Edizione n. 10

INTRODUZIONE Cesare Lanza - L'attimo fuggente al festival di Sanremo

Questa rivista è nata, in rigorosa austerità, con un solo principio a cui attenersi: la libertà. Dopo quasi due anni di pubblicazioni, i nostri lettori spesso mi manifestano simpatia e stima per aver seguito questo principio senza indulgenze, dando spazio a persone libere di mente, capaci e desiderose di confrontarsi con il piacere e l’orgoglio di difendere la propria libertà, senza offendere quella degli altri. Non è risultato di poco conto, se solo si pensa quanto siano incerti, a volte equivoci, discussi e discutibili, e spesso violati, i confini che segnano i limiti della nostra libertà rispetto a quella degli altri.

Ebbene, ho avuto il gradito incarico, per decisione di Paolo Bonolis, di partecipare, assumendomi dunque qualche responsabilità, come uno degli autori dello show televisivo, al recente festival di Sanremo. E curiosamente, nelle tre faticose settimane vissute in quella cittadina ligure, giorno per giorno – oltre che al lavoro sfibrante, dall’alba alle ore piccole notturne – le mie riflessioni andavano verso questo tema della libertà, e i conseguenti confini, in apparenza elementari e in realtà complessi e ambigui.

Nei dieci giorni precedenti le cinque serate del Festival (da martedì 17 a sabato 21 febbraio) siamo stati investiti da un diluvio di polemiche stravaganti e di sicuro effetto mediatico. Perché? La spiegazione, a parere di molti, era semplice: il Festival era un falso scopo, sotto tiro erano i dirigenti della Rai che avevano voluto il Festival e la designazione di Paolo Bonolis come conduttore e direttore artistico: in primo luogo il direttore della rete ammiraglia, Fabrizio Del Noce, il vicedirettore generale Giancarlo Leone e il direttore generale Claudio Cappon. E la cornice del retroscena, in cui si inquadrava il chiasso degli attacchi provenienti dalle direzioni più impensate, era vistosa: l’imminente annuncio delle nuove nomine, attese di giorno in giorno, ai vertici dell’azienda di viale Mazzini. Le impronte digitali erano evidenti: anche all’interno della Rai, c’era chi remava contro la buona riuscita della manifestazione televisiva più attesa ogni anno! E se il nostro Festival fosse andato male, il conto sarebbe stato pagato da chi lo aveva voluto.

Prima riflessione dunque sulla libertà: la libertà del prossimo aggredita strumentalmente per interessi personali, occulti.

La strumentalizzazione degli argomenti polemici, infatti, era trasparente. In primis, l’attacco sul compenso di Bonolis: un milione di euro. La cifra era certo impressionante per un grande pubblico, non avvezzo e non obbligato a riflettere su considerazioni che, invece, dovevano risultare elementari per il mondo politico e per il mondo dello spettacolo. Che dire, ad esempio, delle libere leggi del mercato? Forse Bonolis aveva estorto l’incarico a mano armata, o invece, da libero professionista l’aveva accettato, a fronte di dieci mesi di lavoro? E davvero la cifra del compenso era così scandalosa? Non era forse uguale, o addirittura inferiore, a quella percepita da tutti i conduttori delle più recenti edizioni del Festival? E come mai la buriana si scatenava solo adesso, dal momento che il compenso di Bonolis era stato reso pubblico, doverosamente, fin dall’ottobre 2008? Forse quel lontano autunno non era il momento giusto per sferrare un attacco per le candidature alle pregiate nomine Rai…?

Intervistato da qualche giornale e qualche volenterosa televisione, mi sono permesso di andare al cuore del problema: Bonolis riceve un compenso certamente ragguardevole, ma proporzionato ai risultati che gli hanno fatto raggiungere queste alte quotazioni. Paolino produce lavoro, ricchezza, pubblicità… Incassa uno e produce dieci. Perché dunque tanta furia rabbiosa verso di lui? In Italia, le aziende pubbliche che governano ferrovie, Alitalia, poste, ospedali, eccetera eccetera, e purtroppo in questo eccetera ci sta tutto o quasi, sono amministrate da manager che, al contrario di Bonolis, portano sfascio, licenziamenti, cassa integrazione, debiti per il bilancio dello Stato… A fronte di questo scempio, nessuno scandalo. Anzi quasi tutti quei manager si dimettono o vengono esonerati con liquidazioni auree, ben superiori al compenso di Bonolis. E allora?

Altre considerazioni si potrebbero facilmente fare su altre sciagurate, e sempre strumentali, polemiche. Il contratto di Roberto Benigni? Benigni è da tempo una star internazionale, contesa in tutto il mondo – secondo, ripeto, le leggi del mercato – e arrivata a Sanremo solo per i rapporti personali con Bonolis e il loro comune agente Lucio Presta… si è accontentato, questa è la parola giusta, di ottenere come contropartita una parziale utilizzazione dei diritti del suo lavoro. Senza nessun danno effettivo della Rai, che potrà riproporre le performance di Benigni ogni volta che vorrà, quando e come vorrà. Dov’era lo scandalo, dove le ragioni dell’aggressione? Altri artisti, forse meno qualificati di Roberto, avevano ottenuto uguali concessioni.

E la polemica sulla canzonetta di Povia? Un delirio piazzaiolo. A parte il fatto che non si tratta, a mio modesto e opinabilissimo parere di una canzone ostile verso gli omosessuali, e che i versi sono assai più complessi di quanto non si sia voluto far apparire, a parte questo non secondario particolare, la domanda sulla libertà è: perché un eterosessuale può diventare gay senza suscitare chiasso e scandalo e, invece, un gay non può diventare eterosessuale senza suscitare chiasso e scandalo? Ammesso, ripeto, e non concesso, che la canzone di Povia voglia raccontare questo e non, come il cantante e Bonolis hanno dichiarato fino alla noia, una semplice storia. Non doveva avere la libertà di farlo e/o il nostro gruppo di lavoro non doveva avere la libertà di dare accoglienza a Povia?

Poche righe sulla contestazione a Hefner, l’inventore di “Playboy” e delle cosiddette conigliette: la polemica più ridicola e strumentale, tra tutte. Le proteste sono arrivate dai movimenti femministi, che si presumevano scomparsi e invece hanno colto un’occasione per farsi conoscere e riconoscere… Davvero i diritti delle donne sono stati posti a rischio dai venti minuti in cui le conigliette allegramente sono apparse al Festival? E come si può ignorare che Hugh Hefner, con il suo anacronistico harem era il personaggio ideale, per uno show che punta in primo luogo all’intrattenimento e al divertimento? Non a caso gli abbiamo dedicato la copertina di questo numero…

Non sono mancati momenti di più alto livello polemico. Ma sempre pretestuosi e irritanti, per l’aggressività dimostrata, da critici e contestatori, verso quei fondamentali principi di libertà a cui siamo tanti affezionati. Primo episodio, la breve intervista con il Presidente delle Nazioni unite, Miguel D’Escoto. A molti è sembrata una scelta inopportuna. Il diritto di critica non è contestabile, ma qualche sospetto sulla sua purezza mi è venuto in mente, quando ho letto che erano state stigmatizzate le opinioni “anti americane” di D’Escoto. Mentre il presidente dell’Onu si è limitato a sostenere il diritto di ogni popolo a vivere serenamente e senza guerre anche senza lo strapotere soffocante degli Stati uniti. Perché osteggiarlo? Forse perché, attraverso il Festival, raggiungeva dieci/quindici milioni di spettatori delle più diverse radici politiche?

Secondo episodio, l’anatema scagliato dal Vaticano, o più propriamente dall’Osservatore romano, sulla qualità delle canzoni. Anche qui: liberissimo il giornale del Vaticano a sfoderare imprevedibilmente la propria competenza musicale nell’occasione più attesa dagli amanti della musica. I toni sono apparsi però singolari e stizzosi. Perciò condivido l’asciutta replica di Paolo Bonolis: “Ogni opinione è legittima, sulla vita e sulla musica, purché sia esercitata con rispetto degli altri.” Il riferimento alla vita è un dignitoso accostamento alla tragedia Englaro. In un Paese in cui non si ha la possibilità di scegliere la propria morte anche quando si è cessato, spiritualmente e fisicamente, di vivere, dobbiamo stupirci che con ogni strumento e pretesto ci siano stati tanti attacchi al festival di Sanremo, perfino dal Vaticano?

 

Ps. Tutto è bene quel che finisce bene e il Festival, con risultati di ascolto straordinari e crescente successo, ha spento via via ogni polemica. Chi vince, si dice e non sono d’accordo, ha sempre ragione. A me resta un pizzico di amarezza per l’illiberalità che ho riscontrato in tanti uomini politici, giornalisti, critici, personaggi dello spettacolo e negli esponenti religiosi, del mondo gay e del mondo femminista.

Cesare Lanza

Corrado Calabrò - Il terremoto di Messina

CORRADO CALABRO’
Tra pochi giorni ricorre il centenario1.
Faceva un caldo fuori stagione
quella notte a Reggio e Messina:
ventidue gradi il ventotto dicembre.
Eran le cinque e venti del mattino
e si spense il gas nei lampioni
ma ci fu chi credette di vedere
il mare inghiottito nella faglia
dello Stretto. Si aprirono crepacci
nelle strade del centro in cui scomparvero
mulattieri e carretti con cavalli.
Trentamila morti solo a Reggio.
Io persi nel crollo della casa
i nonni una zia e un cuginetto
che quest’anno avrebbe centun anni.
Il mare sommerse la Punta
di Pellaro per oltre un chilometro.
Sono abitate dai pesci le case
sott’acqua; da ragazzi passavamo
di stanza in stanza a pesca subacquea.
Era rimasto tra gli altri sepolto
il sindaco di Reggio Tripepi.
Stavano togliendo con cautela
l’ultimo strato di macerie quando
arrivò Vittorio Emanuele.
Proprio a Reggio era stato salutato
per la prima volta re d’Italia
sbarcando al Cippo da un incrociatore
dopo l’assassinio di suo padre.
La folla si sporgeva sulla fossa
mentre ormai il corpo affiorava.
“Allegro, Sindaco, allegro! C’è il Re!
C’è il Re!” gli gridavano eccitati.
“Me ne frego del re!” si poté leggere
sulle labbra terrose del sindaco
mentre esalava l’ultimo respiro.1) La poesia è stata scritta nel dicembre 2008,
in occasione del centenario del terremoto di Messina.
COPERTINA Marta Lanza - Hugh Hefner, a Sanremo un playboy da sogno

Per la prima volta sul palco dell’Ariston il magnate americano che ha saputo creare un impero da una rivista, diventata un must per intere generazioni di uomini. E di donne

Marta Lanza*

Per l’uomo che non deve chiedere mai… Recitava così il claim di una vecchia pubblicità di un dopobarba maschile (quando ancora la parola dopobarba non era stata sostituita dal più internazionale aftershave). Ecco, leggendo la biografia di Hugh Hefner sembrerebbe proprio che il fondatore della leggendaria rivista per soli uomini sia l’incarnazione di quel claim.
Reduce dalla trionfale partecipazione al festival di Sanremo 2009, accompagnato dalle sue attuali fidanzate – le gemelle Karissa e Kristina Shannon – e dalle splendide playmate-conigliette che lo seguono ovunque, Hefner, ancora una volta, ha saputo catalizzare l’attenzione di giornalisti e mass media. E in realtà, sin dall’istante in cui il suo nome è stato pronunciato da Paolo Bonolis, durante la conferenza stampa di presentazione del Festival, si è scatenata una montagna di illazioni, curiosità e polemiche, perché Hefner non è certo un personaggio che passa inosservato e certo lui non lo desidera.
Si è subito favoleggiato sul numero di ragazze che avrebbe portato con sé, sull’intero albergo che avrebbe prenotato per ospitarle tutte, su alcune richieste davvero originali, come la suite con idromassaggio pirotecnico, le finte cameriere vestite in lattex, i cuochi – esclusivamente donne – che avrebbero cucinato solo per lui e il suo harem, l’obbligo di preparare solo ricette a base di cibi afrodisiaci…
Non sappiamo se tutto questo sia corrisposto a realtà, quello che però fa riflettere è che oggi pochissime persone, di certo Hugh Hefner, e pochissimi eventi, di certo il Festival di Sanremo, riescono ad interessare e a coinvolgere così massicciamente l’opinione pubblica. La combinazione dei due elementi è dunque sicuramente esplosiva.
Dicevamo pochissime persone, per pochissimi eventi: nello specifico, sfogliando l’album degli ultimi anni dell’italico festival, per risalire ad un personaggio che abbia concesso così tanto spazio alla fantasia, bisogna andare al 2005, ed in particolare alla partecipazione di Will Smith (sempre gestione Bonolis): all’epoca si favoleggiò che l’attore americano, per esempio, avesse chiesto di mangiare solo cibi italiani, possibilmente in ristoranti non di lusso, di avere con sé, oltre all’amata moglie, la madre, diversi assistenti, tre guardie del corpo, il truccatore, il parrucchiere di fiducia e il personal trainer e di noleggiare un camion per il trasporto dell’incredibile quantità di bagagli legato al così elevato numero di persone.
Anche in questo caso, non abbiamo riscontri che le cose siano andate esattamente così, e nemmeno, forse, ci interessa il dato oggettivo, ma è l’atmosfera da favola, l’alone di fascino che si sprigiona attorno a queste persone a divenire, questo sì, un dato oggettivo di interesse generale.
E per cercare di comprendere il perché di questo profondo coinvolgimento mediatico, bisogna, forse, fare un passo indietro ed ammettere che oggi, probabilmente, troppo spesso si abusa delle parole vip, divo, star attribuendole a persone, che, a conti fatti, di very important o di divino hanno poco o nulla. Così quando si percepisce che la persona che si ha di fronte (in televisione o al cinema) o della quale si legge, ha qualcosa in più, possiede quel famigerato e misterioso quid, allora se ne rimane conquistati. Quale, infatti, dovrebbe essere la caratteristica imprescindibile, vincolante di coloro che definiamo vip, divi, star? La capacità di far sognare o meglio di dare vita a un sogno.
Ed in questo, Hugh Hefner è stato ed è un maestro: il suo sogno – diventato poi il sogno di tanti – è iniziato molti anni fa, nel novembre del 1953, quando il primo numero di “Playboy” esce in edicola. In copertina la sensualissima e sorridente Marilyn Monroe, seduta su una coperta, che, ammiccando, saluta il lettore. Un trafiletto alla sua destra promette “per la prima volta su una rivista e a colori, le celebri foto di nudo dell’attrice”, mentre il sottotitolo specifica quella che oggi definiremmo la mission del magazine: intrattenimento per uomini.
A chiarire ancor meglio le intenzioni e lo scopo della rivista, l’editoriale che sottolinea la nascita di una nuova rivista per un nuovo lettore: “Se sei un uomo tra i 18 e gli 80 anni, “Playboy” è per te. Se ami l’intrattenimento, accompagnato da umorismo, raffinatezza ed un pizzico malizia, “Playboy” diventerà il tuo magazine preferito. E che sia chiaro sin dal principio, non siamo una rivista per famiglie”.
Fedele a questa promessa (l’unica forse alla quale sia rimasto fedele così a lungo), da quasi cinquantasei anni Hefner delizia intere generazioni di uomini: attraverso sofisticati e raffinati scatti fotografici i corpi delle donne vengono trasformati in icone del desiderio, letteralmente trasfigurati. Nascono così le magnifiche playmate, compagne di gioco, come la traduzione letterale della parola vorrebbe, o conigliette, come invece la traduzione italiana, più ironicamente, vuole. Ma che il termine sia playmate o coniglietta, come sostiene lo stesso Hefner once playmate, always playmate (una volta playmateconiglietta, lo si è per sempre).
Nato a Chigago nel 1926, Hugh Hefner cresce in un ambiente fortemente puritano ed è forse proprio questa visione “stretta” della vita che gli fa sentire forte l’esigenza di poter dar sfogo alla sua creatività: parole come edonismo, sesso, felicità, fantasia, amore ricorrono spessissimo nella sua biografia, dando vita a corpose pagine per spiegare quanto la ricerca e il raggiungimento di questi obiettivi siano costati fatica sia nell’ambito professionale sia in quello personale. Ambiti, tuttavia, mai nettamente distinti.
Infatti, dopo il primo matrimonio nel 1949 con Millie Williams – una sua compagna di classe – durato dieci anni, le compagne di Hefner saranno spesso le stesse protagoniste delle sue copertine. Ed esattamente nel 1989, a quarant’anni dal primo, sposa Kimberley Conrad, playmate dell’anno 1989. Oggi è fidanzato con le gemelle diciannovenni Karissa e Kristina Shannon.
Sebbene il gossip la faccia spesso da padrone nella vita di Hefner, la sua filosofia è sempre stata quella di fare di “Playboy”, sin dalla sua nascita, non solo una rivista da godere con gli occhi, che faccia sognare, ma anche una pubblicazione speciale per i suoi contenuti: da precursore, ha intuito l’importanza non solo dell’intervista come strumento di conoscenza ed approfondimento, ma anche di intervistare personaggi esclusivi, non usuali e per certi versi scomodi: dal divo Marlon Brando al dittatore Fidel Castro, dal ciclista Lance Armstrong all’attrice Nicole Kidman, tutti hanno posato per lui, sapendo che sarebbe stata una chiacchierata insolita. La rivista può contare, inoltre, su articoli di costume, moda, sport, politica dal taglio decisamente liberal, nonché su contributi letterari di autori famosi, come Arthur Clarke solo per citarne alcuni.
Ma non si può parlare di Hefner o di “Playboy” senza far accenno alla mitica centerfold o paginone centrale, che in questi cinque decenni ha visto sfilare bellissime donne: la pioniera Marilyn, e poi Pamela Anderson, Sharon Stone, Caterina Murino, Victoria Silvstedt, Dita Von Teese, Eva Herzigova, Jenny McCarthy, ed ultima in ordine di tempo, per la versione italiana del magazine, Micol Ronchi2. Selezionate dallo stesso Hefner e dal suo attentissimo staff, per molte di loro, l’essere stata una coniglietta è significato l’inizio di una carriera sfolgorante in ambiti diversi: cinema, televisione, moda.
Hefner non è persona che si accontenta di quello che ha, così la rivista “Playboy” segna anche l’esordio di una nuova iniziativa imprenditoriale, che porterà col tempo alla creazione della “Playboy Enterprises”, società che dal 1991 è quotata alla borsa di New York con la sigla Pla.
Focalizzata essenzialmente all’intrattenimento di adulti, questa non solo produce ed edita la rivista “Playboy” nel mondo, ma opera anche in tutti gli altri campi dell’informazione e produzione multimediale: produce e distribuisce programmi televisivi e radiofonici, gestisce siti web, amministra tutti i servizi e i prodotti griffati con l’ormai celebre coniglio. Dal 2006, inoltre, la “Playboy enterprises” grazie ad un accordo stipulato con il casino Palms, ha aperto, a Las Vegas, una sede dedicata all’intrattenimento, che oltre ad casinò, può contare anche su un nightclub e su un negozio tutti rigorosamente targati “Playboy”.
Uomo decisamente previdente, a dispetto delle apparenze, Hefner ha già curato, nei minimi dettagli, la costruzione del mausoleo che accoglierà le sue spoglie: questo sorge nel cimitero di Brentwood, a Los Angeles proprio accanto alla tomba della divina Marilyn.

Tutti hanno un paio di ali, ma solo chi sogna impara a volare.
(Jim Morrison)

*Dice di sé.
Marta Lanza. Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare. Seneca


2) Diretto da Alessandro Ferri, “Playboy” è tornato, con una veste grafica completamente rinnovata, nelle edicole italiane dallo scorso dicembre 2008.

 

GIACOMO CASANOVA



Questa è la gelosia: il senso di pericolo che si avverte

quando il nemico invade il nostro territorio.

(Da “Storia della mia vita”, 1960)

 

PROTAGONISTI Antonio Eustor - Nichi Vendola, un nuovo movimento a sinistra

Bisogna costruire processi di uguaglianza, libertà e solidarietà. In una sola parola occorre una maggiore giustizia sociale

Antonio Eustor*

Nicola Vendola detto Nichi nasce a Bari nel 1958. Dal 2005 ricopre la carica di presidente della Regione Puglia. Fin da piccolo, il papà e uno zio lo iniziano alla politica, e al comunismo in particolare. Si iscriverà, infatti, giovanissimo alla Fgci e al Partito comunista nella sua Terlizzi.
Dopo la laurea in lettere con una tesi su Pasolini, diventa giornalista all’Unità. Di formazione cattolica, è uno dei pochi politici italiani ad aver dichiarato apertamente la propria omosessualità.

Facciamo un salto nel passato, ci parli di quando era bambino a Terlizzi. Nella sua casa paterna, ci sono ancora i ritratti di Yuri Gagarin e Giovanni XXIII?

“In realtà a casa mia c’è una bellissima foto di Don Tonino Bello, il vescovo salentino che ha guidato per anni la diocesi cui appartiene anche Terlizzi.
Un uomo con uno straordinario carisma, la cui conoscenza e frequentazione sono stati per me elementi fondamentali per il mio processo formativo, come cattolico, come politico e soprattutto come uomo”.

Il diminutivo Nichi da dove salta fuori?

“Nichi è diminutivo di Nikita. Io sono nato nel ’58. Nel ’56 c’era stato il ventesimo congresso del Pcus. Quindi, mio padre per gioco, mi ha chiamato Nikita, come Kruscev”.
Da sempre comunista, non fa segreto di essere allo stesso tempo cattolico. Come concilia queste due fedi?

“La fede religiosa è un dono di Dio, un fatto intimo che schiude orizzonti nuovi al percorso esistenziale. Per me la fede è la luce che illumina gli spigoli bui dell’umanità, è il termometro che misura la passione per la verità e la febbre della menzogna, è l’inseguimento di un ideale di bellezza che è incompatibile con la bellezza (leggera e di facili costumi) confezionata dai cicisbei e dalle veline del trash televisivo.
Ci tengo molto a sottolineare che io sono cattolico per storia, direi per culla, per educazione, per tradizione famigliare. Ma la fede è un fatto meta-culturale: non riguarda semplicemente il contesto ambientale che la comprende, riguarda (così penso io) il rapporto con il mistero del Dio che si fa uomo.
La fede cristiana ti inchioda dinanzi alla follia della croce e ti convoca sull’ingresso di un sepolcro che annuncia la vita oltre la morte”.

Ha dichiarato che in lei convivono due vocazioni: una ludico-narcisista e l’altra di organizzatore instancabile. Anche di Berlusconi dice che è un narcisista. È il vostro unico tratto comune?

“Se c’è un tratto comune non lo so. So però che con il Presidente del consiglio, personalmente, ho un ottimo rapporto istituzionale.
Ma a parte questo, resto molto critico e oppositore nei confronti delle sue politiche neo-liberiste. Come vede quindi le differenze restano di gran lunga superiori alle affinità caratteriali”.

Sostiene che la cultura politica dalla quale proviene è una cultura basata sull’odio, ma che oggi non vuole più odiare. Come pensa di agire?

“Spesso nella contesa politica non c’è solo la giusta, legittima asprezza delle idee differenti, dei programmi alternativi, ma c’è l’elemento della cattiveria, anche personale, il tentativo della denigrazione morale, della calunnia continua: tutto questo uccide la politica.
Io credo che saremmo tutti in grado di fare meglio, per i nostri punti di riferimento politici, per le nostre coalizioni e per la nostra gente, se invece di vivere dentro il teatrino della rissa, vivessimo le istituzioni e i luoghi pubblici, le assemblee, come un momento in cui c’è una gara ad un’analisi raffinata, a chi ha le proposte migliori, una gara delle idee non una gara degli insulti. E quando mi trovo ingabbiato dentro il teatrino della rissa, mi sento umiliato e mortificato”.

Ha ancora un senso parlare di ideologie? E quale significato ha oggi dirsi comunista?

“Il somo, in senso tradizionale, aveva lo scopo di rinnovare l’uomo e la società. Questa era e resta un’idea forte e rivoluzionaria.
Detto questo, è evidente che oggi i tempi sono cambiati, nessuno si aspetta (o ricerca) la rivoluzione in senso marxista e nessuno si sognerebbe di parlare di abolizione del capitalismo. Bisogna però trovare una via d’uscita: bisogna costruire processi di maggiore uguaglianza, di maggiore libertà, di maggiore solidarietà tra gli uomini.
In una parola occorre maggiore giustizia sociale. In questo senso, la via del somo resta attuale ed è tutta da percorrere”.

Lei ha scritto a lungo sull’Unità, quotidiano che lo scorso anno ha vissuto un cambio di direttore combattuto, con l’arrivo della De Gregorio. C’è ancora un legame con il giornale fondato da Gramsci?

“Contro un berlusconismo che trascende gli schieramenti politici e diviene lo spirito dei tempi serve la disseminazione di culture, di proposte e di scelte concrete di sinistra. “L’Unità” credo che continui ad essere uno strumento che concorre in modo rilevante ad un’informazione più libera, cosa di cui c’è tanto bisogno nel nostro Paese”.

L’ultima tornata elettorale è stata per voi come un tornado, che ha avuto strascichi pesanti. Una curiosità, perché lei non è stato candidato nelle liste della Sinistra arcobaleno?

“La risposta è molto semplice: perché facevo il Presidente della regione Puglia e intendevo continuare a farlo. Al centro della politica ci deve essere l’elemento della coerenza, non quella evocata, ma quella praticata: ed è per questo che ho deciso di non candidarmi.
Se mi fossi candidato avrei chiesto voti per me nella consapevolezza che il giorno dopo la mia elezione mi sarei dimesso per restare in Puglia.
Ho l’impressione che questa sia una furbizia. O che possa essere considerata un trucco elettorale. Noi dobbiamo essere coerenti, soprattutto con le giovani generazioni perché la politica ha presentato, spesso, il volto di infinite acrobazie, di inesauribili alchimie”.

La partecipazione e poi la vittoria di Vladimir Luxuria all’Isola dei famosi ha diviso la sinistra in favorevoli e contrari. Lei come si è schierato?

“Conosco Vladimir da tanto tempo e ne ho sempre apprezzato l’attivismo e la caparbietà nel non arrendersi di fronte al muro invalicabile del pregiudizio.
Credo che abbia fatto benissimo ad accettare di partecipare a quel programma.
Ha potuto così dimostrare a chi lo seguiva in tv di essere una persona assolutamente normale, fatta di sentimenti, opinioni, idee, certezze e dubbi. E non uno scherzo della natura o un fenomeno da baraccone. Il pubblico questo lo ha capito e lo ha premiato”.

In contrasto con Ferrero, ha dato il suo addio a Rifondazione e, alla fine dello scorso gennaio ha iniziato un percorso per fondare il Movimento per la sinistra. In cosa quest’ultimo partito si differenzierà dal primo?

“C’è bisogno di una politica che ritrovi l’ago e il filo con cui cucire nuovi legami sociali, pezzi di comunità, movimenti che fanno politica coinvolgendo e accogliendo. Una politica che allunga i propri pensieri oltre lo spazio del presente.
Una politica che ci aiuti a spartire il dolore e la gioia, che ci rispetti nella nostra fragilità e nella nostra unicità, che non ci trasformi in giudici sommari e in boia delle diversità, che non sia pensata e gestita al maschile, che non accetti barriere gerarchiche, che non escluda chi è diversamente abile, che non giudichi nessuno per la sua fede o per il suo orientamento sessuale, che non cerchi nemici.
Il ruolo della sinistra è tutto qui. Il Prc oggi sembra avvitato in un identarismo che credo produrrà una ulteriore divaricazione con il corpo vivo della società”.

L’entusiasmo scatenato dall’elezione di Barak Obama ha davvero pochi precedenti. Intravede qualche politico italiano capace di suscitare un entusiasmo simile?

“Non saprei dirlo. Quello che so è che Barak Obama vince perché ha introdotto nell’immagine di politica che comunica, la suggestione ontologica del cambiamento, perché nel più ufficiale dei suoi discorsi si è sentito il congedo liberatorio dall’epoca dell’America texana, delle sette evangeliche e dei petrolieri, dei gangster, della speculazione borsistica e della bolla immobiliare, perché ha nominato la violenza razzista del mondo in cui è nato e cresciuto, perché ha esibito con naturalezza le prerogative di una democrazia che rifiuta qualsiasi torsione confessionale, perché ha delineato un intervento pubblico che mira a salvare l’economia reale piuttosto che la finanza creativa che ha ubriacato il mondo.
Insomma, ha chiesto alla politica di tornare ad essere pensiero, conoscenza, inchiesta, passione condivisa, reciproco affidamento, indignazione civile, prefigurazione di un mondo liberato”.

È più lei o Veltroni l’incarnazione dell’italico Obama?

“Questo paragone mi imbarazza non poco. Per quanto riguarda Veltroni lo dovrebbe chiedere a lui direttamente”.

Che posto occupa, oggi, la poesia nella sua vita? Riesce ancora a trovare il tempo per scriverne?

“La poesia continua ad essere una compagna straordinaria, anche se oggi purtroppo ci dedico assai poco tempo”.

Se non avesse scelto la politica come lavoro, cos’altro le sarebbe piaciuto fare?

“Lo scrittore, o forse, il teologo”.

*Dice di sé.
Antonio Eustor. Un americano a Roma: ha studiato e a lungo vissuto a New York, con preziose esperienze manageriali. Poi, in Italia, è da trent’anni il braccio destro di Cesare Lanza. In Rai per sette anni consulente di “Domenica in” e di altri programmi. Dal 2005, a Canale 5, segue in particolare, come uno degli autori, il programma di Paolo Bonolis “Il senso della vita”.


WILLIAM SHAKESPEARE

Oh, guardatevi dalla gelosia, mio signore.

È un mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre.

Beato vive quel cornuto il quale, conscio della sua sorte,

non ama la donna che lo tradisce: ma oh, come conta i minuti

della sua dannazione chi ama e sospetta;

sospetta e si strugge d’amore!

(Da “Otello”, 1603)

 

 

FABRIZIO DE ANDRÈ

Fenesta co’ ’sta nova gelosia tutta lucente de centrella d’oro tu
m’annasconne Nennerella bella mia lassamela vedè
sinnò me moro.

(Da “La nuova gelosia”, album “Le nuvole”, 1990)



Clap Paolo Ferrero, il comunismo è la mia bussola

Il segretario di Rifondazione comunista, Paolo Ferrero, rivendica quella che da sempre è una prerogativa della sinistra:  essere dalla parte dei lavoratori

Clap*

Paolo Ferrero, classe 1960 è dal luglio 2008 segretario di Rifondazione comunista, il primo a non provenire dal Partito comunista italiano. Dopo i primi anni trascorsi a Chiotti, in Val Germanasca, la famiglia si trasferisce a Villar Perosa, la cittadina della famiglia Agnelli.

Diplomato, inizia a lavorare allo stabilimento Fiat proprio di Villar Perosa: qui si occupa tra l’altro del bollettino operaio “Valle contro”. Dopo un periodo di cassa integrazione in Fiat, decide di fare della politica il suo lavoro.

Dal 1995 al 2006 è attivo nella segreteria nazionale di Rifondazione e proprio nel 2006 è nominato ministro della solidarietà sociale nel secondo governo Prodi.

Candidato alle politiche del 2008, non è eletto a causa del pessimo risultato della sinistra. Al congresso di Rifondazione comunista, del luglio 2008, viene eletto segretario del partito, nonostante quasi la metà dei voti contraria. Da quel momento è partita la scissione del Prc che gli ha visto opporsi Nichi Vendola, fondatore del nuovo Movimento di sinistra.

 

Per diversi anni ha vissuto a Villar Perosa, la cittadina degli Agnelli. Che ricordi ha di quella stagione e di quella famiglia?

 

“Ricordo i temi e i modi di vivere di una “città fabbrica”, in cui le gerarchie interne all’azienda si ritrovavano sul territorio e ricordo l’insegnamento dei miei genitori: il bianco è bianco e il nero è nero”.

È vero che è stato il periodo di cassa integrazione in Fiat a farle decidere di dedicarsi alla politica a tempo pieno?

 

“La cassa integrazione per me divenne una occasione di fare lavoro politico volontario a tempo pieno, cosa che alla fine della Cig divenne anche il mio lavoro”.

 

Nel 2006 ricopre la carica di Ministro della solidarietà sociale nel governo di Prodi. Quale decisione assunta come Ministro ricorda con maggiore orgoglio?

 

“Il blocco degli sfratti per i soggetti deboli con l’avvio di una politica per l’edilizia pubblica e il tentativo di costruire una politica sull’immigrazione che archiviasse la Bossi Fini”.

 

Pare l’avessero soprannominata “testa dura”, per una certa sua opposizione a provvedimenti voluti da Prodi. A mente fredda, crede sia stato un errore?

 

“Al contrario, penso che l’esperienza di Rifondazione e quindi anche la mia dentro il governo Prodi abbia avuto un deficit di “impuntatura”: avremmo dovuto con maggior nettezza pretendere da subito provvedimenti di redistribuzione del reddito in favore dei lavoratori e dei pensionati, così come il superamento delle leggi sulla precarietà nel lavoro”.

 

Quale, allora, è stato l’errore maggiore compiuto da quella compagine governativa?

 

“Di aver continuato nelle politiche di rigore di bilancio quando invece occorreva mettere al centro la redistribuzione delle risorse dai ricchi ai lavoratori”.

 

Col senno di poi, quale lezione ha ricavato dalla disfatta elettorale del 2008? Ne avete individuato le cause?

 

“In primo luogo l’incapacità della sinistra ad obbligare il governo a fare politiche di sinistra. In secondo luogo che il mettere insieme stati maggiori e gruppi dirigenti, come è stato con l’Arcobaleno, fuori da un lavoro sul territorio e quasi a prescindere da risposte concrete, si è dimostrata una strada sbagliata”

È di questi giorni la scissione definitiva con i compagni guidati da Nichi Vendola. Eppure lei ha dichiarato (forse sperato) fino alla fine che la crisi sarebbe rientrata, invece cosa è successo?

 

“Ancora una volta ha pesato il nodo del rapporto con il Pd. La scissione nasce come una scelta subalterna al Pd, una sorta di corrente esterna al Pd, nell’illusione di poter costruire una sinistra a partire dai rapporti politici, invece che da un lungo lavoro di lotte e di organizzazione teso alla modifica delle condizioni di vita delle persone.

Io continuo a ritenere necessaria una sinistra anticapitalista, in grado di porre sul serio il tema dell’alternativa, dell’uscita, da sinistra, dalla crisi. Quindi a una sinistra utile anzitutto per i lavoratori che vuole rappresentare.

Fino alla fine ho creduto inoltre che le scelte democraticamente assunte dagli iscritti a Rifondazione nel Congresso fossero rispettate da tutti. Purtroppo mi sono sbagliato”.

 

Possiamo dire che il primo frutto della scissione è stata la sostituzione del direttore Pietro Sansonetti con Dino Greco?

 

“No. Dino Greco rappresenta la risposta ad una crisi editoriale di “Liberazione” che ha portato il giornale sotto la direzione di Sansonetti a perdere migliaia di copie e milioni di euro. Con la direzione di Greco spero che “Liberazione” possa rilanciarsi come giornale utile alla sinistra e agli strati sociali più colpiti dalla crisi”.

 

Questa ulteriore frammentazione non rischia di indebolire, definitivamente, la sinistra?

 

“Ogni scissione rappresenta una sconfitta; per questo ho cercato in tutti i modi di evitarla. Si tratta però ora di fronteggiare la scissione più grave e cioè quella che abbiamo avuto da parte del nostro popolo, che non ci ha più riconosciuti come utili e non ci ha più votati. Ripartire dal basso a sinistra come abbiamo deciso noi a Chianciano è la strada per rilanciare una sinistra utile ed efficace”.

 

E costituire un alibi perfetto per governo ed opposizione che hanno approvato lo sbarramento al 4%?

 

“Lo sbarramento è una porcheria inventata da Veltroni in accordo con Berlusconi per tentare di far valere anche nelle elezioni europee la teoria del voto utile, che Veltroni ha usato nelle elezioni politiche. Sul piano istituzionale questa norma non ha alcuna ragion d’essere in quanto il Parlamento europeo non elegge un governo e dunque non vi è alcun problema di governabilità. Per questo abbiamo posto un problema di democrazia e non solo di rappresentanza di qualche partito”.

 

Rifondazione comunista, Comunisti italiani, Movimento per la sinistra: in quale di questi partiti un ex comunista può ritrovare i suoi valori?

 

“Penso in Rifondazione comunista. Il Pci ha avuto la forza di essere “un paese nel paese” trasformando le culture e la qualità della vita delle persone. Questa in fondo è l’ambizione di Rifondazione comunista, nell’immersione nei movimenti e nel sociale, nella capacità, nell’ambizione di unire il lavoro sociale con un progetto di trasformazione concreto del Paese”.

 

Molti sostengono che le ideologie siano scomparse: per lei che senso ha oggi la parola comunismo?

 

“Una bussola nell’azione quotidiana; contro ogni sfruttamento e a favore della libertà e dell’eguaglianza”.

 

L’elezione di Barak Obama è stata una ventata di entusiasmo, non solo per gli Usa, ma per tutto il mondo occidentale. In Italia intravede una personalità capace di suscitare un entusiasmo simile?

 

“No”.

 

Non fa segreto della sua appartenenza alla chiesa valdese. Che posto occupa la fede nella sua vita?

 

“La fede per me è una domanda critica sull’esistenza e sulle cose che faccio rivolta da un Dio che si è rivelato nella storia, e di cui la Bibbia ci dà testimonianza; un Dio che mi ama e che ama gli altri. Una domanda gratuita, che non condanna, a cui non è obbligatorio rispondere. È un dono. Per esemplificare, l’esatto contrario di chi, usando la fede come una clava, quotidianamente ha tormentato i genitori di Eluana Englaro”.
*Dice di sé.
Clap. La sua vita è in un battito d’ali. Nell’applauso del pubblico.

OPHÈLIA QUEIROZSa che era molto geloso? Ma non si arrabbiava, non dicevaniente, soffriva in silenzio. Per esempio non gli piaceva

che portassi vestiti scollati. Una volta disse:

“Oggi per la prima volta sono stato geloso

degli occhi di mio cugino…

perché ieri non c’ero, ed essi invece ti hanno visto”.

(Da “Fernando e io”, di Emiliano Ventura)

 

INTERVISTE Antonella Parmentola - Donna Assunta, cuore e memoria di Giorgio Almirante

“Le nostre rappresentanti politiche spesso mancano di carisma. E per carisma intendo quello della Gandhi o della Clinton: donne che si lasciano ascoltare”

Antonella Parmentola*

Incontro donna Assunta dopo una brutta influenza che l’ha costretta a casa per qualche giorno. Mi confessa di non essere abituata a rimanere al chiuso per tanto tempo, perché è uno spirito libero. Lo è sempre stata. Ci accomodiamo in un salottino, vasi di fiori freschi fanno capolino da ogni angolo. “Non sono io che li compro – mi dice -, ma tutte le mattine ne arrivano di nuovi. Sono un segno d’affetto per me e attraverso me, per Giorgio”. Cominciamo a chiacchierare e la mia attenzione, da fanatica quale sono, è subito catturata da un paio di splendidi orecchini in smalto e brillanti. Mi promette che la prossima volta che ci vedremo, mi mostrerà la sua collezione di gioielli. Ci conto.

 

Giovanissima da Catanzaro si trasferisce a Roma. Come arrivò a questa decisione?

 

“La Calabria mi stava troppo stretta. Così, approfittando di una nostra proprietà a Roma, presi i miei figli e mi trasferii. Qui, per caso, mi capitò di leggere un’inserzione sul “Messaggero” di un’azienda agricola che si vendeva e decisi di acquistarla, contraendo un mutuo. Avevo solo ventisei anni e un gruppo di 50 uomini ai miei comandi. Sono stata un’imprenditrice ante litteram”.

 

Considerata l’epoca, deve essere stata una rivoluzionaria?

 

“Non proprio rivoluzionaria, ma uno spirito inquieto. Il mio primo marito è stato un uomo come non esistono più, per l’educazione ed il rispetto che mi ha sempre dimostrato. Ed io, un po’ alla volta, mi conquistai piccoli spazi di libertà. Del resto, si sa, la vita dei nobili era molto diversa: non avevano obblighi, i loro ritmi erano diversi. Così non fu un problema il mio trasferimento a Roma”.

 

Come si inserisce Giorgio Almirante in questa storia?

 

“La prima volta che lo conobbi fu in Calabria, per caso. Dovevo vendere una partita d’uva ed incontrai il conte Sabatini, che mi invitò ad un comizio. Poiché mi annoiavo, cominciai a disturbare tutti quelli che invece vi partecipavano con attenzione. Staccai uno spillone che avevo al cappello e iniziai a punzecchiare quelli seduti avanti a me, ridevamo tutti. In serata ci trovammo nello stesso locale, e Almirante mi rimproverò “Mi ha rovinato il comizio, l’ho vista dalla finestra”.

 

E poi?

 

“Poi lo incontrai nuovamente a Roma, per la raccomandazione di un’amica. Ricordai di aver conosciuto questo Almirante, così andai al “Secolo d’Italia” per chiedergli appunto di raccomandarla, ma lui non c’era. Quella sera stessa, ero appena rientrata a casa, più o meno verso le undici e mezza, squillò il telefono. Era lui, che mi chiedeva se potevamo andare a prendere un caffè. “A quest’ora?” gli dissi. Lui insistette ed io, che per la verità ero già pronta, scesi. Ricordo ancora come ero vestita: una giacca di visone marrone con cappellino in tinta, un pullover lilla a collo alto.

Mi portò a Trastevere, in una specie di bettola, perché non aveva ancora cenato. Io rimasi scandalizzata da quell’ambiente, dal linguaggio volgare che tutti usavano. Fu un incontro scioccante. Ce ne furono altri, perché quel mondo così diverso dal mio mi intrigava. Ma adottai questa precauzione: mangiavo prima di uscire, in quei posti non avrei mai potuto. Lui, al contrario, era a suo agio, riusciva ad ingurgitare certe schifezze. Io invece mi facevo portare un coltello, dell’acqua calda e un’arancia, per farmi una spremuta, ed era l’unica cosa che prendevo”.

 

Durante il racconto il volto di donna Assunta si illumina.

 

“Vede, ho conosciuto tanti uomini, ma nessuno è come lui, un uomo all’altezza del mondo. Aveva stile, educazione, rispetto, intelligenza, capacità di parlare, molto riservato, ma anche capace di grandi confidenze. Dico sempre che il suo cervello andrebbe analizzato”.

 

Come è stato il rapporto dei suoi figli con Almirante?

 

“Ottimo. Per loro è stato come un padre e lui si considerava il loro papà. Quando poteva, il pomeriggio, li aiutava a fare i compiti, andava a scuola a parlare con gli insegnanti per conoscere il loro andamento, nei fine settimana liberi ci portava in giro per l’Italia. Mi ripeteva spesso: “A furia di stare con te, mi sono convinto di essere uno dei tuoi figli, mammina”. Gli piaceva chiamarmi mammina”.

 

Lei e Almirante avete girato il mondo?

 

“Si. Abbiamo viaggiato moltissimo. Sono molto legata alle mie radici, ma se dovessi scegliere una città dove vivere, che non sia Roma, sceglierei Tokio per la sua pulizia, per il suo ordine, per la possibilità di comprare tutte quelle cianfrusaglie che io adoro, oppure Parigi, perché mi farebbe sentire come in Italia. Certo non potrei vivere in America, quel mondo non è nel mio Dna”.

 

Come facevate a conciliare la vita della vostra famiglia con quella di Almirante personaggio politico?

 

“Sono stati anni difficili. È stata una vita difficile, la preoccupazione era permanente per lui e per i figli. Ma Giorgio era grande anche in questo, non rispondeva mai alle intimidazioni. Lo seguivo sempre, soprattutto durante i giorni di campagna elettorale, ma non portavo mai con me i ragazzi, avevo troppa paura. La vita in famiglia diventava così un’oasi, un posto dove trovavamo pace. All’estero ero anche più spaventata: ci insultavano pubblicamente, ci seguivano per strada, facevamo ore in macchina per disperdere qualche facinoroso che ci pedinava. E quando rimettevo piede in Italia cominciavo a rasserenarmi.

Anche se c’è un episodio il cui ricordo ancora mi turba. Eravamo a La Spezia. Giorgio aveva parlato alle forze dell’ordine, c’era gente ovunque, sui tetti, sui balconi, nelle strade, dappertutto. Ma lui imperterrito continuava a parlare. Cominciai a pregare: mi auguravo, se ci avessero presi, di essere uccisa subito, che ci risparmiassero le torture. La polizia a quel punto ci fece salire in macchina e ci portò per campi, per disperdere la folla. Ma non era finita: arrivammo al casello e i casellanti uscirono dalle loro postazioni rifiutandosi di farci pagare il pedaggio. Il senatore Michele Marchio, che era in macchina con noi – è stato sempre il nostro angelo custode – aveva un martello nel cruscotto e fece per prenderlo, ma Giorgio gli bloccò il braccio.

Passammo solo grazie all’intervento di alcuni nostri “fedelissimi”, ma non le dico le botte che si diedero. E quando ci fermammo ad un ristorante per mangiare un boccone, il cuoco venne fuori e ci disse che quel giorno c’era sciopero e non potevano prepararci nulla… Non mi persi d’animo, vidi che c’era un cestone di frutta, lo presi e lo misi a tavola: “Questa non ha bisogno di essere cucinata”.

 

Una donna coraggiosa, ha qualche rimpianto?

 

“Uno, grandissimo, che porterò con me per sempre. Quando Giorgio fu ricoverato a Parigi chiesi di poter stare in sala operatoria. Non me lo consentirono, ma quello che non mi perdono è di averlo portato a Parigi. Ci accolse un ambiente freddo, ostile, il mio desiderio, invece, è che Giorgio potesse finire i suoi giorni con dolcezza, tra amici. Questo non è stato possibile. Io che sono sempre stata testarda, in quella occasione mi sono lasciata convincere, non ho saputo impormi ed è per me il più grande rimpianto”.

 

Dopo la morte di Almirante, lei è stata per molti un punto di riferimento. Ha mai pensato di entrare in politica?

 

“No, non ho mai pensato di fare politica. Anche ultimamente mi hanno proposto di partecipare alle elezioni europee, ma ho detto di no. Litigherei con tutti, perché ho poca propensione all’ubbidienza e finirebbero per considerarmi una ribelle. Ci vogliono uomini giusti in politica, come mio marito”.

 

E l’idea della sua nomina a senatrice a vita?
“Risale al 2006. Nel libro “Gesù era di destra o di sinistra”3, ad un certo punto, parlando di Napolitano, l’autore scrive: “Se davvero il Presidente vuol dimostrare di essere al di sopra delle parti, nonostante il suo passato comunista, si sbrighi a pensare alle nomine dei prossimi senatori a vita. Che siano meritevoli (…) cittadini esemplari cui la società è grata per il loro contributo (…). Penso a due italiani di destra che forse aspettano un comunista per essere valorizzati, Antonino Zichichi e Assunta Almirante (…). Se Almirante è ricordato come merita è perché donna Assunta è infaticabile nel proposito di onorare e far sopravvivere la personalità del marito”.

 

Ipotizziamo fosse stata nominata senatrice a vita, quale il suo primo gesto?

 

“Ricordo un episodio, di quando Almirante era capo di gabinetto del ministro Mezzasoma, perché può servire da esempio. Mussolini, che aveva appena ricevuto l’editto di Hitler sugli ebrei, disse ai suoi: “Tenetelo nel cassetto il più a lungo possibile”. Diversi ebrei furono nascosti e aiutati a fuggire. Ora una cosa del genere farà scattare polemiche senza fine, ma è la verità. Il mio primo gesto sarebbe quello di porre le fondamenta per una pacificazione politica, è davvero giunta l’ora”.

 

Il venti gennaio scorso il mondo ha assistito all’insediamento alla Casa bianca di Barak Obama, il primo presidente afroamericano degli Stati uniti. Come valuta questo evento?

 

“Innanzitutto non distinguo le persone in base al colore, ma al loro cervello. Se sei nato in una baracca o in un palazzo poco importa, importa invece se hai cervello o no.

Viviamo in un mondo agitato e quindi spero che Obama abbia capacità di discernere, senso di responsabilità, che sia all’altezza del compito che lo attende, che sappia di circondarsi di collaboratori validi. Sarebbe una presunzione pensare che un uomo da solo possa cambiare il mondo.

C’è una cosa che in tutta questa faccenda mi fa, amaramente, sorridere: in Italia siamo talmente disgustati dalla situazione politica, talmente grande è il nostro desiderio di cambiare che ci siamo ingenuamente attaccati alla speranza che questo uomo rappresenta”

 

Dunque non vede un Obama nella politica italiana?

 

“No, nessuno”.

Obama, alle primarie, ha avuto la Clinton come avversaria. Vede almeno una Hillary nel nostro panorama?

 

“No, nessuna. Le nostre rappresentanti politiche spesso mancano di carisma. E per carisma intendo quello della Gandhi o della stessa Clinton: donne che si lasciano ascoltare. Le nostre, invece, sono sottomesse a se stesse, per questa smania di apparire. Non dico che bisogna rinunciare alla propria femminilità, ma nemmeno esserne schiave. Certo la Finocchiaro e la Bonino hanno un buon carisma, ma sono nettamente in minoranza. Ho conosciuto personalmente Edda Mussolini (ed anche Vittorio e Romano), era una donna intelligentissima, di grande carisma. Nonostante le profonde umiliazioni subite, non ha mai alzato la voce, non ha mai avuto una reazione scomposta.

E ribadisco: vorrei tanto che si riuscisse a raggiungere una pacificazione politica. Tanti errori sono stati commessi, e per quegli errori tante persone hanno pagato, anche a costo della vita, ma è arrivato il momento di lasciare che questa ferita si rimargini una volta per tutte. Bisogna cambiare pagina. E lasciare che la storia faccia il proprio corso”.

 

La prossima primavera a destra dovrebbe prendere vita il Partito del popolo delle libertà. Cosa ne pensa?

 

“Sono contraria alla sua creazione. Non penso sia giusto che An scompaia, un partito che ha radici, che ha una storia, non può essere cancellato con un colpo di spugna. È vero che le ideologie non esistono più, ma le nostre identità sono diverse. Bisogna recuperare il nostro principio ideologico, che non ci impedisce certo di compiere un percorso politico comune. Ma non possiamo essere imbrigliati. Rischieremmo di fare la fine del Pd. Mi auguro dunque un ripensamento”.

 

Si riferisce per caso alla vicenda di Bertinotti e al Prc, scomparso dalla scena politica italiana?

 

“Non proprio, anche se per Bertinotti mi è molto spiaciuto, è una persona che stimo, un signore. Ho sempre creduto che il partito comunista dovesse promuovere leggi che migliorassero le condizioni delle classi meno abbienti, e forse un tempo l’ha fatto. Forse comunismo e cristianesimo predicano le stesse cose. Ma oggi? Non mi spiego più il senso della parola comunismo, specie quando vedo il tenore di vita di certi comunisti. Allora mi chiedo, cosa predicano? Penso a Putin e alla vita da nababbo che conduce. C’è troppa incoerenza. E per tornare al Pd, che funzione ha? Cosa predica Veltroni? Non si può essere ostili e basta, bisogna fare un’opposizione costruttiva”.

 

La prima cosa da fare quale sarebbe?

 

“Cambiare la legge elettorale. Non la condivido assolutamente. I deputati sono nominati, non eletti, i candidati ci sono imposti. Dobbiamo, invece, poter scegliere i nostri parlamentari. Non si può essere governati da una persona sola che decide tutto, altrimenti siamo in una dittatura e non in una democrazia. E gli italiani, invece di borbottare, dovrebbero agire concretamente, perché è una concessione che gli abbiamo dato noi”.

 

A Roma, da diversi anni, si discute se intitolare una strada a Giorgio Almirante. A che punto siamo?

 

“Siamo al punto che non mi importa niente. Almirante non ha bisogno di una strada a Roma per essere ricordato. È molto amato in Italia e anche all’estero, un’altra strada non fa la differenza. L’amore di cui io, immeritatamente, godo ancora oggi è tutto amore che gli italiani rivolgono idealmente a Giorgio”.

 

Chiudendo l’intervista, donna Assunta mi mostra un poderoso libro, che contiene gli scritti e il testamento politico di Almirante4. Sfogliandolo sono catturata dalle parole di una delle tante lettere scritte da Almirante alla sua amata moglie:

 

“Cara Assunta, in questi anni non ho mai smesso di considerarti amica, sorella e anche un po’ mamma. Feci di te qualcosa di più alto che sposa, di un’amante. Tale sei sempre rimasta e rimarrai. (…) Non ho voglia di vivere a lungo (…). Quello che potevo fare di buono l’ho già fatto. Ho seminato fede e speranza per tanti anni. Ho esortato al coraggio e alla pazienza un popolo che se avesse avuto pazienza e coraggio non sarebbe finito così male (…). Vorrei tanto che, quando non ci sarò più, si dicesse di me quello che Dante disse di Virgilio: “Facesti come colui che cammina di notte, e porta lume dietro a sé, e con quel lume non aiuta se stesso. Egli cammina al buio, si apre la strada al buio, ma dietro di sé illumina gli altri”.
3) “Gesù era di destra o di sinistra”, di Milite anonimo, Sapere 2000 edizioni multimediali, Roma, 2006, pp. 142-143.
4) “I miei scritti, il mio testamento politico”, Dino Editore, 1990.

*Dice di sé.
Antonella Parmentola. Subisce, dai tempi del liceo, il fascino delle parole, della loro etimologia, del loro senso originale e della successiva evoluzione. È profondamente convinta che in un mondo in cui tutto è stato già scritto e detto, il come scrivere o dire qualcosa possa ancora fare la differenza.

MARCEL PROUSTSi può quasi dire che, come non c’è conoscenza, così non c’è

gelosia che di noi stessi.

(Da “La prigioniera”, 1923)

 

 

ROBERTO GERVASOSpesso, la gelosia non è che un presentimento.

(Da “Il grillo parlante”, 1983)

 

 

Miguel D'Escoto - Un sacerdote anticonformista alle Nazioni Unite

Personalità morale universalmente riconosciuta, dallo scorso settembre ricopre una delle cariche istituzionali più prestigiose al mondo*

Hanno eletto un sacerdote.

E spero che nessuno si offenda

se dico che l’amore è ciò di cui maggiormente

necessita questo mondo.

E che l’egoismo è ciò che ci ha fatto scivolare

in queste terribili sabbie mobili,

nelle quali il mondo sta affondando,

quasi irreversibilmente,

a meno che non accada qualcosa di grande.

Miguel D’Escoto

 

 

Queste le prime parole pronunciate da Miguel Brockmann D’Escoto in occasione della sua elezione, nel settembre del2008, a presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni unite. Nato a Los Angeles nel 1933, D’Escoto prima di dedicarsi alla carriera politica è ordinato sacerdote per la congregazione cattolica di Maryknoll.

Dopo aver appoggiato pubblicamente in Nicaragua il Fronte sandinista di liberazione nazionale, diviene ministro del governo di Daniel Ortega per ben 11 anni, dal 1979 al 1990. Per questo suo attivismo politico è ammonito, insieme ad altri sacerdoti, da Giovanni Paolo II, mentre Reagan lo indica come personalità da opporre al regime impostosi in Nicaragua. Ma dopo la sconfitta elettorale del 1991, si dimette da capo del Movimento comunale.

Da quel momento la sua carriera politica assume un respiro più internazionale: da più parti è riconosciuto come personalità morale di riferimento, tanto che la sua elezione a presidente dell’Assemblea delle Nazioni unite avviene per acclamazione.

Nell’intervista rilasciata a Paolo Bonolis, durante il Festival di Sanremo, D’Escoto ribadisce temi a lui cari, primo fra tutti l’urgenza di trovare soluzioni concrete a problemi come la pace, i cambiamenti climatici, gli abusi dei diritti umani, il traffico d’armi.

 

Ecco un saluto di grande prestigio da parte di un personaggio che ricopre una delle più alte cariche istituzionali nel mondo, il presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni unite, Miguel Brockmann D’Escoto. Presidente D’Escoto grazie per questo collegamento con il festival di Sanremo. Le propongo subito una curiosità. Il suo Palazzo è di vetro, il vetro è fragile e trasparente. Quanto sono fragili e quanto trasparenti le Nazioni unite, oggi?

 

“Il mondo è in uno stato miserevole e non vogliamo dedicarci a chiacchiere e polemiche inutili, ci concentriamo su grandi cruciali problemi come la pace, la crisi globale alimentare, i cambiamenti climatici, gli abusi dei diritti umani, il traffico d’armi”.

 

Lei, con autorità morale e politica, ha dimostrato capacità di perdono verso chi tentò di assassinarla, verso chi la scomunicò. Qual è il messaggio che oggi vuol mandare al mondo, attraverso il nostro Festival?

 

“Siamo tutti fratelli e sorelle. Il perdono è essenziale, il contrario è la morte”.

 

Quanto è arduo il compito di Obama, nuovo presidente degli Stati uniti?

 

“Dovrà far dimenticare l’impopolarità dell’America, in conseguenza di ciò che hanno fatto i suoi predecessori, per la posizione avuta nelle guerre e nei conflitti economici”.

 

Vuole fare una dedica al nostro Festival?

 

“L’Italia ha un ruolo importante nelle Nazioni unite. E io sono amico degli italiani. A voi, come a tutti, rivolgo un appello per riuscire a ritrovare una strada che porti alla pace e alla serenità, senza privilegi per nessuno, con rispetto verso tutti, non solo per chi ha maggior potere”.

 

 

* Le esternazioni sono tratte dall’intervista andata in onda al “Festival della canzone italiana di Sanremo”, programma di Rai uno, condotto da Paolo Bonolis, nel febbraio del 2009.

CARLO GOLDONIChe cosa avete, signora sorella,

che mi guardate così di mal occhio?

“Eugenia mia, compatitemi; mi fate tanto venir la bile,

che oramai non vi posso più guardar con amore”.

Bella davvero! Che cosa vi ho fatto, che non mi potete vedere?

“Non posso soffrire quella maniera aspra, litigiosa, indiscreta,

con cui solete trattare il signor Fulgenzio. Egli è innamorato di voi

perdutamente (…) e voi non cercate che d’inquietarlo,

e corrispondergli con mala grazia”.

(Da “Gli innamorati”, 1759)

ATTUALITÀ Domenico Mazzullo - Il testamento di Piergiorgio Welby

L’attuale ipotesi di legge sul testamento biologico,  secondo Mina Welby, stravolgerebbe e tradirebbe quelle  che sono le reali istanze di chi la invoca

Domenico Mazzullo*

Morire deve essere
come addormentarsi dopo l’amore,
stanchi, tranquilli
e con quel senso di stupore
che pervade ogni cosa

Piergiorgio Welby

 

Questo è il titolo che ho dato ad un discorso (il termine conferenza sarebbe troppo importante e roboante), tenuto ad alcuni amici riuniti presso i locali storici di un’antica e famosa sezione del Partito repubblicano al Testaccio, in Roma1, e ora sede dell’Alcras, associazione che si ispira agli ideali laici e repubblicani, alle idee di Giuseppe Mazzini e che si prefigge di mantenere viva la memoria del suo pensiero e della sua fede nella triade delle parole magiche: libertà, fratellanza, eguaglianza.

Le parole in corsivo sono di Piergiorgio Welby, la persona che dopo anni di tragica, dolorosissima malattia ha chiesto ripetutamente e strenuamente che fosse lasciato libero di morire, di por fine ad una vita divenuta per lui insopportabile e che per primo ha sollevato nelle nostre coscienze addormentate, il problema di un malato che in piena coscienza, consapevolezza e determinazione chiede di essere lasciato morire, perché questa è la sua precisa volontà.

Tutti ricorderanno, o spero che ricordino il dramma, non più privato, ma divenuto pubblico, di quest’uomo condannato, paralizzato da anni in un letto, attaccato ad un respiratore e che chiedeva solamente di morire. Tutti ricorderanno l’accanimento con il quale gli oppositori a questa precisa libertà di ciascuno, si sono scagliati contro questa ultima sua volontà e libertà.

Tutti ricorderanno la perfidia con la quale i vertici della chiesa cattolica hanno rifiutato a Piergiorgio Welby, che intanto aveva raggiunto finalmente la pace cui agognava, il funerale religioso al quale sua madre così teneva, adducendo come motivo della negazione il fatto che Piergiorgio avesse esplicitamente fatto richiesta di essere lasciato morire in pace, peccando così davanti a Dio e macchiandosi della colpa atroce, di volersi impadronire, ponendole fine, di una vita che invece, secondo loro, non gli apparteneva.

Io ricordo bene l’emozione e la commozione che la sua vicenda ha suscitato in me, lo sdegno e la riprovazione, il ribrezzo che questa negazione da parte della chiesa, di una chiesa che proclama e persegue il perdono, negandolo poi così facilmente, ha evocato nel mio intimo, portandomi alla decisione, il giorno stesso, di chiedere di essere sbattezzato, rifiutando così di appartenere, seppur formalmente, alla chiesa cattolica, incapace di perdonare. Rifiuto facilmente e prontamente da questa accettato, ma con la generosa postilla che se mi fossi pentito e ravveduto, la chiesa magnanimamente sarebbe stata disposta a riaccogliermi nel suo seno.

Ma queste ultime sono vicende private della mia coscienza che a nessuno interessano.

Ciò che invece grandemente interessa tutti, credenti e non, è il fatto innegabile e incontrovertibile, che la vicenda umanissima e dolorosissima di Piergiorgio Welby ha dato lo spunto ed il via ad un processo inarrestabile di pensiero e di azione sul tema di quello che per convenzione viene ormai da tutti chiamato testamento biologico. E proprio il testamento biologico rappresenta il tema di queste pagine.

Chi ci ha seguito su questa rivista, ricorderà che l’argomento è stato già da me in precedenza trattato e quella di oggi non vuol essere una ripetizione di quanto scritto in precedenza, ma diversamente una cronaca, una descrizione in diretta, una occasione per partecipare attraverso ciò che riuscirò a trasmettere, di un’esperienza irripetibile, emozionante e commovente, unica sul piano umano e degli umani sentimenti, come io li ho provati e sofferti, come tutti noi che eravamo lì raccolti li abbiamo vissuti e sofferti, come tutti noi li porteremo sempre nel cuore, impossibili ad essere dimenticati e cancellati dalla nostra coscienza.

Perché ben diverso è parlare teoricamente, asetticamente, comodamente seduti in poltrona, o davanti al televisore di casa o davanti alle telecamere, di testamento biologico e sostenere tesi avverse ed opposte, che ascoltare la cronaca dei fatti, la storia di anni di sofferenze, di dolori e di incomprensioni, ma anche di lotte e di solidarietà, dalla viva voce di Mina Welby, la vedova di Piergiorgio Welby, che ha vissuto vicino a lui per anni, che ha sofferto accanto a lui, che ha assistito al suo coraggio e alla sua disperazione, che lo ha assistito con amore, che in fine ha acconsentito che lo si lasciasse andare, che desse le dimissioni irrevocabili da una vita divenuta insostenibile ed insopportabile, che in ultimo ha dovuto tollerare e sopportare l’ultima offesa rivolta a Piergiorgio, da una chiesa che gli ha negato l’ultimo saluto religioso.

A tutto ciò ho avuto l’occasione, l’onore di partecipare, di assistere, di essere presente, non il piacere, perché in certe esperienze il piacere non è contemplato.

Mina Welby era, infatti, seduta accanto a me, piccola, minuta, apparentemente timida, quasi indifesa, bisognosa di protezione, di considerazione; apparentemente, solo apparentemente, perché quando ha iniziato a parlare, prima di me, la voce si è fatta via via più sicura, più ferma, più tenace nelle sue affermazioni, più coinvolgente ed emozionante, in un silenzio attonito e commosso. Ma non voglio anticipare nulla.

Un primo ed unico contatto con lei c’era stato, tempo addietro per invitarla alla conferenza alla quale aveva assicurato la sua presenza. Mentre emozionato e in ansia attendevo avanti alla porta della sezione il suo arrivo, e mi chiedevo che aspetto avesse, facendo corrispondere alla voce un volto immaginario, una voce modesta, quasi timida, dal tono basso, mi ha raggiunto alle spalle costringendomi a girarmi: “Ecco un volto conosciuto…”. Era lei. Una signora piccola, dai capelli immacolati, ordinati e ben pettinati, di statura modesta e dal modesto abbigliamento, non per povertà, ma per la modesta importanza attribuita all’abbigliamento e all’apparire in generale, che però non trascura il decoro e l’estremo ordine. Un paio di occhiali di foggia antica ed impersonale completava il quadro che immediatamente mi è apparso chiaro ed inconfondibile nella sua caratteristica.

Il volto giovanile e non solcato da rughe; un sorriso decoroso e discreto, non invadente, ma sincero e accattivante, aperto; occhi chiari, molto mobili e vividi, ma nei quali, in fondo ai quali era visibile e percepibile un velo di profonda malinconia, di severa tristezza, ma non rassegnazione. Un cappotto grigio chiaro, mi sembra spigato ed una gonna scura completavano l’abbigliamento.

Come sempre e per una assurda deformazione professionale, automaticamente e inconsapevolmente volsi lo sguardo in basso ad osservare le scarpe, che come immaginavo erano modeste, non alla moda e neppure eleganti, ma visibilmente comode e funzionali, a scarponcino. Ho immediatamente provato verso questa signora conosciuta in quel momento un moto di simpatia, una sensazione di acuta ed intensissima familiarità: mi ricordava tremendamente mia madre.

L’ho accompagnata dentro, scambiando con lei qualche solita parola di circostanza e di ringraziamento per aver accettato il nostro invito e ho faticato sette camicie per convincerla a non sedere tra il pubblico, come voleva, ma al tavolo dei chiamati a parlare, obbligandola ad accomodarsi, come il galateo prescrive, in mezzo, tra me e Benito Garrone il Presidente, promotore ed anima della nostra Associazione, cui la sorte ha dato il compito di fregiarsi di un cognome deamicisiano e di un nome storicamente importante.

Stupendo entrambi, la signora Welby, rompendo gli indugi, ha preso per prima la parola dimostrando subito una tempra ed un carattere a prima vista inimmaginabile.

Ha esordito parlando della legge che è in preparazione, illustrandola e criticandola, ritenendola e sostenendo essere una ipotesi di legge, sul testamento biologico, che stravolgerebbe e tradirebbe quelle che sono le nostre convinzioni ed istanze in tema, catturando, irretendo, affascinando subito l’uditorio; i toni sono saliti, l’emozione e la commozione di tutti noi, il pianto a stento nascosto di alcuni di noi, la partecipazione ha raggiunto il massimo quando dall’impersonale e asettica illustrazione della legge si è inavvertitamente, inconsapevolmente e proditoriamente scivolati nella narrazione degli ultimi anni, degli ultimi mesi, degli ultimi giorni di vita di Piergiorgio Welby, quando Mina strenuamente si opponeva ad un suo divorzio da lei e dalla vita, quando in fine si è dovuta arrendere, rendendosi conto che la vita era divenuta per lui insopportabile, quando ha dovuto e voluto assistere alla sua morte, così desiderata e così strenuamente voluta.

Senza seguire un copione, senza seguire un ordine cronologico, ma spaziando qua e là tra la memoria, le sue emozioni, i suoi dolori e le sue commozioni, Mina ci ha fornito tracce della sua vita con Piergiorgio, spezzoni di un film tragico, ma conclusosi con un lieto fine, se ogni realizzarsi di un desiderio è un lieto fine, anche se drammatico.

Ci ha anche fatto ridere e sorridere, raccontandoci particolari, che espropriati del loro contenuto doloroso, potevano apparire anche comici, ci ha fatto piangere, quando ci ha fatto partecipare, attraverso le sue parole alle atroci sofferenze quotidiane di Piergiorgio, quando ci ha fatto assistere alla sua straordinaria dignità e desiderio di non perderla mai, ci ha fatto sorridere quando ha detto che le sembrava di essere in una “vendita” della Carboneria, così appunto si chiamavano le segretissime riunioni della società segreta risorgimentale e d’altra parte il clima risorgimentale era creato e sostenuto da un ritratto ad olio di Giuseppe Mazzini che ci sovrastava e che guardava corrucciato un analogo, ad olio, ritratto di Giuseppe Garibaldi a lui dirimpettaio, sulla parete opposta forse rimproverandolo ancora aspramente o bonariamente, nonostante gli anni trascorsi per aver regalato il meridione, dopo averlo liberato, agli odiati Savoia, tradendo e distruggendo il suo sogno di una Italia unita, libera e repubblicana. Almeno così io ho sempre pensato guardando i ritratti.

Mina ci ha anche fatto indignare, quando ci ha raccontato del mellifluo, ma perentorio rifiuto, opposto dalla chiesa ai funerali religiosi, comunque da Piergiorgio, laico convinto, non voluti, ma desiderati invece dalla madre di lui, molto religiosa. “Sono contenta, perché Piergiorgio ha ottenuto anche questo”.

Mina ci ha fatto rivivere, attraverso le sue parole sempre serene, sempre moderate, sempre misurate il proprio dramma interiore, di donna e moglie di un uomo che voleva morire, ma che lei si ostinava a convincere a sopravvivere, a continuare a lottare, a continuare a vivere… fino a quando ha dovuto arrendersi, ha dovuto persuadersi che la vita per lui era divenuta veramente insopportabile e ha dovuto, ha voluto, aiutarlo a morire.

Mina ci ha raccontato dei suoi momenti di intimità con Piergiorgio, delle notti insonni, delle ore, soprattutto notturne, trascorse in silenzio, tenendosi per mano. Mina ci ha fatto assistere, raccontandoceli, agli ultimi momenti di vita di Piergiorgio, quando, a decisione presa si trattava di metterla in pratica nel modo migliore e più corretto possibile, quando lo ha rassicurato che sarebbe morto con certezza: “Gli ho promesso che avrei abbassato la spalliera del letto, tenuta sempre sollevata per aiutarlo a respirare meglio”.

Quando Mina ha terminato di parlare, di raccontare… mi son vergognato di dover prendere io la parola. Non c’era più nulla da dire.

 

 

1) Via Aldo Manuzio, 91

 

*Dice di sé.
Domenico Mazzullo. Medico-chirurgo, speta in psichiatria. Psicoterapeuta. Assolutamente laico e quindi profondamente libertario. Romanticamente illuminista.


ROLAND BARTHES
Come geloso, io soffro quattro volte: perché sono geloso, perchémi rimprovero di esserlo, perché temo che la mia gelosia finiscacol ferire l’altro, perché mi lascio soggiogare da una banalità:soffro di essere escluso, di essere aggressivo, di esserepazzo e di essere come tutti gli altri.(Da “Frammenti di un discorso amoroso”, 1979)

 



UMBERTO SABA
Trieste ha una scontrosa grazia. Se piace,è come un ragazzaccio aspro e vorace, con gli occhi azzurri emani troppo grandi per regalare un fiore;come un amore con gelosia.(Da “Trieste e una donna”, 1910-12)
SOCIETÀ Giancarlo Livraghi - La comunicazione e il paradosso dell'abbondanza

La comunicazione può contare oggi su una molteplicità di strumenti come non era mai esistita nella storia dell’umanità. Questa, senza dubbio, è una risorsa, ma anche un problema, perché non abbiamo ancora imparato a usarla

Giancarlo Livraghi*

Questo articolo completa il saggio
sulla difficile arte del comunicare1.
Dopo l’excursus sui mutamenti
che la comunicazione ha subìto nel tempo,
vengono ora prese in esame
le diverse modalità che rendono, oggi, possibile
la divulgazione e diffusione delle informazioni.

 

 

Da circa trent’anni ci stiamo dicendo che siamo entrati “nell’era della comunicazione”2. Devo confessare che c’ero un po’ cascato anch’io. Ma poi è successo che siamo andati a finire in un’era molto diversa da quella che ci aspettavamo.

Non ero, neppure allora, così ingenuo da pensare che una nuova ondata di ispirato illuminismo avrebbe magicamente risolto tutti i problemi delle culture e società umane. Ma leggevo con piacere, e con speranza, affermazioni come questa di Jean-Jacques Servan-Schreiber: “Nell’era post-industriale la “finitezza” di sempre, che ci opprimeva e ci imponeva la sua legge, si infrange. A portata degli uomini si trova finalmente la risorsa infinita, l’unica: l’informazione, la conoscenza, l’intelligenza”.

Era un sogno impossibile, una poetica illusione? No. Era, ed è, una risorsa vera. Ed è, oggi più che mai, “a portata” non di tutti, ma di quella parte dell’umanità che può disporre di adeguate risorse di informazione e di comunicazione (e che un po’ per volta sta crescendo, malgrado gli ostacoli, le repressioni e le gravi aree di privazione).

Parlare di “post industriale” era, ed è, pericolosamente impreciso. Nessuna civiltà moderna può sopravvivere senza industria – e sarebbe molto penoso per noi ritornare a quelle situazioni pre-industriali che sono molto lontane dall’essere così idilliache come le dipinge qualche arcadica nostalgia.

È ovvio che senza agricoltura non possiamo sopravvivere, perché sono ormai poche le parti del pianeta in cui si può vivere di ciò che cresce spontaneamente sugli alberi o nei prati – ma di questo un po’ troppo spesso tendiamo a dimenticarci, fino a quando si scatenano scarsità, carestie, inquinamenti e altri disastri che sarebbe stato facile prevenire se non fossimo caduti nell’illusione di un’infinita e inesauribile abbondanza.

Nessuno di questi problemi si può risolvere usando solo la comunicazione. Nel predominio delle apparenze, dove ciò che non vediamo ci sembra inesistente, possiamo illuderci che un problema non esista o non ci riguardi (o, al contrario, allarmarci esageratamente per qualcosa che è troppo enfatizzato). Ma il mondo reale esiste – ed è in quello che dobbiamo vivere.

Dove c’è sete o fame, malattia o privazione, occorre portare materialmente acqua e cibo, medici e medicine, eccetera. Ma la comunicazione è essenziale in ogni caso, per capire dove e quando ci sono le esigenze e come è opportuno cercare di provvedere.

C’è ancora un abisso fra le risorse di cui disponiamo (o di cui potremmo disporre se funzionassero meglio) e la nostra capacità di usarle efficacemente. Quali sono le cause del marasma in cui ci troviamo, del mancato (finora) avvento di un’autentica “era della comunicazione”? Lo vedremo alla fine. Prima osserviamo brevemente la situazione per alcuni dei modi di comunicare.

 

Il passaparola

 

Nel gran chiacchierare sulle nuove, o mutanti, risorse di oggi tendiamo a dimenticare lo strumento più antico: il passaparola. Non solo più che mai presente e attivo, ma anche moltiplicato dagli strumenti di comunicazione che scavalcano più facilmente le distanze3.

Non ho mai capito bene come facessero, duemila o duecento anni fa, a “passare parola” non solo nelle chiacchiere del villaggio, ma a distanze che ci sembrano impercorribili a piedi o a dorso di cavallo o di cammello. Correvano leggende e fantasie, favole e panzane, insieme a notizie vere e informazioni interessanti. E non è facile capire perché fossero così simili, nonostante le differenze di pensiero e di lingua, in culture che apparentemente non comunicavano fra loro.

Lasciamo ai progressi (spesso interessanti) dell’antropologia il compito di spiegare come e perché sia stato così fin dai tempi della preistoria. E vediamo che cosa succede nella situazione di oggi.

Nulla è cambiato, nella sostanza. Abbiamo oggi, come sempre, un inestricabile intrico di notizie utili e di sciocchi pettegolezzi, di pensiero interessante e di banali ripetizioni. Le “leggende metropolitane” sono una delle tante forme di stupidità, che continuano a moltiplicarsi non solo nelle infinite maniere del passaparola, ma anche in ogni genere di comunicazione, comprese quelle che sembrano “fonti autorevoli”, ma troppo spesso sono citate senza verificare la loro attendibilità.

Quella che è cambiata è la dimensione. Può sembrare un problema, ma se impariamo a capirla è una risorsa. Per il semplice fatto che possiamo comunicare facilmente, e in tempi brevi, con qualcuno che vive molto lontano dal nostro solito vicinato (o magari è a due passi da casa nostra, ma non avevamo avuto l’occasione di conoscerlo) abbiamo infinite e crescenti possibilità di vedere le cose in una prospettiva diversa.

L’arte di usare meglio il “passaparola” è una di quelle che non finiremo mai di imparare.

 

Le cose per scrivere

 

Può sembrare un dettaglio, ma anche gli strumenti più semplici sono cambiati e stanno cambiando. Fino al diciottesimo secolo si scriveva con la penna d’oca. Ancora nel 1966, nelle scuole elementari, erano d’obbligo pennino e calamaio. A tutt’oggi, nelle università più tecnologiche del mondo, si scrive con il gesso sulla lavagna.

La matita, come la conosciamo oggi, è stata inventata nel 1762, la penna stilografica nel 1884, la penna a sfera nel 1938 e poi si sono moltiplicati i pennarelli (fino alle bombole spray degli autori di “graffiti”, che in rari casi possono essere davvero opere d’arte, ma in generale, nonostante le pretese di chi li vuole giustificare, sono solo abominevole sporcizia).

Nella seconda metà del diciannovesimo secolo le prime macchine dattilografiche. Dagli anni ottanta del ventesimo i personal computer4. Oggi ci raccontano che spariranno le tastiere, che si farà tutto a voce o toccando uno schermo, che un sensore sul cranio trasformerà il pensiero direttamente in testo, suono o immagine.

Speriamo di no. La perdita di controllo sugli strumenti può solo degradare la qualità del risultato. E un pensiero inespresso si può tradurre in chissà quali assurdità passando attraverso i criteri interpretativi immaginati da qualche tecnico nel suo più o meno bizzarro linguaggio.

Già oggi le macchine (ovvero le discutibili opinioni di chi le progetta) tentano di prendere il sopravvento, condizionando la nostra capacità di esprimerci. Il progresso, in forme tecniche che probabilmente nessuno ancora immagina, sta nell’aumentare il controllo umano sui meccanismi – non viceversa.

Stiamo disimparando a scrivere, o addirittura a parlare? Qualche problema c’è. Una mia esperienza personale, per esempio, è che, avendo cominciato da ragazzino a scrivere a macchina, la mia calligrafia è diventata illeggibile (come quegli sgorbi nelle ricette dei medici che solo i farmacisti sanno interpretare). Ammiro chi non è caduto in quella trappola e sa ancora scrivere in “bella grafia”.

Quanto all’uso della parola… stiamo attenti, perché gerghi e manierismi non sono soltanto banali – e spesso stucchevoli – ma rischiano di compromettere la nostra capacità di esprimerci e di capire. Varrebbe la pena di scrivere un articolo dedicato a questo argomento. Chissà, forse un giorno o l’altro lo farò5.

I libri

 

Che fosse papiro o pergamena, inciso nella pietra o nel coccio, su tavolette di cera o su scorze d’albero, dipinto sulla tela o sulle pareti, arrotolato o a fogli stesi, piegato o rilegato… il libro è una risorsa essenziale delle culture umane da almeno cinquemila anni. E la sua identità è quella che ha assunto cinquecento anni fa, per opera di tecnici come Johann Gutenberg, ma ancora di più di umanisti come Aldo Manuzio.

Non voglio ripetere qui quello che ho scritto nel primo di questi due articoli, ma non è il caso di dimenticare che se Gutenberg avesse continuato a fare l’orafo, e Manuzio non si fosse mai occupato di editoria, nel giro di pochi anni ci sarebbe stata la stessa evoluzione, perché l’esigenza era forte, le risorse tecniche erano disponibili, e con lo sviluppo dell’umanesimo c’era un’esigenza che in qualche modo doveva essere soddisfatta. Lo stesso ragionamento si applica a tecnologie più antiche e più recenti, comprese quelle che nessuno ha ancora inventato.

Alcuni anni fa si temeva l’estinzione fisica dei libri, perché si era scoperto che (mentre i libri antichi, stampati su carta di stracci, durano nei secoli) la carta più recente era fragile e si pensava che si sarebbe irrimediabilmente sgretolata in polvere. Per fortuna l’allarme era eccessivo. Pochi libri, finora, hanno subito quella sorte – e comunque la qualità della carta, dopo una fase di decadenza, sembra ritornata a essere più affidabile.

Si teme, al contrario, che le tecnologie elettroniche, con i loro affannati e confusi cambiamenti, rendano progressivamente irreperibili testi e documenti conservati su supporti non più funzionanti o non più accessibili. L’allarme è probabilmente esagerato, ma il problema esiste – ed è davvero possibile che in qualche caso la carta stampata sia l’unica fonte recuperabile.

Insomma il libro c’è. E, nonostante i piagnistei, continua a crescere e a moltiplicarsi. (Mi piace sapere che quello che sto scrivendo sarà pubblicato in una rivista che ha la forma e la struttura di un libro).

Le confuse chiacchiere e i frettolosi esperimenti sul “libro elettronico” hanno prodotto disastri. Milioni di cd che intasano le pattumiere o sono appesi sui davanzali per allontanare i piccioni.

Certo, ci sono i libri in rete, dalle utili edizioni elettroniche dei classici ai testi che autori moderni rendono liberamente disponibili (fra i tanti ci sono anch’io). Dalle molteplici risorse di print on demand alle infinite possibilità di scambio – compresi gli utili servizi che permettono di trovare libri usati o comunque non più in distribuzione. Ma un libro è un libro – anche quando qualcuno se lo stampa in casa o in ufficio o sceglie la scomoda soluzione di leggerlo su un monitor.

Due cose sono in crisi: l’editoria e la distribuzione libraria.

Con l’elettronica è diventato facile, e poco costoso, stampare un libro, anche in poche copie. I diritti d’autore (salvo il caso di “famosi” che ottengono sostanziosi anticipi) si pagano sulle copie vendute. Si risparmia sui costi di redazione e impaginazione (e i risultati, ahimè, si vedono). Con mille copie si raggiunge il “pareggio”. E c’è anche il caso, più diffuso di quanto si immagini, di edizioni sovvenzionate dall’autore o da qualcun altro che ha interesse a far uscire un libro.

Così si pubblicano valanghe di titoli scelti senza cura e poi abbandonati al loro destino. Se, per caso, uno va, copre il costo degli altri. Quasi tutti hanno vita breve. In un anno o due – o anche in pochi mesi – spariscono dalle librerie e le copie restanti vanno al macero. Per far posto a qualche altrettanto effimera presunta novità.

Insomma gli editori (specialmente quelli grandi) sono in estinzione. Qualche nome rimane, all’interno di una grossa aggregazione, ma è solo un’etichetta nel catalogo di un librificio di massa – un mostro che divora i suoi figli con la stessa distratta velocità con cui li mette al mondo.

Così nascono e muoiono testi che non meritavano di essere stampati. Ma il vortice travolge ciecamente anche opere degne di un migliore destino. Per non parlare di quelle che forse esistono, ma difficilmente potremo leggere, perché sono state rifiutate da un editore troppo indaffarato a pubblicare qualche affrettato e squallido instant book su qualche argomento di moda – o l’ennesimo manuale su come coltivare i bulbi di tulipano.

Si piange, giustamente, sull’estinzione delle librerie. Sostituite da supermercati ciecamente enormi, in cui non solo non c’è presenza umana in grado di consigliare i lettori, ma è difficile trovare un libro anche quando si sa esattamente che cosa si sta cercando.

Un’eccezione, in questo marasma, è la vendita dei libri nelle edicole. C’è di tutto, comprese collezioni di scarsa qualità. Ma ci sono anche i “classici” e altri libri ben curati e pubblicati. Curiosamente questo canale di distribuzione non ha aumentato né diminuito la frequentazione delle librerie. E (per quanto possa essere disdegnato da chi preferisce scegliere negli scaffali di un libraio) ha messo nelle case milioni di libri, che presto o tardi qualcuno può aver voglia di leggere.

Anche la vendita online, che in Italia ha avuto uno sviluppo tardivo e debole rispetto alle grandi risorse internazionali, sta cominciando ad affermarsi. E quando è bene organizzata (ci sono ancora spazi rilevanti di miglioramento) è uno strumento valido e pratico per chi ha un’idea abbastanza chiara di che cosa sta cercando.

In questa evoluzione disordinata e confusa, stiamo andando verso l’estinzione dell’editoria e delle librerie? Forse no. L’epidemia è grave, ma non è detto che sia una malattia terminale.

Ci sono coraggiosi centri di resistenza. Ci sono editori, e ci sono librai, che continuano a fare bene il loro mestiere. E, nonostante le difficoltà, nuovi continuano a nascere. Diffido sempre un po’ delle statistiche, ma c’è qualcosa di vero in alcuni dati recentemente pubblicati. Pare che nel 2008 siano nati, in Italia, 197 nuovi editori e che le vendite di libri siano aumentate del venti per cento.

Insomma la partita è ancora aperta. Non si tratta di una Fenice che debba rinascere dalle sue ceneri, ma di un mondo di qualità e di attenzione che oggi sembra emarginato, ma non è stato, finora, distrutto da un irrimediabile incendio.

Ci vuole amore. Ostinata, vitale passione per i libri e per ciò che ci possono offrire. Più che gli autori contano i lettori. Più persone ci sono capaci di scegliere un buon libro, più quelli che ci sono potranno sopravvivere e più stimolo ci sarà, per chi è capace di farlo, a scrivere e pubblicare qualcosa di nuovo che meriti di essere letto.

In Italia, dicono tutti, si legge poco. Purtroppo è vero, ma non sembra che la situazione stia peggiorando. Se osserviamo i comportamenti dei più forti utilizzatori di nuove risorse, come l’internet, vediamo che sono le stesse persone che leggono più libri.

Le donne leggono più degli uomini. Non solo narrativa. Un sintomo e uno strumento della riscossa femminile.

Anche in questo senso, la partita è aperta. E anche questo è un problema che non si risolve in pochi anni. Le famiglie, la scuola, la cultura, tutti i sistemi di comunicazione dovrebbero impegnarsi meglio per diffondere la percezione di quanto un libro può essere utile. Per imparare, per sapere, per capire. O anche solo per divertirsi.

 

Giornali e riviste

 

Suonano da vent’anni le campane a morto sull’estinzione della carta stampata. Certo, giornali e riviste hanno sempre più concorrenza. Ma se qualcuno preferisce leggere un giornale in rete anziché comprarlo in edicola sta sempre leggendo un giornale.

La carta sarà sostituita da qualcos’altro? Chi lo sa. Lo si diceva dieci anni fa e una risposta chiara fu data da Jeff Bezos (fondatore e presidente di “Amazon”, la più grande libreria online) in un’intervista del 2000. “Se un giorno ci sarà un nuovo supporto che si può piegare, arrotolare, mettere in tasca, ritagliare, conservare o buttare nel cestino, insomma se sarà comodo come la carta, di qualunque materiale sia fatto in pratica sarà carta”.

Certo, oggi possiamo mettere migliaia di pagine di testo in un aggeggio portatile e leggere su uno schermo. Ma è molto meno comodo e pratico. Nulla, almeno per ora, ci fa pensare che la carta sia in estinzione. Se un giorno qualcos’altro sostituirà la carta, come ottocento anni fa la carta ha cominciato a sostituire il papiro e la pergamena, un libro sarà un libro e un giornale sarà un giornale.

Si temeva, una quindicina di anni fa, la morte del giornalismo. Altra profezia sballata – o infondata paura. Certo, è scomodo rinunciare a un privilegio. Chi scrive sul giornale ha il controllo, non solo di ciò che afferma, ma anche di come lo propone. Può parlare con i potenti, che lo ascoltano perché lo temono o perché cercano di essere favoriti. Il lettore sta nel gregge e si deve accontentare di quello che gli somministrano. (Oggi si tratta della televisione più spesso che della stampa, ma la gerarchia dei poteri è la stessa).

Con l’internet i ruoli sono cambiati. Ciò che un lettore attento poteva fare solo leggendo molti giornali e libri diversi, o passando giornate in biblioteca, oggi è molto più facile. Questo è un rischio per il cattivo giornalismo (che tuttavia continua ad avere fin troppo spazio), ma non per chi ha la vera capacità di dare testimonianza diretta o di essere un valido mediatore culturale. Anche in una situazione in cui tutti hanno parità di voce (cosa che in realtà accade raramente) chi conosce meglio un argomento e lo sa meglio spiegare ha comunque un meritato vantaggio.

I rischi non sono provocati da lettori meglio informati (o almeno capaci, se vogliono, di esserlo). I guai nascono da una degenerazione dell’editoria (in modo, in parte, diverso da quella dei libri). Da un’esagerata, e crescente, concentrazione in poche mani della proprietà di troppe testate. E dalle diffuse facilonerie del giornalismo di maniera. Che sia su carta stampata, per radio, in televisione o in rete, il problema è sostanzialmente lo stesso.

Continua a essere importante, insostituibile, il lavoro dei pochi e bravi che vanno a vedere di persona (talvolta rischiando la vita) o che si impegnano a fondo nell’analisi e nella verifica delle fonti. Un buon articolo, che spiega in modo semplice un problema complicato, può essere il frutto di anni di studio e di esperienza.

Il problema, anche in questo caso, sta nella qualità dei contenuti. Ci sono troppe concentrazioni, troppe situazioni di non sufficiente indipendenza. Troppa leggerezza nel pubblicare qualche “velina” o la distratta ripetizione di qualche luogo comune.

C’è soprattutto una mostruosa omogeneizzazione. La più futile delle notizie può diventare, a livello planetario, “il fatto del giorno”. La più bizzarra delle panzane può fare il giro del mondo prima che qualcuno si accorga che è un’idiozia. Mentre fatti davvero importanti sono ignorati – o relegati in poche righe a pagina quarantotto dove solo un occhio molto addestrato riesce a scoprirle.

La sbadata moltiplicazione delle testate non risolve il problema. Spesso affidate a qualche outsourcing a basso costo, o raffazzonate scopiazzando alla carlona, nascono e muoiono come le mosche senza lasciare alcuna traccia se non un po’ di confusione in più.

Se qualcuno immagina che le mie osservazioni, su questo come su altri argomenti, siano “nostalgia del passato”, vorrei spiegare che non è così. Un topo di biblioteca come me, che da ragazzo ha fatto anche il bibliografo di mestiere, non può non sapere che la fuffa c’è sempre stata. Ci sono, in tutte le epoche dell’editoria, ponderose opere elegantemente rilegate che non hanno alcuna utilità se non nell’arredamento degli scaffali.

C’è un’osservazione di Honoré de Balzac citata, non a caso, da un brillante giornalista, Alberto Cavallari: “Se la stampa non ci fosse, bisognerebbe soprattutto non inventarla. Il giornalismo è un inferno, un abisso d’iniquità, di menzogne, di tradimenti, che non possiamo attraversare, e dal quale non possiamo uscire puliti”.

Ci sono sempre stati contrasti, dubbi e polemiche È bene che la stampa, come ogni attività culturale, sia in grado di discutere anche su se stessa. I problemi ci sono, ma non si risolvono con i piagnistei.

La paura può essere peggio della realtà. I giornali non stanno morendo e non è moribondo il giornalismo. Né si tratta di reinventare un mestiere che ha secoli di storia. In parte opportunistica e squallida, come ci raccontava Orson Welles in un famoso film del 19416. Ma anche ricca di autentico valore culturale.

Si tratta di farlo bene, con impegno, con cura, con appassionata qualità e con la voglia di correre qualche rischio per uscire dalla prigione dei manierismi e dei luoghi comuni.

Non è facile. Ma ce n’è molto bisogno. Un pezzo importante della nostra civiltà dipende da giornalisti bravi, attenti, curiosi e coraggiosi – e da editori e direttori che sappiano trovarli e incoraggiarli.

 

Il cinema

 

Dicevano che il cinema avrebbe fatto morire il teatro. Era una scemenza – e infatti non è vero. Poi si è pensato che la televisione avrebbe ucciso il cinema. Altra panzana. Il cinema ha compiuto 114 anni e non dà alcun segno di vecchiaia.

(C’è una cosa che la televisione ha fatto sparire: il cinegiornale. Ma il cinema ha cento altre vite, compresa forse qualcuna che non è ancora stata inventata).

Verrà un giorno in cui saranno quasi dovunque grandi schermi al plasma, o qualcos’altro che li sostituirà, e il cinema si vedrà un po’ dappertutto, nelle piazze o nelle case, in sale diverse da quelle di oggi, che comunque sono già cambiate rispetto non molti anni fa? Chissà. Può darsi. O forse si evolverà in modi oggi imprevisti. Ma il cinema è il cinema, non cambia se sono diversi i proiettori, gli ambienti o gli arredamenti delle sale.

Da cinquant’anni vediamo i film in televisione, da trenta registrati in una videocassetta (ora un dvd) – e possiamo anche vederli sul monitor di un computer (cosa che personalmente trovo scomoda, ma ognuno fa come gli pare). “Andare al cinema” però è un’esperienza diversa. Nulla nelle prospettive oggi immaginabili ci dice che sia destinata a sparire.

I fratelli Lumière pensavano che le sale di proiezione si sarebbero chiuse quando la gente avrebbe smesso di stupirsi delle immagini in movimento. Era probabilmente vero che se il cinema fosse rimasto solo quello si sarebbe ridotto a qualche padiglione nelle fiere, fra una giostra e un tiro a segno.

Ma si è presto capito che il cinema poteva fare altre cose. Raccontare storie. Documentare eventi o luoghi poco conosciuti. Nacquero presto anche gli “effetti speciali”, come nei film fantastici di Georges Méliès – e poi in capolavori come “Metropolis” di Fritz Lang. Straordinari se si pensa alla limitatezza tecnica delle risorse di allora.

E con una fertile fantasia che oggi, un po’ troppo spesso, manca nell’uso banalizzato delle produzioni in elettronica.

Perché vale la pena di ricordare questa storia? Perché, oggi come allora, le tecnologie sono solo strumenti. La qualità dipende dalle capacità umane di autori, sceneggiatori, registi, attori, operatori, musicisti, eccetera – senza dimenticare l’indispensabile ruolo di un montaggio intelligente e di un’attenta segreteria di produzione. E questo vale, ovviamente, per ogni forma di comunicazione e di spettacolo.

Che cosa direbbero Eschilo, o Aristofane, o Shakespeare, o Molière, se vedessero le macchine di oggi? Non lo so. Ma immagino che, dopo un iniziale stupore, si metterebbe di lena a scoprire che cosa può fare con questi nuovi arnesi.

 

La radio

 

Dicevano che la televisione avrebbe fatto morire la radio. Un altro pezzo da mettere nel pittoresco museo delle previsioni sballate (che continuerà ad arricchirsi, man mano che se ne producono di nuove).

Che si ascolti su un apparecchio statico, con una cuffia mentre si va a spasso, in automobile, con un computer o con un telefono cellulare, la radio è la radio, com’era quando ha sconvolto e trasformato il mondo della comunicazione più di ottant’anni fa.

Un fatto un po’ dimenticato è che la radio si era sviluppata, già in tempi che oggi sembrano remoti, non solo comebroadcasting a senso unico, ma anche come dialogo personale, nelle reti tuttora esistenti dei “radioamatori” come nella navigazione marina e aerea e nel sistema CB (citizen band) particolarmente usato nelle comunità dei camionisti (con il loro pittoresco linguaggio di cui esistono divertenti vocabolari).

La cosiddetta comunicazione peer to peer (riassunta in P2P – una della miriade di sigle che servono più che altro a confonderci le idee) esisteva molto prima che nascessero le reti elettroniche.

C’è una tecnologia che, a causa della comunicazione diretta per radio, è praticamente estinta: l’alfabeto Morse. Un po’ è un peccato. Perché un metodo semplice di trasmissione a punti e linee si può usare in mille modi – non serve solo ai carcerati per mandarsi segnali da una cella a un’altra.

Non solo la radio è viva e vitale, ma in alcuni usi è insostituibile. E ha ancora interessanti possibilità di evoluzione.

La si può ascoltare in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, anche dove non c’è corrente elettrica (esistono radio a manovella che non hanno bisogno neppure di una pila). Ha una velocità di informazione che nessun altro strumento può pienamente raggiungere (neppure la telefonia mobile, perché basta una pila scarica o una mancanza di “copertura” per renderla inservibile).

Non è un caso che bravi professionisti della televisione si siano formati nella radio. E anche chi non ha cominciato da lì considera interessante la sfida di quell’esperienza. La radio non è la “sorella povera”. È la mamma – e ha ancora molto da insegnare. Alla sua veneranda età non dà alcun segno di vecchiaia. Ha lo spirito e la vivacità di una ragazzina, che sta ancora cercando di capire che cosa farà da grande.

È cominciato, ma non è compiuto, il processo di diversificazione e specializzazione delle emittenti radiofoniche. Non è facile capire quanto si possa evolvere nella musica, dove si fa sentire la concorrenza dell’internet e delle antologie personali. Ma un fatto è chiaro: non siamo ancora arrivati a una situazione in cui ci siano emittenti davvero selettive per genere e gusti musicali.

C’è un ovvio spazio di sviluppo nell’informazione, che può e dovrebbe essere meglio “segmentata” per genere di notizie e per orientamento di metodo e di opinione.

La radio (qualunque sia lo strumento con cui la si ascolta) è anche “unica nel suo genere” come presenza di compagnia. Molti la ascoltano non solo quando stanno guidando un’automobile, ma anche mentre lavorano.

C’è anche chi (specialmente, ma non solo, mentre si occupa di faccende domestiche) lascia accesa la televisione e la ascolta senza guardarla. Cioè in quel momento, nonostante uno schermo inutilizzato, è una radio.

 

La televisione

 

Due cose sono di moda. Una è parlar male della televisione. L’altra è credere che tutto cambierà per motivi tecnici. Satellite, digitale, “alta definizione” – e non so che cos’altro qualcuno metterà in pista domani.

Sono sbagliate tutte e due. Se una trasmissione ci annoia, o ci dà fastidio, il problema non è “la televisione”. È come è pensato e realizzato quel programma. Ma purtroppo non è vero che “basta cambiare canale”. Benché l’offerta oggi sia abbondante, anche andando in giro con il telecomando troviamo spesso la stessa zuppa. E a questo non si rimedia con le tecnologie.

Il problema è l’abitudine. Il pubblico (specialmente quando è misurato con i “grandi numeri” su cui si concentra la contesa per l’audience) è abituato alla televisione così com’è e si aspetta che quella sia. Come è stato per secoli con l’opera dei pupi, o nella commedia dell’arte, oggi siamo doppiamente prigionieri – da due punti di vista. Chi fatica a fabbricare un’altra marionetta al posto di Orlando paladino, o inventare un’altra maschera al posto di Pulcinella. E il pubblico che quello si aspetta, malvolentieri accetta di dover imparare a capire nuovi scenari e nuovi contenuti.

Questo è un problema di tutta la comunicazione. C’è una generale “omogeneizzazione” di cui è difficile liberarsi. Da vent’anni ci stiamo dicendo che la televisione “generalista” dev’essere sostituita da qualcos’altro. Questo sarebbe un vantaggio non solo per gli spettatori e per le emittenti, ma anche per chi fa pubblicità e potrebbe raggiungere il pubblico più interessante con più selettività, meno spreco e meno affollamento. (Questo problema c’è anche con gli altri mezzi, ma è più evidente e ingombrante nel caso della televisione).

Dirlo è facile. Farlo, molto meno. Si tratta di reinventare un mestiere. Di rompere le abitudini e dare spazio alle “esigenze inespresse” del pubblico. Di ristrutturare gli strumenti di misura, troppo grossolani e troppo orientati genericamente ai “grandi numeri”.

Il problema è quello della gatta frettolosa. Nessuna di queste soluzioni può essere istantanea. Ci vuole tempo, pazienza, impegno per trovare nuove strade. Ci vogliono anni perché cambino gli orientamenti degli spettatori. Ci vuole sperimentazione e verifica.

La televisione è nata quando c’erano pochi canali (in Italia, all’inizio, uno solo). È ancora tutto da imparare il modo di farla quando possono essere centinaia. Insomma la televisione ha quasi sessant’anni, ma come la più anziana radio deve ripensarsi adolescente, reinventare la sua identità.

Se conoscessi la formula magica per fare nuova televisione, ci sarebbe una coda alla mia porta di ambasciatori carichi di ricchi doni. Ma in realtà non c’è alcuna miracolistica panacea. Ci sono molte cose da imparare, un passo per volta.

Come diceva Antonio Machado “la strada si fa nell’andare”. Non credo nei miracoli improvvisi, né al “nuovo assoluto”. È più probabile che in insieme di nuove idee e di maturata esperienza possa produrre i campi di sperimentazione che, imparando lungo il percorso, porteranno ai necessari cambiamenti.

Auguri a chi ci riuscirà. Forse diventerà ricco e famoso, forse no se qualcuno ruberà le sue idee. Ma si divertirà molto. E divertirà anche noi, umili spettatori, che nonostante la prigione delle abitudini, che non ci aiuta a scegliere (e nonostante il malcelato disprezzo con cui molti ci trattano) abbiamo, alla fine dei giochi, il potere di decidere che cosa ci interessa e che cosa no.

In questa, come in tutte cose, il primo passo è liberarci di una vecchia e sciocca banalità. “Il pubblico è un ragazzino scemo di undici anni”. A parte il fatto che ci sono ragazzini di undici anni tutt’altro che scemi, devo malvolentieri ammettere che ragionando in quel modo si possono ottenere risultati. Ma l’esperienza insegna che si possono ottenere risultati molto migliori facendo il contrario, cioè rispettando e stimolando l’intelligenza del pubblico. La fiducia è un valore che cresce nel tempo. Si può perdere facilmente se la si tradisce. Ma, quando c’è, è una risorsa preziosa.

Il problema è che la stupidità si diffonde e si moltiplica con la cieca invadenza di un virus contagioso, mentre l’intelligenza richiede disciplina, metodo, immaginazione, armonia di collaborazione e ostinato impegno.

La strada della stupidità è facile. È in discesa. Ma in quale abisso dovremo precipitare per capire che stiamo sprofondando?

Salire è più difficile e impegnativo. Ma non è affatto vero che per offrire contenuti di valore e stimoli interessanti si debba essere noiosi.

Chi saprà rompere (ovviamente non solo in televisione) il circolo vizioso della stupidità non solo passerà alla storia come benefattore dell’umanità, ma avrà anche esperienze stimolanti che sono negate a chi rimane sommerso nella palude dell’abitudine7.

 

La cellulite

 

All’inizio non era una malattia. Ho un piacevole ricordo della confortante utilità dei primi impianti, quelli che pesavano chili, si tenevano nel baule dell’automobile con un’antenna sul tetto. A quell’epoca mi guardavano come un marziano perché ero riuscito a installare uno di quegli arnesi su una barca a vela e mi collegavo anche a decine di miglia dalla costa. Cosa che allora sembrava impossibile.

La telefonia mobile fu inventata nel 1947, ma i primi “cellulari” nacquero nel 1979 e furono messi in commercio nel 1983. Dieci anni più tardi cominciò una crescita più veloce, che ebbe una forte accelerazione fra il 1997 e il 1999, particolarmente in Italia. Il numero di telefoni cellulari ha superato quello delle linee “residenziali” nel 1998 e il totale delle linee “fisse” nel 2000. La curva di crescita ora si sta assestando, perché ci si è avvicinata a una soglia di “saturazione”8.

Ma siamo malati di cellulite. I telefoni diventano sempre più complicati e stracarichi di funzioni che poco o nulla hanno a che fare con la loro fondamentale utilità. L’invadenza è insopportabile, la schiavitù è opprimente, le difese ci portano a diventare irreperibili.

Per non parlare degli orripilanti sistemi di risposta automatica di tanti servizi pubblici e privati che rendono la più semplice richiesta un faticoso e snervante labirinto.

Sarebbe ora di invertire il percorso. Riportare il telefono a fare più semplicemente il suo lavoro. Installare o attivare altre funzioni solo per chi, e quando, le vuole. Impostare i servizi dal punto di vista delle persone che li chiedono e non di chi pensa solo a complicarli, per suoi motivi promozionali o per stupida incompetenza tecnica.

Questo è uno degli esempi più vistosi (ma non è certo l’unico) di un necessario e risoluto cambiamento di gerarchia. Le macchine e i sistemi al servizio delle persone. Mai viceversa.

 

L’internet

 

Se vogliamo giocare agli anniversari, possiamo dire che nel 2009 l’internet compie quarant’anni. Fra le varie presumibili date di nascita, la più ragionevole è la costituzione nel 1969, negli Stati Uniti, del gruppo di lavoro ArpaNet – e la definizione del primo “protocollo” inter-rete, che poi, nel 1978, è diventato “internet”.

Oppure potremmo festeggiare i vent’anni del sistema world wide web, che non è la stessa cosa (anche se non è sbagliata, in pratica, l’attuale abitudine di considerare “internet” e “web” come sinonimi). Un concetto su cui anche altri stavano lavorando, ma prese il sopravvento la soluzione impostata da Tim Berners-Lee, al Cern di Ginevra, nel 1989.

Quando nel 1980 si parlava di “era della comunicazione”, quasi nessuno si era accorto che stavano entrando in gioco due risorse di cui non si percepiva il potenziale di diffusione. Il personal computer e l’internet. Tutte e due c’erano, ma neppure attenti studiosi ne tenevano conto. È interessante che si parlasse di “era della comunicazione” anche senza sapere che nuovi strumenti avrebbero aumentato la potenzialità della “risorsa infinita”.

Come la stampa cinquecento anni prima, anche la rete era “nell’aria”. Un’evoluzione che non molti avevano intuito, ma era inevitabile, fin da quando era nato il telegrafo nel 1844, il telefono nel 1877 e gli elaboratori elettronici nel 1939 (pensati inizialmente come macchine da calcolo, ma già nell’Ottocento si era capito che sistemi di quel genere potevano servire per altri usi)9.

L’idea era chiara parecchi anni prima che se ne trovasse l’applicazione tecnica. Nel 1945 Vannevar Bush, in un articolo sull’ “Atlantic monthly”, aveva definito il concetto di un sistema capace di costituire una rete mondiale di condivisione della conoscenza.

Non è infondata l’opinione di chi sostiene che ipotesi dello stesso genere fossero state pensate da Lady Lovelace, cioè Ada Byron, figlia del poeta, nel 1843, sulla base di sistemi di calcolo ancora meccanici, ma già capaci di livelli di elaborazione molto elevati rispetto alle macchine precedenti.

Come nel caso della stampa, del telefono e di altre invenzioni, “i tempi erano maturi” per la nascita di un sistema come l’internet. Se non fosse stato realizzato dal Network working group negli Stati Uniti, si sarebbe arrivati a qualcosa di molto simile in base ai progetti che si stavano sviluppando, nello stesso periodo, in Gran Bretagna e in altri paesi europei.

Diversi sistemi di rete, e con diverse tecnologie, erano già sviluppati, anche su scala internazionale, all’inizio degli anni ottanta, prima che l’internet cominciasse a diventare utilizzabile fuori dal ristretto ambito universitario in cui era nata.

Quasi tutta l’opinione pubblica, e anche gran parte della cultura meglio informata, rimasero ignare di questi sviluppi fino a quando, a metà degli anni novanta, i collegamenti alla rete divennero largamente disponibili. Da allora si è detto e scritto di tutto e il contrario di tutto. Questo è uno degli argomenti più confusamente discussi e distorti, fra insensate paure ed esagerati miracolismi10.

Potremmo dirci che se la rete, come fenomeno diffuso, ha circa quindici anni, è un’adolescente in cerca di identità. Ma questo serve solo a confonderci le idee. Non è vero che tutto stia cambiando vorticosamente e che ci dobbiamo reinventare ogni sei mesi. Come dico e scrivo fin dai tempi delle origini, la rete non è fatta di macchine, connessioni e protocolli. È fatta di persone.

È ora di smetterla con le mitologie e con le disquisizioni tecniche. E di imparare a capire la rete per quello che è: un utile strumento nella personale cassetta degli attrezzi che ognuno di noi organizza secondo le sue esigenze. Per comunicare, per informarci, magari anche per divertimento, sempre e solo come ci serve – senza mai permettere che qualcuno o qualcosa tenti di incanalarci dove non abbiamo alcuna intenzione di andare.

Troppe sirene cercano di confonderci. Giriamo al largo dalle loro trappole e andiamo dove ci porta la voglia e la curiosità. Il resto o è inutile o è pericoloso.

 

L’ambiguità dell’innovazione

 

Uno dei problemi, nel capire e gestire la molteplicità delle risorse, è l’ambiguo e distorto concetto di “innovazione”. Più se ne parla, meno si capisce che cosa sia. Il marasma è particolarmente evidente in alcuni settori, come le telecomunicazioni e l’elettronica, ma c’è anche in ogni genere di altre applicazioni.

La materia è complessa, ma il criterio di base si può riassumere in due semplici concetti.

La ricerca scientifica e la sperimentazione “pura” devono essere completamente libere. Troppo spesso non lo sono. Non si tratta solo del fatto fondamentale che la conoscenza è un valore in sé, ma anche delle infinite, e in molti casi verificate in pratica, soluzioni concrete che derivano da ricerche non mirate a quello scopo.

Le applicazioni tecniche, invece, sono inutili, spesso dannose, se non sono concepite e realizzate in base a specifiche esigenze e tagliate su misura al servizio delle persone che le usano. Molti problemi di cui stiamo soffrendo derivano da malpensati marchingegni concepiti dal narcisistico compiacimento di un tecnico o dal maniacale egoismo di chi vuol vendere qualcosa di falsamente nuovo rendendo inservibili metodi o strumenti ben funzionanti e solidamente collaudati.

Il “nuovo” fine a se stesso è una favola anche quando non è un imbroglio. Il vero progresso nasce da sviluppi più consapevoli ed equilibrati.

 

Il potere dell’oscurantismo

 

Non è il caso di ripetere qui ciò che ho scritto in un testo pubblicato nel numero 7 (luglio 2008) di l’attimo fuggente11. Mi limito a ricordare che non solo l’oscurantismo non è sconfitto, ma continua a imperversare, anche con repressiva e feroce violenza, in molte parti del mondo. E non ne sono immuni neppure quelle culture che si considerano più libere, consapevoli, civili, moderne e progredite.

Dobbiamo riscoprire i valori dell’illuminismo. Senza sperare che la dea Ragione possa miracolosamente infonderci certezze. Il progresso della conoscenza è fatto soprattutto di dubbi. Come diceva Voltaire “il dubbio è scomodo, ma la certezza è ridicola”.

 

Lo smarrimento della conoscenza

 

Gli sviluppi della scienza sono sconcertanti. Più si va avanti e più si capisce che moltissimo resta ancora da scoprire. Ma intanto abbiamo già imparato molte cose che ci lasciano sbigottiti, perché mettono in crisi quelle che per millenni erano sembrate indiscutibili certezze.

Ma è inutile cercare rifugio nell’ignoranza. Il vaso di Pandora è irrimediabilmente aperto. Prometeo ha definitivamente tolto agli dei (o alle segrete confraternite di iniziati) il privilegio della conoscenza. E siamo solo agli inizi di uno sviluppo che (se nel frattempo non avremo scatenato qualche forza esageratamente distruttiva) ci porterà a scoperte che di nuovo cambieranno, non possiamo prevedere come, le prospettive del conoscere.

Copernico, che ai suoi tempi scandalizzava i benpensanti, oggi sarebbe sbigottito. Il suo universo andava poco oltre l’orbita di Saturno. Non poteva immaginare che il sistema solare fosse uno di miliardi nella galassia che è una fra miliardi di galassie.

E non è meno sconvolgente l’esplorazione dell’infinitamente piccolo, dove stiamo immaginando un numero crescente e confuso di “particelle”, di “onde”, di “forze” e di altri fattori di interrelazione perché non siamo ancora riusciti a capire quali siano, e come siano definibili, gli elementi di base del sistema.

È altrettanto radicale il cambiamento prodotto da Darwin e da altri che hanno definito la teoria dell’evoluzione. Uno sviluppo ancora in corso, che cambia profondamente il significato della vita e dell’umanità, rispetto alle apparentemente presuntuose, ma in realtà umilianti, concezioni che ci collocano come creature privilegiate al centro dell’universo.

La percezione che oggi abbiamo è sconvolgente, ma non ha motivo di farci paura. John Updike lo spiega così. “L’astronomia è ciò che abbiamo ora invece della teologia. Meno terrore, ma nessun conforto”.

Ha ragione. Sono molto più terrorizzanti le percezioni che ci hanno afflitto per millenni, di un’umanità preda delle bizzarrie di dèi onnipotenti e capricciosi, di un perverso e immutabile destino, di forze demoniache, di streghe e stregoni, maghi e fattucchiere. La conoscenza è rischiosa, ma non è mefistofelica. È molto più dannosa l’ignoranza.

L’universo in cui viviamo non è quello dei quadri di Hieronymus Bosch. È la sconcertante bellezza di ciò che ci mostrano i telescopi o le microfotografie delle strutture viventi. Affascinante, ma ancora difficile da capire.

Il problema della scienza è che sta facendo enormi progressi in modo sempre più spetico. Quella che ci manca è una visione di insieme, una filosofia nutrita di scambi “interdisciplinari”, insomma un nuovo Epicuro o un nuovo Lucrezio che ci sappia spiegare qual è, alla luce delle conoscenze di oggi, “la natura delle cose”. Non solo con rigore scientifico, ma anche con qualche slancio di umanità e di poesia.

Se questo sembra un discorso astratto, o troppo teorico, può essere il caso di pensarci un po’ meglio. Quella fusione di filosofia e poesia, di scienza e arte, di tecniche e mestieri, che ha prodotto lo splendore del Rinascimento, è ancora più necessaria oggi per avere una visione culturale, e applicazioni concrete, che nessuna specializzazione, per quanto raffinata, può ottenere separandosi dal resto della conoscenza.

Abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo. Non è così difficile come può sembrare. Ma occorre che ognuno di noi, nelle grandi imprese come nelle cose piccole di ogni giorno, sappia guardare oltre i limiti delle sue prospettive abituali. Con inguaribile e inesauribile curiosità. Che si tratti di soddisfare con inaspettata semplicità l’urgente ed enorme esigenza delle energie rinnovabili o di assaggiare una polvere da pittura e inventare il risotto alla milanese.

 

L’abominevole impero della finanza

 

Qual è il mostro che ha divorato le nostre speranze, che ha preso il sopravvento mettendo in ombra e in crisi gli sperati lumi della nascente “era della comunicazione”? Sono tanti, di cui alcuni noti e prevedibili, altri che si nascondevano in oscure, ma estese, tenebre culturali di cui avevamo sottovalutato la presenza. Ma ce n’è uno in particolare che ha effetti devastanti. E non solo per la “crisi” di cui si sta parlando in questo periodo. È la finanza speculativa.

Non si tratta di aggiungere qualche dispersa goccia alla travolgente marea di inchiostro (e di chiacchiere) su questo argomento. Ma c’è un fatto chiaro di cui quasi nessuno sta parlando. Il problema era ben identificabile quasi trent’anni fa. Non è una coincidenza casuale che si tratti, anche da questo punto di vista, degli anni ottanta.

La finanza selvaggia, speculativa, avventuriera, c’è sempre stata. Ma qualcosa è cambiato all’inizio del penultimo decennio del secolo scorso. Quella che prima, anche se diffusa, era considerata un’anomalia divenne la regola. Trionfante e trionfale, lodata e ammirata, venerata come un nuovo culto mistico.

Non ho alcuna competenza specifica in finanza e amministrazione (ma forse, proprio per questo, ci vedo un po’ più chiaro di chi complica le cose fino a renderle incomprensibili). Era molto evidente, anche a un profano, che intorno alla metà degli anni ’80 era cominciato un grosso cambiamento non solo nel funzionamento del mercato azionario, ma in generale nel concetto di impresa12.

L’economia reale andava in eclissi. La speculazione sembrava poter produrre, all’infinito, ricchezza sempre crescente, senza alcun rapporto con beni concreti o servizi utili. Un immenso castello di carte, senza fondamenta né struttura, cresceva sempre più alto e sempre più rischioso. Era evidente che, in un modo o in un altro, sarebbe crollato.

Il problema è che la frana travolge non solo cartacce sventolanti e aliti irreali di denaro immaginario, ma fa crollare anche le mura del mondo reale. Sotto le macerie c’è l’intera economia di tutto il pianeta. E, ancora peggio, la sofferenza umana di chi perde il lavoro, la casa, la qualità della vita o le speranze per sé e per la sua famiglia.

Le bolle si gonfiarono e si sgonfiarono (una particolarmente evidente alla fine del secolo scorso). Era un sussulto che un buon sismologo avrebbe potuto individuare come prodromo di un devastate terremoto. Ma di quei segnali non si tenne alcun conto.

Alcuni casi vennero alla luce (qualcuno anche in Italia). Portarono a fallimenti e condanne penali. Ma si preferì fingere che fossero casi isolati, mentre erano solo piccole punte di un immenso e fragilissimo iceberg. Non è facile capire quanto fosse il cinismo di après nous le déluge (certo molti sono scappati con la cassa – o hanno nascosto soldi veri in qualche “paradiso fiscale” dove sarà difficile andare a riprenderli). O quanto sia, semplicemente, maniacale stupidità. Ma non per questo perdonabile.

Ci vorranno alcuni anni per capire se avremo imparato la lezione o se, passata la buriana, ricadremo nella stessa trappola o in una diversa, ma altrettanto catastrofica. Se non saremo capaci di usare senza troppa miopia almeno il “senno di poi”, sarà un trionfo ancora più perverso del potere della stupidità umana13.

 

E domani?

 

Non ho alcuna intenzione di azzardare profezie. Potrei anche divertirmi a farlo – perché, come dice Scott Adams: “Prevedere il futuro è un ottimo modo per essere un autore di successo. Quando si scoprirà che le mie previsioni sono sbagliate sarò morto”14. Ma ci sono già troppi profeti, che sbagliano con tracotante supponenza (non è facile capire quanto lo facciano per arroganza e quanto per favorire interessi loro o altrui – occulti o fin troppo palesi). Mi convince di più la sintetica osservazione di Niels Bohr: “Prevedere è difficile, specialmente il futuro”.

Ma ciò non vuol dire che dobbiamo avventurarci nel buio senza neppure la lanterna di Diogene. Una cosa mi sembra chiara: siamo in una fase di turbolenza. Ovviamente ce n’è sempre stata, anche in quei periodi delle vicende umane che a distanza di secoli o millenni ci sembrano statici e quasi omogenei. Le lezioni della storia sono sempre utili. Ma è il tempestoso mare di oggi quello in cui dobbiamo trovare una bussola e tracciare una rotta.

È una pericolosa illusione credere che abbiamo imparato a governare i nuovi strumenti di cui disponiamo. Non solo sono fenomeni ancora in evoluzione, ma pochi decenni non bastano per aver imparato come si fa. Questo è un problema per chi va cercando false certezze o si illude di avere capacità profetiche. Ma da un altro punto di vista può essere un’avventura stimolante.

L’arte della comunicazione sta nell’esplorare le risorse, scegliere quelle che meglio corrispondono alle nostre esigenze, cercare e inventare percorsi, insomma “farsi una rete su misura” come dicevo in un mio libro di quasi dieci anni fa15. 14 Non solo nell’internet, ma in tutti i sistemi di comunicazione.

Plutarco diceva: “se sai ascoltare, impari anche da chi parla male”. Chissà che cosa direbbe oggi. Ma, in ogni caso, comunicare bene vuol dire soprattutto saper ascoltare. Non si tratta di “leggere fra le righe”, ma di capire quanto possiamo imparare non solo dalle notizie e osservazioni più stimolanti, ma a che dal contesto in cui si collocano le cose apparentemente più inutili e sciocche.

Non c’è umanità senza comunicazione. E nessuno, mai, può illudersi di aver imparato abbastanza. Il desiderio di imparare, cercare, esplorare, scoprire è la caratteristica più interessante della nostra specie. Se perdessimo quella qualità non avremmo più il diritto di chiamarci umani.

1) “L’arte di comunicare, così antica, così nuova”, “L’attimo fuggente” n. 9, dicembre 2008.

2) Ci sono tanti testi sull’argomento. Ma tre libri, in particolare, mi avevano indotto a parecchi ragionamenti – e qualche speranza. Due pubblicati nel 1980, “The third wave” di Alvin Toffler e “Le défi mondial” di Jean-Jacques Servan-Schreiber. Uno nel 1982, “Megatrends” di John Naisbitt. Oltre agli studi del “Club di Roma” (Aurelio Peccei) che nel 1980 avevano aperto orizzonti di allarmante perplessità, ma anche di possibile progresso, poi un po’ troppo distrattamente dimenticati dalla cultura dominante.

3) Vedi “Il passaparola” in gandalf.it/storia/storia01.htm – è il primo capitolo di “Cenni di storia dei sistemi di informazione e comunicazione”, un esteso documento che riguarda anche la stampa, i mezzi audiovisivi e i sistemi elettronici.

4) Il primo prototipo di personal computer è del 1968, ma la diffusione è cominciata dieci anni più tardi. Pochi ricordano che i primi sistemi di scrittura elettronica derivavano dalla dattilografia, non dai calcolatori. Se lo sviluppo fosse continuato su quella strada forse avremmo tecnologie più efficienti e meno pasticciate. Ma l’esperienza dimostra (come il caso della telefonia mobile) che la tendenza alla complicazione è enorme, perciò siamo costretti ad attraversare la bufera perversa delle complicazioni inutili e invasive prima di approdare (chissà quando) in un più sereno porto di ragionevole efficienza.

5) C’è un accenno a questo problema in un breve testo che avevo pubblicato nove anni fa “Il generale Biperio e il flop del wap” (agosto 2000) gandalf.it/net/biperio.htm – e ci sono alcune osservazioni su un aspetto particolare, la confusione degli inglesismi, in “Ambiguità di alcune parole inglesi” gandalf.it/ambigui.pdf

6) Il titolo del film era “Citizen Kane” (in italiano “Quarto potere”). Vedi gandalf.it/offline/ kane.htm

7) Vedi “Il circolo vizioso della stupidità” capitolo 18 di “Il potere della stupidità” online gandalf.it/stupid/

8) Una sintesi dell’evoluzione della telefonia si trova nel decimo capitolo della già citata storia dei sistemi di comunicazione gandalf.it/storia/storia10.htm

9) Ci sono esempi più antichi. Non è esattamente vero che nel periodo ellenistico ci fossero i computer, ma recenti studi archeologici hanno trovato macchine meccaniche di notevole raffinatezza, che non servivano solo per “fare i conti”, ma anche per elaborazioni tecniche, studi astronomici e filosofici. Di quegli strumenti si sono perse le tracce per millecinquecento anni, fino a quando nel diciassettesimo secolo, e più industrialmente nel diciannovesimo, si è ricominciato a progettare macchine da calcolo capaci di gestire crescenti complessità. Vedi Il computer di Archimede gandalf.it/arianna/olimpia.htm e la cronologia in gandalf.it/uman/crono.htm

10) Una serie di analisi sullo sviluppo della rete in Italia e nel mondo si trova online gandalf.it/dati/

11) “Il potere dell’oscurantismo”, capitolo 23 di Il potere della stupidità. Si trova anche online gandalf.it/stupid/cap23.htm

12) Ci sono documenti precisi, di quell’epoca, che offrono chiare diagnosi sulla natura dell’infezione che è poi diventata epidemia. Per esempio un libro pubblicato nel 1990: “Barbarians at the gate” di Bryan Burrough e John Helyar. Descrive con minuziosa precisione uno dei più clamorosi episodi di “conquista” di una grande impresa con la manipolazione di denaro immaginario. È stato ristampato molte volte, anche recentemente – e ne è stato ricavato un film. Ma era e rimane ignorato dall’opinione dominante, insieme ad altre testimonianze dello stesso genere. Intanto i barbari hanno varcato tranquillamente il cancello, senza trovare resistenza – e si sono sontuosamente installati nelle stanze del potere. Fermarli allora non sarebbe stato difficile. Scacciarli ora è una battaglia molto più impegnativa. E, come stiamo tardivamente constatando, il costo è enormemente alto – non solo in termini di denaro, ma anche (e soprattutto) di sofferenza umana e sociale. C’è anche una domanda preoccupante: se saranno davvero scacciati dal palazzo i furfanti e i giocolieri, gli indovini e i negromanti, dove si troverà qualcuno che sia in grado di governare l’economia, quando quasi tutti l’hanno disimparato?

13) Vedi “Il (dis)senno di poi” gandalf.it/stupid/dissenno.htm

14) Scott Adams “The Dilbert Future – Thriving on Business Stupidity in the 21st Century” (1997) pagina 4. Non è un trattato sulla stupidità, né una “profezia” sul ventunesimo secolo, ma è un’acuta e ironica analisi della degenerazione strutturale e culturale delle imprese (che, negli anni seguenti, ha continuato a peggiorare).

15) Capitolo 1 di “L’umanità dell’internet – le vie della rete sono infinite”. Online gandalf.it/uman/01.htm

*Dice di sé.
Giancarlo Livraghi. Se avesse mille vite, farebbe mille mestieri. È curioso di tutto, ma al centro della sua attenzione ci sono sempre la comunicazione e la cultura umana. Afflitto da inguaribile e impenitente bibliofilia, ha anche scritto alcuni libri (il suo preferito è “Il potere della stupidità”). Il suo sito online èhttp://gandalf.it 

OSCAR WILDE

Le donne brutte sono sempre gelose dei loro mariti. Le donne

belle non ne hanno il tempo. Sono sempre troppo impegnate

ad essere gelose dei mariti altrui.

(Da “Una donna senza importanza”, 1893)

 

AMARCORD Ottavio Rossani Il dinamismo onnivoro di Gianni Brera

Avvertiva la necessità di essere considerato il numero uno,  di provocare sorpresa e meraviglia, e di alimentare il mito del giornalista estroso e più preparato sul piano teorico e pratico

Ottavio Rossani*

“Lo scudetto del Cagliari rappresentò il vero ingresso
della Sardegna in Italia. Fu l’evento che sancì
l’inserimento definitivo della Sardegna nel costume italico”.
Gianni Brera

Ho conosciuto Gianni Brera un po’ tardi. Nel 1977. Ero arrivato a Milano nel 1962 per fare l’università. Ma avevo cominciato subito a lavorare per i giornali. Facevo il giornalista “abusivo”, come si diceva allora. Fino al 1968 sono stato collaboratore del quotidiano “L’Italia”, che allora era il giornale della curia milanese. Poi, nel 1968 la testa si fuse con l’ “Avvenire d’Italia” di Bologna, e da quelle ceneri è sorto “Avvenire”, l’attuale organo della Cei (Conferenza episcopale italiana). Sono quindi passato da una testata all’altra in attesa di essere “assunto” in modo regolare, cosa avvenuta nel 1970. Così sono entrato al “Corriere della sera” L’allora direttore Giovanni Spadolini mi destinò al “Corriere d’informazione”, dove sono rimasto fino al 1979, finché cioè Franco Di Bella non mi chiamò al “Corriere della sera”.

Nell’arco di quei due decenni, Sessanta e Settanta, Gianni Brera era un nume del giornalismo sportivo, ma anche un giornalista a tutto tondo, che collaborava a diverse testate. Non riuscivo a seguirlo, ovviamente, in tutte le sue evoluzioni. Ma ero abbastanza informato su di lui, sulla sua scrittura, su come aveva influenzato il linguaggio del giornalismo italiano con quel suo modo di scrivere che io allora definivo “ibrido”, e che oggi, con eleganza critica, ritengo si debba definire “contaminatorio”.

In altre parole, aveva creato il “brerese”, che altro non era se non una formidabile miscela esplosiva, fatta di italiano, dialetto pavese, ma soprattutto lombardo, con tutta una serie di arredi linguistici tratti da francese, spagnolo, inglese e perfino tedesco. Per non parlare del fatto che in ogni Paese in cui si recava per le cronache di calcio (ma all’inizio le sue cronache scintillanti sull’atletica sono state vere frustate, che avevano scrostato la conformità e piattezza del giornalismo sportivo ancorché fosse già il vero giornalismo popolare italiano) attingeva a piene mani alle lingue locali per rafforzare (spesso con le necessarie traduzioni o spiegazioni degli innesti) l’arazzo delle sue pirotecniche sceneggiature.

Sapeva fare delle cronache puntigliose e appropriate di ogni evento di cui si occupava, ma nello stesso tempo ogni volta dava una lezione di stile e di inventiva giornalistica a tutti. Tanto che spesso appariva un po’ “bauscia”, come si dice a Milano. Leggendario ormai il suo contrasto con Gino Palumbo, scrittore compìto e razionale del calcio e della realtà. Contrasto su tutti i piani: della scrittura, della concezione del giornalismo, della militanza e del tifo per una squadra (anche se in fondo Brera teneva al Genoa in modo tutto sommato inspiegabile). Insomma, a un certo punto sono arrivati perfino alle mani in tribuna stampa e fu Brera a mollare un uppercut micidiale contro Palombo che, nonostante fosse napoletano, non reagì e se ne andò con un aplomb invidiabile, di assoluta eleganza.

Ma la loro “inimicizia” è rimasta per sempre, perché opposte e nemiche erano le loro concezioni del calcio giocato e, di conseguenza, anche del modo di scrivere il calcio. Comunque, il merito professionale di Gianni Brera era chiaro a tutti, al di là delle contingenze quotidiane, che lo portavano a gesti e prese di posizioni plateali per quella sua necessità assoluta di essere il numero uno, colui che poteva provocare sorpresa e meraviglia, e che doveva alimentare il mito del giornalista estroso e più preparato, sul piano teorico e pratico (aveva praticato il calcio nelle giovanili del Milan e con rammarico era stato costretto ad abbandonare una carriera sportiva che si profilava molto interessante).

Ha scritto al proposito Bruno Pizzul: “A dispetto delle apparenze, Gianni non era un vanaglorioso. Gli piaceva, sì, raccontare a tavola o nei celebri “Arcimatto” (la rubrica che ha tenuto a lungo sul “Guerin sportivo”, di cui è stato anche direttore, dopo la “Gazzetta dello sport”, N.d.A.) l’antico suo mondo paesano ai margini del Po, le fatiche per assicurarsi il lesso, le strizze e il paracadute, i furgoni e le imprese da partigiano, ma lo faceva senza andare sopra le righe, spesso dando l’impressione di non prendersi troppo sul serio, per quanto drammatici fossero gli eventi. Rimase invece sempre fiero della personale crociata, come direttore della Gazzetta, di bandire dal calcio italiano l’imperante e deleterio WM.

Passò per eretico bestemmiatore, affossatore dello spettacolo, becero difensivista. Rispose naturalmente per le rime, circondato dai pochi fidi pretoriani che s’era scelto. Fu un periodo fecondo per il giornalismo sportivo italiano: di pallone si cominciò a parlare in modo serio, non più da fini scrittori che non conoscevano il calcio né da vecchi pallonai che non ne sapevano scrivere”.

Bene, lasciamo alla volontà di conoscere del lettore, l’approfondimento della biografia di Brera. Su di lui sono stati scritti una miriade di libri. Cito solo il più recente: “Gianni Brera: un artigiano dello scrivere”1, che raccoglie una buona parte degli atti del convegno che si è tenuto nel novembre 2008 presso la biblioteca Sormani di Milano. Oltre a testimonianze di colleghi, c’è un ricordo “familiare” del Brera giornalista proposto dal figlio Paolo, che ora cura la ripubblicazione di tutta l’opera del padre, un corpus imponente di articoli, ma anche di romanzi e saggi, il più noto dei quali è “La storia critica del calcio italiano”. Tra i romanzi, il più noto è “Il corpo della ragassa”.

Torno quindi al mio primo incontro con lui, che non è stato facile, anche se la sua disponibilità è stata totale. Non è stato facile perché pensavo di non essere preparato ad affrontare un personaggio così forte, così sanguigno, così prorompente, almeno per come l’avevo conosciuto dai giornali e dalla televisione. Sì, la televisione: proprio in quel 1977 aveva cominciato una collaborazione alla “Domenica sportiva”, la storica trasmissione di Rai uno. E proprio per questa novità ero stato incaricato di intervistarlo. Così, nel giro di due giorni, cercai di sopperire – per così dire – alle lacune di conoscenza nei suoi confronti, leggendo la sua storia del calcio.

Per farla breve, un giorno Piero Dardanello, giornalista sportivo di grande efficacia, responsabile dei servizi sportivi del “Corriere d’informazione”, amico e allievo di Brera, di cui era anche uno dei pochi pupilli, mi chiamò e mi chiese: “Te la senti di intervistare Gianni Brera su questa sua nuova esperienza in televisione?”. Ovviamente risposi di sì entusiasta. La domanda però era stata quanto mai giusta e appropriata. Sapevamo entrambi, infatti, che “Gioanbrerafucarlo” non era un tipo semplice.

Disponibile sì, ma esigente. Sapevamo entrambi che se uno non gli andava a genio poteva scorticarlo vivo, soprattutto in pubblico. E non per cattiveria, ma solo perché non sopportava che qualcuno potesse essergli antipatico o potesse non essere all’altezza della situazione, sia per cultura sia per ignavia. Insomma, un incontro poteva risolversi in allegria o in un disastro. Dipendeva anche dal suo umore, dal rapporto “a pelle” e dalla capacità di chi lo avvicinava di suscitare in qualche modo la sua attenzione. Lui non aveva tempo da perdere e non lo mandava certo a dire. Mandava al diavolo l’importuno e buona notte. La domanda di Piero Dardanello voleva dire, in altre parole: sei in grado di presentarti nel modo adeguato, preparato, e nel caso di tenergli testa? Il mio sì aveva voluto rispondere a queste domande inespresse.

La mia non era arroganza, ma desiderio di fare qualcosa di diverso. Entusiasmo di avvicinare un maestro di giornalismo che, se anche non aveva su di me influenza diretta, mi appariva comunque un’opportunità da non perdere. E certo, il rischio di farmi liquidare con freddezza e con un certo spregio per la mia dabbenaggine, c’era. Come c’era quando si approcciavano a lui calciatori, allenatori, atleti. Anche se in realtà nella maggior parte dei casi era lui che andava a sollecitare quegli interlocutori che lo interessavano per la sua professionalità. Ma a ricordare bene quei tempi, molti presidenti di società di calcio (spesso presuntuosi e beceri) avevano un sano timore di essere sbeffeggiati da Brera. E ricordo un tumultuoso battibecco in tv tra Brera e il calciatore Bettega (che proprio Brera aveva battezzatocabeza blanca, riportando l’appellativo dai giornali sudamericani in occasione di una trasferta della nazionale italiana), proprio per il modo irriverente di Brera di affrontare qualsiasi tipo di argomento.

Già da anni Brera aveva ingaggiato la sua personale guerra contro “napule”, come chiamava Gino Palumbo. E sapevo che qualche battuta pepata sui meridionali ogni tanto gli scappava. Anche se una volta a chi gliene chiedeva ragione, disse: “a chi mi dice che sono razzista, rispondo che è un imbecille. Ma se gli italiani non sono una razza, come si può essere razzisti?”. Una risposta che, come si vede, eludeva il problema, tentando di ridicolizzare l’intervistatore.

Di sé diceva: sono di sinistra, ma sota radicale (infatti, si è presentato per due volte candidato nel Psi, ma non è stato eletto; nei suoi comizi diceva tutto ciò che poteva nuocergli); sono lombardo e me ne vanto. A chi lo accusava di essere “leghista” opponeva un chiaro spostamento di prospettiva, sostenendo “non sono leghista, ma lombardo”.

Tuttavia è lui che ha inventato la parola “Padania”. Ed è indubbio che la Lega di Bossi da lui ha copiato. Anche se Brera non è mai stato ideologo di un ipotetico stato chiamato “Padania”. Insomma, aveva la capacità di trovare l’escamotage della parola sempre spiazzante per chi tentava in qualche modo di metterlo in un angolo. E di ring se ne intendeva perché aveva anche tirato un po’ di boxe. E a proposito della lunga guerra con Palumbo, si è detto che proprio a causa di Palumbo egli non ha mai potuto andare al “Corriere della sera”. Cosa non vera, secondo la testimonianza di Pilade Del Buono (vedi il libro su citato), perché in realtà c’era stato un momento in cui Michele Mottola, caporedattore del “Corriere della sera”, nel 1962, è stato molto incerto se proporre al direttore Alfio Russo come responsabile dello sport Brera o Palumbo. E alla fine scelse quest’ultimo.

Brera comunque è stato un combattente, ma non stupido. Il contrasto con Palumbo sul piano della teoria pedatoria (egli sosteneva il difensivismo, perché pensava che i calciatori italiani non fossero dotati fisicamente come tedeschi e inglesi, mentre Palumbo era per un gioco offensivo e artistico, come era stato fin’allora nella tradizione italiana, con alti e bassi, ma con due titoli mondiali ai tempi di Pozzo, 1934 e 1938), ma in un certo senso anche sullo stile di vita (Brera esuberante, Palumbo contenuto), non è mai arrivato alla meschinità. Non so se è vero, ma gira questo racconto: quando Brera si dimise dalla seconda direzione della “Gazzetta dello sport”, i proprietari gli chiesero di indicare chi potesse essere il suo successore. Egli suggerì proprio Palumbo. Al direttore generale che a quel punto gli chiese di restare come collaboratore della testata, egli avrebbe risposto: “Ho consigliato Palumbo come direttore, ma non come mio direttore”.

E se ne andò senza sapere su quale giornale avrebbe pubblicato i suoi articoli. L’aneddoto in ogni caso è dimostrativo del fatto che Brera fosse una specie particolare di “bastian contrario”, ma anche molto generoso.

Torniamo quindi al 1977. Dalla seconda settimana di settembre Brera era ospite commentatore della “Domenica sportiva”. Dopo due apparizioni, fioccavano le polemiche. Parlava in tv come scriveva sui giornali, “senza rete”, cioè senza la cautela che si richiedeva allora nel mezzo televisivo. Nel breve volgere di pochi giorni Brera era diventato una notizia (già superata, peraltro) ma soprattutto un fenomeno di cultura e di costume, che non si sapeva ancora dove sarebbe approdato.

Andai a fare l’intervista a casa sua, nell’appartamento di via Cesariano. E già dall’incipit, appena mi aprì la porta, nel primo pomeriggio di un giorno ombroso, come viene a Milano talvolta a settembre, capii che quell’ora che mi avrebbe dedicato (“e non un minuto di più”, aveva detto perentorio al telefono) sarebbe stata un fuoco d’artificio. Esordì, infatti, con una specie di urlo soffocato, diretto verso una porta aperta nel soggiorno: “O moglie, ecco qui un collega giornalista! Perché non ci porti un caffè?”. Ma poi dopo il caffè tirò fuori lui stesso una bottiglia di whisky. Ecco il mio primo approccio con il “figlio legittimo del Po”.

Avevo letto qualche suo passaggio autobiografico e quell’aggettivo “legittimo” aveva colpito la mia immaginazione. Legittimo perché? C’erano molti altri figli “illegittimi”? O lo erano tutti gli altri? Oppure “legittimo” significava che solo lui aveva la legittimità di parlare del Po, della pianura padana, della Lombardia, del Nord d’Italia, perché aveva le competenze giuste, che affondavano nella storia, nella memoria e nelle scazzottate in riva al Po di San Zenone? Ma in quel salone inondato di luce dalla via Cesariano dimenticai tutti questi pensieri e mi concentrai sull’evento: mi trovavo davanti al “gran lombardo” che aveva inventato una nuova lingua per lo sport e per la vita. (Mutuo questo omaggio da Emilio Gadda – come del resto hanno fatto altri –, scrittore per il quale effettivamente Brera aveva una venerazione, anche se non l’ostentava, dal momento che era stato paragonato a lui per le sue arditezze linguistiche, che gli avevano permesso oltre che scrivere in modo innovativo articoli e romanzi, di appioppare epiteti a chiunque). Fu sufficiente la prima domanda e poi tutto scivolò via come un fiume, come il Po quando è in buona, acqua abbondante e nessun danno. Ed ecco l’articolo che pubblicai sul “Corriere d’informazione” il 24 settembre 1977.

“Un’intervista a Gianni Brera perché da due settimane con le sue battute mordaci intrattiene gli aficionados della “Domenica sportiva” sulle vicende del campionato di calcio. I suoi “eroi del gol” nascono e muoiono in un minuto. Nella prima puntata, sbattuto in bretelle davanti alla telecamera (“Non me ne importa niente, ma da parte loro è stato un po’ di cattivo gusto. La giacca me l’ero portata: bastava che mi dicessero “andiamo in onda” e l’avrei messa”) ha coniato seduta stante l’appellativo che, scommettiamo, seguirà la promettente carriera di Virdis, il “duemiliardi” juventino giunto fresco nell’isola di Gigiriva. Gli sportivi hanno appreso da Brera che d’ora in poi Virdis si chiamerà “Massinissa”. Perché poi? È semplice: “Perché il ricciuto mi ricorda i Numidi”.

Tempo fa avevo letto che Gianni Brera ambiva al ruolo di presentatore della “Domenica sportiva”. Ambizione legittima che la Rai ha sempre snobbato. Ora invece è lì, con quella barbetta biancheggiante, col suo pancione che beatamente esibisce, col suo sorriso che illanguidisce la sempiterna pipa e ha già cominciato a far innervosire qualche telespettatore. È così, gli chiedo timidamente.

Scriva”, mi ordina. Di solito parla a ruota libera, non gliene frega niente che il collega prenda appunti, purché poi l‘articolo non dica il contrario di quel che lui rocambolescamente gli ha rovesciato addosso.

”Giuro che non ho mai avuto questa ambizione. Però, quando vent’anni fa sentivo deformare la critica sportiva da colleghi che non avevano il coraggio di dire la verità (e come fa ad avere il coraggio, se la Tv gli dà da mangiare!?”) mi sentivo offeso dalla loro palese ignoranza della tecnica, dalle lacune dell’informazione, dalla distorsione dei fatti”.

Insomma, davanti al video è il suo posto ormai. Giusto?

“Sono andato lì con 20 anni di ritardo. Ma è meglio così. Perché posso dire quello che voglio. Parlo come viene. Non mi devo preparare. Perciò può scapparmi una battuta, una parola, un discorso che non va bene ai dirigenti tivù e allora possono cacciarmi. E per me sarebbe meglio, perché ci guadagnerei. Capito? Solo chi ha già da mangiare può essere libero. Come facevano i miei colleghi televisivi, che con quel lavoro dovevano sopravvivere, a dire tutto quello che doveva essere detto? Io invece oggi sono ricco e me ne infischio! Ricco nel senso che posso lavarmi tutti i giorni con l’acqua calda , perché io sono nato povero…”.

Fisso la barba che si muove al ritmo della sua verve, la bocca che butta parole come espulse da un vulcano. Brera comincia a parlare e continua seguendo il suo filo, nessuna interruzione può condizionarlo, gestisce tutto lui nell’incontro, argomenti, velocità.

“… I miei genitori erano poveri. Perciò potevo lavarmi solo due volte l’anno, a Natale e a Pasqua. Famiglia povera in uno dei paesi più ricchi d’Italia, dove la giustizia sociale è rimasta quasi intatta, cioè com’era prima, cioè ingiustizia…”.

Guarda verso la finestra e sbircia giù nella strada, dove una donna accompagna il suo cagnolino.

“Ah, ho visto due cose muoversi, una è bionda, una donna di prim’ordine. Ma forse io non vedo bene, guarda tu, com’è?”.

Mi incita, guardo, ed è una donna bionda, alta e formosa, e confermo perciò la sua impressione. E lui fa:

“Ah, sono rovinato, perché non ci sono più i casini. A questa età si vorrebbe rilassarsi in uno di quei salotti, e chiamare la più bruttina, esaltando così la sua scarsa avvenenza, tanto da provocarla ad un’altissima prestazione, mentre io uomo me ne sto sdraiato a pensare, anzi a non pensare…”.

Tento di riportarlo alla “Domenica sportiva” con un timido “Ma lei prepara qualcosa prima di andare in trasmissione?”. E lui apparentemente annoiato:

“Ma io improvviso. È come se per parlare con lei mi fossi preparato la recita. La sua domanda è assurda. Pensi che alla prima trasmissione mi hanno violentato buttandomi lì senza giacca, come ho detto, e senza che ancora avessi potuto avere in mano i risultati della giornata di campionato. Che dovevo fare? Dire: “aspettate che vado a prendere i foglietti”? Ho inventato lì per lì il mio Massinissa perché era la cosa che mi sollecitava di più: con quei capelli, con quei tratti somatici. Sa che i sardi non sono italiani? Non sono niente, non hanno storia, sa che l’unica volta che si parla di loro è nel quinto secolo? Ne scrive Eutropio, questo lo sa, no?, lei ha studiato il latino, no? “, e cita un verso in latino, che assolutamente non ricordo. Credo anche di non averlo capito. E lui conclude perentorio: “insomma la loro cultura non ha detto un cavolo!”.

Ci sono state reazioni al suo primo commento?

“Mi sono arrivate due lettere. Ma ora arriveranno a valanga. Queste prime due comunque sono esemplari. Un tifoso mi saluta e dice che finalmente era ora che le mie critiche le facessi in tv. L’altro mi offende scrivendo: “Tu non capisci niente di calcio. Perciò stai zitto”. Sarei curioso di conoscerlo, di fare uno studio sociologico (ma non ho tempo) su questo cretino che dice a me, dopo vent’anni di critica teorica e di lavoro sul campo, dopo che con le mie convinzioni tecniche ho spinto tutto il mondo ad adottare il difensivismo e ad abolire l’MW inglese (e prima, in pratica, condividevano le mie idee soltanto Rocco, Viani e Lerici; e naturalmente come tutti i capaci i dirigenti deficienti hanno relegato Lerici a curare i NAG del Genova), e dicevo, quindi, con quale criterio costui mi offende accusandomi di incompetenza? E lui chi è, magari è un villico che alla domenica sfoga gli istinti senza ancora rendersi ben conto di che cosa è il calcio”.

Tipico di Gianni Brera aprire un dossier su un piccolo particolare che nessuno conosce. Si arroventa contro una lettera di un qualsiasi spettatore come se si trattasse del presidente di società che abbia detto una coglionata. Ma Brera è fatto così. Parte lancia in resta pur di dimostrare in ogni occasione e per qualsiasi motivo di essere il più bravo, di conoscere ciò che è necessario conoscere (che si tratti di calcio, di gastronomia, di atletica e altri sport, compresa la boxe) e non si trattiene mai, nemmeno quando forse la furbizia gli direbbe che non vale la pena di entrare in combattimento.

Il tempo passa. Ho un altro appuntamento. E anche lui. Avevo immaginato che allo scadere dell’ora pattuita mi avrebbe scaricato e accompagnato alla porta. E invece le parole annullano i minuti. E andiamo avanti. Mi aveva accolto in panciolle, come dice lui, mentre maneggiava un magnetofono, presentandomi con quel “O moglie ecco un collega”, e alla fine mi offre da bere un bicchiere di whisky. Io lo allungo con l’acqua. E lui: “Ma cosa fai, Cristo!”, esplode, passando subito al tu. “No, no, si beve liscio. Altrimenti non saprai mai qual è il suo vero sapore. E poi questo è un signor licore, così lo rovini, è proprio un delitto. Devi fare un corso accelerato da sommelier, almeno impari a bere”.

Cerco di schermirmi. Di evitare quella bevuta che mi farebbe inciucchire. Anch’io amo centellinare un buon bicchiere, quando mangio. Ma così, alle cinque del pomeriggio, sicuramente mi renderebbe brillo. E nell’altro appuntamento farei una figuraccia. Comunque, a me non piace bere, almeno non così tanto e come si dice “fuori orario”. Cerco di saltare questa penalità. Ma non è possibile. Dico: “Sa, non bevo molto!”. E lui: “Ecco, lo sapevo. L’ipocrisia, come i preti. Dicono: devo fare penitenza, e poi chiedono: com’è, è buono? Alla fine, tentati, si arrendono: e mangiano e bevono, anzi si abboffano. Così alla fine hanno due piaceri: la penitenza e l’incontinenza”.

Sono imbarazzato. Allora insisto: Non l’ho detto per ipocrisia, ma perché veramente non bevo molti superalcolici, soprattutto poi nel pomeriggio”. A questo punto, con mio grande sollievo, ma come se lui fosse deluso, dice: “Non importa!”.

Mi chiede di dove sono. Rispondo: “Calabrese”. E lui: “Calabrese? Ah, sì, ho molti amici in Calabria. Nel 1949 Reggio Calabria mi piacque tantissimo. Del resto, una terra si giudica dagli amici e io ho molti buoni amici calabresi”.

Torno alle domande. E ne faccio una che mi sembra proprio idiota. Ma non so trovare altro in questo momento. Chiedo: “Lei è contento di essere lombardo?”. Mi guarda (e penso: ora mi caccia via a pedate!) e dopo un po’ sorridendo dà la stura alla sua fierezza, alla sua rivendicazione etnica, alle sue convinzioni sulla diversa configurazione fisica delle persone in relazione al luogo in cui nascono.

“E certo! Perché non dovrei? In fondo, in un Paese mediocre, mi glorio di appartenere a una zona più elevata: la Lombardia ha l’acciaio della Ruhr e in più l’agricoltura. Le pare niente? (Ora è tornato al lei,). Ma mi arrabbio quando vado in Svizzera e non posso entrare in un bar vietato agli italiani. (Evito qui di dirgli che anch’io ho subito l’umiliazione negli anni Sessanta, appena pochi anni fa, di sentirmi rifiutare nella civilissima Milano un appartamento in affitto quando il proprietario ha sentito che ero meridionale; e che su molti portoni in cui c’era l’annuncio “affittasi” il cartello esposto finiva con la frase “no a meridionali”).

E noi gli svizzeri una volta li compravamo “col gozzo”, a chili, i morti di fame! Ora sono gli italiani i morti di fame, e all’estero ci considerano proprio nulla. Il vescovo Lefebvre si ribella a Roma perché è convinto che anche la Chiesadiventerà zero, perché si sta sempre più italianizzando (ma di lì a un anno sarebbe stato eletto il primo Papa straniero, Carol Wojtyla; N.d.A.), e gli italiani li considera incapaci di fare qualcosa di buono… Sono comunista nazionalista ma con riserva…”.

L’esplosione finale non risponde al vero, almeno non nel senso che veramente egli sia comunista. Sappiamo che è un sota riformista e anche un po’ anarchico, e inoltre con una lingua che non sa tenere a freno. A questo punto non so con quale coraggio mi alzo, mi scuso, e dico che devo scappare perché ho un altro appuntamento. Mi guarda ancora una volta con quegli occhi indagatori e ironici insieme e penso ancora una volta che ora mi cancellerà per sempre dalla sua vista. Dico: “Mi dispiace”. Mi accompagna alla porta e quando gli stringo la mano, dice: “Se vuole venire il prossimo giovedì sera al ristorante “A Riccione” sarà il benvenuto nella compagnia dei buongustai”. Dico grazie e scappo via”.

Gli incontri poi si susseguirono, anche se non sono diventato un suo frequentatore abituale, perché non mi sono occupato di giornalismo sportivo, se non casualmente ed eccezionalmente. Come quando andai all’Olimpico di Roma per una partita della nazionale. E ci andai, sempre per incarico di Dardanello, per la cronaca della partita sulla base dei commenti a viva voce e in presa diretta proprio di Gianni Brera.

Nello stadio mi sono allocato in tribuna stampa proprio dietro a lui. Sapeva bene quale compito dovessi svolgere quel giorno. Con me è stato amabile. Ma si raccomandò di non parlargli per alcun motivo durante la partita. Così ho fatto, ma sul mio taccuino ho raccolto una messe di osservazioni, esclamazioni, invettive, analisi, giudizi, espressioni dialettali. Per lui era come se io non ci fossi. E quella sera ho scritto un articolo pirotecnico che commentava la partita attraverso le sue parole. Dal riscontro di molti lettori che scrissero al giornale, constatammo che l’idea aveva riscosso un grande successo. Di quell’articolo non ho trovato copia nel mio archivio. Ma da qualche parte deve essere. E mi dispiace che non posso riprodurlo.

Di quel pomeriggio ricordo a memoria solo un passaggio divertente. Brera ce l’aveva con i giocolieri numero “10”alla Rivera, chiamato come si sa in tutto il mondo “abatino”. Grande tecnica e fisico scarso, diceva Brera. Mai un contrasto vero, però quando lanciava la palla Rivera la faceva atterrare dove aveva previsto, sul piede dell’attaccante che segnava. Un atleta simile in qualche modo, secondo la sua visione, era Antognoni, che in quell’occasione e in quel periodo, fino ai mondiali 1982 di Spagna, in cui Bearzot condusse gli azzurri al loro terzo titolo iridato, era il numero “10”, cioè il centrocampista che fungeva da “regista”, come si diceva allora.

Ebbene, anche di Antognoni, benché lo stimasse sul piano tecnico, non era soddisfatto per il fatto che sul piano fisico non era certo di quelli che si opponevano. Così in quella partita all’Olimpico, per tutta la partita lo riempì di epiteti che sottolineavano quella che a lui sembrava inadeguatezza per il ruolo che l’atleta doveva svolgere in campo. Diverse volte Antognoni perse il pallone, soffiatogli da centrocampisti avversari che entravano con durezza. E Brera, arrabbiato, quasi urlava: “Ed ecco la mammola”, e poi: “Scommettiamo che perde il pallone?” o ancora “E adesso che te ne fai di quella palla?”. Mi colpì in quella occasione la parola “mammola” che voleva dire tante cose: atleta sì, ma non adatto al gioco “maschio” com’è il calcio, troppo delicato, incapace di azioni di forza nel campo. Eppure anche quella volta furono i passaggi e gli assist illuminanti di Antognoni a rendere proficuo il lavoro degli attaccanti.

La sera prima eravamo andati tutti insieme (avevamo fatto una tavolata di otto persone) al ristorante “Il Moro” dietro la galleria Umberto. Forse ora non c’è più. Lì si mangiava bene. Ed è stato Brera a farmi assaggiare i filetti di aringa svedesi che avevano in quel locale.

Ricordo anche che in un’altra occasione gli ho chiesto di scrivere per il “Corriere d’informazione” un articolo per una serie intitolata “La mia Milano” per la quale di volta in volta invitavamo ad intervenire persone, anche non milanesi, che in qualche modo avevano “illustrato” la città. Scrisse un florilegio molto divertente che finiva così: “Cara benedetta città nella quale viviamo onestamente bene”. Una frase che riassumeva una vita di sacrifici, di impegni, di lavoro, di passioni, di entusiasmo e anche di arrabbiature.

Questo è stato Gianni Brera, per come ho potuto conoscerlo. E per come ho saputo farlo, gli ho voluto bene. E da lui ho appreso che bisogna essere seri, informati e appassionati, come giornalisti, e onesti e combattivi, come uomini. Non è certo poco.

 

 

1)  “Cives Universi”, 2008, a cura di Alberto Frigerio; s.i.p.

*Dice di sé.
Ottavio Rossani. Giornalista al “Corriere della sera” Laurea in scienze politiche e sociali. Come inviato speciale, ha viaggiato in Italia e nei diversi continenti, soprattutto America latina, firmando reportage, interviste, analisi su questioni e personaggi della politica, del costume, della letteratura. Ha curato alcune regie teatrali e diverse mostre personali e collettive dei suoi quadri (acrilici) in Italia e all’estero. Da ottobre del 2007 è responsabile del blog dedicato alla poesia sul “Corriere della sera on-line”, il primo nel mondo su un quotidiano elettronico.

 

GIOVANNI BOCCACCIO
Fu adunque già in Arezzo un ricco uomo,il qual fu Tofano nominato. A costui fu data per moglieuna bellissima donna, il cui nome fu monna Ghita,della quale egli senza saper perché prestamente divennegeloso, di che la donna avvedendosi prese sdegno;e più volte avendolo della cagione della sua gelosiaaddomandato né egli alcuna avendone saputa assegnare senon cotali generali e cattive, cadde nell’animo della donna difarlo morire del male del quale senza cagione aveva paura.(Da “Decameron – Novella IV”, 1348-1353)

 

Elda Lanza - Per amore e per rabbia

Posso ragionevolmente dire che tutto cominciò per caso, come se il nostro destino aspettasse di incontrarci

Elda Lanza*

…quando

  parlavano di noi, dicevano Quei due.

Louis Aragon1

Mio marito si chiama Vitaliano Damioli. Io ho conservato il mio nome anche dopo il matrimonio. Ancora oggi, quando lui si presenta, con ironia aggiunge: sono il marito di. Pur avendo fatto cose molto più importanti di quante ne abbia fatte io, ma meno popolari della televisione e dei romanzi.

Quando ci siamo incontrati la guerra era terminata da poco. Io stavo laureandomi in filosofia, lui studiava ingegneria. Avevamo ventitre anni ed eravamo un po’ confusi.

Ci siamo innamorati furiosamente, ma senza progetti. È curioso pensarci ora, a oltre sessant’anni di distanza; ma al principio della nostra vita insieme ciascuno di noi ha influito in modo determinante sull’altro al punto che, sono certa, se non ci fossimo incontrati avremmo avuto una vita totalmente diversa da quella che abbiamo vissuta.

Non avevamo tradizioni di famiglia da rispettare e da continuare né aspirazioni particolari da assecondare.

A quell’epoca noi eravamo all’inizio di niente.

Lui, ingegnere, per il suo futuro si sarebbe occupato della diffusione in Italia di un solaio brevettato di recente invenzione; io, laureata, avrei insegnato o mi sarei impiegata.

Entrambi invece abbiamo cambiato il destino dell’altro in modo assolutamente inconsapevole ma definitivo, pur conservando allora e per sempre una profonda e volontaria autonomia. Raramente ho incontrato due persone così diverse, così “mal assortite”, e così profondamente unite.

Vitaliano disegnava bene. Disegnare bene gli aveva salvato la vita durante la guerra in un campo di lavoro tedesco. Aveva frequentato l’accademia di Augusto Colombo, che aveva lasciato, prima di conoscermi, perché incapace di un progetto così alto. Non aveva il fuoco dell’arte. Si avvicinava ai grandi pittori, e alla pittura d’avanguardia, con ostinata consapevolezza, da osservatore. Senza nessuna tentazione.

Io gli scrivevo bellissime lettere d’amore. E leggevo con passione sfrenata.

Su queste basi, piuttosto vacillanti, un unico progetto in comune: renderci indipendenti al più presto, e lavorare. Non per sposarci, non era nelle nostre intenzioni; ma per cominciare, davvero e finalmente, a vivere.

A quell’epoca, anche dal niente, era possibile.

Posso ragionevolmente dire che tutto cominciò per caso, come se il nostro destino aspettasse di incontrarci.

Passando davanti alle vetrine di Galtrucco, in piazza del Duomo a Milano, ci capitò di osservare alcune tavole di figurini maschili e femminili disegnati secondo i tessuti che erano in vendita: una specie di pubblicità molto raffinata e di un certo effetto.

Tu saresti capace di farli, andiamo a chiedere se vogliono provarti.

Fui io a spingerlo: lui era timido, come sono timidi tutti gli uomini molto belli quando sono giovani.

Ci dissero di sì. Scelse d’istinto il settore della moda maschile e ottenne quel lavoro. Un impegno durato mesi, forse un anno: ora potevamo passare orgogliosi davanti alle vetrine di Galtrucco, che esponevano le sue tavole, e fermarci a commentarle ad alta voce, come se non fossero “nostre”. Erano bellissime, peccato averle perdute.

Con quei primi soldi guadagnati ci siamo regalati una gita sul lago Maggiore, in treno, dalla mattina alla sera: con certi dolci al cioccolato che ancora sapevano di guerra.

Forse è stato l’unico periodo, brevissimo, in cui abbiamo lavorato insieme: lui protagonista e io di supporto. Dopo, quando siamo cresciuti, non l’abbiamo più accettato.

Quelle tavole nelle vetrine di Galtrucco fermarono l’attenzione anche di un personaggio importante del settore: Michelangelo Testa, direttore di Arbiter, la più autorevole rivista di eleganza maschile, che gli offrì una collaborazione continuativa, e gli aprì la strada verso uno straordinario Calendario della Necchi – Macchine per cucire; i tessuti Marzotto, e il valoroso Calzaturificio di Varese, con le prime tavole di pubblicità.

Lui ce l’aveva fatta. Quella sarebbe stata la sua strada, da allora e per sempre.

E io? Stavo studiando.

Un giorno Vitaliano mi presentò a una deliziosa anziana signorina, che lo aveva avvicinato per chiedergli se avrebbe accettato di fare l’attore in un giornale a fumetti. Lui aveva rifiutato, per sé; ma le aveva parlato di me: la mia fidanzata scrive molto bene, potrebbe scrivere romanzi.

Così conobbi la signorina Matilde Finzi, agente di un editore argentino, che mi introdusse nel mondo dei romanzi d’amore a puntate. La carta stampata sarebbe diventata la mia strada, da allora e per sempre.

Passata dall’editore argentino alla Mondadori, saltuariamente pubblicavo piccoli servizi di arredamento su “Grazia”: io sceglievo l’argomento e Vitaliano completava il pezzo con puntuali disegni di sedie e di troumeau.

Al direttore piacevano.

E piacquero anche al direttore della Rai, che volle conoscermi e affidarmi il ruolo di prima presentatrice della nascente televisione italiana.

Dai romanzi e dagli articoli di “Grazia” ero arrivata, infatti, alla televisione, come ho raccontato altre volte, per vent’anni; e dalla televisione a un’agenzia di comunicazione d’impresa, altri trenta. E ai romanzi, l’antica passione che dura ancora.

Dopo i primi tentativi di pubblicità, soprattutto affidata al disegno, Vitaliano aprì a suo nome un piccolo studio di pubblicità a servizio completo con clienti molto prestigiosi, anche stranieri. Fino all’ultima tappa: la famosa ODG (Orsini Damioli Group) la più grande agenzia a totale capitale italiano esistente in quegli anni, a livello internazionale.

Il mio ragazzo, bellissimo, era diventato uno degli uomini che più contavano nel mondo della pubblicità.

Così bello e importante che Ermanno Olmi l’ha voluto come protagonista di un suo film (non di grande successo, ahimè) “Un certo giorno”, nel quale interpreta la parte di se stesso, dirigente di una grande agenzia di pubblicità.

Perché racconto oggi la sua storia, e la mia? Due vicende come tante, in un mondo – di quegli anni – in cui era facile scegliere che cosa fare e chi essere.

Cesare Lanza, che come lui dice sempre non è parente, ma soltanto omonimo, anche se ci lega un affetto fraterno (io la sorella maggiore), giorni fa mi ha regalato il primo numero di “Gioia”, il settimanale femminile oggi edito da Rusconi, uscito il 7 marzo del 1937 – XV anno dell’era fascista.

Nel 1937 io frequentavo il Collegio reale delle fanciulle, ed ero profondamente infelice.

Per ragioni di salute avevo abbandonato la scuola ed ero stata bocciata.

Ero avanti di un anno; ma invece di accettare di ripetere l’anno, come a tutti sembrava ragionevole, ottenni di iscrivermi a una scuola privata, superai gli esami e iniziai quella che io considero, con benevolenza, la mia folgorante carriera scolastica.

Nel 1937 ero una ragazzina con molti capelli ricci, un’impronta di seno sotto la divisa grigia, l’aria spaventata. Mio padre e mia madre vivevano separati da anni. Li vedevo raramente, mai insieme.

Ero malata; ma Freud era poco frequentato all’epoca, anche dai medici.

Questo ricordo è così importante per me, perché in quel gesto di ribellione io riconosco la donna che sono diventata dopo. La vita che mi sono costruita da sola, con quel ragazzo accanto. Era il 1937. Strana coincidenza.

La bambina che non sapeva piangere aveva stretto i pugni. Ed era nata “Gioia”.

Davanti a quel foglio color rosa caramello, così ingenuo, così profondamente umile, tuttavia orgoglioso (malgrado l’anno, non c’è una sola parola che riguardi il regime, mentre le due pagine centrali sono dedicate alla famiglia Savoia che regnava), sono stata letteralmente assalita da un’ondata di ricordi, di sensazioni senza rimpianti, di nostalgia. E d’orgoglio.

Ho ripensato a tutto quello che Vitaliano e io avevamo costruito, così giovani e fortunati; poi più grandi, maturi, sposati e genitori responsabili.

E ora anziani, ancora insieme, che spesso ci basta guardarci negli occhi senza parlarci.

E mi sono chiesta perché da un trasloco all’altro, in cinquant’anni, di quella vita non ci sia rimasto niente, oltre a noi due e a quello che siamo.

Che è molto; ma i miei ricordi oggi mi sembrano difficili senza qualcosa che li solleciti e li testimoni. Per noi. Per quello che abbiamo fatto e che siamo stati.

Ho i libri più recenti che ho pubblicato. Abbiamo il film di Vitaliano, che ogni tanto rivediamo e mostriamo agli amici. Qualche foto, più intima che ufficiale.

Ma i personaggi che abbiamo incontrato, con i quali abbiamo lavorato o condiviso passioni. Perduti.

Non ho uno solo dei disegni di mio marito, nessuna delle sue pubblicità – che pure sono diventate luoghi comuni per tanti. Nessuna delle mie trasmissioni, oltre mille, perché a quel tempo non si facevano replay, e quindi sono andate perdute.

Nessun romanzo a puntate su “Bolero Film” di Mondadori; nessuno dei miei articoli sui quotidiani. Quintali di carta che non ho saputo raccogliere e conservare.

Mi chiedo come abbiamo potuto, e per quale ragione, stracciare in modo così sgangherato e irriverente un passato che dovrebbe renderci orgogliosi.

Questo pensiero è diventato ancora più pungente quando, con quel foglio di “Gioia” tra le mani, e una sorridente e composta Janet Gaynor in copertina, ho ricordato che in un momento transitorio tra la piccola agenzia di pubblicità e la grande ODG, a Vitaliano hanno chiesto di disegnare le locandine per alcuni spettacoli di rivista: “Giove in doppio petto” con Carlo Dapporto e Delia Scala. “Tobia candida spia” con Renato Rascel. “Passo doppio” con Ugo Tognazzi e la folgorante Dorian Gray alle prime battute.

E per un film importante: “Giulietta e Romeo”, sponsorizzato da Marzotto.

Per la prima volta, in oltre cinquant’anni, ho pensato con rabbia e con rimpianto al nostro passato che avevamo stracciato come se davvero fosse stato carta inutile; anche quelle locandine degli spettacoli di rivista, che sarebbe stato invece facile conservare. Ho frugato su Internet – probabilmente in modo inesperto. Ho cercato sulle bancarelle dei mercatini dell’usato. Ho chiesto aiuto. Sto ancora cercando. E intanto, finché ho memoria. Perché almeno qualcosa rimanga.

Grazie, Cesare.

 


1) “L’ira e l’amore”, Louis Aragon, Guanda.

*Dice di sé.
Elda Lanza. Scrittrice e giornalista sta concludendo l’ultimo romanzo “La bambina che non sapeva piangere”. Che racconta di sé. Di quella vita molto speciale che si è costruita da sola, tra realtà e fantasia. Per amore e per rabbia.

DANTE ALIGHIERI

Del mese di genaio, e non di mag[g]io,

fu quand’i’ presi amor a signoria,

e ch’i’ mi misi al tutto in sua baglìa

e saramento gli feci e omaggio;

e per più sicurtà gli diedi in gaggio

il cor, ch’e’ non avesse gelosia

ched’i’ fedel e puro i’ no gli sia,

e sempre lui tener a segnó maggio.

(Da “Il fiore”, 1283-1293)

 

FRANÇOIS DE LA ROCHEFOUCAULDLa gelosia nasce sempre con l’amore,

ma non sempre muore con esso.

(Da “Riflessioni e massime”, 1665)

 

 

LETTURE Riccardo Chiaberge - La variabile Dio

Un affascinante viaggio in compagnia di due grandi scienziati: il cattolico George Coyne, gesuita e astronomo di papa Wojtyla, e il laico Arno Penzias, ebreo tedesco scampato ai lager e premio Nobel della fisica per la scoperta della radiazione cosmica di fondo1

Riccardo Chiaberge*

Arizona. Pellegrini a Mount Graham

Leggenda vuole che avesse cavalcato giorni e giorni in solitudine tra distese di cactus, sfidando il clima torrido, l’arsura del deserto, gli assalti dei puma e dei coyote.

Con il fiuto dell’esploratore e la diligenza del cartografo, prendeva nota di ogni pozza, ogni canyon, ogni traccia di fiume sotterraneo. Finchè un giorno del 1692, risalendo il letto arido del Rio Santa Cruz, giunge stremato in una valle ombrosa. Pare un miraggio: c’è una fonte di acqua fresca e un villaggio abitato da una tribù di indiani papago, che accolgono il forestiero, lo dissetano e lo rifocillano. Incredulo, padre Eusebio Chini alza gli occhi ai monti boscosi che sovrastano il pueblo, e non può fare a meno di pensare al suo Trentino.

Salpato nel 1678 da Genova con altri diciotto gesuiti, aveva attraversato il Messico per raggiungere la Bassa California e l’Arizona. Una specie di cow-boy in tonaca al servizio del viceré di Spagna. Ovunque passava, nelle sue spedizioni Francisco Kino (come era stato ribattezzato dagli spagnoli) lasciava dietro di sé scuole, missioni, conventi per ampliare il raggio della cristianità. Ma portava anche utensili e sementi alle popolazioni indigene per insegnare loro a coltivare la terra e costruire abitazioni più solide, e si batteva contro i proprietari terrieri che avevano ridotto i nativi in schiavitù per farli lavorare nelle miniere di argento.

Il pueblo dei papago si chiamava Stjukshon, o Chuk Shon (“il villaggio della primavera ai piedi della montagna nera”). Gente mite e sedentaria, dedita all’agricoltura, tutt’altra pasta dai cacciatori guerrieri comanche o apache.

Oggi Chuk Shon è diventata Tucson, una città di oltre mezzo milione di abitanti. Qualche negozietto ancora ti vende collanine e braccialetti di artigianato dei native americans, ma sono ben altre tribù, artisti, musicisti, neuroscienziati, biologi e informatici, a presidiare il territorio.

E soprattutto astrofisici: perché nessun cielo è più cristallino e scintillante di quello dell’Arizona. I lampioni stradali hanno uno schermo speciale che smorza l’inquinamento luminoso, e il vicino Kitt Peak è costellato di decine di osservatori e di casette con su scritto DAY SLEEPERS!, per invitare i gitanti a non turbare il sonno di chi ha vegliato fino a notte fonda con l’occhio al telescopio o al terminale. A padre Chini – che ha pure una statua nel Campidoglio di Washington, tra i fondatori dello Stato dell’Arizona, – era intitolata, fino a qualche anno fa, la residenza dei gesuiti a Tucson. Adesso il Vaticano ne ha costruita una nuova e più confortevole per la sua équipe di astronomi, al 2017 di East Lee Street, a poca distanza dall’università. È qui che ci siamo dati appuntamento, un sabato di novembre.

Affratellati dall’età, dagli studi e dagli astri (reali e metaforici), i nostri due pellegrini non si erano mai incontrati. Avevano scelto entrambi l’anno peggiore per venire al mondo – il 1933, proprio mentre Hitler saliva al potere.

E nei decenni successivi al diluvio il Nobel ebreo scampato alla Shoah e il gesuita astronomo del papa avrebbero percorso due strade parallele, all’insaputa l’uno dell’altro, sulle sponde opposte dell’Atlantico. Quando, scolaretto nella pacifica Baltimora, muoveva i primi passi della sua educazione religiosa e scientifica, George Vincent Coyne era completamente all’oscuro della tragedia che si stava consumando in Europa, e che avrebbe potuto troncare troppo presto l’avventura terrena del suo coetaneo Arno Allan Penzias, come successe a sei milioni di altri come lui, colpevoli soltanto di essere nati sotto la Stella di David.

Ci sono voluti settantacinque anni perché queste due straordinarie vite parallele, questi due ingegni sfavillanti si incrociassero finalmente un giorno a Tucson, Arizona. Chi scrive non ha dovuto faticare molto per realizzare il corto circuito. È bastato uno scambio di email, la proposta di un tema assai più spinoso dei cactus, ma proprio perciò giustamente intrigante – i rapporti tra scienza e fede – perché entrambi accettassero di slancio l’invito. È stato padre George a suggerire di vederci lì, non lontano da quell’osservatorio di Mount Graham che è l’orgoglio dell’astronomia vaticana, dotato degli strumenti più all’avanguardia, e meta di studiosi (cattolici e no, atei e credenti) da ogni parte del mondo. Sono appena due ore di volo da San Francisco, e Penzias non ha sollevato obiezioni. Quando ho suonato alla porta del 2017 di East Lee Street l’atletico gesuita è corso ad aprirmi, T-shirt e scarpe da tennis, e mi ha subito buttato le braccia al collo e baciato sulle guance, come fossi un vecchio amico.

Alle sue spalle, la figura allampanata di Arno, in maniche di camicia, nervosamente gioviale come sempre, negli occhi appuntiti e mobilissimi una vaga espressione di rimprovero. Non ero in ritardo, ma lui era già lì da un quarto d’ora e cominciava a scalpitare.

Così, senza tanti convenevoli ci siamo avviati verso l’appartamento di Coyne, in fondo al portico ombreggiato da una pergola di fiori gialli – mi spiegheranno poi che sono “artigli di gatto” (Uncaria tomentosa), una pianta medicinale rampicante usata dagli indiani per la cura dell’artrite e di altre malattie. Lo studio di padre George è in realtà una celletta monastica, tavolino, computer, scaffale con pochi libri di astrofisica.

Lì abbiamo trascorso molte ore a parlare a ruota libera, di Big Bang e di ateismo, di evoluzione e creazione, di ebraismo e cristianesimo, in una penombra claustrale, mentre fuori il giardino ardeva sotto il sole giaguaro tra ronzii di calabroni e frullare di colibrì, e ogni mattina il tassista mi raccontava di avere avvistato qualche cucciolo di puma, un coyote, un uccello corridore come quelli dei cartoon o un branco di pecari, che da queste parti chiamano havelinas.

Abitanti furtivi di una natura primigenia, impassibile davanti all’avanzata delle highways, dei campi da golf e dei “resort” esclusivi: quale cornice migliore per una discussione sulla creazione e le origini della vita sulla Terra?

Come regista dell’incontro mi aspettavo un compito arduo, dover dirigere un duetto di voci stridenti: lo scettico razionalista contro il teologo, l’eloquio accidentato, ellittico e folgorante di Penzias contro quello suadente e morbido, da predicatore, di padre Coyne. Eppure, quasi per incanto, dopo un primo rapido scambio di battute, i due ragazzi del ’33 avevano già trovato l’intonazione giusta, recitavano ciascuno a meraviglia la propria parte. E, nonostante la diversità delle loro storie e del background culturale e religioso, in quasi otto ore di conversazione non c’è stato un solo momento di frizione o di ostilità.

Dissensi, molti, divergenze di punti di vista, continue, ma sempre rimarcate senza alzare la voce e senza pronunciare condanne, anatemi o parole aspre l’uno verso l’altro. Tutto l’opposto di quel clima di crociata e di muro contro muro che sembra dominare da qualche anno intorno a questi temi.

I due viandanti di Tucson portano sulle spalle bagagli differenti, esperienze di vita e di ricerca che li hanno profondamente segnati. Arno Penzias ha lavorato per trentasette anni ai Bell Labs, dove insieme a Bob Wilson ha scoperto quasi per caso la radiazione cosmica di fondo, una breccia nei misteri del Big Bang che è stata premiata con il Nobel per la fisica nel 1978.

Negli anni più recenti è diventato un uomo d’affari, un cacciatore di talenti a Silicon Valley. Ha partecipato alla febbre della New Economy proteggendosi con l’antipiretico di un sano scetticismo: come potevano sbancare il Nasdaq con quotazioni galattiche imprese che non producevano altro che idee di business di cui era arbitrario stabilire il valore monetario? Elenchi o indirizzari online, siti di shopping virtuale, motori di ricerca per navigare su Internet…

Ma la sua aspirazione è sempre stata quella di aiutare altri a dare forma a nuove idee e a ricavarne profitto. Via via questa sua attività di seminatore d’innovazione si è consolidata in una società di venture capital, la NEA (New Enterprise Associates), che investe nelle aziende che di volta in volta giudica più promettenti, in prevalenza nel campo delle telecomunicazioni. Un salto notevole, per uno scienziato che ha trascorso buona parte della propria vita scandagliando gli spazi siderali. Dalle stelle alle startup, dalle molecole intergalattiche ai microchip, dalle radiazioni cosmiche alle frequenze dei cellulari. E più di recente, alle energie alternative, al fotovoltaico in particolare.

Attività solo in apparenza distanti, perché accomunate da un obiettivo: la creatività, l’invenzione. Anche padre Coyne è reduce da una svolta cruciale. Nel 2006 ha lasciato un incarico prestigioso, quello di direttore della Specola vaticana, l’osservatorio astronomico della Santa Sede (lo aveva chiamato nel 1978 Giovanni Paolo I, il papa che regnò poco più di un mese, ed era stato confermato da Wojtyla). Per più di trent’anni si era diviso tra Castel Gandolfo e Tucson, aveva partecipato attivamente alla commissione papale su Galileo e a quella su Darwin, proseguendo nel contempo le sue ricerche sulle galassie a spirale di Seyfert e sulle “variabili cataclismi che”, sistemi stellari binari che emettono intensi lampi di radiazione. Prima di ritornare in campo come presidente e fund-raiser, collettore di finanziamenti per gli osservatori vaticani, si è concesso un sabbatico, o meglio, un lungo e impegnativo ritiro spirituale.

Ha fatto il viceparroco a Raleigh, North Carolina, una comunità di quattromila famiglie cattoliche. Per un anno è stato accessibile solo ai fedeli della chiesa di San Raffaele Arcangelo, che ogni domenica avevano il privilegio di ascoltare sermoni ricchi di citazioni e riferimenti colti, dove Bibbia e Vangelo si intrecciavano a filosofia e storia della scienza. Una parentesi faticosissima (un giorno scrisse a un amico: “Oggi ho fatto più battesimi che in tutta la mia carriera di prete”), ma anche una boccata d’ossigeno salutare, dopo decenni di lavoro scientifico e di defatiganti diplomazie nei corridoi della Curia romana. E così, eccoli seduti uno di fronte all’altro, i due fratelli separati Arno e George, con un registratore digitale sul tavolo e una brocca di acqua gelata per rinfrescarsi ogni tanto la gola. La prima domanda non può che riguardare le loro biografie, l’educazione ricevuta, il loro personale rapporto con la spiritualità e la religione.

E qui subito affiora una differenza invalicabile: mentre per Coyne l’incontro con Dio è stato il risultato di una “chiamata”, e ha avuto fin dall’inizio un contenuto affettivo emozionale, come verso una figura paterna, Penzias, che non crede in un Dio antropomorfico, non riesce a separare la religione dalla Storia, con la S maiuscola, dalla memoria marcata a fuoco sulla sua pelle dal nazismo e dalle persecuzioni razziali. “Sono nato – racconta – il 26 aprile 1933, lo stesso giorno in cui fu costituita la Gestapo. Infatti ho due certificati di nascita: uno con la svastica e l’altro senza, redatto dall’impiegato qualche ora prima”. Di famiglia numerosa – il padre aveva nove fratelli e sorelle – il piccolo Arno cresce circondato da zie e cugini. La madre, cattolica bavarese, per amore si era convertita al giudaismo, senza immaginare quanto le sarebbe costata cara questa scelta.

 

1) Pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore, uno stralcio dal libro “La variabile Dio”, di Riccardo Chiaberge (Longanesi, 2008). Riproduzione riservata.

*Dice di sé.
Riccardo Chiaberge. Torino 1947. Dirige attualmente il supplemento domenicale del “Sole 24 Ore”. Dopo aver lavorato al Centro Einaudi di Torino e alla rivista “Biblioteca della libertà”, ha iniziato la carriera giornalistica alla Stampa nel 1976, per poi passare al “Mondo” e nel 1981 al “Sole 24 ore” come responsabile della terza pagina e del supplemento “Domenica” fondato nel dicembre 1983. Dal 1984 al 2000 ha lavorato al “Corriere della sera”, prima come caporedattore alla cultura e poi come inviato ed editorialista su temi culturali e scientifici. Tra i suoi libri, “Ingegneri della vita” (Sperling & Kupfer ), “Cervelli d’Italia. Scuola, scienza, cultura, le vere emergenze del paese” (idem, 1996), “L’algoritmo di Viterbi. Da profugo a re dei cellulari: la straordinaria avventura di un italiano in America” (2000) e un romanzo, “Salvato dal nemico. 1944: una strage nazista nell’Italia divisa dall’odio”. Nel 2006 ha curato “Il libro delle Vespe. Cento e una punzecchiacultura” (Baldini Castoldi e Dalai)

ALPHONSE KARR

La gelosia è un misto d’amore, d’odio, d’avarizia e d’orgoglio.

(Da “Aforismi sulle donne, sull’uomo e sull’amore”,

a cura di Massimo Baldini, 1993)

 

Vittorio Salvati - Se ci diamo del tu il bacio viene meglio

L’amore è il sentimento più democratico del mondo: non si concede solo ai re, ai ricchi, ai divi e ai potenti, ma a chiunque sappia riconoscerlo, coltivarlo, condividerlo1

Vittorio Salvati*

L’amore passione

 

Se l’amore ha bisogno

di essere accompagnato da un aggettivo,

un attributo o un sostantivo,

non vuol dire che ha qualcosa in più,

ma che ha qualcosa in meno.

V.S.2

 

Amore e passione

L’amore passionale è l’unico tipo di amore in cui l’aggettivo prevale di gran lunga sul sostantivo.

Un aggettivo così potente da diventare a sua volta un sostantivo che fa il vuoto intorno a sé perché tutto sembra comprendere e tutto sottintendere.

Come è noto, passione deriva dalla parola latina patior, che significa appunto patire, soffrire, provare dolore o, per estensione, sentimento intenso e turbolento. “Più che amore, è passione” si sente dire talvolta per alludere a sovraumani sperdimenti dove corpi, menti e anime di due persone si fondono in un delirio amoroso senza regole e senza confini.

Nel suo “Elogio della follia”, Erasmo da Rotterdam, riferendosi a una definizione degli stoici, ha scritto: “La saggezza consiste nel prendere per guida la ragione; la follia, al contrario, nell’obbedire alle passioni; ma affinché la vita degli uomini non sia troppo triste, Giove ha dato loro più passioni che ragione”.

Il pensiero di Erasmo ha la forza e la bellezza di un grande ed esaustivo aforisma, ma come non ipotizzare il caso del tutto opposto in cui sia la follia a prevalere e a guidare le passioni, soprattutto quando queste si sentono tradite? Che dire, infatti, delle gelosie passionali che sfociano nell’assassinio o nel suicidio del bene amato? Non a caso l’amore-passione è uno dei temi prediletti dagli scrittori di sempre come quello fatale tra Catherine e Heathcliff in “Cime tempestose” di Emily Brontë, o quello di Amalia che muore d’amore per l’artista Balli nel romanzo “Senilità” di Italo Svevo.

La passione amorosa è dunque una stregoneria, un paradosso dei sentimenti, una dimensione mentale in cui non vi è più spazio per la ragione, ma solo per un desiderio inesauribile verso il soggetto amato spesso percepito come imperscrutabili e mai conquistabile del tutto.

Insomma, la passione è come una immensa fiamma che scalda il cuore, le viscere e la testa allo stesso tempo e, per questo, difficilissima da controllare.

Se divampa con violenza e all’improvviso, può violentemente esplodere o tragicamente implodere. Se brucia lentamente, lentamente può uccidere.

 

 

Amore, letteratura e televisione

 

Ovvero

prontuario per rispondere in cinque secondi

“Scusi, per lei che cos’è l’amore?”

 

 

“Che cos’è l’amore? Domandate a chi vive, cos’è la vita? Domandate a chi crede, chi è dio?” rispondeva Shelley a chi gli chiedeva cosa fosse l’amore, convinto che nessuno potesse dare una risposta ragionevole ad un interrogativo così assoluto e perentorio. È ovvio che Shelley argomentava in tal modo perché ai suoi tempi non c’era ancora la televisione; oggi, intervistato da un giornalista o da un conduttore televisivo, sarebbe costretto a dare una risposta qualsiasi, magari la più banale, purché in pochi secondi.

Eppure, capire l’amore, definirlo, svelarne i segreti è, da sempre, il sogno degli esseri umani e l’argomento più gettonato della prima cultura, cioè quella dei poeti, dei filosofi e dei letterati.

Sono loro che, senza riuscire a svelare il mistero, hanno cominciato ad alimentare e al contempo a raccontare la storia dell’amore partendo dai miti e dagli dèi come Kama, Eros e Cupido. Era più o meno, l’età del bronzo e forse gli uomini sentivano il bisogno di alleggerire il peso del metallo con la leggerezza della fantasia e delle favole.

Dunque, coi miti e dopo i miti vennero i poeti e i filosofi: Saffo che scriveva liriche amorose con un’inimitabile miscela di sentimento e desiderio; Platone che filosofeggiava dell’amore ideale e Catullo che per ideale intendeva tutt’altro:

 

 

Dammi mille baci e poi cento

e poi altri mille, e ancora cento

e di seguito ancora mille, e altri cento

e poi quando ne avremo contati migliaia e migliaia

scompiglieremo il conto.

 

 

Da allora il mondo è molto cambiato, eppure i poeti hanno continuato a parlare d’amore, gli scrittori a scriverne le sofferenze e le delizie, i filosofi a disquisirne i significati, gli scienziati a cercarne i meccanismi chimici.

Per ultimi, i mass media che cercano di sfruttare l’argomento per catturare spettatori o auditori essendo l’amore, soprattutto per quanto riguarda il sesso, il solo tema di cui tutti ritengono di poter dire la propria anche in base a poche, o uniche, esperienze. In fondo, l’amore è il sentimento più democratico del mondo: non si concede solo ai re, ai ricchi, ai divi e ai potenti, ma a chiunque sappia riconoscerle, coltivarlo, condividerlo.

Non ho alcuna intenzione, sia chiaro, di scrivere la storia della letteratura amorosa o del pensiero filosofico sull’amore perché questo breve introito mi serve per uno scopo molto più modesto: prendere un po’ di slancio e crearmi una piccola piattaforma dialettica nel caso che un giorno incontrassi un intervistatore televisivo d’assalto che mi ponesse una di quelle terrificanti domande tipo: “Mi scusi, per lei cos’è la vita?”, oppure: “Cos’è per lei la felicità?”, con l’obbligo di rispondere in un massimo di cinque secondi.

Poniamo, ad esempio, che un giorno incontrassi Marzullo e lui, all’improvviso, mi domandasse:

“Signore, che cos’è per lei l’amore?”.

“Quanto tempo ho per rispondere?” gli chiederei.

“Cinque secondi”.

“Senta, facciamo così: mi dia un minuto e io mi impegno a non farle perdere tempo a farmene altre”.

“Tenuto conto che lei non è nessuno, va bene”.

Lo ringrazierei e, convinto di averlo fregato, comincerei così:

“Caro Marzullo, io le risponderò come si conviene ad un tifoso della prima cultura e cioè alla stessa maniera con cui, suppongo, risponderebbe Cyrano de Bergerac se il suo avversario lo avesse provocato su questo argomento anziché sulla lunghezza del suo naso.

Cos’è l’amore? – declamerei con tono enfatico – ben poca cosa è questa domanda. Ecco potrei, per l’appunto, rispondere nei seguenti toni:

Aggressivo: L’amore? Esiste solo quello per se stessi. L’amore per gli altri è un’invenzione dei poeti, dei preti e delle prostitute.

Amichevole: Mi creda: in amore siamo tutti dei dilettanti che credono di essere dei professionisti.

Descrittivo: L’amore prima o poi finisce perché amare all’infinito esiste solo in grammatica.

Curioso: Chiedi cos’è l’amore? Vuol dire che non l’hai mai provato.

Vezzoso: L’amore ha mille alternative: se una donna è un po’ puttana e un po’ romantica, nel dubbio, può aprire un bordello per coccole.

Truculento: Quando un amore muore ci sono sempre due assassini a piede libero nei paraggi.

Cortese: L’amore è andare da lei il più presto possibile e venire insieme a lei il più tardi possibile.

Tenero: Purtroppo, l’amore è un sentimento così tenero che prima o poi si squaglia.

Pedante: Molti dicono “ti amo da morire”, ma quasi nessuno mantiene la parola. Purtroppo si muore più di funghi che d’amore.

Arrogante: E lei vorrebbe che le insegnassi cos’è l’amore per avere un concorrente in più?

Enfatico: L’amore è l’unica opera d’arte che ha bisogno di due autori.

Drammatico: L’amore è come il deserto: pieno di miraggi.

Ammirativo: L’amore, di per sé, è grande ed eterno. Sono gli innamorati che non sono all’altezza.

Lirico: L’amore nasce sempre sotto la protezione di Erato (la Musa della poesia) e finisce quasi sempre sotto il dominio di Melpomene (la Musa della tragedia).

Semplice: L’amore è l’aspirina della solitudine; nel migliore dei casi, con la vitamina “C”.

Rispettoso: L’amore è un segreto che non va mai svelato. Soprattutto agli innamorati.

Rustico: Cavolo, quanto è bello fare all’amore!

Militare: In amore, come in guerra, ci vuole la cavalleria.

Pratico: Poiché l’amore è cieco, bisogna amarsi col metodo Braille: toccandosi dappertutto con le mani”.

Qui finirebbe la mia affabulazione sull’amore, ma non il mio incontro con Marzullo che certamente non rinuncerebbe a farmi l’immancabile domanda finale:

“Per concludere, mi dica: secondo lei, la vita è sogno o i sogni aiutano a vivere meglio?”.

A questa domanda lo guarderei dritto negli occhi e, con aria ispirata, gli direi:

“Mi spiace deluderla, caro Marzullo, ma la sua domanda non ha senso. Sappia, una volta per tutte, che la vita non è l’una o l’altra cosa, ma entrambe le cose contemporaneamente!”.

Il rischio è che il grande intervistatore possa rilanciare: “Va bene, signore, ma prima di lasciarci, si faccia una domanda e si dia una risposta”.

Grazie al cielo è arrivato il momento di svegliarsi!

1) Pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore, alcuni stralci dal libro “Se ci diamo del tu il bacio viene meglio”, di Vittorio Salvati (Edizioni Associate, 2009). Riproduzione riservata.

2) Da “Epigrammi d’accatto”, di Vittorio Salvati
*Dice di sé.
Vittorio Salvati. Abruzzese di nascita e di origine nonché romano di adozione. È stato un manager di successo, dirigente in alcuni dei più grandi gruppi imprenditoriali italiani e stranieri. Attualmente si occupa di consulenza aziendale e vive ad Anzio dove svolge anche l’attività di scrittore cercando, con questa, di raggiungere  la quarta tappa del noto aforisma del poeta inglese George Herbert che dice: “Chi non è bello a vent’anni, non è forte a trenta, non è ricco a quaranta, non è saggio a cinquanta, non sarà mai bello, né forte, né ricco, né saggio.” Dopo aver mancato clamorosamente le prime tre tappe e di essere in ritardo anche sulla faccenda della saggezza, si sta fortemente  impegnando per raggiungere almeno quest’ultimo obiettivo convinto che i 50 anni del seicento dovrebbero corrispondere più o meno ai 70 di oggi. La cosa che lo meraviglia di più è come mai  Herbert non abbia aggiunto alle tappe previste, quella della salute, che è la dote necessaria per godere di tutte le altre. 

LIBRO DELLA SAPIENZAPoiché un orecchio geloso ascolta ogni cosa, perfino il sussurro

delle mormorazioni non gli resta segreto.

(Dal libro della “Sapienza”, vv.10)

Mauro Mainoli - Il pitone non muore in Benin

A Ouidah, nella culla del vudù si scopre che il vudù non può essere usato per fare del male: permette di esprimere solo desideri buoni e fecondi, tutto il male che si vuole augurare ricorrendo al vudù finisce per ritorcersi contro chi fa il voto maligno

Mauro Mainoli*

Un pitone non muore a Ouidah.

È la notte che è calata.

Il guardiano del tempio dei pitoni è poliomielitico. Tutta la sua giovane figura è spigolosa e scarna, manca di quella corposità muscolare che ha attirato a Ouidah generazioni di mercanti di schiavi. Le spalle sono quadrate e secche, la camicia penzola come appesa ad una gruccia e si confonde con i pantaloni troppo abbondanti per le sue gambe da insetto caparbio. Non usa stampelle e cammina inarrestabile con una potenza che pare meccanica. La nuca è rotonda e piena come quella dei fieri conquistatori di regni da cui discende, il volto aperto e franco si inasprisce nelle sporgenze degli zigomi troppo pronunciati, sotto cui si aprono i segni delle scarificazioni rituali, due per ogni guancia, il che vale agli adepti del tempio il soprannome di “2 per 2”. Sorride in continuazione, mostrando senza alcun calcolo la parte più bella del suo corpo, gli splendidi denti.

Al tempio c’è la solita processione allegra dei portatori di offerte, ognuno con la propria ciotola di vivande o con un pollo pronto per il sacrificio. All’interno del semplice muro di fango, che delimita il perimetro del tempio, si aprono alcuni ambienti piuttosto piccoli e bui, capanne d’argilla sormontate da un tetto di lamiera che appoggia precariamente su colonne anch’esse di fango screpolato. La gente si dirige ordinatamente verso la capannuccia più grande, al cui interno è appena visibile nella semioscurità la consueta montagnola di fango che in tutta l’Africa nera rappresenta il fulcro di ogni attività religiosa: un semplice mucchietto di terra che giornalmente si copre del sangue, delle piume e del pelame delle vittime, una sporgenza, un’escrescenza di madre Terra, che intercetta le vite e gli umori più preziosi delle creature destinate al ritorno.

Le bestie vengono sgozzate con la calma intensità di un gesto dovuto, non c’è spazio per la drammaticità perché tutto rientra nell’ordine prestabilito delle cose: il consueto alternarsi ciclico e necessario della vita e della morte viene serenamente convogliato all’interno di una prospettiva sociale organizzata con scrupolo, per cui il vero orrore non sta certo nel sangue versato sul piccolo altare vudù, nell’annientamento della singola creatura, quanto piuttosto nell’esclusione della creatura stessa dalla quotidianità del rito, nell’idea di diversità, di isolamento, nella minaccia di infrazione delle regole sociali, che garantiscono alla collettività un futuro e permettono al mondo di perpetuarsi e, in definitiva, di esistere. L’animale sacrificato è a pieno titolo coinvolto nella dinamica sociale che fa bella e piena, degna di essere vissuta, l’esistenza solare di questi tropici travagliati.

Il guardiano del tempio, uno dei tanti guardiani, ha una sua diversità difficile da elaborare, è poliomielitico. Parla molto, e con fierezza, delle tradizioni più antiche, dell’usanza di sopprimere e seppellire in un luogo sacro tutti i neonati che presentano malformazioni considerate pericolose, racconta di come i bambini cui spuntano per primi gli incisivi della mascella superiore siano, con la loro voracità, fonte di sicura rovina per il villaggio e debbano quindi essere eliminati, di come i gemelli, per il loro essere diversi nell’essere uguali ad un altro sé, siano visti dalle differenti comunità africane con profondo orrore o con profonda venerazione, eliminati o divinizzati.

L’essere poliomielitici in Benin, come nel resto dell’Africa nera, è una diversità relativa, significa semplicemente fare parte di quel vasto esercito di persone che si muovono con fantasiosi mezzi di fortuna, specie di macchine leonardesche uscite dalla fantasia dei celebri fabbri della corte reale beninese. Il guardiano dei serpenti non ha neppure bisogno dei fabbri, cammina da solo e, soprattutto, danza da solo per ore e ore, per giorni interi, quando arriva il momento delle feste consacrate al tempio dei pitoni.

Il giorno delle danze è il suo orizzonte ideale, l’ora attesa che riempie di un riflesso luminoso ogni minuto della povera vita di Ouidah, la sua porta d’accesso a quella realtà che corre invisibile accanto alle abitudini quotidiane, riempiendole di forma e di significato. Quando danza sulle gambe secche e corte, si lascia andare alla sua trance devozionale e diventa ciò che veramente sa di essere, spirito nella rete degli spiriti, pitone tra i pitoni, simbolo anch’egli energico e enigmatico del mistero impenetrabile della vita.

Capire che rapporto intercorra tra il pitone e il suo adepto, tra il guardiano e i serpenti, che girano indisturbati per il tempio, tra i pitoni di macchia e la gente che li raccoglie con amore e li conduce “alla loro casa”, è un’impresa che si gioca in un universo che nulla ha a che vedere con la rappresentazione logica del reale. Nessun africano ama parlare della propria esperienza religiosa, perché sa che il linguaggio è strumento troppo debole per evocare la speciale dimensione cui la tradizione magico-rituale permette di accedere.

Il linguaggio è, anzi, esso stesso svuotato della sua ossatura razionale, della sua componente più diretta e intelligibile, per riacquistare la primordiale capacità di ammantare di significato il mondo, la sua valenza di formula magica alla quale si deve la creazione stessa dell’universo in cui l’uomo vive. Da questo processo di rifondazione magico-rituale del linguaggio nascono gli straordinari aforismi della cultura beninese, poesia nel senso più alto e profondo. “Un pitone non muore a Ouidah. È la notte che è calata”, si dice qui nel tempio. Nella forza della sentenza africana, il pitone diviene simbolo supremo degli esseri viventi, la vita stessa sul pianeta, la cui scomparsa coincide con la discesa delle tenebre. Senza la mediazione del pitone, senza la venerazione per il manifestarsi grandioso della Natura, il mondo rimane avvolto nell’oscurità, perché la conoscenza vera non può scaturire dalla sola avventura intellettuale umana.

Occorre venerare il pitone, tenerlo in vita e custodirlo affinché si rinsaldi il legame tra l’uomo e l’oscuro mistero che lo circonda, filtri la luce da dietro le cortine dell’enigma e possa ritornare il giorno della conoscenza. Il legame sacro tra l’uomo africano e l’ambiente in cui vive si spinge fino a far coincidere la scomparsa dell’animale-simbolo con la scomparsa stessa del mondo. Ma di una scomparsa provvisoria si tratta: la notte non è così definitiva come sembra suggerire l’arrivo della morte, alla notte succede il giorno, e il legame uomo-animale-ambiente, se mantenuto vivo, restituisce all’universo la sua eternità. “Un pitone non muore a Ouidah”: il pitone, l’essere, la vita non muore mai in un luogo dove, come accade per Ouidah, sia coltivato il rapporto con l’elemento eletto a simbolo dell’ambiente circostante.

Nessun adepto può guardare un pitone morire, nessuno che porti le quattro scarificazioni rituali – racconta il guardiano – ha il diritto di osservare un serpente sacro che lascia questa vita. Il tono del ragazzo si fa serio, i suoi occhi si dilatano ogni volta che appare l’ombra del tabù. La fine del serpente sacro è la fine stessa del mondo: è forse lecito ad un piccolo uomo osservare una simile apocalisse?

I pitoni reali del Benin sono innocui colossi che si lasciano maneggiare teneramente dagli adepti. Quando non girano per il tempio o per le strade, stanno appisolati nella stanza al centro dell’area sacra, una sorta di scarno vivaio con una grossa buca al centro e alcune teste in legno grossolanamente sbozzate e disposte senza un ordine apparente ai lati della fossa. Tutto nella stanza è spoglio e disadorno, la sacralità del luogo è interamente affidata alla maestà dei serpenti, che non sembrano curarsi di nulla se non del loro inviolabile sonno. È la calma davvero regale dei pitoni che imprime una vibrazione eternante a questo povero rettilario, una sorta di ronzio vasto e profondo che sembra traslare ogni pensiero verso il regno senza età delle argille ocra su cui giacciono inaccessibili e immobili i rettili. Nella stanza dei pitoni non esiste il tempo, tutto è uguale a se stesso da sempre, il mondo inizia e finisce nel cerchio della capanna, nel pulsare impercettibile dei grassi nastri gonfi di vita.

Il guardiano osserva, tace e ammicca con gli occhi lucidi.

Si racconta che agli inizi del settecento, quando scoppiò l’ennesimo conflitto tra regni confinanti, Kpassè, re degli Hueda, si rifugiò nella foresta per sfuggire alla furia dei guerrieri di Agadja, re del Danxome, regno allora in forte espansione, destinato a sottomettere in maniera cruentissima tutti i popoli vicini e a tracciare i confini del futuro Dahomey, l’attuale Benin.

Kpassè sembrava avere le ore contate, ma la foresta si riempì di un nugolo di pitoni che, con lo strisciare dei loro corpi energici e tozzi, trasformarono il terreno in una trappola infernale. I guerrieri di Agadja fuggirono terrorizzati e Kpassè, scampato al pericolo e pieno di riconoscenza, diede inizio al culto del pitone.

Ma questa è solo la nuda successione di fatti ,assai controversi, che si perdono nelle nebbie degli scismi e delle lotte tra clan e famiglie spuntate agli inizi del seicento a gettare le basi di un regno esteso e solido. Simbologie oscure e miti fondanti si intrecciano inestricabilmente ai pochi dati storici raccolti dagli avventurieri colonialisti, ma non a caso l’ineludibile presenza del regno animale nel mondo beninese si manifesta fin dalla nascita della stirpe regale del Dahomey, allorché la principessa Aligbonu fu violentata da una pantera chiamata Agasù e diede alla luce un figlio maschio.

Saranno i suoi discendenti a spostarsi da Tado, nell’attuale Togo, verso est e verso Abomey, la futura capitale del regno del Dahomey. Secondo altre versioni l’animale mitico che generò la stirpe dei re era piuttosto un leopardo, ma la sostanza della narrazione rimane senza dubbio l’impossibilità di tracciare un confine netto tra il regno animale e la stirpe dei regnanti, la profonda saldatura tra il più autorevole degli uomini, il re, e il rappresentante più intensamente simbolico del regno animale, ora il pitone, ora il leopardo, ora la pantera.

Il figlio del leopardo ha poi sottomesso il protetto dai pitoni, Ouidah e il suo prezioso porto sono finiti in mano ai regnanti di Abomey, ma il culto dei serpenti non ha fatto che acquistare forza e radicarsi nel territorio, conservandosi intatto e potente nell’intensità dei gesti e delle movenze degli adepti dalle quattro cicatrici, i “2 x 2” che raccontano ancora oggi ai pochi turisti il fascino del loro culto e la forza dell’albero sacro che veglia sul tempio e regala ombra ai tabernacoli.

Il giovane guardiano poliomielitico abbraccia con lo sguardo l’enorme ficus e vi indugia per qualche lungo secondo, come per succhiarne l’esteso vigore. Qualcuno versa offerte rituali su un lenzuolo bianco appeso intorno al tronco, macchiandolo di lunghe colate brunastre.

Il vudù non può essere usato per fare del male, dice severo l’adepto: il vudù permette di esprimere solo desideri buoni e fecondi, tutto il male che si vuole augurare ricorrendo al vudù finisce per ritorcersi contro chi fa il voto maligno. Il vudù è semplice come semplice e spontanea è la buona intenzione: chi vuole riempire le reti di pesce, chi vuole ritrovare il desiderio della moglie, chi vuole liberarsi del terrore che la malattia ha incollato alla sua pelle, conficca un pioletto di legno alla base dell’altare d’argilla e attende con fiducia un futuro migliore. Se gli spiriti si prenderanno cura di lui, tornerà all’altare reggendo un pollo per le zampe, staccherà il bastoncino che aveva piantato, verserà il sangue del pollo sulla montagnola di terra, lo impasterà con un poco delle piume e con qualche organo interno e porterà a casa il pollo per festeggiare con i familiari il voto esaudito.

Nulla di più e nulla di meno, tutto confinato in una gestualità minima e quasi meccanica, ma dietro ogni gesto rituale si nasconde l’abisso vasto e insondabile di una dimensione altra e lontana che a Ouidah si intreccia saldamente alla quotidianità più spicciola ed esplode nelle piroette, nelle danze, nei tamburi, nella continua processione di strani personaggi che agitano le loro vesti di paglia, le loro maschere colorate, i loro bastoni rituali in pieno giorno e nel mezzo del caotico traffico cittadino.

Passa lo zangbeto tra le macchine e i motorini, si fermano giovani e vecchi a guardare la figura a loro familiare di un covone con piedi e corna che gira su se stesso e danza al ritmo dei tamburi, posseduto dagli spiriti e venuto a dispensare le verità collettive.

Danzano gli Hegungun per commemorare i defunti, e anche le famiglie sfiorate dall’ideologia sota del governo di Mathieu Kérékou sanno che è bene chiamarli a danzare ad ogni anniversario di morte. Un vecchio, bastone in mano, guarderà che nessuno si faccia toccare dalle vesti colorate degli spiriti dei morti, gli strani Hegungun che in Benin non saranno mai semplici uomini mascherati.

Ad ogni angolo di strada c’è una piccola edicola ingombra di cocci di vaso, pezzi di vetro, strani abiti appesi: ciascun tempietto è un nodo di quella rete magica e invisibile in cui ogni beninese è impigliato e vuole impigliarsi per non cadere nel vuoto.

Campeggiano le bandiere-feticcio sulla sommità di lunghi pali conficcati nel fondo della laguna. Ogni bandiera reca i simboli misteriosi di un linguaggio magico accessibile solo agli iniziati. All’alba, nel silenzio tropicale delle acque interne, piroghe solitarie indugiano a lungo accanto allo strano alfabeto dei maghi.

Si occupa ancora dei suoi sudditi beninesi Agoli Agbo III, discendente controverso dei sacri Huegbadja, Tegbessou, Ghezo e Gbehanzin che fecero la grandezza del regno. Seduto placidamente tra la folla che si accalca attorno al suo misero palazzo, circondato da pingui mogli con la pelle schiarita, da dignitari dall’aspetto trascurato e da un esercito di principi sobriamente eleganti, non ha bisogno di alcuna polizia per esercitare il potere. Può incenerire all’istante qualunque creatura animata da intenzioni maligne,  i tassisti lo sanno e i benzinai non ne dubitano, sicché il suo regno non teme l’autorità del governo eletto.

Solo Gbehanzin Basile, discendente diretto del re Gbehanzin, osa criticare Agoli Agbo III e osa sostenere di essere il legittimo erede al trono. Chiuso nel suo solitario palazzo in rovina, intrattiene tristemente gli ospiti ripercorrendo la grandezza dei suoi avi sul filo degli ideogrammi dipinti sui muri del cortile interno. Ogni ideogramma un’avventura magica, ogni magia una verità profonda che appartiene indissolubilmente alla comunità ma necessita di essere reinterpretata continuamente: la banalità apparente dei disegni rivela il suo potente messaggio solo in presenza di chi sa farsi interprete e mediatore di un linguaggio che rimane esoterico anche nella sua trasposizione figurativa. Mai di vera cultura scritta si tratta, la tradizione deve rimanere orale perché ogni volta ha bisogno di essere ricreata e rivissuta dal vivo anziché affidata alla freddezza dei segni.

Due mani tengono un uovo. “L’universo porta l’uovo che la terra desidera” spiega Gbehanzin Basile. L’uovo è la vita, le mani del Re la tengono in pugno e l’intero universo è contemporaneamente garanzia e minaccia per l’esistenza dell’uovo, posta sotto la protezione del Re. La presenza dell’universo, e quindi della terra, porta la vita, ma allo stesso tempo l’universo per potersi manifestare, per essere conosciuto, si fonda sulla presenza della vita stessa, cioè desidera l’uovo; eppure l’universo continua a rimanere ciò che è fuori dall’individuo, il Tutto che minaccia la singola esistenza, quel piccolo uovo che deve essere difeso dall’intervento della coscienza individuale, simboleggiata dalle mani del più significativo degli individui, il Re.

L’irrisolta tensione fra conoscente e conosciuto, tra io e tutto, tra interno ed esterno che attraversa tutte le tappe più significative del pensiero umano, sta lì, in un disegno grossolano la cui magia filosofica deve essere richiamata da chi ha socialmente il compito di farlo.

Magia in ogni albero, magia in ogni sorgente, temibile magia nell’oceano agitato che erode le coste, magia in ogni parola.

Re e principi, Hegungun e Zangbeto, feticci e pitoni sacri percorrono il Benin come un irruente fiume sotterraneo pronto a far franare l’intero edificio di una modernità precaria che non ha mai saputo mettere radici. Nessuna abitudine occidentale attecchisce davvero sulla fragile crosta che ricopre il flusso magmatico delle energie tribali.

I ragazzini si affollano all’ingresso delle scuole, ma non è tra i banchi e dentro ai libri che l’Africa nera ritrova se stessa. Non è mai stato e non sarà mai il Benin un paese “moderno”: non è la logica dei numeri, non è l’applicabilità dei modelli matematici a far pulsare il cuore dei figli del leopardo, ed è meno che mai l’orgoglio intellettuale del pensiero che procede per verifiche, accettando solo la verità di ciò che l’uomo può ricreare nel suo piccolo laboratorio. Non può e non deve succedere nella terra in cui nessun segno è in grado di imprigionare la conoscenza.

Magia in ogni gesto e magia in ogni scelta, e la coda di chi si affolla ai bordi degli altari rimane placidamente lunga. Il tempio dei pitoni è sempre pieno e il guardiano poliomielitico, uno dei tanti guardiani, gusta il calore della folla. Tramonta il sole su Ouidah, ed è soltanto la notte che cala.

Il pitone non muore, continua a strisciare.  Sul cemento, però, il segno è difficile.
*Dice di sé.
Mauro Mainoli ha 45 anni e nessuna occupazione seria. Spende i suoi pochi risparmi in viaggi perché coltiva l’illusione di poter lasciare questa terra dopo averne abbracciato la schiacciante rotondità. Insegue e racconta le realtà in cui il senso del sacro non è precipitato nel pozzo dell’io. 

FILIPPO PANANTI

V’è una gelosia villana che è un diffidare della persona amata;

v’è una gelosia delicata che consiste nel diffidare di sé.

(Da “Avventure e osservazioni sopra le coste di Barberia”, 1817)

 

 

MIGUEL CERVANTES

 

Gelosia, fiera tiranna del regno d’amore, armami il braccio

di un ferro; dammi, o disprezzo, una corda.

(Da “Don Chisciotte della Mancia”, 1605)

 

 

PALCOSCENICO Marzia Apice - Sopra le quinte

Stefano Marafante e Massimo Monaci, direttori di due importanti teatri di Roma ci svelano segreti e difficoltà del loro mestiere

Marzia Apice*

Sarebbe bello dirigere un teatro? Me lo sono sempre chiesta. Io nei panni del direttore: mi vedo circondata da artisti, mentre prendo decisioni importanti e trascorro gran parte delle sere a godermi le commedie e i drammi che ho scelto per il mio teatro. E poi immagino l’emozione di costruire dal niente uno spettacolo: respirare il tipico sapore che la creatività conferisce all’aria, quel gusto che è un misto di fatica, voglia di fare, aspettativa, paura di non farcela. Fino ad arrivare a quel momento in cui il tuo “bambino”, dopo i primi tremolanti vagiti, comincia a camminare con le sue gambe ed affrontare il mondo: il sipario si apre e lo spettacolo va in scena, un istante magico, delicatissimo, irripetibile. Vista così sembra un’esperienza esaltante, magari, però, le mie sono solo congetture romantiche. Forse i direttori dei teatri passano la loro giornata in ufficio, sommersi dalle scartoffie mentre lottano contro la miopia dei governi in fatto di cultura (o i fastidiosi capricci delle primedonne che vogliono il camerino più grande), e il loro lavoro poco si discosta da quello di un manager d’azienda, come veri e propri draghi dei bilanci rintanati in lussuosi edifici, che non hanno però mai visto una pièce in vita loro…

A pensarci bene, sono anni che mi sfilano davanti attori e registi delle specie più variegate, con i loro spettacoli belli o brutti, con il loro talento più o meno evidente, mentre i direttori sono in genere restii ad apparire, sempre mimetizzati tra gli addetti ai lavori, quasi come se preferissero nascondersi.

Ecco perché, nel mio girovagare degli ultimi tempi, non appena ne ho avuto l’occasione ho preso la palla al balzo per scambiar quattro chiacchiere con due di loro. Se non altro per capire qualcosa di più e porre fine alle mie elucubrazioni.

Si tratta di Massimo Monaci, direttore dal 2003 del teatro “Eliseo” e Stefano Marafante, direttore del teatro “De’ Servi” dal 2002. L’ “Eliseo” e il “De’ Servi” sono apparentemente l’uno l’opposto dell’altro. Innanzitutto per le dimensioni: il primo ha due sale (una da 800 posti, e un’altra, quella del “Piccolo”, da 250); il De’ Servi invece ospita in totale 209 spettatori, divisi tra platea e galleria. Il primo è un teatro monumentale, il secondo è di nicchia. Basta poi guardare il cartellone degli spettacoli per capire che a guidare i due teatri ci sono scelte di campo differenti.

Non mancano comunque punti di contatto: entrambi hanno, infatti, alle spalle una storia importante, cominciata nei primi anni del secolo scorso, e costituiscono un punto di riferimento per la città di Roma e i suoi abitanti.

Lo sanno bene i due direttori, Monaci e Marafante, che ci tengono a rivendicare con orgoglio, ognuno a proprio modo, il glorioso passato del teatro che dirigono. Simpatici e comunicativi, il primo molto giovane, il secondo più maturo, entrambi portano avanti senza esitazione la loro idea di teatro, consolidata in anni di esperienza di lavoro sul campo.

Dopo averli conosciuti, ho cercato di tirare le somme di ciò che mi avevano detto e mi è venuto un dubbio: sono davvero così diversi tra loro? Probabilmente sì, ma la sincerità è ciò che senza ombra di dubbio li accomuna. Unita alla forte passione nei confronti di un lavoro portato avanti con dedizione e energia positiva.

Del resto, chi di noi può dire quale sia la ricetta giusta da seguire? Nel calderone del Teatro (quello con la T maiuscola) c’è posto per tutti, perché grande, immensa, è la sua capacità di accogliere nella propria millenaria storia il contributo che ognuno è disposto a offrire.

L’importante è avere il coraggio di saper cogliere la sfida. Monaci e Marafante mostrano ogni giorno di averlo, davvero, questo coraggio.

Ecco i segreti che ho cercato di farmi rivelare da questa coppia di direttori.

 

Massimo Monaci, direttore del teatro “Eliseo”

 

Direttore Monaci, si presenti.

 

“Sono nato a Torino, 35 anni fa. Dopo la laurea in economia alla Bocconi, ho cominciato a lavorare al teatro “Franco Parenti” di Milano, dove svolgevo ogni tipo di mansione, ma ancora non ero sicuro se quello sarebbe stato il mio settore di interesse. Poi, quando la mia famiglia si è avventurata nell’imprenditoria teatrale, ho fatto anche io la mia scelta di campo. Non ho mai voluto fare l’attore, mi sarebbe piaciuto fare il regista: ho avuto anche il privilegio di fare da assistente a Giuseppe Patroni Griffi. Da quel momento in poi sono diventato amministratore delegato dell’ “Eliseo Spa” e infine direttore, ruolo che ricopro ancora oggi”.

 

Ma quali sono i compiti specifici di chi è chiamato a dirigere un teatro? Lei è uno di quei direttori da ufficio o si sporca le mani con il teatro vero?

 

“In ufficio non resto quasi mai! Sì, mi sporco davvero le mani, sto sempre in teatro a seguire la preparazione degli spettacoli. La scelta della programmazione è del resto una delle mie responsabilità: io detto le linee guida sia artistiche sia produttive, perché l’ “Eliseo” ha l’onore e l’onere di essere anche produttore di alcuni spettacoli. Mi occupo di selezionare i testi e di decidere quali registi, attori e addetti ai lavori coinvolgere. E poi, ovviamente, curo la comunicazione e la pubblicità. L’ “Eliseo” è gestito da un’impresa privata, che, sebbene le dimensioni del teatro siano imponenti, risulta decisamente piccola. Nella parte contabile entro il meno possibile, anche se controllo comunque più della metà del budget”.

 

Bene, allora ci faccia scoprire quali sono queste direttive che regolano l’attività del teatro Eliseo.

 

“Per quanto riguarda la sala grande, lavoriamo all’interno della tradizione teatrale, cercando di creare connessioni col contemporaneo. Per il “Piccolo”, invece, proponiamo una maggiore sperimentazione per aprirci anche a drammaturgie nuove e più curiose. Credo che il comune denominatore debba sempre essere la qualità: perseguo l’obiettivo di rivolgermi al pubblico in maniera molto diretta, senza troppe sovrastrutture”.

 

Immagino che riceva ogni anno molte proposte di spettacoli da mettere in scena. Come le sceglie?

 

“Molti pensano che io abbia la scrivania invasa da copioni. Magari fosse così. La mia libertà di scelta si esercita più che altro nelle produzioni, che curo con i miei collaboratori dall’inizio alla fine. Ma quando si tratta di ospitare compagnie esterne, la direzione che seguiamo è un po’ obbligata perché purtroppo in giro non ci sono molti testi di qualità. Quindi cerco di prendere i migliori, perché, come le ho detto, è proprio la qualità la cosa per me più importante. Del resto si viene a teatro non solo per farsi intrattenere, ma per ottenere un piccolo cambiamento dentro se stessi. O per lo meno è quello che mi auguro”.

 

Lei è promotore di tante iniziative, come il “Teatro e carcere” (per coinvolgere i detenuti), l’ “Eliseo ragazzi” (rivolto alle scuole), o i “Lunedì gratuiti” (serie di recite uniche a libero accesso per il pubblico). È ancora intatta oggi la funzione sociale e non solo artistica del teatro?

 

“La funzione sociale del teatro non andrebbe mai messa da parte. L’“Eliseo”, per esempio, pur essendo un teatro privato, ha sempre svolto un ruolo pubblico a Roma e in Italia. Ecco perché non possiamo fermarci alle logiche economiche; certo sono importanti, ma non sono tutto. Cerchiamo di svolgere nel migliore dei modi le tante attività che proponiamo, nel rispetto della società, del pubblico e della città di Roma. Per quanto riguarda i progetti che ha citato, ho potuto verificare che la reazione emotiva del pubblico che vi partecipa è molto forte, anche nei ragazzi. Cerco sempre di puntare il più possibile su di loro, sulla possibilità di stimolarli favorendo la nascita di un gusto nuovo, di un’attenzione diversa.

Certo, ci sarebbe bisogno di un’alleanza fra teatro e scuola. E purtroppo i professori sono carenti da questo punto di vista: spesso quando portano i ragazzi a vedere uno spettacolo, non si preoccupano nemmeno di prepararli, di dare loro delle nozioni sull’autore, sul testo. A volte, sembra che gli studenti vengano trattati come una mandria di mufloni (ride, ndr), portati a forza in teatro e poi di nuovo spostati a scuola. Per fortuna, invece, molti di loro si appassionano, allora è una gioia e una grande soddisfazione. Manca comunque un’educazione al teatro. E questo è davvero un peccato”.

 

Quali sono le difficoltà che incontra ogni giorno nel suo lavoro?

 

“Le difficoltà riguardano il bilancio: bisogna fare attenzione ai conti, sempre. Noi riceviamo un contributo di circa 1,5 milioni di euro, che equivale al 25% del nostro budget. Ma non prendiamo contributi da enti locali; tutto quello che abbiamo lo creiamo da soli, con gli sponsor, i biglietti, le produzioni”.

 

Da molti anni si parla di crisi del teatro. Istituzioni o pubblico: di chi è la colpa? Non sarebbe il caso che anche voi operatori del settore faceste un piccolo mea culpa?

 

“Sicuramente ci sono dei problemi che possono essere equamente divisi tra istituzioni e addetti ai lavori.

La politica si disinteressa non solo del teatro, ma della cultura in genere: mancano interventi strutturali, mirati soprattutto ai giovani, che saranno il pubblico di domani e che non sono minimamente sensibilizzati sul ruolo dell’arte nella società. A latere, però, ritengo doveroso fare anche una riflessione su noi che apparteniamo al mondo del teatro.

Dovremmo prenderci le nostre responsabilità. È inutile mascherarsi dietro la crisi economica. Spesso noi che facciamo, materialmente, il teatro ci troviamo a voler assecondare a tutti i costi il gusto del pubblico, che a volte è un gusto perverso, falsato dalla tv. È inutile proporre qualcosa di già visto in televisione, non ha alcun senso. Per portare in scena la qualità e la creatività ci vuole coraggio. Ed è questo che troppo frequentemente manca: se gli operatori teatrali mostreranno di avere finalmente un po’ di coraggio la gente li seguirà e si sveglierà dal torpore in cui si trova. Io nel mio piccolo cerco di stimolare, a volte anche di scioccare, il pubblico dell’ “Eliseo”, pur con il rischio di andare contro le loro aspettative”.

 

Ha solo 35 anni. Che effetto le fa essere il direttore di un teatro così importante, nato all’inizio del ’900?

 

“È normale sentire il peso di guidare un teatro come questo. Il mio è un compito nobile, perché nobile è l’ “Eliseo”. Pensi, nel 1945 su questo palco debuttò Luchino Visconti che fece scandalo con la sua messa in scena de “I parenti terribili” di Cocteau”.

 

Cosa sogna per il suo teatro?

 

“Sogno di dare un respiro internazionale all’ “Eliseo”. Possibile che il teatro italiano ancora non abbia la forza, la capacità, la qualità per relazionarsi con l’Europa?”.

Stefano Marafante, direttore del teatro De’ Servi

 

Direttore Marafante, si presenti.

 

“Sono da sempre nel mondo dello spettacolo, da quando ero giovane. Fino al 1991 ho fatto l’attore, poi ho fondato una società di produzione e mi sono occupato di organizzazione teatrale. Dal 2002 sono qui al “De’ Servi”.

 

Quali sono i suoi compiti nello specifico: stare dietro la scrivania o scendere in teatro a toccare con mano gli spettacoli?

 

“È un lavoro molto dinamico. Leggo i testi, vado a vedere gli spettacoli e cerco di scegliere non soltanto quelli che piacciono a me. Nel senso che mi occupo di dare una valutazione professionale, per accontentare i gusti del pubblico seguendo al tempo stesso le linee guida del teatro. Cercando di far muovere gli spettatori sulle sedie, non solo di coinvolgerli”.

 

Il “De’ Servi” accoglie sul proprio palco esclusivamente commedie, in gran parte contemporanee.

 

“Sì, è questa la tradizione che proprio qui inaugurò Eduardo De Filippo tanti anni fa, nel 1957. Sono fermamente convinto che la cultura non sia solo sperimentazione o autorialità, come tanti spesso vogliono farci credere. La commedia ha un suo ruolo e una sua storia, che fanno parte della nostra tradizione, a noi il compito di rispettare questa tradizione.

A volte ci accusano di seguire un gusto troppo commerciale. Ma, del resto, essere commerciali e, diciamo, leggeri non è un demerito: nelle commedie si discute di tutto, anche di problematiche serie che riguardano la nostra società, sempre però con il sorriso sulle labbra”.

 

In questi anni lei ha mostrato una particolare predisposizione per gli autori e gli attori giovani. È questo il suo modo di stare dalla parte delle nuove generazioni?

 

“Noi siamo un teatro piccolo, di 200 posti. Non è importante che ci siano nomi famosi, la cosa importante è che i testi siano validi. E non ho difficoltà a trovarne, perché, per fortuna, ci sono tantissimi autori e attori emergenti pieni di talento. Io voglio dare loro spazio. Il pubblico poi non è così sciocco come viene descritto: se passa la serata a teatro è per vedere una storia ben raccontata. Da anni ho capito che quello che servono sono le storie, non le star. E i giovani hanno davvero molto da dire”.

 

Come direttore, lei si occupa anche di promuovere altri progetti sempre legati al teatro, come “Passaggi segreti”, in collaborazione con il Comune di Roma.

“Passaggi segreti” è un progetto nato nel ’91. È un’idea che si propone di mettere insieme il patrimonio di luoghi d’arte e musei con lo spettacolo teatrale. È un altro modo di fare teatro, uscendo dal palcoscenico tradizionale e dall’edificio teatrale. Ovviamente, ciò comporta uno sforzo anche da parte dell’artista che deve inventarsi uno spettacolo in un luogo non naturalmente deputato ad ospitarlo, come ci insegna il teatro di strada. Questa è di sicuro un’operazione socialmente utile, così come lo è la commedia: tutto serve a contribuire all’educazione del cittadino”.

 

Far quadrare i conti è difficile?

 

“Molto difficile! I costi sono troppo elevati. Noi riceviamo solo 20.000 euro di aiuto dalle istituzioni per 40.000 spettatori all’anno. Abbiamo anche i nostri costi fissi, primo fra tutti quello relativo al personale che lavora qui. Forse si dovrebbe prestare maggiore considerazione al fatto che i teatri svolgono un ruolo importante, di grande aggregazione. È un servizio che diamo al cittadino”.

 

La sua opinione sull’annosa questione della crisi del teatro: verità o leggenda?

 

“La crisi secondo me c’è, ma va affrontata partendo da un doppio binario. Da una parte ci sono le istituzioni, che non hanno mai considerato il teatro come un settore produttivo. Lo usano come merce di scambio, come vetrina per mettersi in mostra. Il lavoro nello spettacolo non è mai stato considerato seriamente, eppure ci sono famiglie intere che vivono di questo: siamo circa 20.000, più o meno come l’Alitalia! Su un altro piano poi c’è il sistema delle produzioni, che non fa i conti con la realtà.

Gli addetti ai lavori devono capire che i tempi sono cambiati. Per esempio, gli attori famosi non possono pretendere di essere pagati come nelle fiction televisive. In Francia gli attori vanno a percentuale, qui non accade quasi mai. E credo che sia assurdo, perché il teatro non è la tv”.

 

E il pubblico, che ruolo gioca in questa situazione?

 

“Il problema non è il pubblico di età media, quello dai 30 ai 50 anni, che è culturalmente preparato e viene a teatro per rifiutare una tv oggettivamente brutta. Il discorso semmai dovrebbe coinvolgere gli spettatori più giovani, i ragazzi, che associano il teatro a una grande rottura di scatole. Sfido chiunque a vedere Pirandello senza avere alcuna preparazione, senza sapere chi è, quando è vissuto, ecc. I teatranti non si sono mai rivolti seriamente ai ragazzi, forse solo ora cominciano a farlo”.

 

Ha in mente un teatro ideale?

 

“Mi piacerebbe avere un teatro più grande, per far sì che alcuni spettacoli che sono andati bene possano avere più spazio. E soprattutto per dimostrare che ho ragione, che quando si lavora con qualità non c’è crisi che tenga. La gente viene a teatro se sul palco si mettono in scena tematiche coinvolgenti: non dobbiamo più vergognarci di recuperare il valore dei sentimenti attraverso il racconto di una storia”.
*Dice di sé.
Marzia Apice. Romana, classe 1978, dopo la laurea al Dams diventa giornalista nel 2003. Odia chi è fazioso e poco umile, ama il mare e chi fa tanti sogni, purché sappia come realizzarli. È fermamente convinta che la vera arte, in ogni sua espressione, sia una cosa seria e non un gioco da ragazzi. Giudice inquisitore nei confronti di se stessa, esige molto anche dagli altri, e per questo è spesso delusa. Tra una pagina letta e un’altra scritta, attende ancora che il vento della leggerezza le scompigli la vita.

INDICE DEI NOMI

Adams, Scott
Agadja
Agoli Agbo III
Alighieri, Dante
Almirante, Assunta
Almirante, Giorgio
Anderson, Pamela
Antognoni, Giancarlo
Apice, Marzia
Aragon, Louis
Aristofane
Armstrong, Lance
Baldini, Massimo
Baldini Castoldi e Dalai
Barthes, Roland
Bearzot, Enzo
Benigni, Roberto
Berlusconi, Silvio
Berners-Lee, Tim
Bertinotti, Fausto
Bettega, Roberto
Bezos, Jeff
Boccaccio, Giovanni
Bohr, Niels
Bonino, Emma
Bonolis, Paolo
Bosch, Hieronymus
Bossi, Umberto
Brando, Marlon
Brera, Gianni
Brera, Paolo
Brontë, Emily
Burrough, Bryan
Bush, Vannevar
Byron-Lovelace, Ada
Calabrò, Corrado
Cappon, Claudio
Casanova, Giacomo
Castro, Fidel
Catullo, Gaio Valerio
Cavallari, Alberto
Cervantes, Miguel
Chiaberge, Riccardo
Chini, Eusebio
Clap
Clarke, Arthur
Cocteau, Jean
Colombo, Augusto
Conrad, Kimberley
Copernico, Niccolò
Coyne, George Vincent
Damioli, Vitaliano
Dapporto, Carlo
Dardanello, Piero
da Rotterdam, Erasmo
Darwin, Charles
De Andrè, Fabrizio
de Balzac, Honoré
De Filippo, Eduardo
De Gregorio, Concita
de La Rochefoucauld, François
Del Buono, Pilade
Del Noce, Fabrizio
d’Escoto, Miguel B.
Edizioni Associate
Einaudi
Englaro, Eluana
Epicuro
Eschilo
Eustor, Antonio
Eutropio
Ferrero, Paolo
Ferri, Alessandro
Fini, Gianfranco
Finocchiaro, Anna
Finzi, Matilde
Freud, Sigmund
Frigerio, Piero
Gadda, Emilio
Gagarin, Yuri
Galilei, Galileo
Gandhi, Indira
Garibaldi, Giuseppe
Garrone, Benito
Gaynor, Janet
Gbehanzin, Basile
Giovanni Paolo I
Giovanni Paolo II
Giovanni XXIII
Gervaso, Roberto
Goldoni, Carlo
Gramsci, Antonio
Gray, Dorian (M.L. Mangini)
Greco, Dino
Guanda
Gutenberg, Johann
Hefner, Hugh
Helyar, John
Herbert, George
Herzigova, Eva
Hitler, Adolf
Karr, Alphonse
Kérékou, Mathieu
Kidman, Nicole
Kpassè
Kruscev, Nikita
Lang, Fritz
Lanza, Cesare
Lanza, Elda
Lanza, Marta
Lefebvre, Marcel
Leone, Giancarlo
Lerici, Roberto
Libro della Sapienza
Livraghi, Giancarlo
Longanesi
Lucrezio
Lumière, Fratelli
Luxuria, Vladimir
Machado, Antonio
Mainoli, Mauro
Manuzio, Aldo
Marafante, Stefano
Marchio, Michele
Marzullo, Gigi
Mazzini, Giuseppe
Mazzullo, Domenico
McCarthy, Jenny
Méliès, Georges
Mezzasoma, Ferdinando
Molière (J.B. Poquelin)
Monaci, Massimo
Monroe, Marilyn
Morrison, Jim
Morse, Samuel
Mottola, Michele
Murino, Caterina
Mussolini, Benito
Mussolini, Edda
Mussolini, Romano 
Mussolini, Vittorio
Naisbitt, John
Obama, Barak
Olmi, Ermanno
Ortega, Daniel
Palumbo, Gino
Pananti, Filippo
Parenti, Franco
Parmentola, Antonella
Patroni Griffi, Giuseppe
Peccei, Aurelio
Penzias, Arno
Pizzul, Bruno
Plutarco
Povia, Giuseppe
Pozzo, Vittorio
Presta, Lucio
Prodi, Romano
Proust, Marcel
Putin, Vladimir
Queiroz, Ophèlia
Rascel, Renato
Reagan, Ronald
Rivera, Gianni
Rodham Clinton, Hillary
Ronchi, Micol
Rossani, Ottavio
Rusconi
Russo, Alfio
Saba, Umberto
Sabatini, conte
Saffo
Salvati, Vittorio
Sansonetti, Pietro
Sapere 2000 Ed. Multimediali
Scala, Delia
Seneca
Servan-Schreiber, Jacques
Shakespeare, William
Shannon, Karissa
Shannon, Kristina
Shelley, Percy B.
Silvstedt, Victoria
Smith, Will
Spadolini, Giovanni
Sperling & Kupfer
Stone, Sharon
Svevo, Italo
Testa, Michelangelo
Toffler, Alvin
Tognazzi, Ugo
Vendola, Nichi
Veltroni, Walter
Ventura, Emiliano
Viani, Giuseppe
Virdis, Pier Paolo
Visconti, Luchino
Voltaire (F.M. Arouet)
Von Teese, Dita
Updike, John
Welby, Mina
Welby, Piergiorgio
Welles, Orson
Wilde, Oscar
Williams, Millie
Wilson, Bob
Wojtyla, Carol
Zichichi, Antonino

Share

Be the first to comment on "Edizione n. 10"

Leave a comment