti sessuali. Qui di seguito, alcune lettere sull’argomento, cosa dice di sé Sabrina, cosa dicono di lei le molte persone che ne discutono qualità e difetti, verità e presunte bugie…

È un simbolo dell’anoressia in amore?

(Una lettrice 28-3-07)

Una lettrice di Libero, Raffaella Pistilli di Campobasso, interviene – trasversalmente – sui comportamenti amorosi, dibattuti negli ultimi giorni:  “L’amore è una cosa semplice e straordinariamente necessaria. Per certe persone – donne, quasi sempre donne – è indispensabile essere estreme nei comportamenti privati. Il compromesso con se stessi non regge e allora è meglio la rinuncia, una rinuncia totale come nostra unica forza e unica risposta possibile all’infelicità. L’anoressia, ci dicono psichiatria e psicanalisi, è il rifiuto a diventar grandi, un comportamento estremo di rifiuto e di potere totale sul proprio corpo. L’anoressica diventa potente rinunciando. Guardando un giorno un approfondimento nella sua Buona Domenica, e non si parlava di cibo, ho collegato l’anoressia ad un’altra rinuncia. All’astinenza dal sesso, non in assoluto, o non solo, ma proprio il nostro compagno, il nostro amato, il nostro uomo. Mi riferisco, e mi scuso se sono esplicita, ma non diffondo segreti, a Sabrina Colle, la deliziosa ragazza che sta da anni al fianco di Vittorio Sgarbi. Credo che la sua astinenza “scelta” e raccontata sia molto simile all’anoressia. Qui si rinuncia al cibo, là si rinuncia al sesso. Non si vuole far entrare nulla nel proprio corpo, né il cibo (che pure è l’unico pensiero di un’anoressica), né l’amato compagno. Conosciamo tutti l’abbinamento, nei proverbi, nei manuali erotici, nell’arte, nella psicoanalisi, di cibo e sesso.

Perché penso che la cara Sabrina sia anoressica nel rapporto col sesso? Perché è il modo più semplice per difendersi dall’enorme peso che un uomo atipico come il suo le dà da portare. La soluzione è diventare noi stesse atipiche, prima con difficoltà, poi con tale autoconvincimento che non riusciamo più a distinguere quanto ci abbiamo messo noi e quanto, alle nostre spalle, il nostro dolore. Le ragazze anoressiche hanno in genere problemi familiari, una madre troppo esigente, per esempio, che ancora non ha finito di partorirci e ci trattiene. Una madre che ci vorrebbe perfette, migliori, straordinarie. E noi che non riusciamo ad adeguarci, cominciamo ad avere comportamenti fuori dalla norma per dimostrare che siamo in gamba, forti, capaci, determinate. Che possiamo rinunciare a mangiare, ricominciando da capo, da quando eravamo piccole, nello stesso girone paradisiaco e infernale del rapporto infantile con nostra madre/nutrice, dettando però noi le regole. Ecco perché la mia opinione è che Sabrina sia un’anoressica di sesso, forse anche d’amore, ma non voglio spingermi fin qui. È l’unico modo che ha per sentirsi più potente delle altre donne, per non essere in competizione.” Risposta di Cesare Lanza: “Penso che Sabrina Colle sia una donna tra le più affascinanti e intelligenti che abbia conosciuto. Non l’avevo mai “pensata” sotto questo aspetto. Proverò a chiederle se si riconosca in questa ardita, ma argomentata, immagine”.

Ancora sul rapporto con Sgarbi

(Altri lettori, 30-3-07)

Scrive la lettrice Virginia Piussi: “Egregio signor Lanza, durante la trasmissione Buona Domenica di qualche tempo fa ho seguito l’intervista alla ragazza, oggetto della lettera pubblicata oggi nella Sua rubrica. Sono sincera: mi ha lasciata molto perplessa. Ero pronta alla lotta verbale con mio marito che per certi versi considero un po’ bamba, ma l’ho trovato stranamente d’accordo con me. Premetto che mio marito, come molti uomini, non si accorge quasi mai che una donna è rifatta, crede a tutto, e gli piacciono le oche che fanno le gattine (almeno in televisione). Questa volta per primo mi ha fatto notare che la ragazza recitava in modo poco credibile un copione, una lezioncina studiata a memoria. A me è parso che volesse convincere sé stessa, prima ancora che il pubblico. Perché cercare tante spiegazioni psicologiche, quando ce ne potrebbe essere una più terra terra? È logico che non facendo del sesso con Vittorio Sgarbi non entri in competizione con le altre numerose donne che ruotano attorno al suo uomo.

Perché essere sempre buoni fino all’eccesso, e non pensare che sia una pura strategia, per rimanere nella vita del professore più delle altre? Visto che l’offerta del sesso è eccessiva e monotonamente ripetitiva, perché è tanto cinico pensare che una giovane donna abbia fatto una scelta utilitaristica? Sgarbi stesso ha dichiarato che ha provveduto con generosità ad assicurare un futuro alla sua fidanzata. So che frequenta il Suo giro d’amicizie. Non se ne voglia. Mi piacerebbe parlare con Lei anche di un altro aspetto: cosa spinge un uomo come Sgarbi a non desiderare e a non farsi desiderare dalla sua donna? La tiene come musa ispiratrice, come tranquillante, come fiore inusuale all’occhiello? Come molte altre donne, opto per la spiegazione più semplice. Il risultato della sua unicità è sotto gli occhi di tutti: ha avuto e ha una visibilità che altrimenti si sarebbe sognata. Le mando cordiali saluti”. l.calypso@libero.it Risposta di Lanza: “La penso diversamente. Per me Sabrina è una donna intelligente, affascinante e sensibile. Escluso che alla radice del suo legame con Sgarbi ci siano interessi meschini e carrieristici. Penso che il rapporto tra Vittorio e Sabrina sia un amore profondo, complesso, intellettuale, spirituale… e anche fortemente e insolitamente erotico e possessivo, al di là dell’inesistente (dichiarato, ma chissà!) aspetto sessuale. Penso infine che Sabrina sia preziosa per Sgarbi perché capace, con fermezza e buon senso, con misura – e si è visto anche a “Buona domenica” – di riportarlo, per quanto umanamente possibile, alla serenità, ricordandogli riferimenti fondamentali per i comportamenti, si diceva una volta, “in società”.  Che Sabrina abbia una personalità atipica, rara, è sicuro: lo dimostrano anche queste lettere che esprimono una fervida, determinata attenzione!”.

Ma com’è Sabrina Colle? In TV e no. Risponde l’interessata…

(4-4-07 )

Caro Cesare,

le lettere delle tue gentili lettrici mi inducono a fare alcune riflessioni sulle mie partecipazioni alle trasmissioni televisive, per quanto siano così rare, e sul modo in cui esse sono state percepite. La prima, non originale, ma sempre valida, è questa: ciò che la televisione riproduce non è il vero, ma il verisimile, anche se ci può illudere del contrario. Non importa quello che si è veramente, ma come si appare. Solo il “retroscena”, dunque ciò che i nostri occhi di telespettatori solitamente non vedono, potrebbe permetterci di distinguere realmente il vero dal verisimile. Sicché, non ho niente da dire sul fatto che in televisione possa essere apparsa come una “che recitava in modo poco credibile un copione” e che pensava a “convincere sé stessa, prima ancora che il pubblico” (ma se lo scopo era strettamente personale e non ci si voleva rivolgere alla platea, che senso aveva prepararsi un copione?), il tutto per giustificare una condizione di “musa ispiratrice” di Vittorio Sgarbi da cui ottenere “una visibilità che altrimenti si sarebbe sognata”. Ritengo che ciò non sia vero, conoscendo i “retroscena” della mia situazione personale, ma non pretendo che chi mi veda in televisione possa andare oltre i limiti fisiologici del mezzo, ovvero del verisimile. Non è superbia, tutt’altro: le regole, nel gioco dei mass media, sono queste, non posso pretendere che per me siano diverse. Dico, semmai, che di queste regole mi ero già bene accorta, e che se la mia “visibilità” è enormemente inferiore a quanto potrebbe essere, dato che la possibilità non mancherebbe affatto, è perché non ho mai voluto abusare di esse. Basta farsi vedere poco, come io faccio, e la “visibilità”, sognata o non sognata, si limita immediatamente. In quanto all’anoressia sessuale, non sarei in grado di entrare nel merito della nuova categoria psicanalitica proposta dalla lettrice, a meno che se non si tratti di un altro modo per definire una comune frigidità. Vorrei comunque rassicurare chi si preoccupa del mio stato dicendo che mi sento meravigliosamente bene: non vedo come questa presunta anoressia possa essere considerata una condizione patologica, non generando in me alcuna forma di sofferenza interiore nelle relazioni con il prossimo, tutt’altro, né, voglio credere, ne genera negli altri. Certo, riconosco di essere stata imprudente nell’offrire alcune confessioni delicate e di carattere estremamente privato, da salotto intimo, per pochi e fidati amici, a uno strumento del verisimile e di masse oceaniche come è la televisione. Il rischio, adesso, è di finire oggetto delle consuete banalizzazioni dei mass media, etichettata a vita come l’anoressica sessuale, un po’ da canzonare, in un Paese in cui di sesso si parla molto più di quanto se ne faccia (chi lo pratica, solitamente, perde poco tempo a discuterne), un po’, forse, da inedita preda delle fantasie erotiche maschili, malata che si rifiuta di farsi guarire da anime generose che magari sarebbero ben disposte al compito. Come è capitato a Vittorio, uomo normalmente fra i più tranquilli che abbia mai conosciuto, diventato in televisione l’emblema dell’ira incontrollata, e potrebbe rimanerlo ancora chissà per quanto. Spesso e volentieri, nei mass media lo stereotipo vince, a scapito di ciò che una persona è nella realtà, come nelle maschere della commedia dell’arte. È di sicuro più facile comunicare per stereotipi, piuttosto che attraverso persone reali, con tutta la loro complessità umana, quando questa complessità esiste, naturalmente. Ma sono rischi del mestiere che chi voglia evitare gli stereotipi può comunque fronteggiare, senza piangersi addosso.

Un saluto e un abbraccio,

Sabrina Colle

Niente sesso, sono Sabrina! Ma ora passo e chiudo

(5-4-07 )

Dopo la pubblicazione – ieri – della sua lettera in risposta ai nostri lettori, Sabrina Colle – fidanzata di Vittorio Sgarbi –  mi ha scritto ancora: perché, ovviamente, ha subito ricevuto un altro pacchetto di missive via email: “Prometto che, dopo questa, “chiudo bottega”, sospendendo il recapito di e-mail. Grazie infinitamente per i complimenti, bellissimi, commoventi. Non immaginavo tanto interesse nei miei confronti, sono travolta e anche un po’ turbata, ho bisogno di riprendermi da questa situazione inattesa. Noto, però, che, dopo i consueti complimenti alla mia bellezza e alla mia intelligenza, andate tutti a battere sul mio rapporto con Vittorio e sulla mia presunta – ormai mi sto abituando anche io al termine – anoressia sessuale, anche con qualche punta di morbosità (cosa c’entra il rapporto con il figlio di Vittorio, normalissimo, direi assolutamente irrilevante nei discorsi che stiamo affrontando? A qualcuno piacerebbe che rivelassi a riguardo cose turche?). Arrendetevi: sono una persona normalissima che ha una relazione normalissima con un uomo, o, comunque, nella quale la normalità prevale nettamente sull’anomalia.

Manca il sesso, dite voi, c’è solo astratta spiritualità, e questo, nell’attuale, banale conformismo del sesso da salotto, chiacchierato piuttosto che praticato, è diventato un peccato inconcepibile. Ma chi vi ha detto che io sia un’eccezione? Non so se viviamo nello stesso mondo, ma io sono attorniata da donne e uomini bellissimi che, per i motivi più vari, dal problema psicologico al lavoro che ruba troppo tempo, non pratica sesso, talvolta ha scelto di non praticarlo, ma è ugualmente tranquilla e serena. Ho avuto l’imprudenza di dichiarare la mia situazione, anche a riprova della mia serenità, ma non potete insistere sempre sullo stesso punto come fossi affetta da una malattia rara. E poi, chi vi ha detto che nella mia vita non ci sia sesso? Se lo intendete come penetrazione, secondo la sottile educazione derivata dai film pornografici (perché alla fine, diciamolo, il concetto terra-terra mi pare quello), allora io sono la vostra anoressica e potete immaginarmi come volete, mentitrice o santarellina frustrata, oppure, meglio ancora, potenziale ninfomane che si maschera da nuova vergine, provocatrice dell’orgoglio virile, in attesa che qualche buon samaritano la riporti sulla corretta via (strano che ancora nessuno mi abbia dato della lesbica latente): così è, se vi pare. Se invece intendiamo il sesso in una visione che a me pare un po’ più ampia, spontanea effusione fisica nei confronti di una persona per la quale si prova amore e affetto, un bacio, un abbraccio, una carezza, sappiate che la mia vita è piena di sesso. In fondo sarebbe d’accordo anche Freud: a ciascuna età, a ciascuna persona, a ciascuna situazione individuale il suo tipo di sesso, la normalità obbligatoria è l’unica cosa anormale. Soddisfatti?

Sempre vostra Sabrina Colle, che passa e (momentaneamente) chiude.

Ancora sullo strano fidanzamento con Sgarbi…

(Altri lettori, 10-4-07)

Scrive la signora Patrizia De Angeli: “Magari è un po’ tardi, ma vorrei esprimerle la mia opinione sul “caso” Sabrina Colle. 1) Anzitutto, forse sono io che seguo poco il gossip, ma anche a me pare che Sabrina si sia fatta vedere poco in pubblico e l’impressione che ne ho avuto io è quella di una persona riservata. 2) Come Lei ha già espresso molto bene, caro Lanza, la lettera di Sabrina mi ha colpito per la sua intelligenza, cosa che, secondo alcune persone, non può essere abbinata anche a un aspetto esteriore gradevole. Invece no: una bella ragazza spesso è bella anche dentro. 3) La sua spontaneità nel fare alcune confidenze sulla sua vita privata ed intima indicano una fiducia nel prossimo e una certa ingenuità che è rara in un mondo sempre più attento al lato materiale e all’apparenza. Concludo dicendo a Sabrina, che deve essere piacevole annoverare tra le amiche, di infischiarsene di quello che dice la gente, anche se è difficile per persone sensibili, e certamente il fatto che sia felicemente fidanzata con un uomo affascinante e geniale quale è Vittorio Sgarbi può stare sul gozzo a qualcuno. Mi auguro solo che rimanga così spontanea sempre”. patrizia.deangeli@libero.it. Su Sabrina ha scritto anche il sig. Enzo Todaro: “Su di un modestissimo dizionario della lingua italiana leggo alla voce fidanzato: “agg. e s. m. Che o chi ha dato promessa di matrimonio”. Orbene Lei definisce fidanzata di quel simpaticone di Vittorio Sgarbi la signorina Sabrina Colle. Di grazia, quindi, quando sarebbe avvenuta la cerimonia di fidanzamento e quando i due colombi convoleranno a giuste nozze? Conoscendo Sgarbi e le sue idee su figli e matrimonio non sarebbe stato meglio e anche non offensivo (ché per evitare l’offesa, suppongo, Lei abbia adottato quel termine) definirla compagna? Andando ora al matrimonio, altra parola abusata, essendo essa impropriamente riferita all’unione fra due persone dello stesso sesso, il lemma è di origine latina e significa “unica madre” e qui mi fermo, non senza rammentare come l’altra sera il signor Conti, conduttore dell’Eredità, ha chiesto a due persone (di sesso diverso) da quanti anni fossero fidanzati, ed ebbe come risposta, candida, candida: Undici. Ammazzali! Cordialità».enzotodaro@bluewin.ch

Risposta di Lanza: “Non mi interessa assolutamente se Vittorio Sgarbi condurrà al matrimonio Sabrina Colle, oppure no. Spero solo che facciano quello che preferiscono e che li tiene, attualmente, uniti in questo singolare stato di grazia. Quanto all’unione di Sabrina con Vittorio, ho scritto “compagna” senza pensarci due volte, e insisto, senza pormi il problema se sia meglio definirla fidanzata o futura sposa o amica o chessoio! Sono, oggettivamente, sorpreso dalla esplosione di interesse di molti lettori (e spero di non annoiare tutti gli altri) intorno al caso Colle. Sabrina ha promesso di scriverci ancora dopo un comprensibile momento di riflessione su questo boom di attenzione. Vedremo…”.

* Dicono di lei:

“Sabrina ritiene che la passione fisica e la pura eccitazione comportino necessariamente la sopraffazione tra uomo e donna. […] Sabrina è un bel paesaggio d’ammirare… Dormiamo insieme sempre abbracciati, ci baciamo e accarezziamo ma nient’altro”.

(Vittorio Sgarbi)

“Se c’è sesso non c’è amore: potrebbe essere questo il motto di Sabrina Colle, dal 1999 compagna di Vittorio Sgarbi…”.

“Sabrina è la donna giusta per Vittorio: non è una di passaggio… Può essere la compagna della sua vita”.

(Rina, madre di Vittorio Sgarbi)

“Averne di fidanzate come lei! Sabrina Colle è abruzzese di Avezzano. Suo padre è un poliziotto in pensione, sua madre fa l’insegnante. Ha cominciato a lavorare come modella a Parigi e a New York. Poi è passata al cinema e alla fiction televisiva. Ultimi lavori, Angelo il custode con Lino Banfi, La squadra, poi una piccola cosa con Tinto Brass, Angelo Nero (remake di Senso) e una parte secondaria nell’Incompreso di Oldoini”. (Claudio Sabelli Fioretti)

* Dice di sé:

“Vittorio va con le altre, ma io non faccio sesso con lui da sette anni. Sopportare un tradimento per me è molto più facile”. (A Diva e Donna) – “Le donne, quando stanno con uomini particolari, devono sapere che vanno lasciati liberi. Il tradimento non mi dà fastidio. Io sono negata a fare controlli, a indagare”. (A Claudio Sabelli Fioretti, Corriere della Sera)

“Sono convinta che in una coppia il lato erotico possa durare al massimo due anni. Nel mio caso non dura più di sei mesi. Poi mi trasformo in un’amica, una madre, nella collaboratrice più preziosa. [Vittorio Sgarbi, ndr] è bulimico, vorace. Io invece sono molto tranquilla, è un lato della vita che non mi interessa”. (A Diva e Donna)

“Sono veramente disinteressata al sesso. Mi affatica”. (A Claudio Sabelli Fioretti, Corriere della Sera)

“Sono molto contenta che un uomo come lui [Sgarbi, ndr] stia con me. Lui ha capito che la mia vera ambizione non è apparire, fare dei film. Io ho le idee molto confuse e mi piace vivere in questo stato di incertezza”. (A Claudio Sabelli Fioretti, Corriere della Sera)

“Io non prendo mai l’iniziativa. Sembro una donna dell’Ottocento. Amo essere corteggiata”. (A Claudio Sabelli Fioretti, Corriere della Sera)

“Io posso avere grandi sentimenti per amici, nascono intese spirituali, intense. Forse [Sgarbi, ndr] l’ho tradito di più io”. (A Diva e Donna)

MADE IN ITALY. Oscar Orefici - Cattiva politica

Le atroci stragi del sabato sera nel Paese della superficialità e delle emergenze
Oscar Orefici * 

L’Italia è il Paese delle emergenze improvvise che, sull’onda delle emozioni o dello sdegno popolare, i governi della Seconda Repubblica, siano essi di centro-sinistra o di centro-destra, pretendono di risolvere in un amen con provvedimenti sensazionalistici. Per apparire quello che spesso non sono, efficienti e al servizio dei cittadini. Così veniamo sommersi da cicalecci deprimenti e da esternazioni che il più delle volte denotano l’incompetenza di chi cerca soltanto visibilità sui media. Per non parlare della convocazione di “tavoli” (iniziativa abusata per ogni evenienza), quanto dei decreti promulgati senza le debite analisi dal nostro Parlamento, simili purtroppo alle “grida” di manzoniana memoria.

Muore il povero Raciti, il poliziotto assassinato nel corso dei disordini avvenuti mentre si stava giocando il derby siciliano Catania-Messina, e repentinamente si scopre che la violenza da stadio ha superato ogni limite di guardia. Come se da anni le cronache dei giornali relative al calcio, dalla serie A ai tornei giovanili, non fossero una sorta di bollettini di guerra. La tragica vicenda ha spinto il ministro dell’interno Amato a varare norme che, a larghe linee, sono la replica di una legge voluta dal precedente inquilino del Viminale, Pisanu, praticamente, mai applicata.

Passata però l’indignazione momentanea, si dimentica in fretta, anche perché incombono altre congiunture negative. L’ultima: le stragi del sabato sera, che poi non sono una grande novità e che rientrano in un fenomeno di ben più ampie dimensioni, quello della mattanza provocata in Italia dagli incidenti stradali. Basta un dato agghiacciante per rendersene conto. Lo scorso anno, infatti, si sono contati oltre cinquemila morti, una carneficina che non ha termini di paragone nel resto dell’Europa occidentale. In Gran Bretagna, tanto per citare un esempio di una nazione con un volume di traffico simile al nostro, le vittime sono state poco più della metà.

Certamente la patente a punti e l’inasprimento delle sanzioni hanno avuto il loro effetto con una progressiva diminuzione degli incidenti dai risvolti tragici, ma, nonostante ciò, il livello di mortalità sulle nostre strade è inferiore soltanto a quelli che si registrano in Spagna e in Polonia. Così sull’onda dell’emozione provocata dalle ultime, ennesime tragedie che si sono verificate alle prime luci dell’alba della domenica, il Consiglio dei ministri ha deciso d’intervenire con disposizioni quanto mai severe: maximulte e persino arresti per eccesso di velocità o per chi guida in stato di ebbrezza oppure sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. Ma basterà? E soprattutto l’indirizzo intrapreso è quello giusto?

Le statistiche dicono innanzi tutto che un incidente mortale su tre vede implicato un conducente sotto la soglia dei trent’anni. Ma poi smentiscono clamorosamente i criteri governativi, basati sulla certezza empirica che le cause di tanti disastri siano dovute all’alcol e alle droghe, che in realtà determinano soltanto il due per cento dei decessi, mentre il 90 per cento è dovuto a imperizia, banali se pur tragici errori di guida.

È evidente, perciò, che il punto cruciale del problema è tutt’altro e risiede nel sistema obsoleto con cui vengono rilasciate le patenti. A un esame teorico tanto difficile quanto inutile, in particolare sulle conoscenze tecniche relative al motore, corrisponde poi una risibile prova pratica. Qualche centinaia di metri percorse dall’aspirante “pilota” al fianco di un indulgente esaminatore, in un ampio parcheggio o in una strada isolata, sono sufficienti per ottenere l’agognata licenza, che equivale a mettere in circolazione un potenziale, inconsapevole killer. Ma il problema non è mai stato neppure adombrato da un classe politica succube delle lobby, in questo caso più quella delle autoscuole che non delle case automobilistiche. Eppure il traffico, la guida sulle autostrade, le avverse condizioni atmosferiche rappresentano banchi di prova che trovano del tutto impreparati i neo patentati. I nostri uomini politici ritengono però che sull’opinione pubblica abbia un maggiore impatto l’annuncio di misure draconiane, quando, invece, si dovrebbe puntare sulla prevenzione e sui controlli. In ogni caso è un metro comune adottato adesso dall’attuale maggioranza di centro-sinistra nell’affrontare buona parte delle contingenze nazionali, dalla lotta all’evasione fiscale alle liberalizzazioni: imposizioni e minacce, meglio se accompagnate dal tintinnar di manette, quasi i cittadini fossero dei sudditi di una monarchia assoluta.

Altro problema sopravvalutato nella classificazione degli incidenti è quello della velocità, per una visione populistica dell’automobile e di ciò che rappresenta, dimenticando – o facendo finta di dimenticare – che il 41 per cento dei sinistri mortali avviene in città. Ma anche la velocità ha la sua valenza ideologica, celebrata all’inizio del secolo scorso dai futuristi, poi considerati in odore di fascismo dalla sinistra italiana. E ancora oggi questa entità astratta – simbolo di ardimento come di incoscienza, a seconda dei punti di vista – è un termine di riferimento divulgato a piene mani dai conformisti cronisti dei media, in particolare da quelli dei telegiornali, che nel raccontare una sciagura stradale non dimenticano mai di usare il vocabolo “velocità”, una parola da esorcizzare. È però un dato di fatto – pur se citarlo viene considerato politicamente scorretto – che è ben più pericoloso viaggiare in autostrada con un’utilitaria a 130 chilometri orari, quindi nel rispetto del codice della strada, che non a 150 a bordo delle cosiddette ammiraglie. Comunque anche negli Stati Uniti, dove i limiti vengono fatti osservare in maniera ossessiva, il tasso di mortalità non è inferiore alla media europea.

Ma la velocità è combattuta pure dai movimenti ambientalisti – più si va piano e minori sarebbero le emissioni di polveri nocive, questo il teorema – che in Belgio, con grande soddisfazione dei loro omologhi italiani, hanno ottenuto una straordinaria affermazione. Sulle autostrade di alcune regioni non si possono, infatti, superare i novanta chilometri orari. L’esperimento, in essere da pochi mesi, ha suscitato persino l’interesse dell’Unione Europea, che sta studiando se è possibile varare un simile provvedimento che riguardi l’intera rete autostradale nei Paesi membri della comunità. Il governo tedesco, in ogni caso, si è già fatto sentire. Mai e poi mai potrebbe accettare un decreto tanto punitivo, con pesanti ricadute negative sull’industria automobilistica. Del resto, i Verdi sono da qualche tempo sul piede di guerra, in particolare da noi e in Francia, nei confronti dell’automobile, impegnandosi in assurde campagne, come quella in atto contro i Suv, una categoria di vetture che ha ottenuto un successo commerciale superiore a ogni previsione. Un’avversione classista, in quanto si tratta di auto piuttosto costose, spacciata per una crociata a favore dell’ambiente. Sostengono, demagogicamente, che i potenti motori di queste macchine sarebbero fra i più inquinanti. Tesi paradossale, non suffragata da alcuna documentazione in proposito, e che ribalta la realtà. Perché i Suv sono equipaggiati con propulsori di ultima generazione, certamente meno nocivi di quelli di vetture di piccola cilindrata immatricolate una decina di anni fa.

Per tornare agli incidenti che insanguinano le nostre strade, non solo manca la prevenzione, ma soprattutto sono del tutto insufficienti i controlli. Dalla polizia stradale ne vengono eseguiti appena duecentomila l’anno, mentre in Francia raggiungono la ragguardevole cifra di otto milioni. Addirittura irrilevante è la percentuale degli automobilisti che subiscono un test con l’etilometro: il tre per cento, contro il 16 della media europea. In pratica, la probabilità di vedersi misurato il livello dell’alcol è una volta ogni 175 anni!

Ma la polizia stradale, carente di uomini e di mezzi, a volte mancano persino i fondi per acquistare la benzina, non può fare di più. Su questo tema fondamentale, però, non si è alzata neppure una voce da parte delle istituzioni. Meglio evitare, meglio nascondere la testa sotto la sabbia, anche se, senza vigilanza, qualsiasi provvedimento legislativo è destinato a non avere alcun effetto. Ma questa è la cinica legge non scritta della classe politica italiana, certa che la prossima emergenza improvvisa farà dimenticare quelle precedenti e pronta a tuonare di nuovo quando un incidente con qualche ragazzo morto farà tornare d’attualità le stragi del sabato sera.

* Dice di sé:
Oscar Orefici. Giornalista, scrittore (attualmente è in libreria con “Ferrari-Romanzo di una vita”, Cairo Editore), autore televisivo e cinematografico, nato molti anni fa sotto il segno del Cancro, è attualmente editorialista di Sky Sport, di Sky TG24 e dei quotidiani Il Messaggero, Il Mattino e il Gazzettino.

ATTIMI FUGGENTI. Declinazioni di libertà di varia caratura

FILM

 

Il Padrino, Francis Ford Coppola, 1972

 

Don Vito:  “Io ho sempre lavorato e non ho rimorsi, ho avuto cura della mia famiglia… E ho sempre rifiutato di fare il pupo, attaccato ai fili tenuti in mano da quei pezz’e novanta… E non ho rimpianti. Era la mia vita… Ma pensavo che un giorno, finalmente, sarebbe toccato a te tenere i fili… “Il senatore Michael Corleone”… “Il governatore Michael Corleone”… Oppure non so…”.

Michael:  “… Un altro pezz’e novanta…”.

Don Vito: “Il tempo non è bastato, non ho avuto il tempo…”.

Michael:  “Ci arriveremo papà, ci arriveremo”.

 

Dialogo tra Don Vito Corleone (Marlon Brando), giunto ormai quasi al termine della sua vita, e il figlio Michael (Al Pacino), che si appresta a diventare “il nuovo Padrino”.

 

 

Le ali della libertà, di Frank Darabont, 1994

 

“Stavamo lì seduti… Il sole ci picchiava sulle spalle, e ci sentivamo liberi. Era come se stessimo asfaltando il tetto di casa nostra. Eravamo i signori dell’intero creato. Quanto a Andy, rimase tutto il tempo seduto in disparte e ci guardava bere le sue birre. […] Voi potreste pensare che lo fece per ingraziarsi i secondini, o magari per farsi qualche amico fra di noi; invece io penso che l’abbia fatto per sentirsi di nuovo come tutti gli altri, anche se solo per poco tempo”.

 

Red (Morgan Freeman), chiuso nella terribile prigione di Shawshank, gusta le birre-premio che un’idea intelligente e coraggiosa di Andy (Tim Robbins) ha fatto ottenere a lui e agli altri.

 

“Nel 1966 Andy Dufresne evase dalla prigione di Shawshank. Di lui trovarono solo la divisa da prigioniero infangata, una saponetta, e un vecchio martelletto di roccia ridotto ormai a un mozzicone. Ricordo di aver pensato che ci sarebbero voluti 600 anni per scavare un tunnel con quell’affare. Lui ci riuscì in meno di 20. […] Andy andò incontro alla libertà strisciando per 500 metri in mezzo a liquami puzzolenti e schifosi. Certe volte però ero triste, pensando che Andy se ne era andato. Ma alcuni uccelli non sono fatti per la gabbia, questa è la verità. Sono nati liberi, e liberi devono essere. E quando volano via, ti si riempie il cuore di gioia perché sai che nessuno avrebbe dovuto rinchiuderli”.

 

Red (Morgan Freeman) commenta l’incredibile evasione da Shawshank dell’amico Andy (Tim Robbins), che era stato condannato ingiustamente a due ergastoli per un delitto mai commesso.

 

“O fai di tutto per vivere, o fai di tutto per morire. Io ho scelto di vivere. E per la seconda volta in vita mia ho commesso un crimine: ho violato la libertà condizionata. Ma non credo metteranno posti di blocco per questo… Non per un vecchio come me. Sono talmente eccitato che non riesco a stare seduto, né a concentrarmi su qualcosa. Credo che sia l’emozione che solo un uomo libero può provare. Un uomo libero all’inizio di un lungo viaggio, la cui conclusione è incerta… Spero che il Pacifico sia azzurro come nei miei sogni… Spero!”.

 

Red (Morgan Freeman), che alla fine decide di rischiare – violando la condizionale – e di raggiungere l’amico Andy Dufresne (Tim Robbins), che lo aspetta lontano, ormai libero.

 

 

L’avvocato del diavolo, Taylor Hackford, 1997

 

“Osservavo e aspettavo… Non potevo farne a meno. Ma non sono un burattinaio: non faccio succedere le cose. Non è così che funziona… Libero arbitrio! È come l’ala della farfalla. Una volta toccata, non si solleva più da terra. No, io ho solo preparato la scena: i fili te li tiri da solo… La libertà, figliolo, significa non dover mai chiedere scusa”.

 

John Milton (Al Pacino), il diavolo nel film, rivela a Kevin (Keanu  Reeves), avvocato vincente, di essere suo padre, e  lo esorta a donarsi a lui. Ma Satana non può costringere neanche suo figlio: lui deve scegliere con la sua libertà.

 

 

La fonte meravigliosa, di King Vidor, 1949

 

Avvocato dell’accusa: “Questo è l’appello solenne che vi rivolgo. Sia la vostra coscienza a formulare il verdetto per Howard Roark. Avete già udito i testi. La confessione di Pietro Keating ha rivelato che Howard Roark è uno spietato egoista, il quale ha distrutto una grande impresa per un capriccio personale. Il quesito che vi è stato posto è anche il problema della nostra epoca. L’uomo ha diritto di esistere se rifiuta di servire la società? Il vostro verdetto sarà la risposta. Il Paese l’attende”.

Giudice: “La parola è alla difesa”.

Roark: “Eccellenza, non ho voluto testimoni. La mia sarà testimonianza e difesa”.

Giudice: “Presti giuramento”.

Ufficiale di corte: “Giuri di dire la verità, tutta la verità, e nient’altro che la verità davanti a Dio”

Roark: “Lo giuro. Migliaia di anni fa l’uomo riuscì a scoprire il segreto del fuoco. Forse lo bruciarono con quel legno che egli aveva insegnato ad accendere. Ma lasciò all’umanità un dono insperato e con esso liberò dal buio la terra. Durante i secoli, altri uomini mossero i primi passi sulle vie nuove, animati soltanto dalla loro intuizione. I grandi creatori, i pensatori, gli artisti, gli scienziati, gli inventori rimasero soli contro gli uomini del loro tempo. Ogni nuova idea era ostacolata. Ogni invenzione bandita, ma ciascuno di loro andò avanti. Lottò, soffrì e pagò. Non era mosso dal desiderio di piacere alla folla. La folla odiava il dono che le era offerto. Ma lui cercava la verità. Suo scopo era solo la sua opera. La sua opera, non chi ne usava. La sua creazione, non i benefici che gli altri ne traevano. La creazione che dava forma alla sua verità. Però la sua verità la metteva sopra e contro a tutti gli altri. Andò avanti, sia che gli altri volessero seguirlo o no. Solo con la sua integrità per sola bandiera. Non servì niente e nessuno. Visse solo per sé. E solo vivendo per sé poté realizzare le opere che formano la gloria dell’umanità. È così che è avvenuta ogni conquista. L’uomo è nato inerme. Ha un’unica arma: la sua mente. Senza di essa non potrebbe sopravvivere. Ma la mente è un attributo dell’individuo. Non c’è e non si può concepire una specie di cervello collettivo. L’uomo che pensa deve pensare e agire da sé. Come può lavorare se è sottoposto a costrizioni di ogni genere? È impossibile subordinarlo a bisogni, opinioni o desideri di altri. Nessuno ha il diritto di sacrificarlo.

Chi crea, si basa sul proprio giudizio. Il parassita segue l’opinione degli altri. Chi crea, pensa. Il parassita copia. Chi crea, produce. Il parassita ruba. Chi crea crede alla conquista della natura. Il parassita alla conquista degli uomini. A chi crea va data indipendenza. Egli non comanda e non serve nessuno. Tra lui e gli altri c’è un libero scambio, una libera scelta. Il parassita cerca il potere e tenta di livellare gli uomini in un’azione comune, una comune schiavitù. E pretende che l’uomo debba essere uno strumento ad uso degli altri. Debba pensare come pensano gli altri. Agire come gli altri, che debba annullarsi in una servitù senza gloria. Guardate la storia. Ogni conquista ogni bene che possediamo deriva dall’opera indipendente di una mente indipendente. Ogni barbarie o decadenza nasce dal tentativo di fare degli uomini automi senz’anima, senza cervello, senza diritti personali, volontà, speranza, dignità. È un antico conflitto. Oggi ha un altro nome: l’individuale contro il collettivo. Il nostro paese, che è fra i più nobili della storia degli uomini, si fondò sul princìpio dell’individualismo ossia sui diritti inalienabili dell’uomo. Era un paese dove l’uomo era libero di cercare la sua felicità. Di guadagnare e produrre non angustiato dalla rinunzia. Di prosperare. Libero di possedere un bene inestimabile: il senso del suo valore personale è la più alta delle virtù, il suo amor proprio.

Questo è ciò che i collettivisti vi chiedono di distruggere, come già altrove è stato distrutto. Io sono architetto. Se fossi editore sarebbe più facile capire il mio problema e le ragioni della mia protesta. Infatti, chi oserebbe pensare a un editore che deformasse la trama di un romanzo, a un direttore di giornale che si attentasse a modificare l’articolo pensato da uno scrittore. Insomma, un oltraggio alla libertà di stampa e di pensiero. Per la mia opera d’arte, invece, da me fornita senza sollecitazioni e compenso, si è imbastito questo processo, perché io ho voluto distruggere le deformazioni che alla mia opera erano state apportate. Il patto era di riprodurla come l’avevo ideata io. Quello era il patto. E mi misi subito al lavoro. Non presi un soldo. La mia opera fu deturpata dal capriccio di altri che sfruttarono il mio lavoro senza darmi nulla. Sono venuto a ricordarvi che nessuno ha il diritto di usurpare un solo minuto della vita degli altri e nessuno ha il diritto di sfruttare le energie degli altri. Chiunque esso sia. Questo volevo dirvi. O il mondo finirà in un’orgia di sopraffazione. Vi parlo in nome di tutti gli uomini indipendenti che ancora rimangono nel mondo. Al di fuori di questi princìpi non esiste che la schiavitù del lavoro e la negazione all’uomo del diritto di vivere secondo il proprio genio”.

 

La giuria lo dichiara innocente per i reati a lui ascritti.

 

L’architetto Howard Roark (Gary Cooper), deciso a non accettare alcun compromesso, per affermare le proprie idee decide di far saltare in aria una sua grandiosa opera: per questo sostiene un processo, nel quale si difenderà personalmente.

 

INIZIATIVE

 

Selfcinema

“Adotta un film on line”: questo il principio che anima Selfcinema, associazione dalla mentalità decisamente innovativa. A darle vita, pochi mesi fa, un “gruppo di cinefili stufi” di un’ “offerta culturale spesso omologata”, che si sono ribellati, associati e hanno deciso di adottare un film,  di portarlo in sala, di offrire ad altri spettatori la possibilità di vederlo, coinvolgendo gli stessi nel meccanismo della prevendita.

Che significa? Che Selfcinema cerca di “adottare”, far adottare, e portare così poi nelle sale, i film di qualità che non trovano spazio nel tradizionale meccanismo distributivo, in modo da dare la possibilità, a chiunque lo meriti, di esprimersi liberamente.

Cliccando sul sito, www.selfcinema.it, chiunque può sostenere i film che vorrebbe poi vedere sul grande schermo. Il primo esperimento, il primo film adottato, con grande successo, è stato L’Estate di mio fratello, di Pietro Reggiani. Solo 6 euro la cifra da donare da parte degli utenti, andando sul sito, per preacquistare un biglietto del film: così da riuscire, grazie al pre-incasso raccolto, a raccogliere la somma minima necessaria a “convincere” gli esercenti a proiettare la pellicola.

SelfCinema nasce dunque come alternativa – indipendente e amante della libertà d’espressione – ad un’offerta cinematografica e artistica spesso limitata, omologata.

Sul sito, oltre a tutte le informazioni circa l’iniziativa, i trailer del film, il calendario degli eventi, è anche possibile iscriversi alla newsletter, per seguire da vicino l’andamento della vendita dei biglietti.

Per informazioni e contatti:

SelfCinema, c/o Bozzi

Via Chiana, 48 – 00198 Roma – www.selfcinema.it, info@selfcinema.it

 

TVBLOG – www.tvblog.it 

Nato nel marzo 2005, vuol essere, più che un sito, un blog, con numerosi post – articoli, riflessioni – ricchi d’informazioni aggiornate, palinsesti alternativi, piccole scoperte. Libertà è lasciata a tutti – agli appassionati, come ai detrattori della tv e dei suoi programmi – di esprimere la propria opinione commentando i vari articoli: senza censure. Il lettore può dire la sua liberamente, in dialogo diretto con gli autori di Tvblog e con gli altri utenti della rete: anche criticando, dando suggerimenti, informazioni aggiuntive. Inoltre, chiunque voglia collaborare o ritenga di avere una notizia interessante, può inviare un messaggio a suggerimenti@tvblog.it. Spazio aperto, per tutti.

Il tono fresco, colloquiale, si coniuga con la precisione e la cura con cui le notizie vengono diffuse: senza posizioni aprioristiche, ma in un semplice e oggettivo confronto con le fonti dirette. Come dimostra il commento dei dati Auditel, puntuale ed esatto, senza che si cerchi mai di far apparire in difficoltà chi, magari, è stato “meno simpatico” al blog, ma è risultato comunque vincente.

Gli autori di Tvblog, come i lettori, hanno le proprie, personali idee: ma lasciano libero chiunque di esprimere la propria – compresi, e talora per primi, coloro che magari sono stati criticati e chi la pensa diversamente. E, se concedere “diritto di replica” a chi è stato oggetto di critica può talora scatenare “liti” tra i lettori, pare che ben accette siano le discussioni, i confronti: anche i ripensamenti e le nuove valutazioni, se nuovi fatti sono emersi.

L’editor di Tvblog è Malaparte, un “insider” sotto pseudonimo. Con lui collaborano Debora, Fulvio Nebbia, Lord Lucas, Mr. Diego, Nick, Max Renn, Notuno, e Alberto Puliafito.

Ulteriori contatti presso Blogo.it, la società editoriale indipendente che pubblica Tvblog:

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AFORISMI & ATTIGUI

 

Libertà va cercando, ch’è sì cara come sa chi per lei vita rifiuta

Dante

 

Com’è bella giovinezza, che sen fugge tuttavia, chi vuol esser lieto sia del diman non v’è certezza

Lorenzo il Magnifico

 

Viviamo, Lesbia mia, ed amiamoci,

e i brontolii dei vecchi austeri

valutiamoli, tutti assieme, due soldi.

Il sole può tramontare e tornare,

ma noi, quand’è tramontata la nostra

breve luce, dobbiamo dormire una sola notte, perpetua.

Catullo

 

Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che, in alcuni eventi, l’uomo cessi di essere “persona” e diventi “cosa”.

Cesare Beccaria

 

Mostrami chi non è schiavo: uno lo è dalla libidine, l’altro dell’avarizia, l’altro ancora dell’ambizione; tutti della paura. La schiavitù più avvilente è quella volontaria.

Seneca

 

Se vogliamo essere liberi, creiamo noi stessi la nostra libertà e non attendiamola da altra parte.

Claude Henri de Saint-Simon

 

Chiamiamo libero colui che esiste per se stesso e non per un altro.

Aristotele

 

La libertà riservata ai partigiani del governo, ai soli membri di un unico partito – sia pure numerosi quanto si vuole – non è libertà: la libertà è sempre e soltanto la libertà di chi pensa liberamente.

Rosa Luxemburg

 

Ubi rationabilitas ibi necessario libertas.

Dove avrai spazio per ragionare, lì necessariamente la libertà.

Scoto Eriugena

 

La libertà ha un altro nome che suona “responsabilità”; e con ciò si chiarisce che essa rappresenta piuttosto un grave onere, specialmente per l’intelletto.

Thomas Mann

 

“Quando un popolo, divorato dalla sete della libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, son dichiarati tiranni.

E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari,  e non è più rispettato; che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui, che i giovani pretendono gli stetti diritti, la stessa considerazione dei vecchi, e questi, per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani.

In questo clima di libertà, nel nome della medesima, non vi è più  riguardo né rispetto per nessuno.

In mezzo a tanta licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la Tirannia”.

Platone “La Repubblica”, libro VIII

 

Per la libertà, così come per l’onore, si può e si deve mettere in gioco la vita.

Miguel de Cervantes

 

L’albero della libertà deve essere innaffiato di quando in quando con il sangue dei patrioti e dei tiranni. È un concime naturale.

Thomas Jefferson

(1743 – 1826)

 

La libertà è un vago concetto.

Otto von Bismarck (1815 – 1898)

 

La libertà è un lusso che non tutti si possono permettere.

Otto von Bismarck (1815 – 1898)

 

Più uno sta in alto, meno è libero.

Sallustio

 

Pochissimi sanno essere liberi e pochissimi cosa vuol dire esserlo.

Marguerite Yourcenar

 

Io non sono veramente libero se non quando, tutti gli esseri umani che mi circondano, uomini e donne sono ugualmente liberi.

Michail Alexandrovi? Bakunin

 

Esser liberi è meno difficile di quanto si crede. Presuppone una sola condizione: che la libertà valga più della vita.

Aleksandr Isaevi? Solženicyn

Nulla fu mai, per l’uomo e per la società umana, più intollerabile della libertà.

Fedor Dostoevskij

 

Canzoni

 

Il mio canto libero

(Lucio Battisti, Mogol)

 

In un mondo che non ci vuole più il mio canto libero sei tu; e l’immensità si apre intorno a noi aldilà del limite degli occhi tuoi. Nasce il sentimento, nasce in mezzo al pianto e s’innalza altissimo e va e vola sulle accuse della gente a tutti i suoi retaggi indifferente sorretto da un anelito d’amor, di vero amore.

Pietre un giorno case ricoperte dalle rose selvatiche rivivono ci chiamano boschi, abbandonati e perciò sopravissuti vergini si aprono ci abbracciano. In un mondo che prigioniero è respiriamo liberi io e te e la verità si offre nuda a noi e limpida è l’immagine ormai nuove sensazioni giovani emozioni si esprimono purissime in noi, la veste dei fantasmi del passato cadendo lascia il quadro immacolato, e s’alza un vento tiepido d’amore, di vero amore – e – riscopro te. Dolce compagna che non sai dove andare, ma sai che ovunque al fianco tuo mi avrai se tu lo vuoi.

In un mondo che, prigioniero è respiriamo liberi io e te e la verità si offre nuda a noi e limpida è l’immagine ormai. Nuove sensazioni, giovani emozioni si esprimono purissime in noi. La veste dei fantasmi del passato, cadendo lascia il quadro immacolato e s’alza un vento tiepido d’amore, di vero amore – e – riscopro te.

 

Una preghiera di libertà, una preghiera d’amore

(Elisa Toffoli)

 

È strano quanto il tempo scorra lentamente, quando aspetti qualcosa di più. Che riesca a darti calore, quando hai freddo, che riesca a calmarti e a darti pace…

È strano quanto il tempo scorra velocemente…l’amore arriva quando meno te l’aspetti, il suo potere ti sovrasta e devi arrenderti, devi lasciarti andare…

Questa fragilità ci rende forti. Questo fuoco scioglierà il ghiaccio ed è ciò che voglio, ciò di cui ho bisogno. Una preghiera di libertà, una preghiera d’amore…

Doni preziosi sono dati nel silenzio, come pezzi di un puzzle irrisolto, per imparare, per conoscere…così inspiegabili, ma così belli! […]

Così, non importa quanto a lungo aspetterò, la sofferenza è un nonnulla, una prova per la mia volontà. Verrà il giorno in cui la verità sovrasterà tutte le paure e tutte le bugie. In una preghiera di libertà, una preghiera d’amore…

 

Liberi Liberi

(Vasco Rossi)

 

Ci fosse stato un motivo per stare qui, ti giuro sai sarei rimasto sì. Son convinto che se fosse stato per me adesso forse sarei laureato e magari se “lei”… fosse stata con me adesso…. sarei sposato!

Se fossi stato, ma non sono mai stato così; insomma dai, adesso sono qui! Vuoi che dica anche se, soddisfatto di me, in fondo in fondo non sono mai stato, “soddisfatto” di che, ma va bene anche se qualche volta mi sono sbagliato.

Liberi, liberi, siamo noi. Però liberi da che cosa, chissà cos’è?…Chissà cos’è!

Finché eravamo giovani era tutta un’altra cosa chissà perché?…….chissà perché! Forse eravamo “stupidi” però adesso siamo “cosa”… che cosa….che?…..che cosa…se!?… Quella voglia, la voglia di vivere quella voglia che c’era allora… chissà dov’è! …chissà dov’è!?

Che cos’è stato, cos’è stato a cambiare così? …ti giuro che, sarei rimasto qui…Vuoi che dica anche se soddisfatto di me in fondo in fondo lo sono mai stato “soddisfatto” di che ma va bene anche se…se alla fine il passato è passato!

Liberi Liberi siamo noi, però liberi da che cosa chissà cos’è,….chissà cos’è! E la voglia, la voglia di ridere quella voglia che c’era allora chissà dov’è?!….chissà dov’è!

Cosa diventò, cosa diventò quella “voglia” che non c’è più, cosa diventò, cosa diventò che cos’è che ora non c’è più cosa diventò, cosa diventò quella “voglia” che avevi in più cosa diventò, cosa diventò e come mai non ricordi più…

 

 

 

 

 

Documenti storici

 

Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo

(adottata  dalle Nazioni Unite il 10/12/1948 – primi cinque articoli)

 

Articolo 1

Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.

 

Articolo 2

1) Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione.

2) Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico internazionale del paese o del territorio sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità.

 

Articolo 3

Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona.

 

Articolo 4

Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma.

 

Articolo 5

Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizioni crudeli, inumane o degradanti.

 

I 14 principi universali dell’uguaglianza e della democrazia nel 3° millennio

 

Art. 1

I diritti che appartengono ad ogni uomo, da quando nasce fino a quando muore, sono quello alla vita, alla libertà, alla proprietà, alla continuità del lavoro e del reddito lavorativo, alla salvaguardia della salute di tutto il pianeta, alla sicurezza.

Gli uomini, da quando nascono fino a quando muoiono, sono tutti liberi e uguali davanti alla legge. Tale libertà e tale uguaglianza si perpetrano e si consolidano attraverso la democrazia, le leggi, il lavoro, lo Stato, il mercato, il capitale. Il capitale non è solo il fine del mercato, ma soprattutto il mezzo per l’uguaglianza sostanziale ed effettiva di tutti gli uomini del futuro. Il capitale stabilizzato è il massimo strumento dell’uguaglianza sostanziale definitiva tra tutti gli uomini del mondo.

Il diritto alla vita si esplica anche respirando, bevendo, coltivando. L’aria, l’acqua e la terra sono risorse che appartengono, nella loro totalità, a tutti gli uomini, e sono soggette a deterioramento e depauperamento.

Essendo tali, ogni singolo uomo ha diritto a che esse non siano contaminate, in nessuna parte del mondo.

Ogni individuo del mondo ha diritto a che il consumo di acqua venga razionalizzato per legge, al fine di essere equamente distribuita. La contaminazione di aria, acqua e terra è un “crimine contro l’umanità”, ed i contaminatori devono rispondere penalmente di tale reato.

 

Art. 2

La democrazia è un diritto di ogni individuo, ma anche una situazione concreta di benessere, una situazione materiale. La democrazia è fatta di diritti, di libertà, e di una concreta, precisa e certa condizione economica, che deve rendere effettiva la fruizione dei diritti e delle libertà, da parte di ogni individuo.

La garanzia concreta e certa di un lavoro dignitoso per tutti, è la condizione imprescindibile per l’esistenza di una democrazia.

 

Art. 3

La democrazia dovrà consistere, per quanto riguarda il suo aspetto concreto, nella garanzia di almeno un posto di lavoro, (due, per le famiglie con figli) fino all’età della pensione, per ogni famiglia e per ogni cittadino single.

Ciò, al fine dell’eliminazione della povertà nella società. Solo così si aggiunge la partecipazione alla democrazia.

Il lavoro può essere fisso, a termine o a tempo parziale, ma il reddito deve essere sempre fisso, e fissato sempre al di sopra della soglia di povertà.

La temporaneità e la parzialità del posto di lavoro, devono essere sempre compensate dalla continuità del lavoro in sé, nel senso che la successione dei vari posti di lavoro a termine o parziali, deve essere continua.

Tuttavia, nel caso di vuoto lavorativo causato dal passaggio da un posto di lavoro all’altro, tale vuoto dovrà essere comunque retribuito, almeno in maniera sufficiente, e coperto dalla previdenza sociale.

 

Art. 4

Il mercato è il più concreto e potente strumento della democrazia (“materiale”). Per tale motivo, esso deve essere libero. La libertà del mercato si legittima in quanto essa è funzionale al raggiungimento di un concreto benessere materiale per tutti (in pratica, la piena occupazione obbligatoria).

Solo se il mercato viene indirizzato verso il suddetto risultato, e solo se non ostacola o reprime il raggiungimento di quel risultato stesso, allora esso può essere totalmente libero. Intanto il mercato può essere pienamente libero, in quanto rispetti le suddette condizioni, essenziali per l’esistenza della democrazia moderna. I creatori della ricchezza sono il mercato e lo Stato insieme.

 

Art. 5

Lo Stato, per la parte di sua competenza, decide la direzione del mercato, al fine di rendere le decisioni economiche dei singoli, utili al raggiungimento del benessere materiale per tutti gli individui.

Dunque, compito e dovere assoluto dello Stato, è quello di predeterminare e decidere i concreti risultati finali delle azioni economiche che si svolgono nel mercato, ed anche delle azioni degli organi pubblici riguardanti l’economia.

Lo Stato, tranne che per alcuni aspetti, non avrà nessun potere di gestione nelle imprese. Egli agirà come semplice “socio” delle imprese, socio avente l’esclusivo interesse del maggior sviluppo possibile delle imprese private e della piena occupazione effettiva costante.

 

Art. 6

Lo Stato, attraverso un particolare e scientifico metodo di coordinamento in un sistema, delle azioni degli operatori del mercato, ed anche di quelle pubbliche, dovrà rendere certi i risultati del mercato, cioè dovrà rendere certo il risultato del concreto benessere materiale per tutti.

 

Art. 7

Per rendere utili le azioni del mercato, cioè per raggiungere il risultato di un certo e concreto benessere materiale per tutti, lo Stato dovrà programmare ed imporre un sistema di stabilizzazioni (automatico ed autoalimentatesi) nella propria politica economica.

Senza tale sistema di stabilizzazioni, quel preciso e certo risultato non si potrà raggiungerlo in maniera piena e concreta.

 

Art. 8

Attraverso la piena attuazione del sistema di stabilizzazioni, lo Stato avrà il dovere di eliminare la povertà.

 

Art. 9

L’attuazione del sistema di stabilizzazioni scientifiche automatiche, nel sistema socio-economico è un diritto costituzionale di ogni cittadino.

 

Art. 10

Il diritto di ogni individuo a partecipare alla democrazia, viene esercitato sia attraverso il diritto al voto, sia con il diritto ad avere sempre la garanzia di un lavoro per il dignitoso sostentamento personale o dei propri familiari.

Solo chi ha un’autonomia economica partecipa alla democrazia.

 

Art. 11

Ogni cittadino ha il diritto di diventare ricco o benestante. Lo Stato ha l’obbligo di predisporre le misure concrete affinché tale diritto si concretizzi per tutti i cittadini (non solo per pochi). Nel predisporre tali misure, lo Stato dovrà assicurare loro le stesse situazioni (o condizioni) di partenza.

Ogni cittadino ha il diritto di diventare ricco o benestante, e di poter coltivare il senso della prospettiva futura. Il limite della libertà economica è il bene altrui. Essa trova anche un limite nella sua utilità, nel senso che essa è legittima fino a che serva a far raggiungere il benessere economico di tutti i singoli individui della società, cioè un lavoro continuo e dignitoso per tutti.

L’imprenditore deve esser messo, dallo Stato, nelle migliori e più vantaggiose condizioni possibili, soprattutto di partenza, per far sì che egli guadagni il più possibile, contribuendo in tal modo, il più possibile, alla piena occupazione effettiva e al benessere della collettività.

 

Art. 12

Lo Stato accetta la forma più estrema di mercato (il capitalismo) e cerca di sfruttare al meglio i suoi aspetti positivi.

Tuttavia, lo Stato, attraverso specifici meccanismi economici, si obbliga a neutralizzarne gli aspetti negativi, affinché non compromettano il raggiungimento dell’obiettivo di un certo e concreto benessere materiale per tutti (piena occupazione obbligatoria) e dell’eliminazione della povertà.

La presenza e l’accettazione, da parte dello Stato, di forme estreme di mercato, si legittimeranno solo e soltanto a condizione che tali forme estreme non pregiudichino il suddetto obiettivo, fondamentale per la moderna democrazia.

Altrimenti, tali forme estreme, dovranno essere combattute, represse e soppresse dallo Stato, in quanto esse non consentiranno il raggiungimento dell’obiettivo fondamentale della moderna democrazia.

 

Art. 13

Lo Stato deve predisporre, a favore di chi vuol fare l’imprenditore, delle condizioni economiche di partenza medesime, per tutti quanti loro. Tali condizioni economiche devono essere concrete, e devono consistere nell’attuazione del modello d’impresa cosiddetto “ad affitto pubblico”, il quale prevede imprese private di proprietà (potenzialmente temporanea ed eventuale) dello Stato.

Con tale modello lo Stato finanzierà, in maniera praticamente completa, la nascita delle imprese, rendendo davvero concreta e reale la loro libera (e paritaria) entrata nel mercato; rendendo così più concreta e reale la libera concorrenza perfetta.

Tutti dovranno avere la concreta possibilità di diventare imprenditori.

L’attività degli imprenditori e la ricchezza da loro prodotta, saranno fondamentali per il sistema socio-economico, in quanto esse saranno funzionali al raggiungimento dell’obiettivo primario di tale sistema, cioè quello della piena occupazione obbligatoria e dell’eliminazione totale della povertà.

 

Art. 14

Le entrate tributarie “fondamentali” (cioè quelle da cui dipendono aspetti fondamentali della vita del paese e dei singoli cittadini, quali la sanità, il welfare, l’ordine pubblico e la giustizia) devono rispondere a criteri di imposizione fiscali diversi da quelli comunemente usati per le altre imposte (che si attengono ad un preciso e rigido collegamento logico tra la natura dell’imposta e la natura di ciò che l’imposta deve andare a colpire), e questo al fine della “oggettività estrema” di ciò che si va a colpire con l’imposta e per il fine della “certezza quasi assoluta” delle entrate fondamentali.

Al fine del raggiungimento di questi obiettivi, dovrà essere obbligatorio usare come principio generale dell’imposizione delle entrate tributarie fondamentali, quello della “ragionevole presunzione”.

 

 

Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti

(Incipit)

 

“Quando, nel corso degli eventi umani, diviene necessario per un popolo rescindere i legami politici che lo legavano ad un altro, ed assumere tra le Potenze della Terra la posizione separata ed eguale alla quale le Leggi della Natura e del Dio della Natura gli danno titolo, un giusto rispetto delle opinioni dell’Umanità richiede che essi manifestino le cause che li costringono alla separazione.

Noi teniamo per certo che queste verità siano di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono creati eguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di certi Diritti inalienabili, che tra questi vi siano la Vita, la Libertà ed il perseguimento della Felicità. Che per assicurare questi diritti sono istituiti tra gli Uomini i Governi, i quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati. Che quando un qualsiasi Sistema di Governo diventa distruttivo di questi fini, è Diritto del Popolo di alterarlo o di abolirlo e di istituire un nuovo Governo, ponendone il fondamento su questi princìpi ed organizzandone i poteri in una forma tale che gli sembri la più adeguata per garantire la propria sicurezza e la propria Felicità.

La prudenza, tuttavia, richiederebbe che i Governi da lungo tempo stabiliti non siano cambiati per cause lievi e transitorie; e coerentemente ogni esperienza ha mostrato che l’umanità e più disposta a sopportare, quando i suoi mali sono sopportabili, che non a difendersi abolendo le forme alle quali sono abituati. Ma quando una lunga serie di abusi e usurpazioni, che perseguono invariabilmente il medesimo obiettivo, manifesta il disegno di ridurli sotto un assoluto Dispotismo, è loro diritto, è loro dovere rovesciare un simile Governo e provvedere nuove Garanzie per la loro futura sicurezza. Tale è stata la paziente sopportazione di queste Colonie; e tale è ora la necessità che le forza ad alterare i loro precedenti Sistemi di Governo”.

 

Ratificata a Philadelphia, 4 luglio del 1776

ESORDIENTI. Annet - 'Ti prego per gentilezza rimandarmi le mie lettere'

Annet * 

Annet – così ama farsi chiamare Anna Rita Leonardi, 35 anni – vive da sempre in un piccolo paese dell’alto Lazio: poche persone, un gran silenzio “che fa sentire bene i battiti del cuore”, e che fin da piccola la spinge a scrivere: poesie, racconti. Laureata in Letteratura italiana alla Sapienza di Roma, litiga col suo relatore per difendere le proprie idee: si gioca la lode, ma va fiera di quanto ha fatto. Oggi è moglie, madre di una bimba di tre anni, ha una vita intensa: ma continua a scrivere, inarrestabile. Si ritaglia ogni momento, ogni notte insonne: i libri sono per lei una “costante irrinunciabile”.

   Ha creato vari romanzi, inediti. Qui vi presentiamo un brano tratto da Ti prego per gentilezza rimandarmi le mie lettere: la storia di una donna misteriosa, chiusa nel suo piccolo appartamento, che indaga sulla scomparsa della giovane Bianca, sul suo passato sentimentale, sui suoi tanti ex amanti. Un delirio notturno, onirico: che però la ricondurrà nella realtà, sciogliendo il tragico enigma del suo isolamento.

 

Ti prego per gentilezza rimandarmi le mie lettere

 

“Signorina Iole ti prego per gentilezza rimandarmi le mie lettere con la mia fotografia poiché ormai tra noi tutto è finito. Io presto sposo e se hai piacere mandarmi i tuoi auguri ne sarei contento in attesa. Saluti cordiali e auguri di una sollecita felicità anche per te”.

Ventisette agosto millenovecentotrentatré.

Così mio nonno ha liquidato la nonna per sposare un’altra che, dicono, non amava.

Continuo a rileggere questo biglietto, un piccolo, misero cartoncino ingiallito e macchiato.

Vorrei essere capace di versare lacrime per quel tuo futuro marito che non vedeva e deve essere stato atroce, nonna, sapere bene tutto e non essere ascoltata.

Mi affascina il momento in cui la storia di una persona prende una direzione piuttosto che un’altra, l’istante preciso in cui si definisce, a dispetto dell’intero passato, tutto quello che seguirà.

Ripongo con cura il foglietto nella scatola di legno sulla mensola, lo infilo tra un “Non posso fare a meno di te” scritto sulla pagina strappata a Cortesie per gli ospiti e un bristol rosso con un numero di telefono dell’ufficio ormai disattivato.

Lo sistemo con attenzione, chiudo la scatola e sorrido ironica fino a farmi male.

Apprendiamo dalla televisione dell’attacco alle torri, mentre mi phono i capelli e sudo s’innesca un telegiornale fuoriprogramma.

Andrea ha giurato di non rivelare che sono qui.

Ha promesso che non parlerà con nessuno del nostro incontro di questa sera e che non proverà a tornare.

Perché tutti accettano senza riserve le mie decisioni?

Faccio sogni talmente semplici e poveri di simboli perché possa combatterli.

Voglia di torta allo yogurt della Cameo, con frutti di bosco, è naturale!

Devo sbrigarmi perché non voglio perdermi lo spettacolo della pioggia di sera dal balcone, fingerò che gli altri non esistano.

Cancellerò con un gesto della mano l’edificio davanti e tutti gli schermi inutili che intravedo appena, accesi sulle soap senza fine.

Godo del fondo burroso e compatto, affondo nella crema densa la forchetta, velocemente.

Ho bisogno di tante cose, seduta qui fuori come un naufrago che ancora spera.

L’acqua scivola su tutto, chiassosa, socievole.

L’asfalto nero, lucido, brilla sotto i lampioni dalla luce intermittente.

Affondano sull’acceleratore, incuranti d’ogni pericolo, i pochi viaggiatori delle nove in punto, recita in cucina la sveglia con accento settentrionale.

L’acqua ritorna.

Viene a me, che cupa temo, con tutti i suoi nomi e i suoi anni.

Viene a me che imparo le leggi d’innumerevoli distanze.

Intuisco parvenze di volti e residui di voci, che mi appartenevano.

Voci concatenate, dolci nenie.

M’incantano i cerchi che intorno fuggono.

 

Non ho voglia di assistere a nuove repliche del solito gioco, doppio gioco.

Cucina, più ampia di come la ricordassi, più scura.

Derido isterica il loro rispettabile scopo.

Mio padre afferra il giornale e si dirige svelto verso la camera da letto.

Io resto seduta, eretta, scontrosa.

Solida, consapevole del peso dei fogli con cui mi sono impastata.

Perfettamente cosciente dell’abisso che divide i figli dai padri.

Pienamente responsabile dei miei pochi spazi.

Annaspa precario e stoltamente superiore nella nuova, affatto originale, tragedia di famiglia.

Non hanno fine le meschine rinunce cui sottopongo il mio cuore.

Taglio pezzi delle foto d’infanzia per evitare facce di morti e corpi deformi.

Non si vergogna di niente, chi deve.

Io continuo a mescolare fotografie sul tavolo, tra briciole di piccoli panini al latte, come fossero carte da gioco.

Ed è imbarazzante nascondere l’evidenza.

Mi agito nel letto tentando di sottrarmi a quel che seguirà.

Riesco perfino ad aprire gli occhi, ma la confusione dei primi minuti, come un’ipnosi ben riuscita, mi riconduce nel sogno.

Nel secondo episodio c’è lui che ritorna ed ha una faccia che non promette niente di buono.

Alza la voce, novità sorprendente, e comincia col dire che non ne può più di lei.

Bella scoperta!

Nel sogno io mi alzo e tutti tacciono, si aspettano chissà quale risoluzione.

Nella cucina più grande, con mio padre visibilmente invecchiato e mia madre vestita di bianco sono ancora il loro riferimento.

Come al ralenti raggiungo il lavello e lascio scorrere l’acqua.

Allora lui, quasi avesse ottenuto il mio appoggio, riattacca con la scena di poco prima, ma ha perso di vigore.

Mia madre aspetta che lo sfogo di lui abbia termine per cominciare la sua parte.

La voce è stridula, il volto teso, coriaceo.

“Con mia sorella! Giuda! Con mia sorella!”

Io respiro veloce nel letto madido e mi sveglio.

Non rinnego la fuga e il silenzio.

Bisogno di essere qui.

Di cambiare ancora e ancora nella stanza immobile.

Sono le quattro e dodici minuti.

Fuori è buio, nessuno.

 

Nella vasca da bagno da un’ora.

Riscaldo l’acqua a intervalli regolari e m’insapono con una lentezza sfibrante.

Crema, profumo di mandorle e desiderio, all’alba, assonnata ed euforica.

Preparo un the, paziente, fiduciosa.

Mi abbraccio nell’accappatoio verde della colonia.

Ricordo l’emozione quando mio padre arrivò.

Veniva a salvarmi, undicenne assediata da ragazzini che m’impedivano di dormire bussando alla portafinestra durante la notte.

Mi spazzolo i capelli, cammino ignorando le gocce d’acqua sul pavimento, passo dalla cucina, dove sorseggio il the, torno in soggiorno e mi specchio, un pezzo di fetta biscottata, scivolo quasi e rido forte.

Improvviso una specie di danza sul bagnato, mi perdo nel vortice, incredula.

Alle otto mi ritrovo con la casa in disordine, i capelli asciutti e un sonno indomabile, più forte di me.

Ci scivolo dentro con movimenti lenti, disarmonici.

Daniel sorride con la sua bocca ben disegnata, le labbra rosse, i contorni definiti, rassicuranti.

Ha una camicia bianca con dei piccoli fiori blu che ricordano i gigli.

Mi abbraccia in quel suo modo delicato, ma deciso che non ammette variazioni.

Io vivo la scena come se fosse assolutamente normale incontrarlo.

Siamo davanti al portone, sul vialetto della casa dove vivevo prima.

Per quante volte ho sceso le scale sistemando una borsa sulla spalla e mi sono chiesta se sarebbe stata quella l’occasione?

Perché hai dovuto raccontarmi di esserti accorto in un istante, con lei che ti veniva incontro, uscendo dal lavoro, di non amarla più?

Siamo stati così meschini.

Ci sciogliamo dall’abbraccio rigido e camminiamo verso l’esterno.

La strada è piena di auto in sosta davanti al negozio home video, in seconda, terza fila.

Io vorrei fermarmi e dirgli che mi sembra di vivere un sogno, come se tutta quella felicità che provo raggiungendo la macchina fosse ingannevole e fugace.

Ma scelgo di tacere.

 

Dal romanzo “Ti prego per gentilezza rimandarmi le mie lettere”, di Anna Rita Leonardi

 

 

Nota dell’editore:

Se scrivere è la tua passione e conservi nel cassetto le pagine di un romanzo, la sceneggiatura di un film, un saggio che vorresti vedere pubblicati, manda un estratto al seguente indirizzo: redazione@lamescolanza.com. Gli scritti che conquisteranno maggiormente l’attenzione e l’interesse della redazione saranno pubblicati sui prossimi numeri della rivista “L’attimo fuggente” nella sezione Esordienti.

PRESENTAZIONI. Domenico Mazzullo - Il Lanzachenecco

È in uscita a maggio il nuovo libro di Cesare Lanza, editore Aliberti: “un dizionario di persone, personaggi e personcine” incontrati dall’autore, in pubblico e privato, durante la sua vita. Anticipiamo qui la prefazione


Domenico Mazzullo 

Il Lanzachenecco? Chi era costui? Il frutto di una “svista” del mio amico Cesare Lanza? Un lapsus calami? Oppure un più affascinante ed intrigante lapsus freudiano dell’amico-autore, che, colto da un improvviso raptus di egocentrismo e malcelato desiderio di grandezza, ha inavvertitamente ed incautamente equivocato sulle parole, dimenticando e tralasciando, pericolosamente, la propria inalienabile e ben conosciuta cultura storica e linguistica?

Brutti scherzi può compiere l’ipertrofica valutazione e considerazione del proprio “Io”, anche negli spiriti più illuminati e valorosi. Ma non posso proprio crederlo, non posso credere che il mio amico ignori, o dimentichi che non di Lanzachenecchi si parli e tramandi da quando essi nacquero nel lontano 1493, per precisa volontà di Massimiliano I d’Austria, e fino ad oggi, ma di, e più esattamente, Lanzichenecchi, la cui etimologia, perfettamente conosciuta e riconosciuta, non ammette adito ad errori, o inesattezze. Il termine, infatti, deriva dal tedesco Landsknecht, parola composta di Land = terra, patria + Knecht = servitore, quindi servitore della patria.Un’altra scuola di pensiero, ma comunque minore e meno rappresentativa, sostituisce il primo termine della parola composta, Land, con Lanze = lancia, da cui letteralmente, servitore con la lancia, plausibile, ma improbabile, essendo i Lanzichenecchi armati non di lance, ma di ben più temibili e cruente alabarde. Forse che il mio distratto e frettoloso amico, sia stato ingannato e deviato da questa seconda interpretazione? Per dovere di amicizia lo desidero e lo spero, in salvezza del suo onore.

E mentre sono immerso e tormentato da questi dubbi, il mio pensiero vola, a proposito di Lanzichenecchi, ai miei ricordi ginnasiali, quando ero invece tormentato, come tanti altri ragazzi, dalla lettura, imposta ahimè, dei “Promessi Sposi”: “Chi non ha visto don Abbondio, il giorno che si sparsero tutte in una volta le notizie della calata dell’esercito, del suo avvicinarsi e de’ suoi portamenti, non sa bene cosa sia impiccio e spavento. Vengono; son trenta, son quaranta, son cinquanta mila; son diavoli, sono ariani, sono anticristi; hanno saccheggiato Cortenuova; han dato fuoco a Primaluna: devastano Introbbio, Pasturo, Barsio; sono arrivati a Balabbio; domani son qui: tali eran le voci che passavano di bocca in bocca; e insieme un correre, un fermarsi a vicenda, un consultare tumultuoso, un’esitazione tra il fuggire e il restare, un radunarsi di donne, un mettere le mani ne’ capelli. Don Abbondio, risoluto di fuggire, risoluto prima di tutti e più di tutti, vedeva però, in ogni strada da prendere, in ogni luogo da ricoverarsi, ostacoli insuperabili e pericoli spaventosi. – Come fare? – esclamava: – dove andare? – I monti, lasciando da parte la difficoltà del cammino, non eran sicuri: già s’era saputo che i lanzichenecchi vi s’arrampicavano come gatti, dove appena avessero indizio o speranza di far preda.” E ancora, a proposito del povero don Abbondio e del suo difficile rapporto con i Lanzichenecchi: “Volete lasciarmi in man de’ cani? Non sapete che sono luterani la più parte, che ammazzare un sacerdote l’hanno per opera meritoria? Volete lasciarmi qui a ricevere il martirio?” E il povero don Abbondio non aveva proprio tutti i torti, se pensiamo che il 6 maggio 1527 furono proprio quegli stessi Lanzichenecchi protagonisti del “Sacco di Roma”, evento storico di portata mondiale e paragonabile, in epoca recente, al tragico “11 settembre 2001”.

Ma i Lanzichenecchi furono solo questo e solamente questo? O forse sono vittime, ancora oggi, di un pregiudizio storico, di una semplificazione manichea di valutazione che vuole tutti buoni, o tutti cattivi? In un’epoca in cui il revisionismo storico è divenuto di moda, non si potrebbero applicare le stesse regole e gli stessi principi ai nostri amici Lanzichenecchi? Essi furono certamente dei “mercenari”, ossia dei soldati che combattevano per danaro, dei professionisti delle armi e già il termine mercenario ha presso di noi un’accezione negativa, ma credo sia importante rammentare che in quel preciso periodo storico tutte le milizie erano mercenarie, al soldo del miglior offerente, disinteressate alle motivazioni, ideali, ma spesso ancor più materiali, che avevano spinto i contendenti a muoversi guerra. Corollario negativo di questo costume era rappresentato dal facile e frequente cambiamento di campo, di tali milizie, se il nemico, fino a poco prima combattuto aspramente, offriva un soldo maggiore.

Tutto questo avvenne per altri, ma mai per i nostri Lanzichenecchi. Essi furono sempre fedeli all’Imperatore, ma di una fedeltà intesa mai come un obbligo, ma come una libera scelta di coerenza e di libertàinteriore. Terminata, infatti, ogni campagna militare, essi tornavano alle loro case, liberi di accettare, o meno, un nuovo ingaggio. Qualcosa di ben diverso, da ciò che era riservato ai poveri sudditi, per lo più contadini, o servi della gleba, costretti, spesso con la forza a servire sotto le armi. Dei veri e propri “liberi professionisti” delle armi, molto vicini, per altro, al concetto moderno di esercito, compreso quello italiano da quando è terminata la leva, formato e composto di professionisti, ben addestrati e motivati, che hanno scelto come lavoro il “mestiere delle armi”. Di più: i Lanzichenecchi, da veri professionisti, introdussero per primi anche un nuovo modo di combattere, riesumando dal passato e riadattandolo ai tempi moderni, lo schema tattico delle antiche legioni romane, composte di formazioni agili e manovriere, al comando di ufficiali subalterni, cui erano fedelissimi, i quali combattevano assieme ai loro uomini sul campo, liberi di prendere iniziative proprie, nel rispetto di una strategia di fondo. Ma i Lanzichenecchi, così feroci e temibili in battaglia, erano anche dei gran sentimentali e proprio per loro e per i loro omologhi e avversari mercenari svizzeri, venne coniato, da un oscuro studente di Medicina, Johannes Hofer, per la propria tesi di Laurea, il termine di nostalgia, dal greco nostos = ritorno e algos = dolore, ad indicare quell’oscura malattia che colpiva i mercenari combattenti in terre straniere, spesso mortale, e che oggi non esiteremmo a chiamare depressione. Il dolore di chi desidera ardentemente far ritorno nella propria patria, ma ne è impedito dalle circostanze. In tedesco Heimweh = dolore, male della patria.

Ultima caratteristica, ma non certo meno importante delle altre: i Lanzichenecchi, come ben sa il povero don Abbondio, erano tutti luterani, seguaci del monaco agostiniano, che aveva dedicato la propria vita alla predicazione contro le indulgenze e alla sfida in campo aperto, contro lo strapotere e la corruzione della Chiesa romana, in nome della libertà di coscienza. Ma Lutero non si era fermato qui. Aveva tradotto la Bibbia in tedesco, aveva insegnato ai fedeli a leggersela da soli, ad essere unici interlocutori di Dio, a sentirsi liberi anche nei confronti dei potenti della terra.

Solo ora, però, mentre scrivo, mi rendo conto di quanto l’immagine dei Lanzichenecchi, sia stata vittima di pregiudizi e di interpretazioni superficiali, emotivamente dettate, come spesso accade purtroppo in tali circostanze e di falsi giudizi unilaterali e non rispettosi di una verità storica, ma anche e soprattutto, di quante volte siano ricorsi, nel mio breve e noioso discorso i termini di libertà liberi, a loro riferiti. E tornando “allo mio Autore” amico e mentore, Cesare Lanza, mi sorge subitaneo e imperioso un dubbio, che via via sfiora la certezza: forse non di lapsus, o svista si è trattato, a proposito del sunnominato “Lanzachenecco”, ma di una precisa e meditata volontà. Conoscendolo da vicino, stimandolo ed ammirandolo, infatti, mi appare immediatamente e inequivocabilmente evidente, che proprio quella stessa Libertà che caratterizza i Lanzichenecchi, sia il principio informatore, l’aspirazione suprema, l’ispirazione e il sommo desiderio del mio amico che ama definirsi “un liberale assoluto”. E se le parole hanno un senso, assoluto, come recita il dizionario, sta per: libero da limiti, da legami; che ha in se stesso la propria ragione di essere. Ma se questa ricerca assidua, continua, perentoria e insaziabile di libertà, rappresenta un imperativo categorico per il mio amico assoluto, ben altre caratteristiche lo accomunano con i succitati Lanzichenecchi. Essi infatti furono dei seri e stimati professionisti, della guerra certo, ma sempre professionisti, liberi professionisti che, terminato il compito affidatogli, tornavano alle loro case, liberi, mai sudditi, soggetti, o sottoposti. Lo stesso serio, adulto, sofferto professionismo, assolutamente libero da coercizioni e condizionamenti, ho conosciuto e riconosciuto nel mio amico, nelle sue molteplici vesti di scrittore, giornalista e autore televisivo.

I Lanzichenecchi furono certo feroci combattenti, ma anche uomini ricchi di profondi e semplici sentimenti, come l’acuta nostalgia della patria che, abbiamo visto, li coglieva in terra straniera, conducendoli, a volte, addirittura alla morte. La stessa profondità di sentimenti che ho subito scoperto e conosciuto nel mio amico Cesare, il quale, al di sotto di un atteggiamento ed un portamento burbero e che incute soggezione, nasconde un animo enormemente affettivo, di un’affettività spontanea, timida, pudica e quasi infantile, a volte, che si nasconde e forse si vergogna di essere colta, ma che ho avuto la fortuna di conoscere e apprezzare, nei rari attimi di distrazione, negli occhi fugacemente inumiditisi al racconto di un episodio di vita, nelle timide espressioni di un affetto trattenuto e timoroso, nei piccoli, grandi gesti di generosità spontanea ed impulsiva, negli sguardi profondamente, ingenuamente e dolcemente infantili e trasognati, quando si sentiva sicuro di non essere osservato, magari davanti ad un vassoio pieno di invitanti paste alla crema… Grazie amico mio di queste piccole, grandi, involontarie occasioni per conoscerti, apprezzarti e volerti, sinceramente, bene.

Una sola nota dissonante e discordante, spero che me la concederai e non me ne vorrai: purtroppo non hai proprio le “physique du role” per essere un lanzichenecco imperiale e sinceramente non ti vedo indossare, al mattino, i policromi calzoni di lana, aderentissimi come calzamaglie, e sopra a queste le brache cortissime e contraddistinte da ampi spacchi, sbuffi e fiocchi, al pari del corsetto in cuoio tinto in vari colori, nonché il largo cappello piumato, indiscutibile emblema di ogni buon lanzichenecco. E poi, certamente non supereresti la severa visita medica, cui venivano sottoposti gli aspiranti prima dell’arruolamento.

P.S. Il “Lanzichenecco” è anche un giuoco di carte, d’azzardo, e so per certo che Cesare Lanza ama cimentarsi con questi innocenti passatempo. Ma questo riguarda un’altra storia.

SLANG. Do you speak italian? Quante parole difficili, nel Corrierone

 

Abbiamo preso, a caso, un grande giornale e lo abbiamo letto da cima a fondo. Con una certa difficoltà… (Il nostro titolo, tradotto dall’inglese, significa: Parli italiano?)

Un presupposto fondamentale per la libertà è quello che i cittadini, tra di loro, si comprendano. È importante riuscire a farsi capire e consentire che il tuo interlocutore, avendo facoltà di capire, possa risponderti in modo congruo e, così, ragionare con te. Ora, molti si chiedono: i giornali sono scritti e proposti in modo comprensibile? I giornali dovrebbero avere, come funzione primaria, il compito di informare con semplicità e chiarezza. È così? O scelgono di rivolgersi, e comunque d fatto si rivolgono, solo a una fascia privilegiata di lettori colti e consapevoli?

Abbiamo incaricato una giovane collaboratrice di prendere un giornale, un grande giornale scelto a caso, e di leggerlo dalla prima all’ultima riga, segnalandoci tutte le parole e sigle, latinismi e neologismi, di non facile comprensione: vi proponiamo qui sotto un sorprendente elenco (probabilmente incompleto). Nell’elenco compaiono anche parole inglesi di (forse) facile comprensione, entrate nell’uso comune, come lady e yacht…ma perché non utilizzare le semplici parole italiane di uguale significato, signora e barca?

Pensate agli attimi, fuggenti e non trattenibili, in cui alcuni milioni di persone non sono riuscite, non tenute a esserlo, a cogliere il significato di ciò che leggevano e, di conseguenza, hanno fatto fatica a capire, o, peggio, non hanno capito affatto, ciò che era pubblicato e loro proposto.

L’elenco è tratto dal “Corriere della Sera” del 29 marzo 2007. Il mitico quotidiano è stato scelto a caso: ci sembra corretto aggiungere che non diverso sarebbe risultato l’esame in qualsiasi altro giornale. Nei prossimi numeri della nostra rivista proporremo altri elenchi, tratti da altri quotidiani di carta stampata e dai telegiornali. E adesso, amici lettori, di quante parole, tra le seguenti, conoscete il vero significato?

 

Acea, Acli, Action Painting, Afp, Anatema, Ania, Ansa, Antropologia, Asset, Asset Yukos, Assise, Atlantista, Audience

 

Band, Banlieues, Baseball, Beauty Farm, Biotecnologia, Bluff, Board, Boarding Location, Body, Break down,

 

Cabaret, Cammino Neocatecumenale, Capitol Hill, Cash, Cast, Cgil, Champions League, Cisl, City, Clorazione, Coach, Coefficienti, Commonsense month, Concertazione, Concordato, Congressi di sezione, CONI, Consob, Cooptazione, Cornwall, Cowboy, Cross, CT

 

Deejay, Deficit, Delency Week, Derby, Desk, Detective, Dicastero, Dividendo, Doom, Dossier

 

E.on, Ebitda, Educational, Eliseo, Entrecanales, Era, Ermeneutica, Esautorare, Establishment, Estimi catastali, ETA, Eternit

 

F2i, Faa, Fairplay, Family Day, Fan, FCC, Federal Reserve, Fiction, Fingruppo, Flop, Folk, Foreign Office, Format, Fund Raising

Game, Gauche, Gay, Gip, Gossip, GPS, Greatest Hits

 

Handicap, Holding, Holinvest, Hopa, Hotel, Hudud

 

ICI, Idioma, Ifil-Exor, IIT, Inarcassa, Ingerenza, Intelligence, ISI, Islamabad, Ispo, Isvap

 

Jihad

 

Lady, Lascito, Leader, Lobby

 

Magistero, Management Buyout, Manager, Marines, Mittel, Mozione, Music Farm

 

Nasa, Neocon, New Economy, News, Non Expedit

 

Obbligazioni, Online, Opa, Out

 

Pasdaran, Patto parasociale, Pay pal, Piercing, Private Equity, Player, Pluralismo, Plusvalenze, Poison Pill, Pony express, Postsinodale, Prelazione, Prelievo unico, Premier, Pressing, Pride, Privacy, Prolusione, Proventi straordinari

 

Quadro Regolatorio, Quake

 

Ranch, Reality Show, Remake, Rivoluzione Khomeinista, Round, Royal Navy

 

Sanofi Pasteur MSD, Schieramento garantista, Sciita, Scoop, Scout, SDI, Seans, Security, Segretario Confederale, Sepi, Share, Shopping, Sierotipo, Sim, Single, SIPRA, Sistema dualistico, Slogan, Soft, Soft – power, Spaceport, Speaker, Spot, Staff, Standard, Standing Ovation, Star, Starlette, Style, Sub-holding, Summit, Sunnita, Surrettizia

 

T-shirt, Talk Show, Tar, Tav, Team, Teodem, Top, Top Gun, Tour, Trinariciuto

 

UEFA, Ugl, Unitalsi

 

Vcomputer

 

Web, Weekend, Welfare, West

 

Yacht

 

(a cura di Valentina Cicoletti)

FUORI GABBIA. ab - Seguimi

“Segui i miei passi”,

ho scritto sulle suole,

ti faccio strada,

sul filo teso tra la luce e il buio.

 

Ondeggio, mi blocco, mi rivolto,

a braccia larghe,

col mio tutù e l’ombrellino aperto.

 

Afferra le caviglie,

se accenno a volar giù,

per un ostacolo o un refuso.

 

Cadrò di sotto sola,

o ci salveremo,

dipenderà dalla visione tua

del mio futuro.

ab, 30 marzo 07

PROGETTI. Anna Bogo - Dottor Freud. Appunti per una fiction

Il padre della psicoanalisi racconta i suoi primi casi
di Anna Bogo e Cesare Lanza 

Undici casi clinici di terapia psicoanalitica già elaborati per diventare undici puntate di fiction televisiva, più cinque ulteriori casi da strutturare.

Ogni caso clinico, una puntata. Il filo di ogni storia è tenuto in prima persona dallo stesso Freud, come voce narrante fuori campo. I Casi Clinici di Freud sono osservazione sistematica, diretta e documentata, dei propri pazienti raccontata da Freud stesso. I Casi Clinici non sono mai stati sceneggiati per il cinema o la tv, se non citati all’interno di documentari o film (rarissimi) sulla vita di Freud o di Jung.

Undici casi perfetti per essere romanzati, anzi già romanzati da Freud stesso. Sono, potremmo dire, gialli, thriller, alcuni con inquietudini visionarie e tagli di luce alla Hitchcock.

Freud scrive spesso frasi del genere: “Questo lo spiego più avanti”. Oppure: “Ricordatevi di questo”. O ancora: “Questo mi ha svelato il mistero”. Lasciandoci in agitata attesa degli sviluppi.

Sono storie di pazienti che arrivano nel suo studio di Vienna con patologie che vanno dal delirio all’isteria, alla paranoia, malattie psichiche che si esplicitano anche in terribili disturbi somatici, storie raccontate nel modo che fanno di Freud, oltre all’inventore della psicanalisi, uno dei miglior scrittori del suo secolo. Freud diceva che niente è così intrigante e sconvolgente come entrare nella psiche umana.

Leggere questi casi veri è un’esperienza che porta alla radice di ogni orrore della nostra vita quotidiana. Immaginiamo il nostro coinvolgimento nel vederli sullo schermo, a rappresentare le nostre paure e le nostre psicosi. A spiegarci, anche, o avvicinarci a comprendere, per aiutare noi stessi o chi ci sta vicino, i tormenti nascosti dell’anima.

I casi clinici di Freud, con una sintesi visiva eccezionale, riportati in saggi brevi, costituiscono il tentativo – riuscito – di presentare al pubblico, e agli addetti, la grande massa di materiale psichico raccolto e il suo complesso percorso di ricerca e interpretazione, per prove, tentativi.

I personaggi dei casi clinici sono vari e ben delineati anche nei tratti fisici. Sono in genere colti e di famiglia ricca o benestante, visto che si potevano permettere di approdare alla nascente psicanalisi. Ma intorno a loro ruota un mondo fatto di governanti, bambinaie, amici, fidanzati, cuoche, di altre categorie sociali dunque, che ci danno un panorama completo della vita e degli ambienti della Vienna di quel tempo.

E non solo di Vienna, ma anche dei magnifici dintorni, dei boschi viennesi, la campagna, le case di cura sulle colline o sui lagni, le cittadine sul Baltico, fino ad Odessa e all’Ungheria.

Questa è l’idea per una serie televisiva che ha come protagonista Sigmund Schlomo Freud, inventore della psicanalisi, che ha scritto dettagliatamente i fatti che andava scoprendo e i Casi Clinici, cioè la storia vera, anche se tuttora sconvolgente e inverosimile, dei suoi pazienti.

Per convenzione si usa datare la nascita della psicanalisi con la prima interpretazione di un sogno scritta da Freud: un suo sogno personale.

Il racconto di questo sogno, Vienna, notte tra il 23 e il 24 luglio 1895, potrebbe essere l’inizio del racconto in prima persona fatto da Freud stesso, ormai vecchio, a Londra, poco tempo da vivere a causa di una grave malattia alla mascella.

Tre operazioni. Fumava ancora venti-trenta sigari al giorno. Non era mai riuscito a smettere.

Si era invece autoguarito dalla fobia per i viaggi. Da giovane era partito per Roma, ma in preda ad un terrore indescrivibile era tornato subito indietro.

Negli anni, andando a fondo a questo proprio comportamento – la sua autoanalisi è fondamentale per le sue scoperte – guarì, andò a Roma e qui passò una vacanza indimenticabile.

(Il sogno di quella notte del 1895 è riportato ne L’interpretazione dei sogni, (1900), come “il sogno dell’iniezione di Irma”).

 

Nota

I paragrafi o le frasi tra virgolette sono dello stesso Freud.

I primi cinque casi qui di seguito sono stati pubblicati da Freud tra il 1905 e il 1920 e sono considerati i più importanti perché addensano tutte le teorie della psicanalisi.

Gli altri sono stati pubblicati in anni precedenti o successivi.

Il caso di Anna O., il primo in ordine di tempo, gli fu passato dal suo maestro Breuer, che non riusciva a risolverlo. Freud ci riuscì.

Breuer scrisse di lui: “Freud è nel pieno vigore del suo intelletto. Ormai lo scorgo in lontananza, come la gallina il falco.”

 

1. Il caso di Dora

Il caso è particolarmente complesso e il materiale abbondante.

 

“Ho scelto una persona che non viveva a Vienna, ma in una remota città di provincia e le cui vicende private devono per questo essere praticamente sconosciute nella capitale (…). Le questioni sessuali saranno discusse con la maggior franchezza possibile, gli organi e le funzioni della vita sessuale saranno chiamati con il loro vero nome, sicché il lettore “benpensante” sarà convinto dalla mia esposizione che io non ho esitato a parlare con una giovane donna di certi argomenti e con quel linguaggio. Non mi difenderò davanti ad accuse di questo genere: chiedo soltanto che mi siano concessi gli stessi diritti di cui gode un ginecologo – o magari diritti anche più modesti – e aggiungo che sarebbe indice di una singolare e morbosa malizia supporre che conversazioni come quelle che presento possano costituire un valido mezzo di eccitazione e soddisfazione di desideri sessuali”

 

“L’ambiente familiare della ragazza di diciotto anni includeva, oltre a lei, i suoi genitori e un unico fratello. Il padre è la figura dominante, sia per la sua intelligenza e il carattere, sia per le circostanze stesse della sua vita, che fecero da cornice all’infanzia e alla malattia della ragazza.

Nel periodo in cui ebbe inizio il mio trattamento, egli era prossimo ai sessant’anni, imprenditore, con una situazione economica molto prospera. La figlia gli era teneramente affezionata anche perché il padre fu vittima nel tempo, da quando la ragazza aveva sei anni, di varie malattie, tra cui una tubercolosi, che portò la famiglia a spostarsi a risiedere in una piccola città delle nostre province meridionali. Qui la salute del padre migliorò notevolmente, ma precauzioni di prudenza convinsero la famiglia a rimanere ben altri dieci anni in quella cittadina, che chiamerò B.

Durante i primi anni di vita della ragazza, che chiamerò d’ora in poi Dora, il suo unico fratello, di un anno e mezzo più vecchio di lei, era stato il modello che essa si era sforzata di imitare, ma, negli ultimi tempi, i loro rapporti si erano allentati. Il giovanotto non era interessato ai problemi familiari e, se interveniva, tendeva a parteggiare per la madre: ecco così tracciato il solito schema dell’attrazione sessuale all’interno della famiglia – padre e figlia da un lato, madre e figlio dall’altro”.

 

I primi sintomi nevrotici della paziente si svilupparono quando lei aveva otto anni, subito dopo una gita in montagna.

Freud la conobbe quando Dora aveva sedici anni e una tosse compulsiva continua che propose di affrontare con un trattamento psicoterapeutico, ma la cosa non ebbe seguito perché la tosse cessò. Due anni più tardi, invece, la famiglia si trasferì a Vienna, gravemente preoccupata per i molti disturbi che ormai la figlia presentava.

 

La storia della sua vita, narrata a Freud da Dora, lasciata libera da Freud di parlare dell’argomento preferito, a ruota libera, rivela come un romance à clef, la complicata struttura affettiva di quattro personaggi principali: il padre di Dora, il signor K, la giovane moglie del signor K. e Dora stessa in un intreccio che l’analisi riuscirà solo in parte a chiarire perché sarà improvvisamente interrotta.

La giovane Dora racconta di essere stata oggetto di avances sessuali da parte del signor K. durante una gita al lago. Il padre e lo zio di Dora gli chiedono spiegazioni, lui si dichiara disposto ad andare nella città industriale per parlarne: qui nega tutto senza dare molte spiegazioni.

In un incontro successivo con il solo padre parlerà invece molto in negativo di Dora, insinuando anzi che è proprio la piccola ad essere innamorata di lui e ad avere fantasie sessuali di ogni tipo e un interesse smodato per la lettura di libri audaci come il libro del Mantegazza. La lettura di questi libri era conosciuta solo dalla signora K. che quindi aveva tradito Dora (come in precedenza aveva fatto anche una governante della ragazza). Dora chiede al padre di non frequentare più il signor e la signora K., ma il padre le risponde che non può abbandonare la signora, infelice col marito, e sua cara amica. La spiegazione del padre fa nascere una violenta gelosia non riconosciuta dalla giovane figlia.

 

La trama centrale della narrazione scorre quindi attraverso le diverse prospettive che presenta una scena particolarmente rilevata nel contesto dei ricordi: la memorabile scena sul lago che è insieme occasione di un desiderio e di un rifiuto. Per Dora i rapporti affettivi con il padre e con il signor K. si riveleranno connessi, e assumerà un ruolo principale nella vicenda della giovane Dora l’attrazione da lei stessa provata verso una persona del proprio sesso, e cioè la signora K. con la quale si diceva che il padre avesse una relazione.

La storia è esemplare perché contiene molti argomenti che costituiscono la struttura psicanalitica e perché si basa sull’analisi approfondita di due sogni fatti da Dora, dai quali Freud evince che Dora sia ben più complessa della giovane che è nella vita, i suoi affetti sono ben più perversi, la sua infanzia ben più inserita nella sessualità che costituisce proprio la forza motrice della malattia.

(I due sogni particolareggiati di Dora da cui Freud trae materiale per l’analisi e la comprensione del caso, andrebbero descritti per immagini perché di forte impatto e importanza qui e in tutta l’interpretazione dei sogni).

 

Dunque Dora è innamorata del signor K, ma anche della signora K. che però riconosce come traditrice e come rivale nell’amore sia del padre sia del signor K.

Una delle cause scatenanti la malattia di Dora è, infatti, la gelosia che prova pensando a suo padre con la signora K.

Freud viene a sapere che per molto tempo tra la signora K. e Dora c’era stata molta intimità. Quando Dora andava a casa dei K., dormiva in camera con la signora K mentre il marito veniva fatto sloggiare.

“Quando Dora parlava di lei, decantava “il candore affascinante del corpo” in un tono piuttosto da innamorata che da rivale sconfitta. Un’altra volta mi disse, con più mestizia che amarezza, che era convinta che i regali che le portava il babbo fossero scelti da lei: vi riconosceva il gusto”.

2. Il caso del piccolo Hans

 

È l’analisi di una fobia di un bambino di cinque anni.

È fondamentale come verifica delle teorie freudiane sulla sessualità infantile (complesso di Edipo, paura della castrazione), sull’angoscia patologica e la rimozione di pulsioni aggressive rivolte verso i familiari. Freud utilizza il caso per dibattere poi l’interessante problema della presunta pericolosità – soprattutto nella terapia infantile – di portare a coscienza i contenuti rimossi.

I genitori del piccolo Hans erano stati allievi di Freud. Egli aveva curato la madre prima che si sposasse, ed il padre di Hans aveva seguito tutte le lezioni del professore. E fu appunto il padre con la supervisione di Freud, non Freud in prima persona, ad analizzare il bambino, con frequenti consultazioni durante il lavoro analitico.

Il padre osservava, compilava un diario dettagliatissimo che poi portava a Freud.

L’indagine procede su tre piani diversi: la produzione di Hans, l’interpretazione del padre, gli interventi di Freud, verso Hans attraverso il padre, e verso il padre stesso.

Quindi Freud analizza Hans e il padre di Hans mentre analizza il figlio.

Oltre a qualche incontro diretto tra Freud e il piccolo.

Il caso tratta la fobia di Hans che si era innestata su uno stato di angoscia verso i quattro anni e mezzo, a circa nove mesi dalla nascita della sorellina.

Il caso è corredato da alcuni disegni molto particolari fatti dal bambino stesso.

La storia di Hans tratta un’infinità di fobie del piccolo, da quella di attraversare le porte o di essere morso da un cavallo, o che suo padre potesse essere morso da un cavallo e ne morisse.

La storia non è facile da rendere brevemente perché è costituita soprattutto dai dialoghi che il padre annotava, dalle domande che il padre faceva ad Hans e dalle sue risposte: il tutto portato poi a Freud per l’analisi,

Valgano allora queste parole di Freud per uno dei casi più importanti e conosciuti della letteratura psicanalitica.

 

“Chiesi ad Hans in tono scherzoso se i suoi cavalli portassero gli occhiali, e il piccino disse di no, poi gli chiesi se il suo papà portasse gli occhiali e anche questa volta negò, nonostante fosse evidente il contrario; gli chiesi ancora se con il nero intorno alla “bocca” non intendesse dire i baffi, e infine gli rivelai che egli aveva paura del suo papà, e proprio perché lui, Hans, voleva tanto bene alla mamma. Credeva che perciò il babbo si fosse arrabbiato con lui, ma non era vero. Il babbo gli voleva bene lo stesso e lui gli poteva confessare ogni cosa”.

 

Il caso ebbe risultati positivi sorprendenti.

A distanza di anni, Freud ebbe la gradita sorpresa di ricevere presso il suo studio un giovane di quattordici anni, alto e robusto che presentandosi disse:

“Ich bin der kleine Hans.”

Sono il piccolo Hans.

 

3. Il caso dell’uomo dei topi

 

“Un uomo piuttosto giovane, dotato di una cultura a livello universitario, si presentò da me, affermando di soffrire d’ossessioni sin dall’infanzia, ma con particolare intensità negli ultimi quattro anni. Le caratteristiche essenziali del suo disturbo consistevano nella paura che potesse capitare qualche cosa di grave a due persone per le quali nutriva un profondo affetto: il padre ed una signora che ammirava. Inoltre, provava spinte compulsive, come, per esempio, quella di tagliarsi la gola con un rasoio, e avvertiva dei divieti, talora in rapporto a cose del tutto irrilevanti. Rappresentazioni ossessive, impulsi coatti che gli impedivano una vita normale e di proseguire nella carriera di avvocato.

In particolare le sue ossessioni si erano ingigantite in seguito a un episodio successo mentre il paziente partecipava alle manovre militari: la perdita di un banale pince-nez e la quasi parallela narrazione, da parte di un superiore, di un supplizio inflitto in oriente che aveva come soggetto dei topi.

La perdita del pince-nez venne caricato di significati negativi relativi alla propria cattiveria infantile, che aveva bisogno di una punizione severissima come la tortura dei topi.

(…)

Il giorno dopo gli feci promettere di sottomettersi all’unica condizione del trattamento, cioè di riferirmi tutto ciò che gli passava per la testa anche se fosse spiacevole per lui o gli paresse privo di importanza o irrilevante o insensato. Gli diedi allora il permesso di cominciare a raccontare da dove avesse voluto e lui cominciò così. Mi disse che aveva un amico che apprezzava straordinariamente e aveva l’abitudine di recarsi da lui tutte le volte che si sentiva tormentato da qualche impulso criminale. Lui lo consolava confortandolo. In precedenza un altro amico aveva la stessa funzione, era un diciannovenne quando il mio paziente aveva quattordici, quindici anni e lo lusingava così tanto che ad un certo punto pensò di essere addirittura un piccolo genio. Era diventato intanto il suo precettore e andava come tale a casa sua, ma qui aveva cominciato da subito a trattarlo come un idiota. In seguito ebbe modo di accorgersi che l’amico si era comportato così perché gli interessava la sorella del paziente e voleva solo essere introdotto in casa. Quello fu il primo colpo duro della sua vita.

Poi il paziente proseguì il discorso senza alcun senso apparente e Freud riporta le parole del paziente che gli racconta che la sua vita sessuale era iniziata molto presto, attorno ai cinque anni. Aveva una governante giovane e carina: Fräulein Peter (un cognome che è il nome di un uomo…).Una sera era distesa a leggere sul divano vestita leggermente e il piccolo, che era disteso accanto a lei, la pregò di lasciarsi frugare sotto la gonna. Lei disse di sì, purché non lo andassi a raccontare a nessuno. Le tastò le parti sessuali che lo colpirono come una cosa molto strana. Gli rimase un forte desiderio di vedere un corpo femminile nudo. Si mise a spiare le cameriere di casa mentre prendevano i bagni. La governante successiva, un anno dopo, Freulein Lina, attirò ugualmente l’attenzione del piccolo. Un giorno la sentì parlare in cucina con il resto della servitù: si potrebbe fare con il piccolo Paul, diceva, ma è troppo sempliciotto, non capirebbe. Il tono era sprezzante era tale che il piccolo Paul si mise a piangere, sentendosi scartato e in colpa. Successivamente dormì con questa seconda governante, Lina, che si faceva toccare e scoprire e aveva forti pulsioni sessuali, raccontava al piccolo che una sua amica governante che faceva lo stesso con un bambino era stata messa in prigione. E che loro lo facevano ma non bisognava dirlo a nessuno.

Negli anni, Paul aveva interiorizzato l’idea di colpevolezza e di sporco.

“L’idea del topo è inseparabilmente collegata con il fatto che esso morde e rode con i suoi denti aguzzi; ma se i topi mordono, sono sozzi e voraci, non possono restare impuniti; gli uomini li perseguitano e massacrano senza pietà, come il paziente aveva visto fare, inorridendone. Spesso aveva provato un senso di commiserazione per quelle povere bestie. Ora, egli stesso era stato una volta un piccolo monellaccio disgustoso e sporco, che nella rabbia sapeva mordere chi gli stava vicino, ricevendone poi tremende punizioni. Ben poteva ravvisare nel topo il suo sosia”.

 

4. Il caso di Schreber

 

Quando Daniel Paul Schreber, presidente della corte di Appello di Dresda pubblica nel 1903 “Memorie di un malato di nervi”, Freud vi trova immediatamente ottimo materiale di lavoro per la sua indagine sulla paranoia. L’indagine sulla patologia psichica del dottor Schreber dunque è condotta sulla base delle sue dichiarazioni pubbliche, Freud descrive e interpreta il caso clinico, ma non ha mai analizzato Schreber in un setting psicanalitico.

Schreber era sposato da molti anni prima dei primi attacchi di ipocondria. La sua malattia si sviluppò in due fasi separate nel tempo.

Dopo la guarigione della prima volta “Passai otto anni con mia moglie, assai felici, anche se oscurata dalla speranza frustrata di avere figli”.

La seconda fase della malattia lo portò molto più avanti nella malattia addirittura a sottostare ad un vero e proprio processo.

Schreber è un paranoico con manie di persecuzione e la convinzione di dover salvare il mondo.

Sostiene Schreber che il mondo può essere salvato solo da lui e dopo una demascolinizzazione, cioè dopo l’essere diventato da uomo, donna.

Questa missione gli è stata data da Dio in persona.

“Dimostrerò, ” diceva, “che è possibile trasformarsi da uomo in donna per portare il mondo all’Ordine Naturale delle Cose”.

Il Tribunale gli restituì la libertà.

 

5. Il caso dell’uomo dei lupi

 

“Aus der Geschichte einer infantilen Neurose”, la storia di una nevrosi infantile, è la più ampia e forse più potente storia clinica freudiana. Si sente la fierezza di Freud di aver saputo trovare, sul terreno oggettivo e ormai sapientemente collaudato dell’indagine clinica, l’experimentus crucis della propria “verità”.

I dissidenti allievi freudiani Adler e Jung, che cominciavano ad essere pubblicamente “contro”, potevano essere messi a tacere con una verità probante.

L’uomo dei lupi per tutta la vita rimase un paziente di Freud, a sua disposizione, diventando alla fine anche paziente di una allieva di Freud, Ruth Mack Brunswick.

A fare di questo caso il caso più frequentemente citato concorre un fattore assolutamente eccezionale. Mentre il piccolo Hans condusse da grande una vita di successo, mentre Anna O., cioè Bertha Pappenheim divenne una fervente eroina femminista, e gli altri non avevano nessun interesse a farsi conoscere, tutti dimentichi apparentemente, della propria storia clinica, l’uomo dei lupi si è posto al servizio della psicanalisi sino a diventare lui stesso, come si esprimeva ironicamente Freud, un pezzo di psicanalisi.

È il caso del figlio ventitreenne di un ricchissimo avvocato e proprietario terriero di Odessa, affetto da una grave nevrosi che gli impediva di svolgere qualsiasi attività.

“Sognai che era notte e mi trovavo nel mio letto (…): improvvisamente la finestra si aprì da sola, e io con grande spavento vidi che sul grosso noce proprio di fronte alla finestra stavano seduti alcuni lupi bianchi (…). In preda al terrore di essere divorato mi misi a urlare e mi svegliai”. Afferma Freud: “L’immagine riattivata quella notte nel caos delle tracce inconsce è la scena di un coito tra i genitori, avvenuto in condizioni particolarmente favorevoli all’osservazione. Tutti i quesiti connessi a questa scena poterono gradualmente ottenere risposta nel corso della cura (…). All’epoca dell’avvenimento il bambino aveva circa un anno e mezzo”.

“I genitori si erano sposati giovani e conducevano ancora una felice vita coniugale però rattristata dalla cattiva salute della madre. La madre aveva disturbi addominali. Successivamente il padre si ammalò di depressione. Naturalmente il figlio si era accorto da subito della malattia della madre, che per questo trascurava i figli, e solo più tardi della malattia del padre. Un giorno per mano alla madre stavano andando ad accompagnare il dottore alla stazione quando il piccolo, che di sicuro aveva meno di quattro anni, sentì la madre lamentarsi del proprio dolore. Le parole che pronunciò gli fecero una fortissima impressione e più tardi le applicherà anche a se stesso.

Non era figlio unico, ma aveva una sorella un po’ più grande, vivace, maliziosa che ebbe molta influenza nella sua vita.

Fino a quando la sua memoria poteva risalire si ricordava di essere stato affidato alle cure di una anziana contadina, grezza, ignorante che voleva moltissimo bene al bambino e che sostituiva nel suo cuore il bambino mortole da piccolo. D’estate vivevano in un possedimento in campagna, d’inverno si trasferivano in un altro possedimento. I due possedimenti erano vicini, la vita era bella. Venivano a far loro visita per lungo tempo parenti, i amici, i fratelli di papà, le sorelle della madre con i loro figli, i nonni. D’estate i genitori si assentavano per qualche settimana. Il piccolo ha chiaro il ricordo di quando piccolissimo in braccio alla governante vedeva la carrozza allontanarsi. Passava l’estate con la nonna, una bambinaia inglese (dedita all’alcol) e una bambinaia. Il paziente fa risalire le prime crisi a quando le due proprietà vennero vendute e la famiglia si trasferì in città. Un giorno di Natale divenne una furia perché non trovò sotto l’albero regali doppi, in quanto il giorno di natale era anche quello del suo compleanno.

Moltissimi altri eventi nella sua vita, come il suicidio con un colpo di pistola della sorella.

Il paziente si spostò dalla Russia a Vienna per essere curato da Freud.

 

 

6. Il caso della signorina Anna O.

 

La grande svolta nella vita professionale di Freud è rappresentato dal caso clinico di Anna O.

Siamo negli anni intorno al 1890. Freud collaborava con Breuer a questo particolare caso d’isteria. Si tratta di Bertha Pappenheim, meglio nota come Anna O., una ragazza ventunenne di notevole intelligenza e cultura, nel corso di una malattia durata due anni di gravissimi disturbi fisici e mentali.

Freud scrive questo caso quattordici anni dopo la guarigione di Anna. Ormai Breuer non era più il suo maestro. Si era fermato, come tutti gli altri, alla cura tramite ipnosi, nel migliore dei casi.

Nella maggioranza degli altri, le cure erano solo contenitive o peggio.

Breuer già nel periodo di Anna O. aveva capito l’enorme distanza che lo separava dal giovane e temerario allievo e aveva scritto all’amico dottor Fliess: “Freud è nel pieno vigore del suo intelletto. Ormai lo scorgo in lontananza, come la gallina il falco.”

Vienna, 1880, luglio, casa di famiglia degli O., benestanti.

Il padre di Anna si ammala gravemente. Anna comincia ad assisterlo.

Lo assiste con tutte le sue forze. Nessuno si accorge, vista l’esuberanza naturale di Anna e la sua energia, che si sta ammalando.

Cominciano sintomi inspiegabili: ripugnanza per il cibo, contratture muscolari, anemia.

Anna viene allontanata dal letto del padre.

I sintomi peggiorano.

Tosse, tosse, tosse continua. Notte, giorno. Tosse nervosa, L’arto inferiore destro è completamente disteso e ritorto verso l’interno. Tutta la muscolatura è contratta. Paresi del volto. Anna passa da stati di sonnolenza a stati di eccitazione.

Ai primi di dicembre si manifesta uno strabismo convergente.

In questo grave stato io presi in cura la paziente.

Durante il giorno era seminormale solo pochissimi minuti.

Aveva allucinazioni sui suoi capelli, sui nastri. Diceva che erano serpenti neri. Tuttavia continuava a dire a se stessa di non essere così sciocca, che si trattava solo dei suoi capelli, ecc.

Dopo i periodi di sonnolenza si sveglia e dice un’unica parola “tormentare, tormentare”. Non riesce più a dire altro. Ha problemi col linguaggio.

Prendo in considerazione il suo caso come “isteria”.

Ci studio sopra tutta la notte.

Cosa? Perché? Che cosa c’è alla base di tutto?

Afferro le cose, poi sfuggono e le riprendo. Studio, studio, analizzo. Confronto.

Nel periodo “cattiva”, Anna bestemmiava, buttava i cuscini, strappava i bottoni della biancheria del letto con le dita che non erano contratte.

Parlava solo in inglese. Non capiva più il tedesco.

Tuttavia la paziente cominciò piano piano a migliorare, man mano che la osservavo, si arrabbiò con me, rimase muta per due settimane. Capii il motivo e la aiutai.

Il 1° aprile lascia il letto per la prima volta: lieve miglioramento psichico.

Interrotto da un grave trauma per la morte del padre il 5 aprile.

 

Casa di campagna, vicino Vienna. Si trasporta Anna in una casa di campagna nei dintorni di Vienna. La casa di famiglia le fa orrore.

Non stando più a Vienna potevo andarla a trovare solo alla sera. La liberavo dai fantasmi che aveva accumulato dalla sera precedente. Le faceva compagnia un cane Terranova che le avevano regalato e che amava appassionatamente.

Autunno, ritorno in città.  Casa diversa dalla precedente. Le mie visite s’intensificano. Periodo di sonnambulismo persistente alternato a stati più normali fino al dicembre 1881.

Graduale scomparsa degli stati patologici e dei fenomeni fino al giugno 1882.

 

 

7. Il caso della signora Emmy von N.

 

“Il 1° maggio 1889 divenni il medico di una signora di quarant’anni circa, le cui sofferenze e la cui personalità m’ispirarono tanto interesse da dedicarle gran parte del mio tempo, e da assumermi l’impegno di guarirla. Era un’isterica, e poteva essere posta in stato di sonnambulismo con la più grande facilità; e quando me ne accorsi decisi di applicare su di lei il procedimento di Breuer dell’esplorazione sotto ipnosi. (…) Era il mio primo tentativo nel maneggiare tale metodo terapeutico ed ero ancora ben lungi dall’averne padronanza”.

1° maggio 1889.

Il primo incontro.

Emmy è a Vienna. Freud, chiamato, va a trovarla.

“Trovo una donna di aspetto ancora giovanile, sdraiata sul divano, la testa appoggiata su un cuscino di cuoio. Il suo volto ha un’espressione tesa, dolorosa, le palpebre socchiuse, lo sguardo rivolto in basso, la fronte fortemente corrugata, i solchi nasolabiali scavati. Parla a fatica, a voce bassa, interrotta ogni tanto da inceppamenti spastici fino al balbettio.(…) Si interrompe spesso nel parlare per emettere uno strano schiocco che non riesco ad imitare”.

Così Freud inizia la descrizione di un caso molto complicato, del quale molti anni dopo (nel 1924) scrisse – e può essere il Freud vecchio, nostro io narrante, che lo dice: “So bene che nessun analista può leggere oggi questa storia clinica senza un sorriso di compassione. Si tenga conto però che si trattò del primo caso in cui applicai in larga misura il procedimento catartico”.

La famiglia di Emmy, della Germania centrale, risiede da due generazioni nelle province russe del Baltico. dove possiede molte terre: Emmy è la tredicesima di quattordici figli di cui però al momento solo quattro sono ancora in vita.

Emmy era stata educata da una madre severa ultraenergica. A ventitre anni aveva sposato un grande industriale, molto più anziano di lei. Dopo pochi anni di matrimonio, quattordici anni prima, il marito era morto per un attacco cardiaco.

A questo evento, oltre che all’educazione delle due figlie, spesso nervose e malate, attualmente di quattordici e sedici anni, Emmy attribuisce l’origine della propria malattia.

Dalla morte del marito aveva viaggiato molto in cerca di cure, cliniche per massaggi, bagni elettrici, terapie, senza successo.

Vive in una sua proprietà sul Baltico, vicino ad una grande città.

Nuovamente molto sofferente da mesi, insonne, ha cercato invano miglioramento ad Abbazia. Da sei mesi è a Vienna, venuta in cura presso un esimio medico.

Poi, il 1° maggio 1889, interpella appunto Freud.

Subito il suggerimento di Freud è di separarsi dalle due figlie, che hanno una propria governante, ed entrare in una casa di cura in cui lui la possa vedere giornalmente. Il suggerimento viene dalla signora Emmy accettato senza batter ciglio.

 

Inizia un diario sul caso giorno per giorno, con dettagli e persone.

2 maggio visita mattina

8 maggio visita mattina – visita sera

9 maggio visita mattina due volte – visita sera

10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18

Freud, dopo sette settimane di trattamento nella casa di cura la lascia tornare nella sua casa sul Baltico.

“Non io”, dice Freud, “ma il dottor Breuer ricevette notizie di lei dopo circa sette mesi”.

Dopo un periodo di benessere era stata male di nuovo, in una situazione di disagio psichico completamente mutato.

Non solo, ma anche la figlia maggiore, che si chiamava Emmy come la madre, ebbe dei gravi disturbi ginecologici attribuibili alla sfera psichica derivati, sembrava, dal fatto che si fosse innamorata di un cugino, non ricambiata.

La figlia fu visitata a Vienna da Freud, alla presenza della governante.

In seguito Emmy, la madre, attribuì a Freud il ricadere nella malattia. Era inferocita verso di lui.

Poi si tranquillizzò e tornò a Vienna per un breve periodo. Ricominciò a star bene.

Tornò nella sua tenuta di D. sul Baltico.

Dopo qualche mese Freud la raggiunse a casa sua. Passeggiate insieme a parlare e analizzare, con domande trabocchetto di Freud, sul sentiero che porta al lago.

Ad una cena, un episodio molto particolare di tensione: partecipa un uomo sconosciuto che si sforzava di riuscire gradevole. La signora Emmy confesserà a Freud: “Pensi un po’… mi vuole sposare”. Anche Emmy lo desiderava, ma considerava le figlie, eredi dei beni paterni, gravissimo ostacolo alla realizzazione del suo sogno.

Freud riparte per Vienna.

La signora Emmy scriverà a Freud per chiedere il permesso di andare in ipnosi da un altro medico. Freud acconsente, ma trova molto strano che lei abbia chiesto il suo permesso. E ci rimuginerà sopra.

Non la sentirà più.

Verrà a sapere che la signora Emmy ha fatto la stessa cosa con altri psichiatri, emergendo dal male, con la cura, e ricadendoci dopo la cura stessa. Coercizione a ripetere, dirà Freud, forse addirittura volontaria.

Dopo un quarto di secolo, fu interpellato dalla figlia maggiore: stava intraprendendo una causa legale contro la madre che descriveva come una tiranna crudele e spietata. Aveva interrotto ogni rapporto con le figlie, per lei avevano smesso di esistere e le lasciava sprovviste di ogni minimo sostegno materiale.

Naturalmente Freud dà dettagliatamente la sua opinione sul caso e sui motivi che l’hanno creato. Inoltre, nel volumetto in cui descrive il caso, per farsi meglio comprendere, ricorre ad altri casi analoghi a quello della giovane Emmy, la figlia, da cui si può attingere moltissimo materiale descrittivo.

 

8. Il caso di Miss Lucy R.

 

Miss Lucy era una giovane donna che alla fine del 1892 un amico e collega di Freud non riusciva a guarire. Arrivò dunque da Freud che aveva completamente perduto ogni percezione olfattiva, ed era perseguitata da una o due percezioni olfattive soggettive, che sentiva solo lei.

La giovane donna viveva come istitutrice nella casa di un direttore di fabbrica alla periferia di Vienna e arrivava saltuariamente allo studio del medico non avendo molto tempo libero dal suo lavoro in casa del direttore.

Era inglese, di costituzione delicata, “povera di pigmento”. I problemi investivano la sfera dell’olfatto, era stanca, depressa. le altre impressioni tattili erano intatte. Freud provò con la mano un esame sommario per sondare la normalità dei campi visivi.

Il compito che Freud si diede fu indagare nel passato della ragazza per scoprire quando le sensazioni olfattive soggettive erano state oggettive. Cioè quando fu il momento in cui le aveva realmente sentite per provarle poi solo in crisi di isteria nervosa.

Freud riuscì a far dire a Lucy che l’odore che sentiva e che scatenava crisi era quello di “dolce bruciato”.

Intanto veniva a conoscenza che nella casa dove viveva abitavano anche due bambine, oltre al padre direttore, ma mancava la madre che era morta due anni prima per una grave malattia acuta.

Freud decise di prendere l’odore di “dolce bruciato” e la vita che Lucy viveva come istitutrice come punto di partenza per l’analisi.

“Lucy poteva venire a trovarmi solo in orario di visita, quando il tempo che potevo da dedicarle era poco, e ciò che avrebbe dovuto essere oggetto di una seduta unica si svolgeva in più sedute. I suoi doveri non le permettevano di fare tante volte la lunga strada dalla fabbrica al mio studio: interrompevamo quindi il dialogo a metà, per riprenderlo la volta successiva”.

Freud chiese a Lucy se ricordava la prima volta che aveva sentito l’odore di dolce bruciato.

Lucy: Oh, sì. Due mesi fa. Due giorni prima del mio compleanno: Ero con le bambine nella stanza adibita ad aula e giocavo con loro a cucinare, quando mi fu portata una lettera che il postino aveva appena recapitato. Riconobbi dal timbro e dalla grafia che la lettera era di mia madre, da Glasgow, e volevo aprirla per leggerla. Ma le bambine si precipitarono su di me e mi strapparono la lettera di mano gridando: no, non la devi leggere ora, è per il tuo compleanno, la terremo noi e te la daremo al momento giusto. Intanto sentii un odore intenso. Le bambine, giocando con me, avevano dimenticato il dolce sul fuoco e si era bruciato. Da allora questo odore mi perseguita.

Freud: Che cosa poteva agitarla in questo fatto?

Lucy: Niente. Mi commuoveva la tenerezza delle bambine.

Freud: Non comprendo come la tenerezza delle piccole e la lettera di sua madre potessero costituire un contrasto.

Riassumendo: Lucy voleva andare a Glasgow a trovare la madre ma aveva paura di lasciare sole le bambine. Ma perché, la incalzava Freud, non mi sembra così grave. Lucy confessava allora che tutto il personale della casa, la governante, la cuoca, l’insegnante di francese da un po’ di tempo credevano che lei si desse troppe arie per la sua posizione e si erano coalizzate contro di lei calunniandola in ogni modo presso il nonno delle piccole, e non aveva trovato nel padre e nel nonno l’aiuto che si aspettava, decidendo allora di andarsene. I due uomini le avevano consigliato di pensarci su ancora due settimane e fu proprio in queste due settimane che si era manifestato il fatto della lettera e dell’odore.

Freud: C’era qualcosa che la vincolasse alle bambine oltre alla loro tenerezza verso di lei?

Lucy: Sì, avevo promesso sul letto di morte alla loro madre che non avrei mai lasciato sole le bambine e avrei fatto loro da madre. Con la decisione di licenziarmi venivo meno alla promessa.

Ma c’era ben altro…

Freud scoprì che Lucy amava il padre delle bambine, ma lei pensava che non fosse giusto, perché lui era il suo padrone. Anzi l’aveva addirittura rimosso dalla testa. Non era giusto poi perché lei era una ragazza povera e lui ricco e tutti avrebbero riso di lei.

La durata della cura durò nove settimane. E ci furono altre sorprese.

Alla fine Lucy guarì: scomparse l’odore soggettivo, la forte rinite, l’analgesia del naso ad altri odori, la depressione.

“Due giorni dopo l’ultima analisi, Lucy mi venne a trovare. Dovetti domandarle che cosa le fosse successo di bello. Era sorridente, con la testa alta.”

 

9. Il caso di Katharina…

 

“Nelle vacanze dell’anno 189 feci una gita negli Alti Tauri, per dimenticare per un poco la medicina e in particolare le nevrosi. Vi ero quasi riuscito, quando un giorno lasciai la strada principale per salire su un monte poco discosto, famoso per la vista e per il suo ben tenuto rifugio. Arrivato lassù dopo un faticoso cammino, una volta rifocillato e riposato, me ne stavo seduto immerso nella contemplazione di un incantevole panorama. Talmente dimentico di me stesso da non comprendere subito di essere io la persona interpellata quando udii la domanda: “Lei è un dottore?”. La domanda però era rivolta a me e proveniva da una ragazza di circa diciotto anni che mi aveva servito il pasto con espressione piuttosto accigliata e che l’ostessa aveva chiamato “Katharina”. A giudicare dal suo vestire e dal contegno non doveva essere una cameriera, ma piuttosto la figlia o una parente della padrona.

(…)

“Sa, sono malata di nervi e il dottor L. mi ha dato qualche cosa ma non sono ancora migliorata”.

“Dunque rieccomi con le nevrosi. Mi interessava il fatto che le nevrosi potessero prosperare così bene a 2000 metri e continuai a interrogare”.

Freud chiede, la ragazza risponde. Freud scrive poi dettagliatamente il colloquio, lasciando alla paziente il suo modo dialettale di parlare.

Katharina, nipote dell’ostessa, aveva avuto il primo attacco di panico due anni prima, in un rifugio sull’altro monte. Lo zio e la zia ora erano separati e la ragazza diceva che era colpa sua.

Raccontò così: Erano arrivati dei clienti che volevano mangiare, ma la zia non c’era e mia cugina Franziska era introvabile, era lei che cucinava sempre. Anche lo zio non si trovava. Li cerchiamo dappertutto, allora il ragazzo, l’Alois, mio cugino dice: “Vedrai che la Franziska è dal babbo”. Allora abbiamo riso tutti e due, ma non abbiamo pensato niente di male. Andiamo verso la stanza dello zio, ma era chiusa. Questo era strano. Dice l’Alois: “Guarda dalla finestra che c’è sul corridoio”, lui non voleva andare, aveva paura. Guardo dentro, la stanza era buia, ma ecco che vedo lo zio e la Franziska, e lui è sopra di lei.

Sono cominciate le nausee.

La storia si intorpidisce. Katharina non dice subito questo fatto alla zia, ma lo fa due giorni dopo quando già la zia aveva notato che la ragazza non stava bene.

Intanto enorme sorpresa dall’inconscio: la stessa Katharina due anni prima di questo fatto successo a Franziska era stata molestata a sua volta dallo zio e ne aveva subito le violenze. In casa, in un albergo, ricorda strani episodi notturni.

 

La zia dopo il racconto di Katharina era andata via con i figli e la nipote nell’altra osteria, lasciando il marito e Franziska che intanto era rimasta incinta.

Katharina raccontò a sua zia anche l’episodio che la riguardava. La zia, pratica, disse, “Teniamocelo per noi. Già tuo zio è messo male. Se al processo serve, tiriamo fuori anche questo”.

“…il caso di Katharina è tipico, nell’analisi di ogni isteria fondata su traumi sessuali, si trova che impressioni dell’epoca presessuale, rimaste senza effetto sul bambino, acquistano potenza traumatica successivamente quali ricordi, quando alla vergine o alla donna si è dischiusa l’intelligenza della vita sessuale”.

 

 

10. Il caso della signorina Elisabeth von R.

 

Complicatissimo caso, denso di personaggi.

Nell’autunno del 1892 un collega amico di Freud lo invita a visitare una signorina di ventiquattro anni che camminava, per forti dolori ovunque, curva in avanti, senza sostegno.

“Il lavoro che allora iniziai risultò, però uno dei più difficili che mi fossero mai capitati”.

Minore delle tre figlie di genitori affettuosi, aveva passato la giovinezza in una tenuta in Ungheria.

Quando le ragazze ebbero raggiunto un’età adeguata la famiglia decise di trasferirsi nella capitale.

La madre aveva un leggero male agli occhi, ma la famiglia era felice. Il padre era un padre meraviglioso per Elisabeth: le diceva che era il suo figlio maschio, il suo miglior amico, e lei era molto orgogliosa di questo rapporto.

Ma presto il padre morì, la madre cadde in disperazione ed Elisabeth non si dava pace perché non era in grado di riportare in famiglia la felicità perduta e tanto rimpianta. C’era ora il vuoto in questa casa di quattro donne.

Trascorso un anno di lutto, la sorella maggiore sposò un uomo attivo e molto dinamico anche se un fatto un po’a modo suo. Fu il primo della famiglia che osò venir meno ai riguardi per la vecchia signora. Ciò era di più di quanto Elisabeth potesse sopportare e cominciò una guerra personale su tutto con questo cognato mentre le sorelle e la madre non ne erano consapevoli.

Il matrimonio della seconda sorella parve promettere cose più liete, perché il secondo cognato era un uomo che piaceva a queste donne così sensibili e il suo contegno riconciliò Elisabeth con l’istituto del matrimonio. La nuova coppia rimase vicina alla madre e il loro figlio divenne il beniamino di casa. Ma la madre si aggravò agli occhi ed Elisabeth ogni volta che c’erano dei problemi in famiglia stava sempre peggio, tanto da essere diventata l’ammalata di famiglia.

Elisabeth e sua madre andarono per una cura di bagni a Gastein. Ma dopo due settimane dovettero tornare perché la seconda sorella, di nuovo in gravidanza, morì.

Nuovo crollo di tutto per Elisabeth. Altri fatti familiari che riguardavano cognati, cognate, ecc. Litigi continui.

Ma Freud non veniva a capo di nulla.

Finché… Elisabeth parlò di una sera e di un ragazzo.

Freud indagò. Elisabeth si era innamorata di questo ragazzo incontrato ad una festa, ma per l’assistenza al padre e gli altri doveri familiari era passato in secondo piano, poi dimenticato.

Ma era rimasto fuori solo a livello conscio… Tutto dipendeva da questo…

La guarigione dipese da questo.

11. Un caso di paranoia

 

(un caso che, particolarmente, si presta ad essere raccontato in forma di “giallo”. Molti lettori di Freud paragonano, infatti, i suoi casi, per la forma del racconto e i colpi di scena, oltre alle soluzioni, a veri e propri romanzi gialli).

“Alcuni anni fa un noto avvocato mi consultò a proposito di un caso che gli aveva lasciato molti dubbi. Una giovane donna gli aveva chiesto di proteggerla dalle molestie di un uomo che l’aveva trascinata in un’avventura amorosa. Ella asseriva che questo uomo aveva approfittato della sua fiducia facendo sì che dei testimoni, non visti, li fotografassero mentre facevano l’amore, così che ora, tenendola sotto la minaccia di rendere pubbliche quelle fotografie, egli l’avrebbe avuta in pugno e avrebbe potuto causarle seri guai, anche facendola licenziare. Il consulente legale aveva abbastanza esperienza per riconoscere l’impronta patologica di questa accusa, comunque avrebbe gradito conoscere la mia opinione. Promise che sarebbe venuto a trovarmi con la giovane donna.

Poco tempo dopo ho incontrato la paziente in persona. Era una ragazza di trent’anni molto bella e attraente, che dimostrava meno anni della sua età ed era dotata di una spiccata femminilità. Era alquanto irritata dall’interferenza di un medico. È chiaro che fu solo l’influenza dell’avvocato, presente, ad indurla a raccontarmi la sua storia. Lo fece senza alcun imbarazzo, entrando nei dettagli, desiderosa solo di raccontare i fatti.

Da molti anni faceva parte del personale di una grande azienda con un posto di responsabilità. Il suo lavoro le dava grandi soddisfazioni ed era apprezzata dai superiori. Non aveva mai cercato relazioni con gli uomini, ma aveva vissuto tranquillamente con la vecchia madre della quale era l’unico sostegno. Non aveva fratelli o sorelle. Il padre era morto molti anni prima. Recentemente un suo collega, assai colto ed attraente, le aveva rivolto delle attenzioni e lei si era sentita attratta da lui. Per ragioni esterne il matrimonio era fuori discussione, nonostante questo, lui non voleva saperne di rinunciare a lei. Aveva insistito più volte sul fatto che le convenzioni sociali non potevano ostacolare la loro frequentazione. Lui alla fine era riuscito a convincerla promettendole che non l’avrebbe esposta ad alcun rischio, e lei aveva acconsentito ad andare nell’appartamento da scapolo di lui. Lì si abbracciarono e baciarono sdraiati uno accanto all’altra ed egli cominciò a scoprire le sue bellezze: nel bel mezzo della scena, la ragazza venne spaventata da un rumore, una specie di battito o di scatto. Veniva dalla scrivania che stava davanti ad una finestra: tra la scrivania e la finestra, c’era una pesante tenda. Aveva chiesto immediatamente all’amico cosa fosse quel rumore e lui aveva risposto che probabilmente era l’orologio sulla scrivania.

Uscendo sulle scale la ragazza incontrò due uomini che si sussurrarono poche parole all’orecchio quando la videro. Uno dei due portava una piccola scatola coperta. La giovane si preoccupò molto di quell’incontro e sulla strada di casa aveva già messo insieme tutti i fatti. La scatola avrebbe potuto benissimo essere una macchina fotografica e l’uomo un fotografo che era stato nascosto dietro la tenda. Il rumore che aveva sentito era quello dello scatto fatto mentre lei era in una situazione piuttosto compromettente. Da quel momento nulla poté più far cessare i sospetti sull’amante. Lo perseguitò e lo tormentò, ogni giorno, di persona, per lettera.

Invano lui cercò di convincerla che i suoi sentimenti erano sinceri e i sospetti assolutamente privi di fondamento. Alla fine lei andò dall’avvocato. Le portò come prova le lettere che lui le aveva mandato, lettere tranquillizzanti e innocenti, ma che lei considerava pesanti indizi.

La paziente venne una seconda volta nel mio studio e mi raccontò il fatto con numerose varianti. Era accaduto non la prima, ma la seconda volta (si era vergognata di dirmi che era stata due volte dall’uomo) che era andata nell’appartamento. Mi disse che il giorno seguente aveva visto l’uomo, ricordiamo che era un collega d’ufficio, che parlava con la sua caporeparto, una donna “dai capelli bianchi come mia madre”. Lei supponeva che le avesse raccontato ogni cosa e che ora, mentre prima la coccolava ed era una delle sue preferite, la guardasse con malevolenza e disapprovazione”.

 

Freud prosegue nel racconto e nell’analisi del caso arrivando a risultati inaspettati.

 

Altri casi completi e romanzabili sono:

 

12. Un caso di omosessualità femminile

 

13. Il caso di Mathilde

(un caso precedente a quelli qui raccontati, di un Freud giovane, scoperto recentemente)

 

14. Nina R.

(scoperto recentemente)

 

15, ecc.

Casi raccontati nelle note o negli appunti di Freud, ma che possono essere ricostituiti.

 

Appunti di lavoro / La grandezza di Sigmund Freud

“Anche se il futuro riplasmerà o modificherà questo o quel risultato delle sue ricerche, mai più potranno essere messi a tacere gli interrogativi che Sigmund Freud ha posto all’umanità; le sue scoperte scientifiche non si possono né negare, né occultare (…) e se mai alcuna impresa della nostra specie umana rimarrà indimenticabile, questa sarà proprio l’impresa di Sigmund Freud.”

Thomas Mann

 

Se ancora ci fosse bisogno di prove della grandezza di narratore del dottor Freud e dell’enorme materiale originale nelle sue mani, mai trattato, plasmabile in storie per il pubblico, aggiungiamo che il signor Sam Goldwyn, della mayor americana Metro Goldwyn Mayer, nel 1924 prese in fretta un volo per Vienna e andò personalmente ad offrire a Freud la somma di 100.000 dollari del tempo perché scrivesse sceneggiature per Hollywood.

Freud rispose no.

Il titolone di un giornale dell’epoca: FREUD REBUFFS GOLDWYN!

 

Questa è l’idea per una serie televisiva che ha come protagonista Sigmund Schlomo Freud, inventore della psicanalisi, che ha scritto dettagliatamente i fatti che andava scoprendo e i Casi Clinici, cioè la storia vera, anche se tuttora sconvolgente e inverosimile, dei suoi pazienti.

Per convenzione si usa datare la nascita della psicanalisi con la prima interpretazione di un sogno scritta da Freud: un suo sogno personale.

Il racconto di questo sogno, Vienna, notte tra il 23 e il 24 luglio 1895, potrebbe essere l’inizio del racconto in prima persona fatto da Freud stesso, ormai vecchio, a Londra, poco tempo da vivere a causa di una grave malattia alla mascella.

Tre operazioni. Fumava ancora venti-trenta sigari al giorno.

Non era mai riuscito a smettere.

Si era invece autoguarito dalla fobia per i viaggi. Da giovane era partito per Roma, ma in preda ad un terrore indescrivibile era tornato subito indietro.

Negli anni, andando a fondo a questo proprio comportamento – la sua autoanalisi è fondamentale per le sue scoperte – guarì, andò a Roma e qui passò una vacanza indimenticabile.

 

Il sogno di quella notte del 1895 è riportato ne L’interpretazione dei sogni, (1900), come “il sogno dell’iniezione di Irma”.

 

Vienna

 

Suggestioni d’ambiente: modi garbati e nervi tesi. Dalla ruota del Prater allo stile Liberty, dal valzer parossistico e allegro al doppio sogno di Arthur Schnitzler.

Vienna è al tempo dell’attività di Freud– tra i due secoli – una città di quasi un milione di abitanti, centro di cultura europea e in grande trasformazione. Nell’anello che la circonda, la Ringstraße, anche Freud comprerà una casa nel IX distretto, tra il macellaio ebreo Kornmehl e una cooperativa sociale: la famosa casa di Berggasse, 19.

Vienna straricca di artisti, scrittori, musicisti la cui opera complessiva formava un modello ed un riferimento per la cultura mondiale… Ovunque movimento, balli, boom intellettuali – e uno strano e contraddittorio progressismo conservatore che lasciava spazio al misticismo.

Nulla sembrava sfuggire ad un’armonia che i boschi circostanti facevano scintillare. Mentre il valzer, austero pur nel suo andamento allegro, poteva assumere ritmi parossistici da baraonda, la ruota del Prater si alzava sugli splendidi panorami, Arthur Schnitzler, grande scrittore di inizio secolo, vagabondava nella notte incontrando figure inquietanti che popolavano la città segreta e Sigmund Freud frugava nei meandri della psiche umana. Da Traumnovelle (Doppio sogno) di Schnitzler, Kubrick ha tratto il suo ultimo film “Eyes wide shut”.

Lo scrittore Karl Kraus ha detto: “Le vie di Vienna sono lastricate di cultura, quelle delle altre città d’asfalto”.

Attorno al 1900 Vienna è la città dei Cafè, delle feste, dei mobili di legno curvato di Michael Thonet, dei vetri colorati del Liberty viennese, bicchieri, lampadari, vasi levigati a mano, delle atmosfere sensuali, misteriose e deliranti che esistono sempre prima di un declino. Grandi artisti e scienziati vivono qui. Freud, Klimt, Egon Schiele, Adolf Loos, Ludwig Wittgenstein, Gustav Mahler, Kraus, Arthur Schnitzler, Kokoschka, Lou Andreas-Salomè e tanti altri.

Vienna era la speranza prima di due guerre mondiali e del nazismo. Vienna era una meta imprescindibile. Da Salvador Dalì, che fece a Freud un ritratto, ad Albert Einstein col quale Herr Doctor tenne una famosa corrispondenza, fino a Mark Twain.

 

 

Libro nero della psicanalisi

 

“Il libro nero della psicanalisi” rappresenta un attacco senza precedenti al sapere freudiano. In ottocento pagine un gruppo di studiosi mette in discussione la validità delle teorie e l’efficacia terapeutica. Quaranta autori internazionali, moltissimi americani, nessun italiano – storici, filosofi, psicologi, medici, ricercatori, ex pazienti – sostengono, in questo libro, tesi che noi italiani non siamo abituati ad ascoltare, ma che molta parte della comunità scientifica ritiene assodate. A cominciare da due speti francesi, Jean Cottraux, e Didier Pleux, poi ex psicanalisti come Jacques Van Rillaer, pedapsichiatri come Catherine Barthelemy, psichiatri di settore come Toby Nathan o filosofi come Isabelle Stengers. E molti autori degli States che importano in Francia la critica radicale della psicanalisi da molti anni di moda nelle università americane. Storici della psicanalisi come Mikkel Borch-Jacobsen o Frederick Crews, e speti delle terapie cognitive di fama mondiale come Aaron T. Beck o Albert Ellis.

Nel libro nero si legge che la psicoanalisi non è una scienza, ma una seduttiva fabbrica di favole. La psicoanalisi guarisce, se guarisce, solo per effetto placebo, e autoconvincimento. La psicanalisi è in netto svantaggio rispetto alla psicoterapia e alla terapia farmacologica. Madri e padri si sono assunti responsabilità insostenibili, e i figli hanno sviluppato enorme intolleranza alla frustrazione. Freud deformava i fatti emersi nelle sedute per ritagliarli a misura delle proprie incerte teorie, e non brillava per deontologia. Le società psicoanalitiche non sono centri di ricerca, ma centri di potere, in cui gruppetti in eterno litigio difendono il proprio piccolo campo.

 

Tra queste la pubblicazione a cura di Jacques-Alain Miller, de L’anti-libro nero della psicoanalisi, Quodlibet, 2007, introduzione di Antonio di Ciaccia, che è la risposta all’attacco portato a Freud.

Uscito sotto la direzione dello psicoanalista Jacques-Alain Miller (cui Jacques Lacan lasciò la cura di tutta la sua opera, scritta e orale), viene presentato con l’aggiunta di alcuni significativi contributi di studiosi italiani e con un intervento proprio della psicoanalista Elisabeth Roudinesco. “Ma queste sono menzogne, ” dice la Roudinesco, “Questo libro non vuole aprire una discussione critica, ma solo distruggere la psicanalisi. È pieno di dati sbagliati, bugie e interpretazioni deliranti. Freud è accusato di plagio e misoginia, di aver mentito e nascosto volontariamente i suoi insuccessi. Viene presentato come una sorta di dittatore che ha imbrogliato tutti con una dottrina falsa fatta di menzogne. Insomma, il libro vuole screditare in toto la psicanalisi per favorire lo sviluppo delle teorie cognitivo-comportamentali, che in Francia sono ancora marginali”.

 

In Italia è da riferire la fondamentale opinione di Umberto Galimberti che merita particolare attenzione e che affronteremo in un prossimo numero.

 

Biografia di Sigmund Schlomo Freud (1856-1939)

 

1856 – Sigmund Schlomo Freud nasce il 6 maggio 1856 a Freiberg (allora impero Austro-Ungarico, oggi Pribor, nella Repubblica Ceca), una cittadina della Moravia a 240 km da Vienna. Sigmund Schlomo (in ebraico Schlomo significa “il saggio”) è figlio di Jacob Freud, commerciante ebreo di lana, e Amalie Nathanson, terza moglie di Jacob. Dai precedenti matrimoni, Jacob aveva avuto Emanuel e Philipp, che vivevano con lui e avevano l’età della giovane matrigna. Emanuel era sposato e aveva un figlio, John, di un anno maggiore di Sigmund.

 

1860 – A causa degli eventi politico-economici, la famiglia è costretta a trasferirsi a Vienna, Sigmund ha solo quattro anni.

Jacob Freud era un libero pensatore, pur avendo studiato le scritture della tradizione ebraica, e non diede al figlio un’educazione ortodossa.

Le origini di Sigmund furono comunque sempre causa di grandi limitazioni, in una città dalle forti correnti antisemitiche com’era la Vienna del tempo.

 

1873 – Supera brillantemente l’esame di maturità e si iscrive a Medicina all’Università di Vienna.

 

1876 – Entra nell’Istituto di Fisiologia diretto da Ernst W. von Brücke.

 

1881 – Si laurea in Medicina.

 

1882 – La famiglia Freud versa in gravi difficoltà economiche. Brücke lo esorta quindi ad abbandonare gli studi teorici per entrare come praticante all’Ospedale generale di Vienna. Si fidanza segretamente con Martha Bernays, di famiglia ebraica di Amburgo. Joseph Breuer lo mette al corrente del caso Anna O. e lo onora della sua protezione e amicizia.

 

1883 – Freud si specializza in malattie nervose.

 

1883/85 – Lavora sul midollo e sugli effetti della cocaina, dalla quale diventerà dipendente per tutta la vita.

 

1885 – Con una borsa di studio va a Parigi e segue le lezioni del grande neurologo Charcot.

 

1886 – Dopo un soggiorno a Berlino torna a Vienna e inizia la pratica clinica come speta in malattie nervose. I guadagni diventano maggiori e riesce a sposare Martha il 14 settembre.

 

1891 – Si trasferisce al famoso indirizzo nella Bergasse 19, che diventerà il suo famoso studio di Vienna. Qui nasce il figlio Oliver. In precedenza, con Martha, erano nati Mathilde e Martin. L’anno successivo nasce Ernst, l’anno ancora dopo Sophie.

 

1895 – Pubblica, insieme a Breuer, gli Studi sull’Isteria. Freud applica per la prima volta il metodo analitico delle libere associazioni. Nasce l’ultima figlia Anna che diventerà a sua volta una famosa psicoanalista.

 

Per convenzione si usa datare la nascita della psicanalisi con la prima interpretazione di un sogno scritta da Freud: si trattò di un suo sogno personale della notte tra il 23 e il 24 luglio 1895, e riportato anche neL’interpretazione dei sogni come “il sogno dell’iniezione di Irma”.

Freud analizzò i propri pazienti nel suo studio di Vienna, al numero 19 della famosa Bargasse. La stanza contiene ancora oggi copia del lettino analitico – l’originale è a Londra – su cui i pazienti si stendevano confortevolmente, mentre Freud, non visto, sulla sua caratteristica poltrona verde, alle loro spalle, ascoltava le loro libere associazioni.

Il lettino è l’elemento della tecnica freudiana che in psicoanalisi favorisce il rapporto compiuto e soddisfacente nel moto esclusivo del parlare e dell’ascoltare.

Ai pazienti era richiesto di dire qualsiasi cosa che gli venisse in mente, senza vagliare o selezionare consapevolmente le informazioni. Questo metodo divenne il fondamento su cui la terapia psicanalitica fu costruita.

 

1897 – Inizia l’autoanalisi.

 

1899 – Esce L’interpretazione dei sogni. (Simbolicamente datata 1900).

 

1902 – Iniziano in casa Freud le riunioni della “Società psicologica del mercoledì”, che nel 1908 diventerà la “Società Psiconalitica di Vienna”.

 

1906 – Inizia la corrispondenza con Carl Gustav Jung, che diventerà il suo allievo preferito.

 

1906/1923 – La psicoanalisi esce da Vienna e nascono seguaci in tutto il mondo. Viene data a Freud la laurea “honoris causa” in psicologia: il primo riconoscimento internazionale della psicoanalisi. Freud lavora, analizza, studia, viaggia, partecipa a Congressi, pubblica alcuni dei Casi Clinici, pubblica Saggi, tiene in America le famose Cinque conferenze sulla psicoanalisi. Nel 1908 si svolge il primo Congresso della Società psicoanalitica Internazionale, che vede presenti, tra gli altri, Jung e Adler. Entrambi, fra l’altro, prenderanno in seguito direzioni diverse: l’uno dando origine ad una forma diversa di psicologia del profondo, la cosiddetta “psicologia analitica”, l’altro chiamando la propria teoria “psicologia individuale”. Nel 1913 rottura tra Freud e Jung, che si discosta dalle teorie del maestro. Nel 1918 viene fondata la casa editrice del movimento psicoanalitico.

 

1923 – Freud è sottoposto a due operazioni per cancro alla mascella. Continua a fumare una scatola di sigari al giorno.

 

1925 – Fondazione della Società psicoanalitica italiana. Anna Freud partecipa al Congresso.

 

1930 – La Germania di Hitler è alle porte, e le origini ebraiche di Freud cominciano a costituire un serio problema. Nel 1930, dopo aver vinto il premio Goethe, il suo nome entra nella lista nera degli autori di opere che devono essere mandate al rogo. È un secolo di cultura tedesca gettato in fiamme. Freud perde quattro sorelle nei campi di concentramento nazisti. La situazione comincia ad aggravarsi seriamente a partire da quando l’Austria viene annessa al Terzo Reich.

 

1933 – Nel 1933, a Berlino, i nazisti bruciano, in un rogo libresco tristemente famoso, anche le opere dell’ebreo Freud, complice oltretutto di una strenua resistenza all’avanzare della barbarie nazista.

Nonostante i cattivi presagi di un’aggressione all’Austria e le ripetute esortazioni degli amici, Freud non acconsente a lasciare Vienna. Si deciderà solo cinque anni più tardi.

 

1936 – Prima recidiva della malattia, verrà operato 42 volte! E questo non interferirà mai con la sua attività.

 

1938 – Freud accetta di lasciare Vienna occupata dai nazisti soltanto quando la figlia Anna viene sequestrata dalla Gestapo; fino ad allora aveva freddamente resistito ad ogni genere di provocazione e minaccia. Ma nel 1938 la situazione è talmente insostenibile che è costretto ad andarsene. La seconda guerra mondiale è alle porte, simbolo di quell’istinto di morte così presente nelle opere del grande rivoluzionario del pensiero.

Il 14 giugno 1938, accompagnato da Martha, la moglie, e da Anna, che nel frattempo era stata rilasciata, Freud parte per Londra, facendo una breve sosta a Parigi, accolto con la massima ospitalità. Arrivato a Londra prende subito casa in un bel quartiere della città, zona che diventerà sede di centri psicoanalitici tra i più importanti al mondo, in primis quello dove lavorerà, anni dopo, la stessa Anna Freud.

Ultima operazione alla mascella.

 

1939 – La malattia peggiora di giorno in giorno, causandogli dolori spasmodici. Il suo medico continua a somministrargli morfina, ripetendo le dosi fino a che Freud entra in coma.

 

1939, 21 settembre – Freud, sul letto di morte, consumato fra atroci sofferenze, mormorò al suo medico di fiducia: “Ora non è più che tortura, non ha senso” e poco dopo ancora: “Ne parli con Anna, e se lei pensa che sia giusto, facciamola finita“. Secondo il medico fu ad Anna, sua figlia, che Freud si affidò. Morì due giorni dopo, senza risvegliarsi dal sonno tranquillo che la morfina finalmente gli concesse.

 

1939, 23 settembre – Sigmund Freud muore a Londra, alle tre di notte.

 

Un anno prima della morte, nel 1938, al suo arrivo a Londra aveva concesso un’intervista alla BBC. L’intervista si era conclusa con uno sguardo alla strada ancora da percorrere per la neonata scienza: “La lotta non è ancora terminata” affermerà.

INDICE DEI NOMI

Adamo 57

Adelphi 166

Adler, Alfred 275, 296

Afrodite 47

Alberti, Barbara 176, 180

Alberto Magno 11

Alighieri, Dante 5, 52, 236

Alima 52, 53

Alzheimer 128

Amato, Giuliano 193

Andreas-Salomé, Lou 292

Andreotti, Giulio 176, 181

Angeletti, Pio 157

Antonioni, Michelangelo 146

Apronio 7, 11

Arbore, Renzo 62

Archibugi, Francesca 154

Argento, Dario 155

Aristotele 10, 13, 15, 237

Artusi, Pellegrino 124, 132

Averroè 11

Avicenna 11, 38

Bacone, Francesco 14

Bagnasco, Angelo 176, 179

Bakunin, Michail Alexandrovi? 238

Ballandi, Bibi 65

Balzac, Honoré de 54, 75

Bandello, Matteo 56, 74

Barbera, Luciano 176

Barthelemy, Catherine 292

Bassetti, Marco 65

Battiato, Franco 8

Battisti, Lucio 239

Baudelaire, Charles 162

Baudo, Pippo 66, 70, 176, 180

Beatrice 52

Beccaria, Cesare 236

Beck, Aaron T. 292

Belcari, Feo 74

Bell, Charles 17

Belpietro, Maurizio 176

Bencivenni, Alessandro 154

Benedetti, Alessandro 39

Benedetto XVI 32, 176

Benigni, Roberto 2, 5, 146, 153, 176, 182

Benincasa Editore 88

Benni, Stefano 44

Benvenuti, Leo 153, 154, 155, 157

Berengario da Carpi 40

Bergson, Henri 51

Bernays, Martha 294

Betti, Liliana 157

Biagi, Enzo 31, 176, 179

Bietti, Amilcare 52

Biffi, Giacomo 176, 181

Bismarck, Otto von 238

Blondel, Enrichetta 166

Blondet, Maurizio 176

Bo, Carlo 31, 95

Bocca, Giorgio 31

Bombolo 63

Bond, James 84

Bonino, Emma 176, 181

Bonolis, Paolo 67, 70, 175, 178, 179

Borch-Jacobsen, Mikkel 292

Borgia, Cesare 40

Bova, Raoul 146

Bragman, Luis 44

Brando, Marlon 231

Braun, Eva 55

Breuer, Joseph 267, 268, 277, 279, 280, 294, 295

Browne, Thomas 14

Brücke, Ernst Wilhelm Ritter von 294

Bruno, Giordano 15

Bush, George W. 39

Busi, Aldo 176

Cacciari, Massimo 31

Cairo Editore 196

Calcar, Jan Stephan van 40, 41

Calderoli, Roberto 176, 177

Cantoni, Giovanni 176

Capezzone, Daniele 176

Caravaggio 13

Carlo V 43, 44

Carnovali, Giovanni 95

Carracci, Annibale 13

Cartesio 14, 15

Casanova, Giacomo 2, 5, 204

Catilina, Lucio Sergio 12

Catullo, Gaio Valerio 236

?echov, Anton 201

Celentano, Adriano 68, 153, 159

Cellini, Benvenuto 74

Cervantes, Miguel de 14, 238

Chanel, Coco 210

Charlier, J.P. 30

Chiambretti, Piero 64, 68

Chiara, Piero 1, 6, 71, 72, 73, 79, 80, 81, 82, 83, 84, 85, 86, 87, 88, 90, 91, 92, 93, 94, 95, 96, 97,98

Cicerone, Marco Tullio 7, 11, 12

Cleopatra 60, 204

Cocco, Albino 157

Conrad, Joseph 75

Contarello, Umberto 154

Cooper, Gary 234

Copernico, Nicolò 40

Coppola, Francis Ford 231

Corso, Philip J. 134, 135

Cossiga, Francesco 176

Costanzo, Maurizio 65, 198

Cottraux, Jean 292

Crews, Frederick 292

d’Andernach, Guinter 41

d’Annunzio, Gabriele 210

D’Azeglio, Massimo 167

D’Alema, Massimo 176

Dalì, Salvador 292

Dandini, Serena 64, 70

Darabont, Frank 231

Darwin, Charles 17, 18, 19

de Acosta, Mercedes 54

De Amicis, Edmondo 75

De Bernardi, Piero 154

de Lempicka, Tamara 47, 210

De Micheli, Adriano 157

De Niro, Robert 146, 155

De Rosa, Giovanni 13

de Sade, Donatien Alphonse François 59

de’ Liuzzi, Mondino 39

Debora 236

Degas, Edgar 13

Del Noce, Augusto 30

Della Porta, Giovan Battista 8, 10, 13, 14,15

Di Ciaccia, Antonio 293

Di Pietro, Antonio 176, 181, 182

Didone 55

Dietrich, Marlene 48, 53

Don Abbondio 254

Doni, Carlo 54

Dostoevskij, Fedor Michajlovic 201, 239

Dubois, Jacques 41

E.T. 135, 142

Eco, Umberto 31

Einstein, Albert 292

Eisenhower, Dwight David 142

Ellis, Albert 292

Enea 55

Eva 57

Faenza, Roberto 1, 6, 99, 100, 101, 102, 103, 104, 110

Fallaci, Oriana 176

Fantozzi, Ugo 154

Fassbinder, Rainer Werner 153

Fazio, Fabio 63, 64, 70

Fede, Emilio 176

Fellini, Federico 153, 159, 160

Feltri, Vittorio 1, 6, 175, 176, 177, 179, 180, 181

Feltrinelli 166

Ferrara, Giuliano 175, 179, 181

Ferrari 93

Ferreri, Marco 157, 158

Filippo II 43, 44

Fini, Massimo 53, 176

Finocchiaro, Anna 176, 177

Fiorello, Rosario 70

Fitzgerald, Francis Scott 169

Flaubert, Gustave 75

Fo, Dario 72, 176, 182

Forte, Bruno 30

Frattini, Franco 176

Frattini, Vittore 71

Freccero, Carlo 64, 67, 68

Freeman, Morgan 231, 232

Freud, Anna 296, 297

Freud, Emanuel 294

Freud, Ernst 295

Freud, Jacob 294

Freud, Martin 295

Freud, Mathilde 295

Freud, Philipp 294

Freud, Sigmund Schlomo 1,2, 5, 57, 58, 189, 265, 266, 267, 268, 269, 270, 271, 272, 273, 274, 275, 276, 277, 279, 280, 281, 282, 283, 284, 285, 286, 287, 289, 290, 291, 293, 294, 295, 296, 297, 298

Freud, Sophie 295

Funari, Gianfranco 68, 175, 178, 179, 180

Gabanelli, Milena 176

Galeno, Claudio 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44

Galilei, Galileo 14, 15

Galimberti, Umberto 293

Gall, Franz Joseph 17

Garbo, Greta 54

Garboli, Cesare 161, 163, 164, 165, 166, 167

Garden, Alexander 210

Gere, Richard 198

Ghezzi, Enrico 62

Giacosa, Giuseppe 7,

Gide, André 164, 165

Giorgione 13

Giovanni Evangelista 49

Giovanni Paolo II 32

Giove 48

Giusti, Marco 6, 61

Giusti, Max 69

Goethe, Johann Wolfgang 16, 296

Gogol, Nicolaï Vassilievitch 75

Goldwyn, Sam 290

Gorbaciov, Mikhail 146, 164

Gori, Giorgio 65

Goya, Francisco 13

Gozzano, Guido 162

Grant, Hugh 64

Greer, Steven 140

Grillo, Beppe 175, 177, 178, 179, 180, 182

Gubitosi, Claudio 1, 6, 143, 144, 145, 146, 147, 151, 152

Guglielmi, Angelo 64, 68

Hackford, Taylor 232

Harper, Stephen Joseph 136, 137

Hellyer, Paul 133

Herzog, Werner 153

Hitchcock, Alfred 266

Hitler, Adolf 55, 296

Hofer, Johannes 256

Hornby, Nick 64

I Promessi Sposi 254

Iacona, Riccardo 66

Ippocrate 10, 38, 43

Irons, Jeremy 146

Izzo, Simona 176, 180

Jeauneau, Pierre 134

Jefferson, Thomas 238

Jung, Carl Gustav 57, 266, 296

Karenina, Anna 54

Kennedy, John Fitzgerald 134, 164

Kent, Sarah 59

Keys, Ancel 126

Khachaturian, Aram 199

Kierkegaard, Søren 33

Kingsley, Ben 146

Klimt, Gustav 13, 292

Kohl, Helmut 32

Kokoschka, Oskar 292

Krafft-Ebing, Richard Freiherr von 51

Kraus, Karl 291, 292

Kubrick, Stanley 291

La Fontaine, Jean de 14

La Gioconda 96

Lacan, Jacques 293

Lanza, Cesare 1, 2, 6, 176, 180, 184, 185, 189, 190, 197, 253, 256, 258, 265

Lanzachenecco 1, 6, 253, 256

Lanzichenecchi 253, 254, 255, 256, 257

Lapham, Lewis 136

Lattuada, Alberto 94

Laurenzi, Laura 53

Lavater, Johann Caspar 15, 16, 17

Lazarillo de Tormes 74

Le Brun, Charles 14

Leonardo da Vinci 12, 16

Leone, Sergio 146, 155

Levi Montalcini, Rita 176, 182

Lichtenberg, Georg 15, 16

Limiti, Paolo 63

Littizzetto, Luciana 176, 177, 182

Lombroso, Cesare 8, 12, 18, 19, 20

London, Jack 75

Loos, Adolf 292

Lord Lucas 236

Lorenzo il Magnifico 237

Lotto, Lorenzo 13

Lucci, Enrico 67

Luigi XIV 14

Lutero, Martin 40, 256

Luttazzi, Daniele 176, 182

Luxemburg, Rosa 237

Maazel, Lorin 1, 5, 23, 24, 26, 28

Mack Brunswick, Ruth Jane 275

Madame Bovary 54

Magni, Luigi 156

Mahler, Gustav 292

Malaparte, Curzio 236

Malatesta, Gloria 154

Mann, Thomas 237, 290

Manzoni, Alessandro 29, 75, 166

Manzoni, Matilde 166

Marino, Ignazio 31

Martini, Carlo Maria 1, 5 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36

Marzullo, Gigi 66

Mason, Perry 62

Massimiliano I d’Austria 253

Mastroianni, Marcello 153

Max Renn 236

Mazzucco, Massimo 154

McNamara, Robert 133, 134

Medail, Cesare 165

Melville, Herman 75

Meridiani Mondadori 72

Merini Alda 5

Messalina 204, 218

Messori, Vittorio 176

Mihaileanu, Radu 152

Miller, Jacques-Alain 293

Milo, Sandra 200

Minoli, Giovanni 66

Mogol 239

Monaca di Monza 204

Mondadori 45, 72, 77

Monicelli, Mario 154

Monroe, Marilyn 60, 198

Montanelli, Indro 31, 104

Montesano, Enrico 157

Morante, Elsa 161

Moratti, Letizia 176, 177

Moravia, Alberto 161, 162, 170

Mozart, Wolfgang Amadeus 23, 207

Mr. Diego 236

Munch, Edvard 13

Mussi, Fabio 176, 177

Nat King Cole 210

Nathan, Toby 292

Nathanson, Amalie 294

Nebbia, Fulvio 236

Nefertari 48

Nerone 204

Nick 64

Nietzsche, Friedrich 54, 58

Nievo, Ippolito 75

Night Express 70

Nobile, Sabrina 69

Notuno 236

Noventa, Giacomo 161

Oldoini, Enrico 156, 191

Ollio 62

Orsomando, Nicoletta 69

Ortese, Anna Maria 307

Ostellino, Piero 176, 181

Pacino, Al 231, 232

Padovan, Giancarlo 176, 177

Pannella, Marco 176, 181

Pappenheim, Bertha 275, 277

Parenti, Neri 154

Pascal, Blaise 14

Pasolini, Pier Paolo 161, 168, 169

Pavarotti, Luciano 198

Penelope 55

Peruggia, Vincenzo 96

Petrarca, Francesco 52, 117, 161

Petronio Arbitro 74

Philipe, Gérard 168

Pippo Kennedy show 70

Pirro, Ugo 153, 154

Pisanu, Giuseppe 193

Pitigrilli (Dino Segre) 54

Platone 10, 118, 238

Pleux, Didier 292

Podestà di Locarno 41

Ponchielli, Amilcare 207

Popper, Karl 98

Pow-Pow 62

Presley, Elvis 198

Proci 55

Prodi, Romano 1, 5, 7, 20

Proust, Marcel 165, 200, 201, 229

Puccini, Giacomo 170

Puliafito, Alberto 236

Raciti, Filippo 193

Raffaello 32

Ramses II 48

Reeves, Keanu 232

Reggiani, Pietro 235

Rembrandt 13, 14

Ricci, Antonio 176, 179

Richelmy, Agostino 162

Rigoletto 28

Rilke, Reiner Maria 48

Risi, Dino 146

Rizzoli Editore 167

Robbins, Tim 231, 232

Rochefoucauld, François de la 14

Romano, Sergio 176, 181

Rossellini, Roberto 108

Rossi, Vasco 240

Roudinesco, Elisabeth 293

Rubens, Peter Paul 13

Sabelli Fioretti, Claudio 191, 192

Saint Exupery, Antoine de 163

Saint-Simon, Claude Henri de 237

Salla, Michael 138

Sallustio 238

Salomè 56, 292

San Paolo 35

Santoro, Michele 66, 68

Sartor, Giovanni 176

Saverni, Domenico 154

Sawyer, Tom 92

Sbarigia, Claudia 154

Scalfari, Eugenio 31

Scamarcio, Riccardo 146

Scaramacai 62

Scarpelli, Furio 156

Schiele, Egon 292

Schnitzler, Arthur 291, 292

Schopenhauer, Arthur 8

Schreber, Daniel Paul 274, 275

Scola, Ettore 156

Scoto Eriugena, Giovanni 237

Scoto, Michele 11

Seneca, Lucio Anneo 237

Sequeri, Pierangelo 33

Sgarbi, Vittorio 6,176, 178, 183, 185, 186, 188, 189, 190, 191

Shakespeare, William 14, 162

Soldati, Mario 1, 6, 161, 162, 163, 164, 165, 167, 168, 169, 170

Solženicyn, Aleksandr Isaevi? 238

Sordi, Alberto 153, 159

Spinoza, Baruch 14

Stanlio 62

Stengers, Isabelle 292

Stevenson, Robert Louis 75

Stone, Oliver 146

Strada, Gino 176, 178

Streep, Maryl 146

Tarantino, Quentin 63

Taylor, Liz 198

Teofrasto 14

Tettamanzi, Dionigi 35

Thonet, Michael 292

Timoteo 35

Tirabusciò, Ninì 48

Tiziano 13

Toffoli, Elisa 239

Tognazzi, Ugo 153

Tolstoj, Lev Nikolaevi? 201

Tornatore, Giuseppe 146

Toscanini, Arturo 23, 24, 26

Totò 65

Toulouse-Lautrec, Henri de 13

Travaglio, Marco 176, 182

Troisi, Massimo 153

Turgenev, Ivan 201

Twain, Mark 92, 292

Twining, Nathan 135

UFO 133, 134, 138, 140, 142

Ulisse 55

Van Gogh, Vincent 13

Van Rillaer, Jacques 292

Velázquez, Diego 13

Venere 52

Veneziani, Marcello 176, 179

Verdi, Giuseppe 28

Verdone, Carlo 153, 154, 155, 156, 157, 159

Vermeer, Jan 13, 14

Verre, Caio 7, 11

Vesalio, Andrea 1, 5, 37, 38, 40, 41, 42, 43

Vescovo di Concha 44

Vespa, Bruno 176

Vidor, King 233

Villaggio, Paolo 154

Visconti, Luchino 108, 157

Vitali, Alvaro 63

Walesa, Lech 146

Webre, Alfred 138

Welby, Piergiorgio 31

Welles, Orson 61

Wenders, Wim 153

Wertmuller, Lina 154

William d’Inghilterra 66

Wittgenstein, Ludwig 292

Woodcock, Henry John 66

Yourcenar, Margherite 238

Zucconi, Vittorio 176

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