Edizione n. 12

INTRODUZIONE Cesare Lanza - Ricordi e consapevolezze, bilancio intimo di mezza estate

Ma sì, se non ci fosse in agguato, in data imprevedibile, l’estremo appuntamento, la vecchiaia sarebbe certamente la stagione più bella della vita. Non mi secca l’idea di morire, bensì quella di non sapere (forse) quando, di essere colto e violato (forse) di sorpresa. Per il resto, tutto è più gradevole e coinvolgente.

 

Nell’infanzia, ma l’ho capito dopo, le sofferenze sono state forti: mi pesavano la povertà, le liti familiari. Non ho mai avuto un bacio al momento di andare a letto, nessuno mi ha mai raccontato una favola o mi ha regalato un libro per leggerle: adesso posso vantarmi di non conoscerne una, e le confondo, per sentito dire, l’una con l’altra. Allora ci soffrivo, ma oggi (beata vecchiaia) è divertente non sapere come vada a finire la storiella dei sette nani o cosa succeda precisamente a Cappuccetto rosso, dopo l’incontro, mi sembra, con il lupo (o con la nonna). Così, ai nipotini o a qualsiasi bambino, nei rari momenti di pazienza, posso raccontare fantasie che mi vengono in mente sul momento.

 

Da adolescente ero, come tanti altri, proprio stupido. Facevo a botte per ogni minimo pretesto, le davo e le prendevo, ho il naso un po’ rincagnato e per questo mi sono portato dietro per tutta la vita una fastidiosa difficoltà di respirazione. A diciassette anni neanche compiuti me ne sono scappato di casa e così da Genova, una delle tre punte del triangolo industriale, sono finito in Calabria, che all’epoca, fine anni cinquanta, era splendidamente povera: come, oggi, sono e chissà per quanto tempo ancora saranno certi paesi indiani che ricordo con una fitta al cuore.

 

Scrivendo, mi accorgo che la sintesi è difficile e brutale. Da giovane mi sono sposato prestissimo, per il desiderio di avere la famiglia che avevo perduto, e ho fatto figli uno dietro l’altro, senza rifletterci un attimo, felice di averli, ma senza capire che li avrei, privi di padre, mandati allo sbaraglio. Dall’alba alla notte il pensiero che mi guidava nella vita era lo sforzo di guadagnare quanti più soldi possibile, per riuscire a mantenerci. Mia madre, la persona più cinica e intelligente che abbia conosciuto, mi aveva ripetuto fino allo sfinimento: non sposarti mai, non fare figli perchè ti daranno solo problemi, studia, leggi, scrivi, non dare importanza ai soldi, così sarai sempre libero e la vita sarà interamente tua perchè non avrai bisogno della cosa più distruttiva che esista, il denaro.

 

Qualche volta sogghignando, aggiungeva una variante: oppure sposa una donna ricchissima e fatti mantenere, però leggi, studia e scrivi – e non mettere mai al mondo un figlio perchè, come tutti noi, in tutto il mondo, sarebbe un infelice in più.

 

Ho fatto esattamente tutto il contrario: mi sono sposato due volte e tutte e due le sventurate ragazze erano (e temo saranno) felicemente povere, per fortuna loro e mia, anche disinteressate; ho messo al mondo cinque figli, non ho studiato con coerenza, ho letto disordinatamente, anche se ho comprato decine di migliaia di libri compulsivamente, spogliandoli e sentendone il profumo, la dolcezza e la sapienza o anche l’orrore, per avvertire il piacere di ciò che poteva essere e non è stato.

 

Quanto a scrivere, dalla penna, dalla macchina da scrivere e dal computer mi sono uscite soprattutto mostruosità inutili, superficiali, sterili e frivole. E quanto ai soldi, la necessità di averne per mandare avanti la baracca è stato il tormento prioritario e castrante – come per la stragrande maggioranza degli umani in terra – per tutta la vita. Oggi mi illumina la consapevolezza dell’idiozia di quella rincorsa. Soldi per far che? Per l’automobile, le vacanze delle famiglie, il superfluo in tavola, viaggi nel mondo tutto uguale?

 

Mia madre tentò di bloccare il primo matrimonio dieci minuti dopo aver conosciuto la promessa sposa, dicendomi con una di quelle intuizioni drammatiche che la rendevano speciale: lasciala, è una ragazza malinconica. È infelice e tu la renderai ancora più infelice. Nel mio primo e forse unico lavoro, il giornalismo, ho avuto un successo immediato e immeritato, affrettato, selvaggio. E come un selvaggio mi sono comportato, guidato dall’istinto, rude con i compagni di lavoro: solo con i giovani che assumevo ero affettuoso e stronzo come un sergente di addestramento alla guerra, con severità e generosità.

 

Ho poi sciupato il successo con una catena di errori innescati, esclusivamente, dalla curiosità. E dai castighi inevitabili che andavano a colpire errori e confusione (ah, i nodi che vengono al pettine, meravigliosi luoghi comuni quasi sempre implacabilmente esatti!) nella maturità – se mai c’è stata – mi sono stato paralizzato, senza vie di uscita.

Con presunzione ho creduto nell’amore e ho reso probabilmente infelice la seconda moglie, ch’era allegra e positiva, anche se non ce l’ho fatta a renderla definitivamente triste, essendo la sua vitalità più forte della mia capacità distruttiva.

 

Poi, quasi per incantesimo, le cose sono cambiate. Forse alle due ultime figlie riuscirò a risparmiare qualche dispiacere e a dar loro qualcosa che non sono stato capace di dare ai primi tre (e perciò almeno due di questi tre mi detestano, a volte ricambiati, profondamente). Capire quanto e come abbia vissuto senza logica e costrutto, indubbiamente, mi dà, quando ci penso, dolore: però, prevalgono l’amaro sapore e il piacere della consapevolezza. Molto interessante anche la battaglia per liberarsi, senza aiuto, dai complessi di colpa, per metterli in conto a chi ha inventato per tutti, con trappole micidiali, questa cruda e appassionante, sporca e illusoria esistenza: certo non mi sento più protagonista unico né mai vittima esclusiva e perseguitata, l’ombelico del mondo. Non mi rimpannuccio più nella perversa tentazione delle auto consolazioni.

 

Finalmente so che cos’è un tramonto. O un orgasmo. O una stella che cade. Sento la potenza e la vita degli alberi secolari, capisco il fascino di un fiore o di un sorriso, mi si stringe il cuore per le sofferenze, quelle vere, degli altri. So che cos’è il non senso assoluto della vita, ho capito che la disperazione non è un bene individuale, che Dio è un regalo per chi ce l’ha, che non averlo è una tortura uguale al privilegio, troppo bello è il sentimento di sentirsi forti e soli, di fronte a tutto ciò che resta ignoto e incomprensibile.

 

Soprattutto ho imparato quanto sia importante essere liberi, e lottare per godersi questo primario valore della nostra povera esistenza. Anche per questo è nato l’Attimo fuggente. E vi chiedo scusa per questa desolata riflessione di mezza estate, non ho resistito al desiderio di aprirmi fino in fondo per una volta e di esprimere ciò che, nell’intimo, sento.

Con la sensazione presaga che sul più bello arriverà l’estremo appuntamento, a bloccare la serenità della consapevolezza. Ma questa volta spero di essere riuscito a capire in anticipo come finiranno le cose e una piccola beffa l’ho preparata: mia moglie e i miei amici sanno come dovrà essere organizzato, ludico e divertente, il mio funerale.

 


Cesare Lanza

Corrado Calabrò - I lumi del secolo
              CORRADO CALABRÒ
I lumi del secolo

 

OK! Secondo te sono svitato
come una lampadina.
Ma tu lo sai cos’è una lampadina?

Una lampadina è un terminale
è la prova lampante
della presenza di Dio nell’universo.

Ogni tanto Dio accende un’altra stella
così, senza un motivo apparente.
La sera poi accende tante lampadine;
e questo lo fa a ragion veduta.

«Tante quante?»
Tante quante le stelle, esattamente.
Per ogni stella in cielo qua s’accende
la corrispondente lampadina.

Nemmeno Dio però la potrà accendere
se non la troverà bene avvitata
nella sua appropriata impanatura.

Dio infatti fornisce la corrente.
Non fa mica, per noi, l’elettricista.

 

COPERTINA Antonella Parmentola - Stéphane Lissner e la Scala, storia di una grande passione

Il più importante tempio della lirica nazionale rappresenta, nel suo microcosmo, le difficoltà e le potenzialità non solo di Milano, ma dell’Italia intera

Antonella Parmentola*

Stéphane Lissner. Di origini franco ungheresi, nasce a Parigi nel 1953. A 18 anni fonda il “Théâtre Mécanique”, primo teatro del quale avrà responsabilità organizzative e di programmazione. Da quel momento in poi la sua vita e la sua carriera saranno votate alle muse Calliope, Erato, Euterpe, Tersicore.

Nel 2005 raggiunge un primato invidiabile: sarà il primo sovrintendente e direttore artistico straniero del tempio della lirica più celebre d’Italia: il teatro alla Scala di Milano.

Accolto, in principio, con qualche freddezza, ha saputo in questi cinque anni conquistarsi il favore del pubblico, della critica, dei più grandi artisti e cosa più importante delle 800 persone che lavorano nel teatro, riuscendo a ricollocare la Scala tra i dieci teatri lirici più importanti al mondo.

A dimostrazione di ciò, la programmazione della prossima stagione lirica, 2009-2010, si preannuncia come la punta di diamante di questo quinquennio. “Una stagione di grandi passioni” come l’ha definita lo stesso Lissner.

 

Cosa spinge un ragazzo di diciotto anni, che si immagina alle prese con altri interessi, a fondare un teatro?

 

“L’amore per la più vera tra le forme di espressione”.

 

Ripensando oggi alla sua carriera, si ritiene un predestinato?

 

“Predestinato è un concetto che rinvia a qualcosa di soprannaturale. Direi una spinta interiore alla quale è impossibile resistere. Ma quasi tutto, poi, lo scrivono la vita, il lavoro, l’esperienza, la fatica di ogni giorno”.

Cosa l’attrae maggiormente del mondo del teatro?

 

“L’arte di lavorare con gli artisti, e scusate il gioco di parole. Ciò che del teatro mi attrae e che ogni giorno mi impegna è fare incontrare gli artisti attorno a un’idea che li accenda. Artisti giusti – che io ritengo giusti – per quel progetto: non si tratta solo di far combaciare le agende. Gli artisti sono la coscienza di una società e una categoria di persone assai speciale, difficile da organizzare nelle cose concrete, ma esaltante dal punto di vista umano. È la chimica del teatro”.

 

Ha mai preso in considerazione la possibilità di diventare attore? O ha da sempre preferito stare dietro le quinte?

 

“Mi ha sempre affascinato di più creare progetti insieme agli artisti. Per farlo bisogna capirli e dunque avere qualcosa in comune con loro”.

 

Nel confronto con il cinema e la televisione, il teatro fa la parte della Cenerentola. È una situazione irreversibile o c’è qualcosa da fare subito perché il teatro torni ad avere un ruolo centrale nella comunicazione?

 

“Ma il teatro non ha mai perso il suo ruolo centrale fra le arti rappresentative. In ogni società evoluta è il centro dal quale le altre hanno preso vita e al quale anche cinema e televisione sono costrette a tornare per rigenerarsi. Mi sorprenderebbe se proprio in Italia, dove è nato il teatro musicale con Monteverdi e dove l’Opera è diventata lingua universale, si lasciasse languire il teatro.

A Vienna, a Londra, a Berlino, a Parigi, a Mosca si sostengono teatri nazionali e si spendono soldi anche pubblici per mettere in scena Rossini, Verdi e Puccini. Perché in Italia non dovrebbe essere così?  È strano. Il teatro non ha un ruolo centrale solo nella comunicazione, ma nella società stessa: è il primo cemento sociale. E il teatro musicale, in Italia, deve essere al centro delle attenzioni dello Stato, con l’aiuto dei privati”.

 

Quale è stato il primo impatto con la realtà italiana? E che idea si è fatto del nostro Paese?

 

“Ho assunto la guida di un teatro, la Scala, che in microcosmo rappresenta le difficoltà e le potenzialità di Milano e del Paese intero. Le difficoltà consistono nell’organizzare le immense risorse umane che lo muovono; le potenzialità si specchiano nei risultati artistici che fanno della Scala un vertice in Italia e nel mondo. Qualcuno dice che le immense potenzialità italiane si realizzano appieno quando entrano in contatto con il pensiero cartesiano”.

Quali sono state le priorità alle quali ha lavorato arrivando alla Scala?

 

“C’era da inventare in sei mesi una inaugurazione, il 7 dicembre 2005, che non c’era. Poi costruire una stagione per metà vuota, elaborare un progetto a lunga scadenza che rilanciasse il teatro sul piano internazionale, raccogliendo l’impegno di grandi artisti che da molto tempo mancavano dalla Scala o mai erano venuti. In parallelo c’era da consolidare la parte economica.

Entrambi gli obiettivi sono stati raggiunti nel tempo fisiologico, per un teatro, di quattro anni: 1) gli artisti aderiscono al progetto sempre in maggior numero e con maggiore confidenza; 2) dal 2005 a oggi abbiamo chiuso quattro bilanci consecutivi in pareggio, anzi in utile per tre milioni di euro complessivi”.

 

La stagione 2009-2010 si aprirà, il 7 dicembre prossimo con la “Carmen” di Bizet, diretta dal maestro Daniel Barenboim con regia di Emma Dante. Che stagione sarà?

 

“Una stagione che allinea direttori come Claudio Abbado, Pierre Boulez, Daniel Barenboim, Daniele Gatti, Daniel Harding, Myung Whun Chung, Antonio Pappano, Esa-Pekka Salonen, Zubin Mehta; registi come Patrice Chéreau, Peter Stein, gli italiani Emma Dante e Federico Tiezzi. Nel 2005 avevo precisato che sarebbero stati necessari cinque anni per definire un progetto artistico e portarlo a regime. Con la stagione 2009-2010 questo è avvenuto. Iniziamo la seconda fase del nostro percorso”.

 

Altro fiore all’occhiello, come lei accennava, il ritorno del maestro Claudio Abbado, che ha accettato in cambio della piantumazione di 90 mila alberi. Ci confida come è andata di preciso?

 

“Incontrai Claudio Abbado a Berlino due giorni dopo aver assunto l’incarico a Milano. Non ho mai smesso di invitarlo e sollecitarlo con proposte. Ha sempre avuto ben chiaro che il suo ritorno alla Scala sarebbe avvenuto con l’Ottava di Mahler, l’anello mancante alla sua integrale di venticinque anni prima. Ha detto sì alla mia quinta stagione”.

 

Placido Domingo il 9 dicembre 2009 festeggerà i suoi quarant’anni alla Scala – debuttò in “Ernani” di Verdi nel 1969. Cosa significa questa occasione per la Scala e per la lirica in generale?

 

“Sarà la festa di uno dei più grandi musicisti, non solo cantanti, che la Scala e il teatro d’opera abbiano avuto. E proprio per questo il 9 dicembre, due giorni dopo l’inaugurazione della stagione con “Carmen”, sarà una serata di gala, ma con un programma speciale: il primo atto di “Valchiria” di Wagner sotto la bacchetta di Daniel Barenboim, non il solito florilegio di arie”.

 

Di contro, la giovanissima Anita Rachvelishvili debutterà nella “Carmen”. Un rischio calcolato?

 

“Una scommessa su una giovane di talento”.

 

E sempre a proposito di giovani, sotto la sua direzione, diverse iniziative sono state attuate per avvicinare i giovani alla lirica. Crede che sull’onda dei talent show, se ce ne fosse uno dedicato alla lirica questo potrebbe aiutare?

 

“Non ho molta fiducia che i talent show siano utili a costruire un nuovo pubblico. Noi seguiamo altre strategie: abbiamo un Ufficio promozione culturale che avvia ogni anno in teatro, su 450.000 spettatori totali,  circa 87.000 studenti; e per la stagione 2009-2010 abbiamo lanciato un programma ancora più ambizioso dedicato ai giovani, LaScalaUnder30, che avrà una campagna pubblicitaria a sé stante, una serie di offerte  speciali e soprattutto un nuovo sito, già aperto, che parla la lingua dei ragazzi di oggi”.

 

In materia di aiuti: l’ultimo taglio al fondo unico dello spettacolo quanto è costato alla Scala? Se fosse nei panni del legislatore, lo gestirebbe diversamente?

 

“In questo preciso momento non sappiamo ancora esattamente a quanto ammonti il taglio del Fus di nostra competenza. Dico solo che il teatro musicale è di tale importanza nella storia della cultura italiana da non riuscire a immaginare una sua posizione che non sia centrale anche nella vita stessa della società”.

 

Cosa c’è nel futuro della Scala?

 

“Un progetto artistico ormai definito nei dettagli fino al 2013, anno verdiano e wagneriano”.

 

E nel suo?

 

“L’identico orizzonte”.
*Dice di sé.
Antonella Parmentola. Subisce, dai tempi del liceo, il fascino delle parole, della loro etimologia, del loro senso originale e della successiva evoluzione. È profondamente convinta che in un mondo in cui tutto è stato già scritto e detto, il come scrivere o dire qualcosa possa ancora fare la differenza. 

NUDA SEI SEMPLICE
Cosa significa realmente essere nudi?Può l’uso di tale aggettivo essere limitatoallo stato in cui un essere umano si trovasenza abiti addosso e dunque spoglio?Lo scopriremo insieme, in questa nuova e preziosa
carrellata di attimi fuggenti che avranno
come leit-motiv proprio la nudità.
Nuda sei semplice come una delle tue mani,
liscia, terrestre, minima, rotonda, trasparente,
hai linee di luna, strade di mela,
nuda sei sottile come il grano nudo.
Nuda sei azzurra come la notte a Cuba,
hai rampicanti e stelle nei tuoi capelli,
nuda sei enorme e gialla
come l’estate in una chiesa d’oro.
Nuda sei piccola come una delle tue unghie,
curva, sottile, rosea finché nasce il giorno
e t’addentri nel sotterraneo del mondo.
Come in una lunga galleria di vestiti e di lavori:
la tua chiarezza si spegne, si veste, si sfoglia
e di nuovo torna a essere una mano nuda.Pablo Neruda( Da “Cento sonetti d’amore, XXVII”, 1959)
ATTUALITÀ Mario Baldassarri - L'inflazione e la trappola del supercambio

Il continuo apprezzamento dell’euro ha regalato alla Cina, che ha agganciato la sua moneta al dollaro, un ulteriore vantaggio competitivo

Mario Baldassarri*

E’ sconcertante leggere, quasi a ritmo settimanale, comunicati stampa della Banca centrale europea che rivede sempre più al ribasso il tasso di crescita del Pil in Europa, ormai stimato per quest’anno al -5%, e parallelamente il progressivo spegnimento dell’inflazione, stimata tra lo 0,1 e lo 0,5%.

È ancor più paradossale il commento del presidente Trichet, che mantenendo all’1% il tasso d’interesse corrente dice che questo “è un livello appropriato”. Appropriato a cosa non si capisce.

Il paradosso sta nel fatto che una Bce ha come responsabilità quella di decidere la politica monetaria per guidare ex-ante il sistema economico e non quello di commentare ex-post andamenti pesantemente negativi della crescita economica, senza chiedersi se i suoi errori abbiano influito e quanto su quegli stessi andamenti.

Basti ricordare infatti che soltanto nove mesi fa (luglio 2008), in un momento in cui erano ormai evidenti i segnali dell’imponente crisi mondiale, la Bce addirittura aumentò i tassi d’interesse, abbagliata dal suo atavico terrore di un inesistente rischio d’inflazione. E quando all’inizio dello scorso ottobre la crisi esplose in tutta la sua virulenza la Bce, invece di dare un segnale netto e forte ai mercati riducendo subito i tassi d’interesse di almeno l’1,5 – 2%, cominciò uno stillicidio di mini-riduzioni che soltanto dopo oltre sei mesi hanno portato i tassi d’interesse all’1%, svuotando di qualunque efficacia le stesse manovre via via adottate.

Questo errore di politica monetaria ha prodotto due gravi “effetti collaterali”.

Da una parte, un evidente eccesso di frenata sull’inflazione che, contrariamente all’obiettivo posto al 2%, viaggia ora verso lo 0%! È come un medico che temendo per il proprio paziente che la febbre salga da 36 ad oltre 40, gli fa fare una terapia che gliela porta a 32, facendogli però rischiare il collasso.

Dall’altra parte, l’altro effetto collaterale di quell’errore è palesemente il super apprezzamento dell’euro che veleggia a 1,40 rispetto al dollaro. E poiché, molto furbescamente la Cina ha agganciato la sua moneta al dollaro, l’Europa ha regalato alla stessa Cina un vantaggio competitivo via cambio di quasi il 50%, che va ad aggiungersi a tutti gli altri vantaggi cinesi in tema di veri e propri dumping, sociale economico e politico.

È consapevole la Bce che ogni 20 centesimi di apprezzamento dell’euro questo significa per l’Europa un -1% di Pil, a parità di ogni altra condizione?

È consapevole la Bce che con un euro “guidato” attorno alla parità rispetto al dollaro, la sua previsione di oggi del -5% di crescita in Europa sarebbe stata almeno del -3%? Certo, sempre negativa. Ma poco meno della metà dell’effetto negativo della crisi mondiale è in realtà direttamente dovuto agli errori della Bce.

A questo punto la Bce potrebbe replicare chiedendo quale sarebbe stata però l’inflazione. È facile capire che oggi, invece di un’inflazione tra lo 0 e lo 0,5%, avremmo potuto avere un’inflazione a circa l’1,5%, comunque al di sotto dell’obiettivo del 2% posto sempre dalla stessa Bce.

In realtà questa è la controprova che in Europa l’uso sbagliato della politica monetaria per combattere un’ipotesi di inflazione da costi delle materie prime e non certo da eccessi di domanda, determina il seguente trade-off: per ogni 1% di inflazione in meno, l’Europa subisce un 2% di crescita in meno.

Per di più, in questi ultimi mesi stiamo assistendo ad un ulteriore paradosso.

Da un lato la Bce inonda le banche di liquidità ed è palesemente caduta in una classica “trappola della liquidità”.

Dall’altro lato le banche, non fidandosi tra loro, ridepositano questa liquidità presso la stessa Bce senza farla adeguatamente affluire al sistema produttivo, determinando quindi una condizione di strozzatura del credito (credit crunch).

Pertanto dopo il ritardato stillicidio della riduzione dei tassi d’interesse che ha reso inefficace tale strumento, pur avendo alla fine, ma tardi, portato il livello all’1% dopo otto mesi, la Bce rischia di commettere un secondo errore rimanendo ferma, come l’asino di Buridano, tra la trappola della liquidità e il credit-crunch.

Allora la Bce, piuttosto che ratificare ex-post la caduta del Pil e l’azzeramento dell’inflazione, farebbe meglio a dare una garanzia della stessa Bce sul mercato interbancario, almeno per un certo periodo, in modo tale da riattivare i prestiti tra le banche al fine di far arrivare il credito a chi ne ha bisogno, cioè a imprese e famiglie?

Così si frenerebbe almeno in parte la caduta del reddito di quest’anno e si sosterrebbe in modo più concreto la ripresa dell’anno prossimo, preparandosi a non aumentare i tassi immediatamente ai primi cenni di ripresa inflazionistica lascia doli inalterati finché il cambio euro/dollaro non tornerà decisamente verso la parità.
*Dice di sé.
Mario Baldassarri, economista, è nato a Macerata il 10 settembre 1946. Laureato in economia all’università di Ancona nel 1969. Ha ottenuto il dottorato (Ph. D.) in economia presso il Massachusetts institute of technology, Cambridge, USA, nel 1977, con i relatori Robert Solow, Franco Modigliani e Paul Anthony Samuelson. Già professore di economia politica presso la facoltà di economia e commercio dell’università La Sapienza di Roma, viceministro dell’economia e delle finanze nella XIV legislatura (2001-2006), è attualmente Presidente della commissione finanze e tesoro del Senato della repubblica. 

GIORGIO ARMANIÈ difficile non farsi trascinare dalle tentazioni, perché sai che ilnudo finisce sicuramente sui giornali e in televisione e il vestitonormale non ci va. Ma io sono contrario alle provocazioni inpasserella, anche perché mi chiedo: cosa ci sarà dopo?

(Da “La Repubblica”, 20 luglio1995)

 

Dionigi Tettamanzi - Crisi economica e solidarietà. Quale il ruolo della Chiesa?

L’arcivescovo di Milano, analizzando la difficile congiuntura finanziaria e sociale, individua in rinnovati stili di vita e più attente scelte personali il percorso necessario per costruire una società più giusta (1)

Dionigi Tettamanzi*

Le nostre riflessioni sulla solidarietà in tempo di crisi economico-finanziaria sono ancora alle prime battute. Esigono sviluppi ulteriori, tra cui quelli riguardanti i necessari rapporti con la sobrietà. È possibile, realmente, la solidarietà senza la sobrietà?

Ne ha parlato Benedetto XVI concludendo il 2008 come anno che si chiude come tempo segnato da incertezza e preoccupazione per l’avvenire. Dopo aver affermato che “la società ha bisogno di cittadini che non si preoccupano solo dei propri interessi perché il mondo va in rovina se ciascuno pensa solo a sé”, e dopo aver registrata “la consapevolezza di una crescente crisi sociale ed economica, che ormai interessa il mondo intero”, lancia a tutti l’appello che scaturisce dalla crisi: questa “chiede a tutti più sobrietà e solidarietà per venire in aiuto specialmente delle persone e delle famiglie in più serie difficoltà” (Omelia del 31 di­cembre 2008).

Nel “sogno” della notte di Natale, l’invocazione che rivolgevo a tutti “a uno slancio rinnovato, a un supplemento speciale di fraternità e solidarietà” era, in profondità, una vera e propria sfida a cambiare in modo radicale una cultura e un costume da noi molto comuni e diffusi, e cioè “uno stile di vita costruito sul consumismo che tutti siamo invitati a cambiare per tornare a una santa sobrietà, segno di giustizia prima ancora che di virtù”.

Mi viene da reagire, di nuovo, a queste ultime parole, così semplici eppure così provocatorie. Come non vedervi un’istanza tanto faticosa quanto liberante? Vorrei soffermarmi almeno un poco per coglierne i forti stimoli che vi sono racchiusi.

Con la sobrietà è in questione un “ritornare”, come se si fosse smarrita la strada. È in questione un “ritrovare” un valore, un tesoro che, dopo il riconosciuto e sofferto impoverimento, torna ad arricchire la vita. Il presupposto per la sobrietà è, dunque, una conversione: siamo chiamati a invertire la rotta della nostra esistenza, a cambiare strada. E il primo cambiamento è quello culturale, che riguarda la valutazione che noi diamo della realtà e, in concreto, il peso umano – specialmente morale e spirituale – che riconosciamo alla sobrietà all’interno dei diversi valori ed esigenze della nostra vita.

È di una forza eccezionale – e insieme di un’estrema gravità – l’interrogativo che ci ha posto il papa Benedetto XVI dopo aver qualificato l’attuale crisi economica globale come un “banco di prova” e “quale sfida per il futuro e non solo come un’emergenza a cui dare risposte di corto respiro”: “Siamo disposti a fare insieme una revisione profonda del modello di sviluppo dominante, per correggerlo in modo concertato e lungimirante? Lo esigono, in realtà, più ancora che le difficoltà finanziarie immediate, lo stato di salute ecologica del pianeta e, soprattutto, la crisi culturale e morale, i cui sintomi da tempo sono evidenti in ogni parte del mondo” (Omelia, 1° gennaio 2009).

L’ampiezza e la profondità del cambiamento richiesto per affrontare la crisi – una “conversione”, dicevo – emergono dalla necessità di “intervenire sulle cause”. E per questo – continua il Papa – “Non basta – come direbbe Gesù – porre rattoppi nuovi su un vestito vecchio (cfr. Marco 2,21)”(Angelus, 1° gennaio 2009).

Di fronte a questo quadro sono senza numero le domande che sorgono in merito alla sobrietà. Le riassumo ora in una sola: la sobrietà quale speranza può mai offrire e quale forza può mai avere per la soluzione della crisi economica di cui stiamo portando il peso?

Ma che cosa è la sobrietà?

Proprio questa è la prima e inevitabile domanda.

La sobrietà è virtù, certamente. Non però così facilmente apprezzata! E allora mi chiedo: perché? Forse, perché spesso fraintesa. Sobrietà è confusa, se non proprio con avarizia, con un vissuto che sa di risparmio minuzioso, di astensione dai consumi, di calcolo esasperato su tutto ciò che si potrebbe evitare di avere e di comperare ecc. Insomma, più che una virtù – cioè un modo positivo, esemplare di agire – sembrerebbe un comportamento non proprio apprezzabile se non addirittura maniacale, se fosse applicato in modo costante e in ogni circostanza. E, oltretutto, limitato alla sfera economica del vivere.

Ma la sobrietà autentica è tutt’altro!

Essa va intesa, anzitutto, come uno stile di vita complessivo: sobrietà nelle parole, nell’esibizione di sé, nell’esercizio del potere, nel vissuto quotidiano. La sobrietà non ha a che vedere solo con la quantità di beni materiali che consumiamo o meno, con quanto acquistiamo o non acquistiamo. Non è una questione solo economica, ma tocca una sfera molto più ampia del nostro agire e del nostro stesso essere.

In sintesi, la sobrietà è questione di temperanza. È vero che in passato si diceva che una persona era sobria solo in riferimento al mangiare e al bere. Ma è altrettanto vero che a questi comportamenti faceva riscontro uno stile di vita complessivo ordinato, equilibrato, fuori da ogni tipo di eccesso, secondo la giusta misura.

Personalmente ho trovato interessante per capire lo stile sobrio di vita un testo di sant’Ambrogio, che così scrive nella sua famosa opera “Sui doveri”: “Nella temperanza si considerano e si ricercano soprattutto la tranquillità dell’animo, l’amore alla mansuetudine, la grazia della moderazione, la cura dell’onestà, la stima per il decoro.

Dobbiamo praticare un metodo di vita, che derivi, per così dire, i primi fondamenti dalla modestia, la quale è compagna e amica della tranquillità dell’animo, evita la protervia, è aliena da ogni mollezza, ama la sobrietà, favorisce l’onestà, cerca il decoro. Si deve anche cercare in ogni azione che cosa sia conveniente alle persone, alle circostanze e all’età; inoltre che cosa sia adatto all’indole di ciascuno” (De officiis, I, 210, 211 e 213).

Tranquillità dell’animo, mansuetudine, moderazione, cura dell’onestà e stima per il decoro sono doni preziosi e compiti impegnativi. Solo con un’educazione morale e spirituale seria si possono accogliere e vivere. E tutti, a cominciare da chi ha una responsabilità di animazione e di guida della comunità, siamo invitati a ricuperare e rilanciare l’autentica sobrietà.

Ciò è possibile cogliendo i significati positivi e liberanti di cui la sobrietà si fa custode e promotrice. Essa, infatti, intende guarire il nostro comportamento quotidiano (personale, comunitario, sociale) da ogni eccesso, riconducendolo alla “giusta misura”, evitando le parole urlate e i toni eccessivi, i consumi sfrenati che giungono allo spreco e, dall’altra parte, l’avarizia di chi accumula indifferente al bisogno altrui.

L’accenno ora fatto all’avarizia mi porterebbe a soffermarmi a lungo su uno dei peggiori peccati, uno dei vizi capitali. Peraltro ricordando che non si dà solo l’avarizia come possesso egoistico e insaziabile dei beni materiali, come auri sacra fames: l’avaro teme che gli portino via il forziere e quindi si chiude tutto solo a rimirare le sue ricchezze, ma non ne trae gioia, resta solo, isolato dal contesto umano, come più volte ironico e forte scrive sant’Ambrogio:
“(L’avarizia) invidiosa di tutti, spregevole ai propri occhi, miserabile in mezzo alle più grandi ricchezze, con la sua brama vanifica ciò che abbonda di beni… Ma questa è una malattia, non la sanità dell’anima” (Caino e Abele, I, 5, 21). C’è anche l’avarizia di sé, quella che ci impedisce di guardare ai beni con un occhio libero e limpido e che ci trattiene dal condividere davvero.

Non mi schiero affatto per una sobrietà fine a se stessa: corre il rischio di trasformarsi in vera avarizia, magari sotto forme ostentate di povertà. Dico invece che la sobrietà non è un assoluto, non è qualcosa da perseguire in sé e per sé: essa è per un bene più grande. Non è virtù negativa, che spinge al calcolo e alla rinuncia in ogni campo del vivere, ma è l’atteggiamento di chi è consapevole del limite, proprio per creare spazio ad altri; di chi non espande i propri domini all’eccesso, proprio perché altri abitino la terra; di chi risparmia non per mettere via per sé, ma per condividere quello che può; di chi non si esibisce, non perché non ha nulla da comunicare agli altri, ma perché preferisce aspettare modi e tempi appropriati e non sospetti per farlo.

È una virtù che nasce e cresce attraverso un sapiente e coraggioso discernimento, che la mantiene intimamente collegata con la sua finalità: quella di essere al servizio del bene, a cominciare dall’amore per l’altro, dal dono di sé all’altro, dalla condivisione fraterna; in una parola, in riferimento alla solidarietà.

 

La sobrietà via privilegiata alla solidarietà

 

Così dunque immagino – e questa è la verità più bella e impegnativa – la sobrietà: una via privilegiata che mi con­duce alla solidarietà, alla condivisione vera e concreta, alla condivisione del pane. E per “pane” intendo tutto ciò che è necessario per vivere, per vivere secondo la dignità umana, che è di tutti, senza alcuna discriminazione. La sobrietà, non solo non si contrappone alla solidarietà, ma di questa è l’anima, la forza, il sostegno, ciò che le consente di durare e di crescere.

Non si può essere solidali senza essere sobri: altrimenti, si condividerebbe ciò che eccede all’estremo le mie o le nostre necessità. Chi è sobrio, invece, in ogni cosa si lascia interpellare dal bisogno altrui; lo considera attentamente, se ne fa carico e in base a quello decide ciò che gli può bastare. Tutt’altro che un ripiegamento meschino su di sé, piuttosto un atteggiamento di responsabilità verso gli altri! Per questo soltanto chi è sobrio potrà anche essere solidale.

Sin dove può spingersi la solidarietà che nasce dalla sobrietà? Sino a dare il proprio superfluo? O anche oltre il superfluo? È qui che gioca tutta la sua forza morale e spirituale la vera sobrietà: anche andando oltre il proprio superfluo! Siamo dunque di fronte a una solidarietà che si fa più grande, radicale, estrema.

È questo l’esempio emblematico della “vedova povera” del vangelo, la quale ha saputo condividere tutto, considerando la propria offerta più necessaria che non il badare a se stessa, alla propria vita. Ecco la lode che ne fa Gesù: “Tutti costoro hanno gettato come offerta parte del loro superfluo. Ella invece, nella sua miseria, ha gettato tutto quello che aveva per vivere” (Luca 21,4).

Ancora una volta voglio citare sant’Ambrogio, che commenta il “più di tutti” affermato solennemente dal Signore (“In verità vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato più di tutti”, Luca 21,3): “Vale di più una monetina presa dal poco che un tesoro attinto da una ricchezza grandissima, poiché si valuta non quanto si dà, ma quanto resta. Nessuno dà più di chi nulla conserva per sé” (De viduis, 27).

La sobrietà crea gli spazi. Nella mente, nel cuore, nella vita, nella nostra casa… la sobrietà apre agli altri, mentre rimpicciolisce l’importanza che diamo a noi stessi, ai nostri impegni, alle scelte che ci sembrano assolutamente indispensabili e che un attimo dopo averle realizzate ci deludono, a quanto ci affanna e ci crea inutilmente ansietà. Sì, apre agli altri, perché si interroga a partire dagli altri.

A sua volta, la solidarietà riempie questi stessi spazi. E li può colmare fino all’orlo: attraverso l’amore, la comprensione, la tenerezza, la misericordia; ma anche attraverso la condivisione di beni materiali, se necessario.

Una conferma – di più, un annuncio forte – ci viene dalla Sacra Scrittura. Anche se in un contesto sociale e culturale molto diverso dal nostro, la parola di Dio non manca di offrirci indicazioni preziose e incoraggianti.

Leggiamo, ad esempio, nel libro del Deuteronomio:

“Quando, facendo la mietitura nel tuo campo, vi avrai dimenticato qualche mannello, non tornerai indietro a prenderlo; sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova, perché il Signore tuo Dio ti benedica in ogni lavoro delle tue mani. Quando bacchierai i tuoi ulivi, non tornerai indietro a ripassare i rami: saranno per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Quando vendemmierai la tua vigna, non tornerai indietro a racimolare: sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Ti ricorderai che sei stato schiavo nel paese d’Egitto; perciò ti comando di fare questa cosa” (Deuteronomio 24,19-22).

E nel libro del Levitico:

“Quando mieterete la messe della vostra terra, non mieterete fino ai margini del campo, né raccoglierete ciò che resta da spigolare della messe; quanto alla tua vigna, non coglierai i racimoli e non raccoglierai gli acini caduti: li lascerai per il povero e per il forestiero. Io sono il Signore, vostro Dio” (Levitico 19,9-10).

Certo, cose di altri tempi! Ma l’istanza etica e religiosa che le vivifica permane e ci sollecita a un suo convinto e deciso rilancio nell’attualità. Infatti, la sobrietà – qui rappresentata dall’evitare di spingere la propria economia, sia pur fiorente, sino all’estremo guadagno (simboleggiato dalla rinuncia a raccogliere fino all’ultimo stelo di grano o all’ultima oliva o al chicco rimasto sui tralci) – non è semplicemente fine a se stessa. Trova invece la sua ragione profonda nel far sì che gli ultimi nella società del tempo (forestieri, orfani, vedove), in quanto privi di ogni protezione sociale, trovino risorse per vivere, per vivere senza offesa della loro dignità umana, senza dover mendicare, senza essere costretti a umiliarsi per ricevere dalle mani altrui qualcosa, una “elemosina” nel senso dispregiativo del termine.

Non solo: ma proprio il ricordo esplicito dei benefici insuperabili di Dio – che non soltanto in passato ha liberato Israele ma ti ha liberato e continua a renderti libero –, oggi, per sua grazia, deve essere la molla, la spinta interiore per agire in questo modo: “Io sono il Signore, vostro Dio”. Da Dio, quindi, e da una rinnovata presa di coscienza di chi è il fratello per me scaturisce un agire rinnovato, ispirato a solidarietà. Dal riconoscerci perenni debitori di Dio, dal desiderio di rispondere pienamente a Lui nasce una solidarietà cosciente, duratura, responsabile.

Come si vede, la sobrietà prepara il terreno alla solidarietà, togliendo di mezzo esagerazioni, eccessi e tutto ciò che egoisticamente rinchiude l’uomo, accentrandolo e avvitandolo su se stesso. E così la solidarietà può provvedere a far crescere, su questo terreno di essenzialità, legami nuovi di presa a carico dell’altro, di condivisione. E ancora: se la sobrietà è esercizio di responsabilità – personale e comunitaria –, la solidarietà fa avanzare un tipo particolare di responsabilità: quella condivisa, la corresponsabilità, la capacità cioè di rispondere con tutto se stessi, con ciò che si è e si ha, nei riguardi delle esigenze di tutti gli altri e insieme, non da soli soltanto o nei riguardi di alcuni altri soltanto.

Vorrei solo aggiungere – ma il punto è di singolare importanza – che la sobrietà non è solo un valore personale e individuale, ma è anche un valore sociale, comunitario. Anzi, oggi riveste una portata mondiale – in un mondo sempre più globalizzato –, in quanto riguarda l’uso sapiente dei beni per l’autentico sviluppo sostenibile dell’intera umanità, oggi e per il futuro.

 

Senza povertà evangelica non c’è sobrietà, non c’è solidarietà

 

C’è ancora una domanda – “fastidiosa” forse, ma stimolante, coraggiosa e benefica – che sulla sobrietà vorrei porre a me stesso e agli altri: “Sì, la sobrietà è necessaria alla solidarietà; ma, di fatto, è possibile una sobrietà che non nasca dalla povertà, più precisamente dalla povertà evangelica?”.

La mia è una risposta apparentemente paradossale ma inequivocabile: non è possibile! Senza povertà non c’è sobrietà, non c’è solidarietà! Certo, è necessario chiarire bene, per non cadere in facili equivoci e diffusi fraintendimenti, che non servono alla stessa povertà.

Un’occasione particolare per riflettere su questo è stata per me l’omelia tenuta la festa di san Carlo sul tema della povertà dei presbiteri. Rilevavo, fin da subito, che la chiamata alla povertà evangelica accomuna di per sé tutta quantala Chiesa, pur nella diversità delle vocazioni, dei carismi e ministeri, delle responsabilità ecclesiali, civili e professionali di ciascuno. Precisavo poi che la povertà è uno stile di vita che testimonia – a partire dalle scelte basilari e concrete del vissuto quotidiano – il primato del Regno di Dio e della sua giustizia. E che, ripetevo, va ben oltre la vita del prete e la sua testimonianza, perché riguarda ogni credente, come pure, in generale, ogni persona ragionevole e di buona volontà.

Ora abbiamo un aiuto prezioso per approfondire il rapporto sobrietà-povertà nell’omelia di Benedetto XVI del 1° gennaio 2009, là dove egli si sofferma sui due volti della povertà: la povertà “da combattere” e la povertà “da scegliere”.

“C’è una povertà – dice –, un’indigenza, che Dio non vuole e che va ‘combattuta’…; una povertà che impedisce alle persone e alle famiglie di vivere secondo la loro di­gnità; una povertà che offende la giustizia e l’uguaglianza e che, come tale, minaccia la convivenza pacifica. In que­sta accezione negativa rientrano anche le forme di povertà non materiale che si riscontrano pure nelle società ricche e progredite: emarginazione, miseria relazionale, morale e spirituale”.

Ma immediatamente il Papa rileva la necessità di stabi­lire un “circolo virtuoso” tra questa povertà da combattere e quella “da scegliere”: “Per combattere la povertà iniqua, che opprime tanti uomini e donne e minaccia la pace di tutti, occorre riscoprire la sobrietà e la solidarietà, quali valori evangelici e al tempo stesso universali”. E continua: “Più in concreto, non si può combattere efficacemente la miseria, se non si fa quello che scrive san Paolo ai Corinzi, cioè se non si cerca di ‘fare uguaglianza’, riducendo il dislivello tra chi spreca il superfluo e chi manca persino del necessario. Ciò comporta scelte di giustizia e di sobrietà”.

Ma è proprio qui che il Papa introduce e sviluppa il discorso specifico sulla povertà “da scegliere”, sulla povertà evangelica. Ed è il mistero del Natale, l’evento della nasci­ta del Figlio di Dio fatto uomo a fondare teologicamente l’esigenza morale della scelta della povertà: “La nascita di Gesù a Betlemme ci rivela che Dio ha scelto la povertà per se stesso nella sua venuta in mezzo a noi. La scena che i pastori videro per primi, e che confermò l’annuncio fatto loro dall’angelo, è quella di una stalla dove Maria e Giuseppe avevano cercato rifugio, e di una mangiatoia in cui la Vergineaveva deposto il Neonato avvolto in fasce (cfr. Luca 2,7.12.16). Questa povertà Dio l’ha scelta. Ha voluto nascere così – ma potremmo subito aggiungere: ha volu­to vivere, e anche morire così. Perché?… Ecco la risposta: l’amore per noi ha spinto Gesù non soltanto a farsi uomo, ma a farsi povero”.

Cade qui quanto mai preziosa una citazione paolina: “Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2 Corinzi 8,9). Siamo di fronte a una stupenda sintesi cristologica, che appare a noi ancor più significativa in quanto ispirata all’Apostolo proprio mentre stava esortando i cristiani di Corinto a essere generosi nella colletta in favore dei poveri. “Non si tratta – precisa Paolo – di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza” (8,13).

Riprendendo il testo paolino, il Papa osserva che: “Quando afferma che Gesù Cristo ci ha arricchiti con la sua povertà, san Paolo offre un’indicazione importante non solo sotto il profilo teologico, ma anche sul piano sociologico. Non nel senso che la povertà sia un valore in sé, ma perché essa è condizione per realizzare la solidarietà”.

È naturale, in questo contesto, il riferimento a san Francesco d’Assisi, che il Papa definisce “testimone esemplare di questa povertà scelta per amore”, e al francescanesimo, che “nella storia della Chiesa e della civiltà cristiana, costituisce una diffusa corrente di povertà evangelica, che tanto bene ha fatto e continua a fare alla Chiesa e alla famiglia umana”. E ancora: “Quando Francesco d’Assisi si spoglia dei suoi beni, fa una scelta di testimonianza ispiratagli direttamente da Dio, ma nello stesso tempo mostra a tutti la via della fiducia nella Provvidenza.

Così, nella Chiesa, il voto di povertà è l’impegno di alcuni, ma ricorda a tutti l’esigenza del distacco dai beni materiali e il primato delle ricchezze dello spirito. Ecco dunque il messaggio da raccogliere oggi: la povertà della nascita di Cristo a Betlemme, oltre che oggetto di adorazione per i cristiani, è anche scuola di vita per ogni uomo. Essa ci insegna che per combattere la miseria, tanto materiale quanto spirituale, la via da percorrere è quella della solidarietà, che ha spinto Gesù a condividere la nostra condizione umana”.

Non è questo il momento di addentrarci in una più ampia analisi sulla povertà evangelica come virtù e beatitudine che Cristo propone a ogni suo discepolo. La saggezza mi chiede però di invitare quanti vogliono vivere la loro vera umanità a riflettere sulla povertà con quello stesso senso di responsabilità che tanti hanno nei riguardi, se non della sobrietà, almeno della solidarietà, e questa come via da percorrere per un nuovo stile di vita – personale e sociale – e in ordine a contribuire alla soluzione della crisi economico-finanziaria che ci affligge.

Mi piace riportare qui la preghiera che l’allora arcivescovo Montini, in occasione del pellegrinaggio lombardo alla tomba di san Francesco, ha rivolto al santo: “Ecco, allora, Francesco, che la Tua Povertà ci diventa amica e maestra. Ecco che ammonisce coloro che mettono nei beni economici le loro somme speranze a mirare più in alto, a svincolare il cuore dall’amore delle cose terrene, e a saperle considerare come buone, solo quando ci sono scala per salire le vie dello spirito e ci sono specchio per riflettere la bellezza, la bontà, la provvidenza di Dio; come Tu, Povero, le hai viste, alla fine, cantandole, come libero poeta, nel Tuo cantico delle creature. Così insegnaci, così aiutaci, Francesco, ad essere poveri, cioè liberi, staccati e signori, nella ricerca e nell’uso di queste cose terrene, pesanti e fugaci, perché restiamo uomini, restiamo fratelli, restiamo cristiani, noi Lombardi, noi Italiani” (4 ottobre 1958).


1) Pubblichiamo per gentile concessione dell’editore uno stralcio da “Non c’è futuro senza solidarietà. La crisi economica e l’aiuto della Chiesa”, di Dionigi Tettamanzi. (San Paolo Edizioni, 2009). Riproduzione riservata.

*Dice di sé.
Dionigi Tettamanzi. Cardinale Arcivescovo di Milano. Nato a Renate, in diocesi di Milano, il 14 marzo del 1934. Ordinato presbitero dall’Arcivescovo Giovanni Battista Montini il 28 giugno del 1957. Docente di teologia morale nei seminari milanesi. Eletto Arcivescovo di Ancona-Osimo nel 1989, nominato Segretario Generale della CEI nel 1991, trasferito a Genova nel 1995, trasferito a Milano nel 2002 

TORQUATO TASSO
Difesa migliore che usbergo o scudo, è la santa innocenza alpetto ignudo.(Da “La Gerusalemme liberata”, 1581)
TELEVISIONE Tommaso Labranca - La televisione trash non esiste

La miscela di ragazze semidiscinte e satira di “Striscia la notizia” è figlia della stessa mistura cui si assisteva nei café-concert parigini, frequentati anche dal giovane Bonaparte

Tommaso Labranca*

La televisione trash non esiste, perché non esiste più il trash. Non esiste più da quando se ne parla troppo e, esaurita la spontaneità, si è cominciato a ricrearlo artificialmente. Ormaitrash è un termine che si usa per convenzione in luogo di altri termini che non vengono usati per ipocrisia. Ed è un male, perché quella convenzione si è subito mutata in convinzione. La convinzione di non far parte di quel mondo esecrabile e urlante che alcuni definiscono trash e che cercano però di presentare, di sfruttare, di riprodurre in maniera pateticamente ironica. Ma sempre sottolineando la loro non appartenenza a quell’ambito così basso, incolto e poco cool.

Tracciando una linea tra lo studio televisivo in cui vogliono giocare con la spazzatura e una presunta elevata vita culturale al di fuori di quello.

Già in “Andy Warhol era un coatto” individuai questo atteggiamento e lo definii con espressione etologa territorial pissing. Conosco personalmente alcuni di questi personaggini e so che la loro puzza sotto il naso non è assolutamente giustificata, in quanto non posseggono quella cultura (né classica, né d’immagine, né televisiva) che vogliono contrapporre al cosiddetto trash. Gente miminamente alfabetizzata, con conoscenze da scuola dell’obbligo e una memoria televisiva che non va più in là degli esordi di Lorella Cuccarini, ma convinta di realizzare una televisione spiritosa, ironica, coscientemente volgare, antiborghese, volutamente trash. In realtà la televisione di questi autorini da canale giovanilistico-musicale è trash, ossia imperfetta, perché realizzata in maniera non professionale. Ma con tutta la spocchia propria dell’ignoranza di chi, senza saper spiegare perché, ripete che il “trash è Wanna Marchi”. Assunto che potrebbe anche essere vero, potendolo dimostrare.

Sono ormai oltre trent’anni che sono attratto dal trash. Sin da una sera dell’agosto 1975, a Gavirate, in provincia di Varese, quando, durante un’esibizione dei Ceresio Folk, gruppo di liscio locale che si rifaceva ai Verbano Folk, gruppo di liscio provinciale di maggior successo, che a loro volta cercava di emulare Casadei, ebbi la rivelazione che mi portò poi a osservare con interesse da entomologo le bottiglie di liquore Carciuff che emulavano il Cynar o il Calendario di Frate Mago che aspirava a quello di Frate Indovino.

Ma sempre sentendomi parte di questo mondo, non osservatore estraneo, che se ne occupa solo per sottolinearne la distanza dal proprio universo aulico. Anzi, mi capita il contrario.

Mi capita spesso la domenica mattina di andare sul lungolago di Gavirate a leggere pagine sparse di Morselli (Guido, non Demo), che proprio in quella cittadina si suicidò, e il più delle volte la mente abbandona le righe della massiccia Nave Argo Adelphi e si perde nel ricordo dei Ceresio Folk. Perché non riesco a segnare confini tra trash e non-trash.

In fondo non ho neppure mai amato molto quel termine. Per me il trash è uno scarto, non nel senso di rifiuto, ma di differenza tra intenzione originaria e risultato ottenuto. Preferisco usare l’espressione emulazione fallita, atteggiamento che porta a copiare un prodotto di particolare successo e che è insito da sempre nell’animo umano. Cos’era l’Eneide se non la versione trash dei poemi omerici e cos’era Chaucer se non la versione trash di Boccaccio.

La vera esplosione del trash emulativo si è però avuta negli ultimi 250 anni, all’incirca da quando la borghesia cominciò a volersi differenziare dalla massa confusa del terzo stato per avvicinarsi al secondo. Iniziò allora la disperata ricerca di emulare l’aristocrazia materialmente e spiritualmente, scelta sciagurata che ancora oggi scontiamo.

Avrete visto quei lampadari a gocce in mezzo cristallo, che ancora pendono nelle camere da letto delle nonne. Quei lampadari che fanno ridere qualche stolto giovane studente di design pronto a definirli trash senza sapere spiegare perché. Ebbene, simili elementi non sono che i residui del tentativo di emulare, ai minimi termini e in ambienti borghesi, gli enormi lampadari che illuminavano le residenze degli aristocratici. Quelli sotto cui balla il principe di Salina, per esempio.

Avrete visto certa fiction italiana, girata male e recitata peggio, che appassiona milioni di telespettatrici. Quella che qualche stolto giovane studente di scienze della comunicazione definisce trash senza saper spiegare perché. Ebbene, simili produzioni non sono che il residuo di quella letteratura artificiale nata per far sognare le signorine borghesi e illuderle di possedere la stessa elevata sensibilità delle aristocratiche che sin dal medioevo si sdilinquivano con i romans. In pieno Settecento, in Inghilterra, ai tempi della Rise of the Novel, Samuel Richardson scrisse un romanzone per signorine dal titolo “Pamela”. Romanzone che 250 anni dopo ha ispirato la fiction televisiva per signorine “Elisa di Rivombrosa”. Quindi la mia teoria non è poi così campata in aria.

Come si arriva dai lampadari a gocce e dal romanzo inglese del Settecento a Wanna Marchi? Comodamente. Sfruttando l’aspirazione umana a dare di sé un’immagine diversa da quello che si è in realtà. La vittima del trash che negli ultimi 250 anni ha appeso un lampadario finto-Gattopardo in camera da letto e si è spacciata per letterata svenevole leggendo romanzetti d’appendice avrà sicuramente comperato le fiale “a base di codacavalla purissima” che Wanna Marchi vendeva con l’illusione di ottenere un corpo diverso. Il trash della Marchi stava nell’idea nascosta dietro i suoi prodotti, nella promessa (fatta alla casalinga appesantita) di poter emulare un modello alto (un corpo più giovane e snello). L’autorino televisivo da MTV è invece convinto che la Marchi fosse trash perché urlava e, in seconda battuta, per l’inefficacia dei suoi prodotti.

Ecco l’errore più grave e ipocrita: voler bollare come trash il gusto e l’atteggiamento popolari. Wanna Marchi non era che l’ultima erede degli imbonitori di piazza, spacciatori di prodotti truffaldini, anch’essi urlanti, anch’essi vestiti in maniera assurda. Anche senza averli visti dal vero nei mercati, basterebbe ricordare il triste finale di “L’arte di arrangiarsi” con Alberto Sordi travestito da bavarese che vende, urlando, scadenti lamette da barba per strada. Ma gli autorini sono troppo occupati a ricitare per l’ennesima volta “Ballo ballo” della Carrà o Diana Est per poter avere il tempo di conoscere Luigi Zampa e Vitaliano Brancati.

L’imbonitore, da mercato o catodico, è figlio della cultura popolare. E purtroppo di fronte al popolare molti si ritraggono con ribrezzo, ancora una volta per segnare con il territorial pissing, i limiti del proprio habitat aulico. Non osano nemmeno chiamarlo con il proprio vero nome e lo definiscono trash. Siccome nulla è più popolare della televisione, ecco quindi nascere il mito della tv trash, di questo orrore che ci sta uccidendo, che sta rovinando il mondo… Ulteriore ipocrisia perché il mondo è sempre stato così, attratto dai sentimenti forti, dalle tinte vivaci, dalle musiche orecchiabili, dai personaggi sopra le righe. Anche dai corpi esposti con molta generosità.

Affidarsi alla logora catena tette&culi > televisione > trash significa non avere alcuna idea di come il mondo dello spettacolo abbia sempre cercato di attirare il grande pubblico esponendo più epidermide possibile. La miscela di ragazze semidiscinte e satira di “Striscia la notizia” è figlia della stessa miscela cui si assisteva nei café-concert parigini, frequentati anche dal giovane Bonaparte. E Belen Rodriguez è solo l’erede di tante anonime ballerine d’avanspettacolo che facevano imbizzarrire il pubblico di sessant’anni fa. La differenza è che la televisione, con la sua forza penetrativa, amplifica tutto.

Se non fossero elementi che determinano il successo di una trasmissione televisiva, né la Rai né Mediaset avrebbero puntato su di loro, mediandoli dalla riproposizione estrema che ne fece a fine anni Settanta il regista Beppe Recchia in un programma come “La bustarella”. Perché in quegli studi di Castellanza, tra Milano e Varese, è nata la televisione attuale. Un caso di trash scompaginato in cui i grandi hanno emulato i piccoli.

Allibisco quando sento le geremiadi di certi critici che stigmatizzano le trasmissioni televisive attuali come se nell’era pretelevisiva tutti vivessero in un universo raffinato e colto. Questa è solo un’ennesima dimostrazione di ignoranza. La morbosità e, in fondo, l’invidia che il piccolo borghese provava verso le stranezze di Oscar Wilde o Gabriele d’Annunzio sono le stesse che l’attuale telespettatore e lettore di rotocalchi popolari prova verso le stranezze di Fabrizio Corona. Corona non è trash. È l’ultimo dannunziano, vitale e fisico, in un mondo in cui i soloni della cultura hanno diffuso l’idea che il modello da seguire sia solo il pasoliniano tormentato e pallido.

La presa di distanza che l’intellettuale deve avere dalla televisione, dalla sua popolarità, dal suo essere trash, è un male nato forse contestualmente alla tv se già nel 1961, a soli sette anni dall’inizio delle regolari trasmissioni in Italia, Vittorio de Sica, sindaco nel film “Il vigile”, si giustificava per aver assistito a una puntata de “Il musichiere”. “Raramente guardo la televisione… ma ieri sera mi trovavo per caso davanti al video…”. Parole che ancora oggi senti ripetere da coloro che hanno il terrore di essere considerati trash (ossia popolari) perché seguono i programmi trash (ossia popolari). E ti dicono che preferiscono leggere un buon libro. Magari uno di quei tomi improponibili scritti da un aulico scrittore che per promuoversi gira tutti i santuari del marchettificio editoriale televisivo, da Fazio alla Bignardi, da Vespa alla Dandini. E ovunque ripete noiosamente le stesse cose tanto che alla fine risulta più stimolante osservare lo stato catatonico in cui versano i concorrenti del Grande fratello quando non sono impegnati a fingere nelle dirette serali.

Giusto per citare uno di quegli esempi di “tv trash italiota” che i paladini della cultura amano massacrare dalle colonne di quotidiani che nessuno legge. Dimostrando ancora una notevole dose di ignoranza, questa volta geografico-linguistica e non storica. Perché essi vivono nella convinzione che il trash televisivo sia prerogativa solo italiana. Non hanno idea di cosa sia un format e sono convinti che Wetten, daß… o Bitte, lächeln siano testi di filosofi idealisti tedeschi e non i titoli germanici di due espressioni di quella televisione popolare da loro tanto detestata (rispettivamente “Scommettiamo che…” e “Paperissima”).

Ma la palestra in cui meglio si esercita l’odio verso la televisione trash sono i contenitori della domenica pomeriggio. Come certe industrie alimentari continuano a volerci far credere che i loro prodotti a base di conservanti e insaporitori siano simili ai biscotti sfornati da antiche nonne campestri, forse mai esistite, allo stesso modo gli avversatori della tvtrash diffondono l’idea malsana che prima di questi contenitori barbari, noiosi e volgari, le domeniche fossero momenti di splendore umano e culturale.

Basterebbe leggersi pochi versi di uno dei miei poeti preferiti, Marino Moretti, per trovarsi di fronte certi cupi giorni festivi “in cui non s’ha nulla” e il cui pomeriggio “declina in un vapore grigio”. La domenica, giorno che Moretti definiva “giorno di cartapesta”, espressione che richiama alla mente la finzione spettacolare che vediamo in tv.

Che differenza c’è tra gli organetti di Barberia e i cruciverboni, tra il cangurotto e gli orsi ballerini che gli zingari portavano in giro per i paesi nelle domeniche pomeriggio di fronte a un popolo semplice e stupito, non meno diverso da quello che oggi fa la fortuna delle testate dirette da Sandro Mayer?

La tv non è trash. È popolare come lo è il mondo che la segue. Come era il mondo di Marino Moretti, di cui i censori non conoscono la poesia delicata e ingiallita perché non se ne parla mai nelle pagine culturali de “Il manifesto”, fonte sempre croccante di spocchia libraria e antitelevisiva.
*Dice di sé.
Tommaso Labranca. Dal 1994 a oggi ha scritto svariati libri. Eppure spesso i giornalisti gli domandano: “Come ti definisco?”. La risposta è spesso “Casalinga”. Loro ridono e poi scrivono “trashologo”. Ciò è causa di frequenti depressioni del Labranca, soprattutto quando vede quegli stessi giornalisti che definiscono “scrittori” conduttori radiofonici del mattino, vee-jay, buddiste ed ex sindaci. 

Rachele Zinzocchi - Reality show, il neorealismo del terzo millennio

Al centro sempre la realtà: umana, troppo umana, aldilà del bene e del male. Da De Sica, Rossellini, Zavattini e Visconti al Grande fratello

Rachele Zinzocchi*

L’artista e l’uomo apparivano così uniti, che non si sa bene

dove cominciava l’uno e dove finiva l’altro;

più che il come, prima colpiva la cosa da raccontare,

e se questo movimento postulava l’uomo prima dell’artista,

l’artista era felice di venire dopo l’uomo.

Cesare Zavattini

 

 

Artista e uomo, finzione dell’arte e realtà dell’umanità, uniti in un tutt’uno: dove la priorità è di quest’ultima, dell’umanità reale, cui l’arte rispettosamente si inchina e cede il passo, in reverente osservazione di ciò che è. Con questa immagine potente Cesare Zavattini, tra i più grandi teorici e sceneggiatori del neorealismo, sintetizzava l’essenza di quel movimento culturale che caratterizzò il nostro cinema già prima della fine della Seconda guerra mondiale e poi nel Dopoguerra, tra il 1943 e il 1953.

Il Neorealismo si chiamò così proprio per il ruolo primario attribuito alla realtà: protagonista assoluta da riprendere nuda e cruda, nel suo bene e nel suo male. Dinanzi ad essa la “compagnia dell’arte” – macchina da presa, attori, sceneggiatori, ogni possibile copione – sceglieva di fare un passo indietro, con rispetto quasi sacrale del dato, bastante a se stesso per veicolare il messaggio che stava a cuore: il senso di questa nostra vita, nel momento e nel luogo in cui veniva ripresa.

Il neorealismo sconvolse i canoni della cinematografia italiana, al tempo ancora dominata dalle paludate vesti dell’ideologia artistica fascista. Suscitò critiche, divise gli esperti in pareri anche opposti. Solo col tempo fu definitivamente consacrato a icona di una parte decisiva della nostra storia.

C’è un termine oggi, su tutti, che ci viene in mente parlando di neorealismo. È il termine, famigerato, reality: reality show.

Blasfemia? Orrore linguistico, oltre che del pensiero? In parecchi certo lo diranno. Qualche intellettuale starà già sgranando gli occhi, raccapricciato all’idea che i vertici del cinema neorealista possano essere accostati anche solo per un attimo alle (presunte) bassezze trash degli odierni reality show.

Seguitissimi, sempre di più, come l’ultima stagione tv ha dimostrato. Ma privi, per i detrattori, di qualsivoglia spessore culturale: inteso come capacità di veicolare contenuti ricchi di qualche senso per la nostra epoca.

Eppure le analogie non mancano. E anche le evidenti, innegabili differenze ci appaiono ascrivibili più all’ovvia diversità del contesto storico-culturale – ai decenni che separano i due esperimenti artistici – che non a una reale disomogeneità di natura e intenti.

Se però l’accostamento di neorealismo e reality show, lungi dall’essere blasfemo, fosse davvero fondato su una comune matrice, non andrebbe forse rivista la valutazione che noi “contemporanei” stiamo dando del fenomeno reality? Il dubbio si insinua. Forse i reality show potrebbero essere qualcosa di più che i prodotti spazzatura stigmatizzati dai palati fini e anche qualcosa di più maturo che una semplice macchina macina-audience, come vogliono i loro sostenitori. Non ci sarebbe da stupirsi.

Anche Totò o i “B-Movie” furono relegati dai coevi negli infimi gradini dell’arte, per essere invece consacrati alla gloria in seguito, da critiche più serene e distaccate: come un domani potrebbe accadere ai reality show.

Iniziamo allora dalle analogie. Zavattini, nell’affermazione citata all’inizio, rinviava al “tutt’uno” fra artista e uomo, dove “non si sa bene” chi venga prima: e comunque, semmai, prima sarà sempre l’umanità reale. È ciò che accade con tutti i grandi registi che hanno fatto la storia del neorealismo: da Luchino Visconti, col suo “Ossessione”, a Roberto Rossellini, da Vittorio De Sica a Pietro Germi, Alberto Lattuada, Giuseppe De Santis.

Chiediamoci ora: non è questo anche lo spirito con cui i reality show sono nati? Fin dal principio: dall’uscita del magistrale film “The Truman show”, che con il suo successo aprì la strada al primo analogo esperimento tv, fattosi subito fenomeno di costume, il “Grande fratello” di Endemol. Anche qui tutto sta nel seguire, giorno dopo giorno, la vita reale delle persone riunite sotto il grande occhio del “Big brother”.

Un occhio che rispettosamente guarda e dà conto, grazie a telecamere sparse ovunque, della vita reale chiusa dentro la casa. Non a caso, in questi nove anni, sempre più spesso si è ribadito che il fattore di successo del GF, come degli altrireality, sta anzitutto nella scelta del cast.

Il cinema neorealista, inoltre, ha spesso utilizzato attori non professionisti. “La terra trema” di Visconti fu interpretato esclusivamente da non professionisti e girato nello stesso paese de “I Malavoglia” di Verga, cui il film si ispira, Aci Trezza. Addirittura, lingua ufficiale della pellicola fu il dialetto siciliano, con tanto di sottotitoli per la versione originale italiana.

Domanda: non sono appunto persone comuni – specie nella ispirazione originaria – i primi protagonisti del “Grande fratello”, reality show per eccellenza? È vero che, in seguito, tanti altri esperimenti di reality sono nati con personaggi famosi: il “Celebrity big brother”, “La fattoria”, “L’isola dei famosi”. Ma che il genere possa svilupparsi secondo percorsi prima impensati rientra nell’ordine delle cose. In ogni caso le celebrities vengono staccate dal loro contesto naturale, dalle loro abitudini. Sono prese e trapiantate entro un humus tutto diverso dal solito, che abbatte le barriere e le rende “normali”, più simili ai non-Vip. Insomma, nell’ispirazione originaria di entrambi, l’obiettivo è puntato sulla gente comune. Solo in questa, nell’esperienza diretta di loro e su di loro, c’è per chi guarda la speranza di capire qualcosa in più sugli altri, su di sé e la realtà che ci circonda.

Pensiamo a un capolavoro come “Roma, città aperta” di Rossellini, affresco della lotta morale degli italiani contro l’occupazione tedesca. Al centro ci sono i bambini, osservatori della realtà, e lo spettatore trova la chiave del futuro proprio guardando a loro: alla loro realtà e, in generale, alla realtà nuda e cruda, come tale portatrice di un messaggio decisivo sulla nostra identità, passata e presente. E sul nostro domani.

Analogamente, dai nostri reality emerge la realtà: chi sono gli uomini e le donne di oggi, chi siamo noi, belli o brutti. I protagonisti del nostro GF o degli altri reality certo non hanno avuto a che fare con la guerra o le bombe, la fame e la miseria. I nostri sono i “bamboccioni” del terzo millennio: frivoli, col mito di veline e calciatori. O magari i disoccupati, i precari che, nel rutilante mondo della tv, cercano la via d’uscita alle angosce del quotidiano.

Nell’ultimo GF c’era l’esplosiva Cristina, ma anche la “pasionaria” Alitalia, Daniela Martani, il non vedente Gerry o il vincitore Ferdi, rom arrivato in Italia su un gommone come tanti suoi connazionali, oggi al centro delle più aspre battaglie politiche tra respingimenti e tentata integrazione. Non sono gli stessi uomini e donne del neorealismo cinematografico. Ma le evidenti differenze, più che comprensibili a oltre mezzo secolo di distanza, non li rendono meno veri, meno in grado di rappresentare la realtà in cui, piaccia o no, viviamo.

Piaccia o no: ecco un altro punto decisivo. I giudizi di merito sono banditi. Visconti o Rossellini non hanno mai preteso di dire che quanto filmato dalla loro cinepresa fosse giusto o sbagliato, buono o cattivo. Il loro obiettivo era, semplicemente quanto maestosamente, riportare la realtà come tale. Fotografarla, consegnarla allo spettatore e con ciò dire: “Ecco, noi oggi viviamo qui”. Così, in un paradosso solo apparente, i nostri reality show e la tv di oggi non danno giudizi su ciò che riprendono e mostrano. Soprattutto non devono farlo.

Quando ci provano, rischiano grosso: di generare mostri. La tv non fornisce modelli educativi, né può farlo. Non stigmatizza ideali riprovevoli, né ha il diritto di farlo: ad altre istituzioni, a ben altri maestri, deve essere riservato il difficile e mai finito compito della formazione.

La televisione, i nostri reality, sono piuttosto specchio della realtà odierna: uno specchio semplice, ma decisivo per capire chi siamo, cosa vogliamo. Ad altri l’onore e l’onere di dire – ieri come oggi – se ciò che siamo diventati sia splendido o riprovevole, ad altri onore ed onere di cambiarci. La tv non può né deve farlo. Mai.

E questo a prescindere dalle critiche più o meno feroci contro i reality show: stigmatizzati come trash, tv spazzatura e, appunto, diseducativa. Ma anche col neorealismo, mito oggi intoccabile, all’epoca non si usò mano meno pesante. Certi argomenti, come miseria, emarginazione, delinquenza – o il fallimento ideale della Resistenza – risultarono particolarmente sgraditi ai governi del nostro Paese, specie dopo il 1947, con l’acceso scontro politico allora in corso.

“Il cinema neorealista non piaceva alla borghesia benpensante, come al mondo prudente dei conservatori, ma non trovava nemmeno accoglienza nella sinistra per l’eccesso d’indiscrezione verso i difetti della nazione”, si legge in una bella ricerca su “Trieste Rivista”, nella sezione riservata al materiale della Scuola di specializzazione per l’insegnamento nella scuola secondaria dell’università degli studi di Trieste.

“Il dibattito si fece acceso, soprattutto quando fu fatta intervenire la censura per sforbiciare quei film ritenuti lesivi il buon nome dell’Italia. Un’alleanza di conservatori, di funzionari dell’ex burocrazia fascista, di cattolici moderati, colpì fino agli anni Cinquanta”.

Che cosa si dice, e si scrive, oggi su reality e affini? Corriere della Sera, 18 maggio: “Quelli del Gf contestati da La Destra”: “un blitz di Gioventù italiana” ha “esposto uno striscione di 15 metri con la scritta boicotta la tv spazzatura”. Sessant’anni non sembrano passati. Ancora, Panorama, 11 giugno. In un’intervista a Presta e Dose, alla domanda “Cos’è trash oggi?”, i due rispondono: “La totalità dei reality show e degli intellettuali che scrivono paginate per legittimarli. Non c’è niente di vero quando hai una telecamera addosso”. Chissà se un simile giudizio lo avessero riferito, mezzo secolo fa, a un Visconti, un Rossellini… O cosa avrebbe detto allora Roberto Levi, che oggi sulle pagine del Giornale relega l’ultimo GF a “miscela cinica, ma vincente, che compensa la pochezza dei contenuti con il consueto carnaio di bisticci, polemiche, colpi bassi, strusciamenti paraerotici, alleanza fittizie, coltellate alle spalle o al bersaglio grosso, scene madri e abbondante profluvio di lacrime e di emozioni”.

O ancora Mirella Poggialini, che su Avvenire chiede a che si debba il fascino di questi programmi in cui “la realtà si traveste da reality e si inventano, in una reclusione da zoo, situazioni relazionali in cui prevalgono esibizione, sesso, villania e litigi”, nulla più che un “teatro della noia e dell’eccesso che un colpo di genio ha battezzato “reality”.

Lo studio prima citato sul neorealismo continuava: “Solo alcuni intellettuali, rappresentanti il pensiero liberale e il cattolicesimo sociale, accolsero positivamente l’esperienza, come quanto di più originale e vivo aveva prodotto il cinema italiano”. Anche oggi sembra che solo le menti più liberali – non necessariamente, ma spesso coincidenti con le più colte e illuminate – sappiano vedere i reality show al di là della presunta pagina trash, della presunta spazzatura. Che ci sarà pure, forse. Ma è vita, vita vera. E come tale non solo degna della massima attenzione, ma unico luogo che ci consente di capire – osservandolo bene, distaccatamente – qualcosa di più su noi stessi. Chi siamo, da dove veniamo. E soprattutto dove saremo domani.
*Dice di sé.
Rachele Zinzocchi. Fiorentina di nascita, ma romana d’adozione, una laurea in filosofia teoretica alla scuola Normale superiore di Pisa – sulla metafisica e la finitezza umana – e un amore ancora oggi viscerale per ciò che significa pensare: oltre che per la possente lingua tedesca. Giornalista per desiderio di libertà nella comunicazione, è stata folgorata sulla via di Damasco da una grazia divina. 

GIORGIO FALETTIPercorse il suo corpo nudo e dentro di lui lo strappo finì di lacerarsie strinse fra le mani i brandelli informi di quello che era statoil suo amore per Ivana.(Da “Fuori da un evidente destino”, 2006)

 

 

Milo Infante - Quando un critico vi dà per morti state sicuri che avrete successo

In un paese in cui ci sono 50 milioni di commissari tecnici  della Nazionale di calcio, figuriamoci se mancano gli opinionisti  e i critici televisivi

Milo Infante*

Sono in molti, in questi mesi, a chiedersi come sarà la televisione di domani. Una domanda la cui risposta è purtroppo semplice: simile, per non dire eguale, a quella di ieri. Cambiano i conduttori, si mischiano le carte, ma sono ben pochi i direttori di rete che hanno il coraggio di sperimentare programmi innovativi, schiacciati dalle logiche di mercato e dai pubblicitari che sacrificano sull’altare di target e share contenuti e novità.

Qualcuno dà la colpa ai conduttori. Vero? Forse. Certo è che i big di ieri sono anche quelli di oggi. Da Mike Bongiorno a Pippo Baudo, da Raffaella Carrà ai più giovani Magalli e Frizzi i protagonisti sono sempre gli stessi. Forse allora a mancare sono i grandi autori, addomesticati da ingaggi resi faraonici, da Siae e diritti vari, ma anche dagli interessi delle grandi case produttrici che realizzano format acquistati e già sperimentati in altri Paesi e venduti a colpi di milioni di euro al miglior offerente.

Profitti assicurati grazie anche a una manodopera a basso costo (i famosi programmisti registi) contrattualizzati giusto il tempo di portare a termine il programma. Non ci credete? Fatevi un giro nelle redazioni dei più popolari programmi televisivi e oltre al piccolo e spesso deserto Olimpo della stanza degli autori troverete tanti uffici che spesso assomigliano a classi di un liceo.

Largo ai giovani, direbbe qualcuno.

Peccato che spesso il loro apporto creativo sia limitato alla ricerca dell’ospite, di norma già nel libro paga della casa produttrice in quanto a sua volta conduttore/ospite di un altro programma di cui detengono il format.

Quanto ai generi televisivi, beh, cosa dire? Forse che l’unica certezza e che tutte le volte che qualcuno dà per morto un genere, potete stare certi che i programmi che a questo si riferiscono registrano la loro stagione d’oro.

È accaduto più volte negli ultimi anni con i reality, i quiz e persino la televisione generalista nel suo insieme, che doveva essere spazzata via dai canali tematici satellitari. Risultato, record d’ascolto per “Isola dei famosi” e “Grande fratello” e la madre di tutti i canali tematici (Sky) che si butta in un affannoso tentativo di replicare i programmi Rai e Mediaset della vecchia Tv generalista

Gente che sa fare televisione, come detto, pochina. Al contrario di chi invece ne parla, spesso a sproposito.

Già perché in un Paese come diceva qualcuno, in cui ci sono 50 milioni di commissari tecnici della Nazionale di calcio, figuriamoci se mancano gli opinionisti e i critici televisivi. Pochi lo fanno per passione, hanno studiato il mezzo televisivo e le varie forme di linguaggio. Molti purtroppo spinti da sentimenti meno nobili. Sempre meglio che seguire la nera o la giudiziaria, con il rischio magari di beccarsi una brutta querela.

Nei salotti televisivi invece è sempre possibile farsi un po’ di sana promozione, vendere il proprio libro o, male che vada, quello degli amici e persino per i più fortunati accreditarsi come autori televisivi e coronare il sogno di una vita intera: mettere la faccia in tv e poter incassare dalla portiera e dal prestinaio i tanto agognati “complimenti per la trasmissione”.

Deontologicamente siamo al limite, con un giornalista che diventa collaboratore di chi dovrebbe criticare, nel bene e nel male. Un po’ come se la bravissima inviata del Tg1 Monica Mag­gioni avesse seguito la guerra in Iraq al seguito dell’esercito americano curandone l’immagine!

Eppure quello del critico televisivo opinionista a pagamento, autore, curatore e persino conduttore non è un fatto sporadico. A questo punto tanto per distinguerci da chi è solito non fare nomi, prendiamo un caso specifico.

Quello di Paolo Martini, ossia colui che, in assenza della bravissima Alessandra Comazzi, scribacchia di televisione per “La Stampa” lasciando intendere di essere uno di quelli che di Tv ci capisce, ma soprattutto saprebbe farla molto meglio di chi lo legge, a prescindere dal soggetto.

Un equivoco che, già alla seconda lettura di un suo articolo, è destinato a durare ben poco, vista l’esiguità dei contenuti esposti. Ma destinato a durare ancor meno se si ha la sfortuna di incappare in quello che forse è stato il programma più fallimentare dell’ultimo anno della televisione pubblica. Parliamo di “XII Round”, di cui Martini è “conduttore e ispiratore”, in onda a mezzanotte e mezza su Rai 2.

Quarantacinque minuti di grande televisione in cui finalmente all’eroico Martini, funereo d’aspetto, quanto funesto per gli ascolti della rete, si offre la possibilità di mettere in pratica quell’ottima televisione di contenuti e forma di cui vagheggia nei suoi articoli. Ebbene, dal punto di vista dei risultati, tra giornali e televisione c’è una prima essenziale differenza. Se, infatti, nel primo caso è quasi impossibile determinare quanto abbia inciso un singolo articolo nelle vendite (eccezion fatta a mio avviso per gli editoriali di Massimo Fini) nel caso della televisione a poche ore di distanza arriva un verdetto inappellabile: quello dell’auditel.

Prendiamo l’ultima puntata di maggio. Sono le 24.37 qualcuno direbbe l’ora delle streghe, se l’aspetto di Martini non ricordasse più la versione horror di “Six feet under”. Il programma che lo precede lascia in eredità un piccolo gruzzolo di telespettatori, poco meno dell’8% di share. Qualche centinaia di migliaia di telespettatori si interrogano su chi sarà l’ospite messo sulla graticola da Martini.

In Italia sta accadendo di tutto, c’è solo l’imbarazzo della scelta: studenti che protestano e si pestano come neanche nel ‘68, politici che si infangano, bande di stupratori in azione, terroristi e mafiosi mai pentiti scarcerati per i motivi più futili.

Troppo facile, troppo scontato per il nostrano Bela Lugosi, che sfodera gli artigli gettando in pasto ai suoi giornalisti due ospiti d’eccezione e un tema da far accapponare la pelle: Camila Raznovich e Valdimir Luxuria chiamati a parlare de “La tirannia dell’intimità”…???.

Domanda cult a Luxuria: “Lei che ha la sfortuna/fortuna di vivere in un Paese dove la Chiesa entra nella camera da letto della vita privata degli italiani invece di propagandare la parola di Dio…”. Risultato media del programma 3,65% per 171 mila persone e Rai 2 che precipita all’ultimo posto dell’auditel, superata da La 7 e persino dalle televisioni private.

Per la cronaca a “La storia siamo noi”, il programma che segue, Martini cede la linea a 1,99%

Come dire che chi guarda la televisione è molto spesso più intelligente di chi cerca di farla.
*Dice di sé.
Milo Infante, 41 anni trascorsi inseguendo due grandi amori. Il giornalismo e sua moglie Sara, che lo ha sposato dopo 11 anni di corteggiamento. Insieme hanno dato vita a un bimbo meraviglioso di nome Daniele, in onore del grande Daniele Vimercati, amico fraterno e maestro. Da sei anni è uno dei conduttori Rai: tra le sue trasmissioni “Italia sul 2”, “10 Minuti” e “Insieme sul 2”. 

DOLCENERASono nata nuda, come adesso tu mi vedi.Non sarai deluso, ora guardami.Per un tuo sorriso , proverei ad essere migliore.

(Da “Nuda e cruda” in “Sorriso nucleare”, 2003)

Paolo Taggi - Le frasi celebri della tv (o soltanto le più utilizzate)

QUESTO È IL BELLO DELLA DIRETTA!

È una delle poche frasi alle quali si può attribuire una paternità (quasi) certa:  Gianni Minà, nostalgico della tv anche mentre la stava facendo per la prima volta (1)

Paolo Taggi*

Le paradossali bugie

 

Immagino che avrai preparato qualcosa per noi…

 

Dopo lunghe trattative, l’ospite ha definito le modalità della sua partecipazione allo spettacolo (si fa per dire!). Il bocconcino prelibato che ha preparato per gli spettatori (e per il quale il conduttore finge un’irrefrenabile curiosità) è stato in genere frutto di sfibranti trattative, iniziali sbarramenti, impuntature e patteggiamenti. Se siamo dalle parti di Natale, l’ospite in promozione è accompagnato da due/tre spezzoni del film panettone, e magari scompare per un attimo dietro le quinte per riapparire nelle vesti del personaggio che interpreta, per contestualizzare meglio i contributi pubblicitari che ha accompagnato di persona.

Se siamo nel dopo Sanremo (cioè fino al gennaio successivo) l’ospite cantante ricanta il pezzo ampiamente consumato. Se ha venduto qualche copia in più dell’ultima raccolta (o è il più scaricato nelle suonerie silenziose, o festeggia qualche anniversario) è la volta del medley. Se l’ospitante è a sua volta un collega, allora scatta il duetto (in prosa o in musica), che rende ancora più stridente la domanda iniziale, visto che emerge chiaramente che l’imperdibile numero è stato provato e riprovato per l’insoddisfazione di tutti.

 

Aree di diffusione: varietà

Grado di diffusione: assoluto

Grado di interesse percepito del pubblico: debolissimo

Grado di variabilità delle risposte: molto basso

Tono: ammiccante

Risposte tipo: “Ho pensato di proporvi un pezzo a cui sono molto legato”; “Di tanti film che ho interpretato credo che questo sia davvero il migliore. È una storia molto divertente, ma capace di far riflettere…”; “Da tanto tempo ti volevo chiedere se ti andava di cantare con me un pezzo a cui tengo molto…” (variante “…di cantare con te una tua canzone che ti ho sempre invidiato…”).

 

Ritorni più tardi?

 

La frase innesca un dialogo preconfezionato che si sviluppa così:

Conduttore: Ritorni più tardi, ce lo prometti?

Ospite: Se il pubblico è d’accordo?

(Applauso spontaneo del pubblico chiamato in causa)

Conduttore: Mi sembra che la risposta sia chiara!

Ospite: (dopo un ulteriore attimo di esitazione)

Va bene, se lo volete…

Conduttore: Ci conto! A presto!

 

Il teatrino messo in scena è più un’abitudine che una reale necessità spettacolare. Che l’ospite ritornerà lo si sa dai lanci del Tg e dalle anticipazioni in anteprima. Allora perché ricorrere a questa piccola, smascherata ipocrisia? Perché concedersi il vezzo di un teaser di scarsa efficacia?

Siamo dalle parti della rassicurazione preventiva. Ci sono frasi che non hanno altro scopo che ancorare i protagonisti a quella boa amichevole che si chiama prevedibilità.

 

Aree di diffusione: tutti i generi dell’intrattenimento televisivo

Grado di diffusione: elevatissimo

Grado di interesse percepito del pubblico: debolissimo

Grado di soddisfazione di chi la pronuncia: molto alto

Grado di variabilità delle risposte: inesistente

Tono: amichevole, ammiccante, complice.

 

Spero che tornerai a trovarci presto…

 

È la variante della frase precedente, utilizzata quando il contratto dell’ospite d’onore non prevede un suo secondo ingresso in scena. Un retrogusto di ipocrisia si avverte quando l’ospite non è di primo livello, o non gode della stima assoluta del conduttore, ma in genere l’invito risulta sincero, anche se dichiaratamente solo formale. Nel corso di una stagione un ospite difficilmente ritorna sul luogo del delitto, impegnato com’è ad apparire in tutte le altre trasmissioni.

 

Aree di diffusione: talk show, programmi contenitore, varietà

Grado di diffusione: sufficiente

Grado di interesse percepito del pubblico: debolissimo

Grado di soddisfazione di chi la pronuncia: notevole

Grado di variabilità delle risposte: debole

Tono: convinto e convincente

Risposte tipo: “Sono stato davvero bene tra voi e sicuramente tornerò a trovarvi… se lo vorrete”; “…Anche il tuo magnifico pubblico la pensa così?”; “Tornerò senz’ altro, è una promessa. Ma tu (rivolto al conduttore) promettimi che sarai mio ospite nel mio nuovo programma…”; “Non appena i molti impegni me lo permetteranno sarò qui a raccontarvi com’è andata la tournèe…”

 

Ma non finisce qui perché resterai con noi per tutta la sera. Vero?

 

È la versione meno ipocrita del rapporto del conduttore con l’ospite d’onore. Eliminata la forma dubitativa e quella esortativa rimane l’affermazione. Che l’ospite rimanga non è un imperativo, ma comunque una certezza. Sperando che lo sia anche per lo spettatore, al quale è rivolto indirettamente il messaggio (l’ospite sa benissimo quando tornerà e per quale compenso già incassato).

 

Le domande o le frasi scontate (O quasi)

 

Questo è il bello della diretta

 

È una delle poche frasi alle quali si può attribuire una paternità (quasi) certa: Gianni Minà, nostalgico della tv anche mentre la stava facendo per la prima volta. “Il bello della diretta” sembra l’esaltazione di una peculiarità (oggi discussa) della tv nella sua età di mezzo, ma è piuttosto una giustificazione prefirmata per gli inconvenienti e gli errori che possono scaturire dall’andare in onda senza rete. Nella diretta, la tv si scrive senza possibilità di ripensamenti e di cancellature, in compenso è molto più forte il senso di comunione tra gli spettatori e quello che sta accadendo.

Nel suo nuovo significato (che Minà non poteva prevedere) il bello della diretta è in realtà il brivido dell’incertezza in più, l’impossibilità di scrivere un programma totalmente pre-visto, la perdita di una percentuale sempre più alta di controllo che l’autore accetta perché sia più vera l’incertezza del “come andrà a finire”.

 

Aree di diffusione: tutti i programmi della tv generalista

Grado di diffusione: universale (nell’ambito della tv italiana)

Grado di interesse percepito del pubblico: in continua attenuazione

Grado di soddisfazione di chi la pronuncia: discreto

Grado di variabilità delle risposte: non rilevato

Tono: compiaciuto, tipico di chi ha sempre la citazione giusta a sua disposizione (in questo caso una sola, l’unica che conosce).

 

Non è nostra abitudine parlare dei nostri successi, ma questa volta dobbiamo ringraziarvi perché la scorsa settimana (ieri) ci avete seguito davvero in tanti!

 

Non c’è mai fine alla capacità di autoilludersi. Molti conduttori televisivi lo sanno. La frase in questione non avrebbe controindicazioni se venisse utilizzata solo in casi eccezionali, in occasione di risultati stupefacenti, da festeggiare con quanti più amici possibile. Ma non è così. Non c’è programma, qualunque sia la fascia oraria, il seguito numerico, l’incidenza sociale, il vissuto televisivo, che non si senta in diritto/dovere di gratificarsi con questa circonlocuzione melliflua, quasi mai veritiera. Rivolgendola a se stesso, il conduttore la fa riverberare su chi lo sta seguendo, dandogli la sensazione di avere fatto davvero la scelta giusta.

La premessa “Non è nostra abitudine” si inquadra perfettamente nella tendenza della tv a farsi mondo del contrario. Gli ascolti di cui molti programmi parlano non sono verificabili dallo spettatore medio ed è meglio che non lo siano. Si possono manipolare, interpretare a proprio favore, persino sbandierare purché non lo siano. Hanno la sincerità di un applauso verso qualcuno che non hai mai conosciuto. Comunque vada, per loro sarà come un successo.

Aree di diffusione: tutti i programmi delle tv generaliste

Grado di diffusione: altissimo

Grado di interesse percepito del pubblico: sempre più tenue

Grado di soddisfazione di chi la pronuncia: notevole

Tono: fierissimo, esultante, qualche volta provocatorio

Ipotesi di reato: diffusione di dati tendenti a modificare l’andamento dei mercati

Eventuali commenti: se l’autoelogio è pronunciato in presenza di ospiti vip, questi ultimi si sentono in dovere di ricorrere al manuale Cancelli dei complimenti bipartisan. Consapevoli che domani saranno ospiti della concorrenza 1 e dopodomani della concorrenza 2 e via via fino al 7, si lanciano in un panegirico controllato, che percorre un ampio cerchio di affettuosità senza mai riconoscere ufficialmente la leadership del programma ospitante.

 

Abbiamo un ospite d’eccezione

Premessa o variante: Sono davvero felice di annunciarvi…

 

L’unico problema, nel giocarsi una frase jolly come questa, è il fatto che la si potrebbe usare una sola volta per sera (con una frequenza ancora minore nel pomeriggio e, a scalare, la mattina). L’ospite d’eccezione, per definizione, è regolato dalle stesse leggi che determinano gli eventi, ma in tv è lecita qualche eccezione, appunto.

Per cui l’ospite d’eccezione è chiunque sia chiamato in scena in quel momento, non fosse altro che per un criterio di giustizia e per i sacri doveri dell’ospitalità.

Dopo averlo detto del primo, chi avrebbe il coraggio di negare l’elogio incondizionato, il superlativo assoluto al secondo, al terzo e (quando ci sono al quarto, quinto ecc?). È una questione di equità, ma anche di logica: l’ospite migliore se esce per primo è soltanto per autopubblicizzarsi, per annunciare il suo ritorno successivo. Gli altri seguono una scala di valore graduale inversa: dal basso in alto, fino ai vertici dell’aura mediatica (quasi sempre relativa).

Gli ospiti d’eccezione sono come certi calciatori, che si sono trovati per caso nel massimo campionato e ogni anno fanno la valigia e si trasferiscono in un’altra squadra che – come la precedente – non può permettersi altro che un’eterna promessa a cui concedere l’ennesima chance.

Aree di diffusione: talk show, Varietà, Contenitori di tutte le ore

Grado di diffusione: estremo

Grado di interesse percepito del pubblico: sempre minore

Grado di soddisfazione di chi la pronuncia: molto alto

Tono: fiero, convinto come quello dei venditori di miracoli ai tempi della conquista del west.

Ipotesi di reato: pubblicità ingannevole

 

Grazie di tutto quello che fai per la canzone (per il cinema, per il teatro, per lo sport…) italiana

 

In genere, si tratta di cantanti, quasi sempre in partenza per qualche tournèe in luoghi lontani, dove li attendono assegni, applausi, ammirazione che attraverso di loro si riflette sul nostro bel Paese. Perché quello che spinge i nostri artisti oltre confine non è tanto il sovraffollamento stagionale, quanto il loro desiderio di rappresentare la nostra tradizione e “riaffermare con orgoglio la bellezza di essere italiani”.

L’applauso scrosciante che segue non è di minore intensità se a pronunciare la frase di rito non è un cantante ma un attore – di cinema o teatro – un regista e magari uno sportivo. Cambiano alcune sfumature (per esempio la tournèeviene sostituita da un evento sportivo o dall’esordio in quattro pose in un film hollywoodiano) ma l’essenza è la stessa.

Piccola curiosità: dall’elenco dei trionfanti eroi in partenza per la loro campagna straniera chi fa televisione è sempre escluso.

 

Aree di diffusione: talk show, varietà, contenitori di tutte le ore

Grado di diffusione: alto

Grado di interesse percepito del pubblico: discreto

Grado di soddisfazione di chi la pronuncia: altissimo

Grado di variabilità delle risposte: molto basso

Tono: solenne

Commenti tipo: “Mi aspettano migliaia e migliaia di chilometri, un tour davvero massacrante, ma la forza me la dà la sensazione di essere l’erede di una grande tradizione…”; “Io mi ritengo molto fortunato di essere italiano e di poter andare là dove in passato si sono esibiti grandi come l’indimenticabile Domenico Modugno… ” (qui l’applauso e magari l’over standing gli evitano di dover trovare un secondo e magari anche un terzo illustre predecessore…); “Quello che più mi colpisce, quando vado all’estero, è l’amore che il pubblico ha per la canzone (il teatro, il cinema) italiano. Bisogna provare certe sensazioni, davanti a migliaia di persone che cantano con te nella nostra lingua, per credere”.

 

Permettetemi di ringraziare di cuore…

 

Se pronunciata dal conduttore coinvolge l’intero apparato televisivo che ha collaborato alla realizzazione del programma che si sta concludendo. Una furtiva lacrima che scende sulla guancia (se si tratta di una conduttrice) aggiunge umanità e dimostra che si tratta di ringraziamenti sinceri e non di una pratica da sbrigare per questioni sindacali.

Se si arriva ai saluti finali, d’altra parte, significa che il programma ha avuto la durata prevista, e non è stato troncato all’improvviso, anche se, in chiusura, il conduttore in buona fede e pervaso di ottimismo si era congedato dicendo semplicemente “ci vediamo la prossima settimana”. Quindi il ringraziamento in fondo ha un suo perché.

Se pronunciata da un ospite, o da un campione alla fine di una performance sportiva il ringraziamento non è autoreferenziale, esce dalla tv e si rivolge a chi a vario titolo gli è stato vicino ed ha una parte di merito nella sua gioia del momento.

(In questo caso spesso la frase viene pronunciata come risposta alla inquietante domanda “Che cosa provi in questo momento?”).

 

Aree di diffusione: tutti i programmi della tv generalista e non

Grado di diffusione: totale

Grado di interesse percepito del pubblico: debole

Grado di soddisfazione di chi la pronuncia: molto alto

Tono: toccante, coinvolto, vagamente euforico

 

Rimanete con noi perché il meglio deve ancora venire

 

Lo spettatore anestetizzato non porta in superficie la domanda che sorgerebbe naturale: perché non mostrarmelo subito, il pezzo migliore? Lascia che scivoli via, tra le molte parole possibili che non diventano frasi, tra i pensieri incompiuti, confusi, o talmente chiari da non meritare un attimo di attenzione in più.

“Non andate via” è una supplica laica, una preghiera a volte controproducente, della quale molti conduttori non riescono proprio a fare a meno. I più consapevoli sanno che il pubblico non si trattiene -soprattutto in presenza di breakpubblicitari- con le parole, ma con la forza interna del programma stesso: con le attese che il racconto, sviluppandosi, ha saputo creare; con la portata ed il potere attrattivo del momento spettacolare che sta per arrivare. Anche se non credono alla reale capacità di convinzione di una frase abusata, non possono rinunciare alla loro versione della coperta di Linus.

 

Aree di diffusione: tutti i programmi della tv generalista. Alcuni delle tv satellitari

Grado di diffusione: elevatissimo

Grado di interesse percepito del pubblico: scarso

Tono: imperativo o supplichevole, confidenziale o distante, a secondo dei casi

 

Sono davvero molto emozionato…

 

Pronunciata dagli ospiti si può presentare in tre versioni – legate allo status di chi la pronuncia – e di conseguenza assumere significati completamente differenti e differenti (addirittura opposti) gradi di verità.

Pronunciata dal conduttore, presenta due possibilità:

 

Versione ordinary people

Nella versione Ordinary people, quando cioè è pronunciata da gente comune riafferma l’eccezionalità della presenza del protagonista in tv. La sua unica apparizione televisiva (almeno fino a quel momento) acquista valore aggiunto perché comporta un’emozione in più, che da chi la vive si trasferisce a chi guarda, con effetto immediato.

La verità dell’affermazione, indubitabile, è legata alla garanzia che l’ospite sia davvero alla sua prima volta nel piccolo schermo (e alla promessa ufficiale, anche se implicita, che non potrà essercene una seconda). L’emozione dell’apparire – vero e proprio magnete per tutti coloro che continuano a credere nel diritto/dovere di inserire tra le esperienze irrinunciabili della vita anche i quindici fatidici minuti di celebrità (visibilità) è indipendente dalle motivazioni per le quali l’ospite ha ottenuto il suo lasciapassare catodico e prevale sul sentimento secondo che attraverso di lui dovrà pervadere il programma: è l’emozione della luccicanza che sente avvolgerlo, l’anticipata (e spesso illusoria ) sensazione che doponiente sarà più come prima.

 

Versione meteore

La wilderness ha ricoperto l’ospite meteora, ripescato a vario titolo dal programma nostalgia, dal perfido confronto tra polvere soffocante di oggi e gli altari intermittenti di ieri, da un pensiero un po’ troppo laterale, dalla raccomandazione giusta o dal rimorso che ogni tanto si fa strada nell’insensibilità generalizzata (e magari per smentirla), per una forma dipietas o per un surplus di crudeltà. La meteora è lì, a rivedere il proprio provino di un tempo irrimediabilmente lontano, o il successo di un mese. Il tempo trascorso è una lunga parentesi prima di un attimo di rieternità, quello che verrà capace di nascondere l’aggettivo che viene dopo promesse (mancate).

Pronunciato in quel contesto, da chi ha vissuto pochi momenti da celebrità e tutto il resto del tempo da persona comune, come un’amaca stesa tra il successo precedente e l’attesa del suo ritorno, “sono molto emozionato” suscita un brivido freddo, una sensazione di vuoto, come il ritirarsi di qualcosa.

Dà un senso di mancanza, ma non è tanto la meteora che è mancata al pubblico, quanto il pubblico a lui ed il conduttore si affretta a dissolvere il possibile effetto di una frase che rischia il patetico, con una lunga teoria di iperboli, quasi sempre gridate, troppo ostentate per essere almeno parzialmente vere.

L’emozione della meteora invece lo è, solo che è una sensazione intransitiva, che implode nel percorso se non viene supportata da un format forte, capace di sprigionare ora e qui un nuovo sentimento, che non sia il semplice ricordo di un altro, che si è dissolto anni prima.

 

Versione celebrity

È il trionfo dell’ovvietà, della prevalenza della forma ad ogni costo su ogni speranza di veridicità.

 

Versione conduttore

La frase “Sono davvero molto emozionato/a” viene pronunciata dal conduttore in due casi: nell’incipit di un nuovo programma (specialmente se segna un ritorno dopo una più o meno lunga assenza) o quando il conduttore introduce un personaggio particolarmente importante (o che vuol credere e far credere che lo sia).

 

Aree di diffusione: talk show, varietà, contenitori di tutte le ore

Grado di diffusione: notevolissimo

Grado di interesse percepito del pubblico: del tutto assente

Grado di soddisfazione di chi la pronuncia: estremamente variabile

Tono: toccante, coinvolto e coinvolgente

 

Vorrei salutare tutti quelli che mi conoscono!

 

È il coronamento di un’avventura televisiva, in genere brevissima e spesso ingloriosa. Viene pronunciata come premio di consolazione da chi – dopo una lunga attesa finalmente coronata dalla chiamata in tv – vede sfumare il sogno di un premio alla prima domanda sbagliata del quiz di mezza sera, o dopo la prima televotazione in un talkgame.

Salutare tutti quelli che si conoscono è una scelta democratica, che lascia un po’ di amaro in bocca. Per non scontentare qualcuno chi la pronuncia non fa davvero felice nessuno. Immaginatevi gli amici del bar Centrale, i colleghi della fabbrica di fuochi artificiali, i personaggi notevoli del piccolo paese di mare che aspettano nel cuore della casa – insieme alle famiglie trepidanti – di sentire risuonare i loro nomi nell’etere.

Invece niente, tutte le differenze sono annullate in un saluto generale, deludente come tutti gli slanci pro-forma. Tutti quelli che mi conoscono è una frase spietatamente generalista, colpevolmente distante. Unisce gli amici intimi ai più superficiali tra i conoscenti; il vicino di casa e i fratelli, il portalettere e il primo amore (che pensando alla vittoria possibile magari ha pensato “peccato esserci persi”, ma di fronte alla sconfitta rapidissima si è sentito un po’ sollevato).

 

Variante 1: Negli eventi sportivi minori, dove gli eroi raramente vengono coccolati dalla tv, la frase viene pronunciata anche dal vincitore, un attimo dopo la premiazione, come scorciatoia prima di godersi il breve attimo del trionfo. In questo caso la fatica incide sulla lucidità e prevale davvero la paura di fare torto agli esclusi.

Variante 2: Il protagonista che ha ritrovato la memoria improvvisamente, o si è pentito o pensa di strappare qualche secondo ancora di tv al conduttore cambia idea e tradendo la premessa completa la frase in maniera contraddittoria: “Spero di non dimenticarmi nessuno se dico mio padre Francesco, la mia mamma Enrica e via via, sempre più veloce, fino ad arrivare all’autostoppista anonimo che quindici anni prima gli ha dato un passaggio dal casello autostradale fino in centro città.

Attenuanti generiche: dal momento che la frase viene pronunciata in linea di massima dopo una prova deludente il perdente in uscita non vuole trascinare nella sconfitta coloro ai quali ha promesso una citazione al momento dell’apoteosi.

Oppure l’elaborazione del lutto gli attenua la memoria, confondendo in prospettiva affetti profondi e nemici giurati (anche loro, in fondo, sono compresi tra tutti quelli che conosce).

 

Aree di diffusione: game, quiz, talk show game, reality di prima generazione, eventi sportivi minori

Grado di diffusione: notevole

Grado di interesse percepito del pubblico: debole curiosità

Grado di soddisfazione di chi la pronuncia: molto alto

Tono: emozionato, referenziale, fiero, affaticato, sofferto, deluso

Ipotesi di reato: nessuna

 

È spesso accompagnata da sottoslogan del tipo: “So che mi stanno guardando tutti e gli mando un grande saluto”; oppure “…mia mamma è una tua grande fan e mi ha detto di darti un bacio” (rivolta al conduttore).

 

Abbiamo tirato fuori tutto quello che avevamo dentro

 

È la frase di circostanza numero uno, utilizzata dagli sportivi che hanno appena raggiunto un risultato eclatante o da un gruppo di artisti (la versione singolo funziona ugualmente, con il verbo al singolare) dopo una fortunata esibizione. Viene preceduta da una serie di domande che si coagulano intorno ad un semplice concetto: “Cosa vuoi dire al pubblico (agli italiani, a chi ti ama) dopo questo risultato?”

Variante principale

Vorrei dire soprattutto ai giovani che il lavoro e il sacrificio pagano sempre

 

Ti sto vedendo, sei in tv

 

Siamo tentati di eleggerla a simbolo di un’epoca. Anche se non è una frase regola. E nemmeno una frase eccezione. Piuttosto, una non frase, come vedremo.

“Ti sto vedendo, sei in tv” è il classico messaggio che riceve lo spettatore di un incontro di calcio d’estate, il fan di un cantante ad un concerto, lo spettatore di un evento spettacolare all’aperto che viene inquadrato per qualche istante in più (per distrazione della regia, mancanza di ritmo, un intervallo troppo prolungato, la fortunata coincidenza di trovarsi a completare un’inquadratura frequentemente utilizzata – dietro un ospite, il conduttore, la giuria).

Due, tre secondi, poi lo sconosciuto che vediamo per un attimo viene riconosciuto da tutti quelli che lo conoscono, che non lo chiamano al cellulare per non disturbare la trasmissione, ma gli inviano un sms. Lo sconosciuto senza perdere di vista la telecamera insperata comincia a cercare l’apparecchio, poi legge il messaggio: uno, due, tre, si capisce che si moltiplicano e alza la testa e con uno sguardo diverso risponde ai messaggi con un sorriso particolare, che contiene tanti segnali: ringraziamento, soddisfazione, complicità, orgoglio…. Dalla sua momentanea visibilità, lo sconosciuto dell’inquadratura accanto benedice tutti quelli che gli stanno confermando la loro amicizia e la sua esistenza.

Ma allora perché definirla una non frase?

Per almeno tre motivi, che la fanno rimanere sospesa nel regno delle allusioni (non delle illusioni).

1) è una non frase perché non viene pronunciata da nessuno, ma arriva in forma scritta, via cellulare. Il destinatario non ha alcuna occasione di rendere pubblico il contenuto nei dettagli, naturalmente (non ha diritto di parola, solo di immagine), ma riesce ad esprimerne i concetti principali con l’espressione tra felice e stupita di chi ha appena ricevuto una meravigliosa notizia;

2) dal momento che lo spettatore non ascolta la frase, può solo immaginarla. Una decodifica che non richiede particolare intuito, peraltro;

3) la frase mai pronunciata non riguarda la sfera dei protagonisti e dei coprotagonisti, ma per una volta mette l’accento su figuranti, comprimari, semplici testimoni.

 

Aree di diffusione: eventi sportivi, concerti, serate speciali e programmi d’occasione

Grado di diffusione: discreto

Grado di interesse percepito del pubblico: debolissimo

Grado di soddisfazione di chi lo riceve: altissimo

Grado di variabilità delle reazioni: molto basso

 

“Sono proprio io?”

 

La pronuncia lo spettatore seduto sull’ideale poltrona di casa, strappato da un cortocircuito mediale al suo ruolo per assumerne un altro, di momentaneo coprotagonista. La pronuncia ancora incredulo l’ingenuo interlocutore, quando sente il conduttore pronunciare il suo nome, ma questo non gli dà la certezza di essere davvero, finalmente, chiamato in causa. “E ora sentiamo Giuseppe” in effetti, non può essere una garanzia totale. Le probabilità che ci sia un altro Giuseppe in attesa di entrare in scena (vocalmente). In un certo senso, molti nomi propri sono nomi comuni.

Io rispetto a chi? Io quale? Io chi? Io cosa? Un nome, un pronome o un cognome? Neppure la risposta successiva, “sei tu, Mario, sei in onda” è una garanzia che quel al quale il conduttore si rivolge sia proprio il Mario che gli chiede, titubante, una conferma prima di rispondere al quiz o esprimere la propria opinione sul tema del giorno. I due non si conoscono, anzi solo lui, il fantasmino del dialogo ipotetico conosce l’altro molto bene, ma non c’è reciprocità. “Io” cos’è, nella domanda in questione? La traduzione di un’attesa, la nuova parola d’ordine dell’incredulità, che scatta nel risentire la propria voce arrivare da dentro la tv, la modestia titubante di chi si appresta a vivere una breve emozionante presenza imperfetta? L’equivalente del “permesso?” sussurrato per un’antica abitudine quando si entra nella casa di un altro?

 

Aree di diffusione: talk show, varietà, contenitori di tutte le ore

Grado di diffusione: estremo

Grado di interesse percepito del pubblico: debolissimo

Grado di soddisfazione di chi la pronuncia: molto alto

Grado di variabilità delle risposte: molto basso

Tono: toccante, coinvolto e coinvolgente

 

Le frasi scomparse

 

Per chi si fosse messo all’ascolto in questo momento…

 

È forse la più famosa fra le frasi estinte. Chi la pronuncia, oggi, lo fa solo per evocare il passato. Come una citazione, avvolta nella nostalgia. Non è stata un’altra frase, a prendere il suo posto, ma un cambiamento radicale del modo di raccontare visivamente i programmi. L’uso sistematico della grafica e delle scritte in sovrimpressione, che descrivono sempre in tempo reale a che punto siamo del racconto, che sottolineano i momenti più importanti, che ingrandiscono particolari e fanno loro eco costituiscono un vero e proprio sottotesto.

“Per chi si fosse messo all’ascolto in questo momento” riporta ad una televisione più elementare (non ci faremo coinvolgere in una discussione sulla sua presunta perfezione). Un modo di fare tv che non utilizzava ancora quella molteplicità di informazioni contemporanee, sonore, visive, che rende la schermata di un programma sempre più simile ad un sito Internet.

Soprattutto i giovani hanno imparato ad elaborare una modalità di visione diversificata, popolata di extra, fino a seguire più piani di racconto simultanei. Un’inquadratura di Chi vuol essere milionario? contiene una serie molto complessa di messaggi confluenti, che lo spettatore recepisce con naturalezza, fino a non notarli più. Li coglie con uno sguardo complessivo, come quando si legge una pagina fotografandola nel suo insieme. Non c’è più bisogno di ricollocare lo spettatore nel momento del suo arrivo, perché ogni inquadratura gli fornisce tutti i dati che gli occorrono per sentirsi accolto.

 

Consigli per gli acquisti

 

Tra le tante frasi utilizzate per annunciare l’arrivo della pubblicità tabellare è senza dubbio quella che ha lasciato il segno più forte. Forse per la sua brevità, forse per la sua efficacia. Consigli attribuisce una valenza positiva in partenza agli enfatici messaggi che precede. I consigli si danno ad un amico e si accettano da qualcuno al quale si dà fiducia. Il termine acquisti non solo spiega l’oggetto dei consigli, ma risulta anche un atto di sincerità. Con un corto circuito perfettamente riuscito lo spettatore è avvertito che lo scopo dei minuti seguenti è invitarlo a consumare informato (e a desiderare ciò che un attimo prima non sapeva di volere).

La controindicazione principale della frase Consigli per gli acquisti è la totale identificazione con chi l’ha coniata. Contrariamente a ciò che è successo con altre frasi che hanno presto cancellato la loro paternità, questa rimanda con tale immediatezza a Maurizio Costanzo che molti conduttori si sentono in dovere di rielaborarla per non macchiarsi di plagio. Peccato che le varianti siano sempre un po’ più ipocrite, elaborate e confuse dell’originale a cui si ispirano.

 

Frase correlata:

Pochi secondi e siamo di nuovo da voi

 

Nota degli autori: consigli per gli acquisti presenta un altro vantaggio, non minimo: impedisce al conduttore di mentire sulla durata del break: “ci vediamo tra un minuto esatto” (quando sono due o tre); … “solo due minuti e siamo tra voi” (quando sono quattro)…

 

E adesso guardate dove sono andato oggi

Variante: Che cosa mi è capitato oggi

 

Sono le due formule di rito con le quali il conduttore lancia se stesso in una Telepromozione. Non potendo spingersi fino a far credere al pubblico di essere dotato anche del dono dell’ubiquità, giustifica la brutta rottura dell’unità di luogo e di tempo con una frase sorprendentemente banale, che non a caso si è imposta fino a diventare norma.

Reduce da un incontro emozionante, da un’esibizione per la quale ha usato tutte le iperboli a sua disposizione, il conduttore sussurra la formula che lo proietta nel regno dei consigli per gli acquisti personalizzati. La telepromozione è più lunga di un qualsiasi spot; qualche volta cerca di calarsi nello spirito, nel tono e persino nel racconto del programma che la contiene (per non risultare troppo fuori tema).

Ma soprattutto trova la sua continuità con il programma (di cui spesso la marca in questione è anche sponsor) grazie allo sdoppiamento del conduttore, che smette i panni dell’officiante per assumere quelli dell’amico e confidente, che utilizza la credibilità acquisita nel programma per garantire qualunque prodotto gli sia stato affidato. Per metterne in luce le caratteristiche, quasi sempre si trasforma in una specie di Alice nel paese delle meraviglie, stupito di ogni affermazione che ascolta, inesauribile fonte di domande destinate a mettere in luce gli infiniti meriti di un dentifricio, un’auto o una pensione integrativa per gli anziani.

1) Pubblichiamo la seconda parte dell’articolo su “Le frasi celebri della tv. O soltanto le più utilizzate”. Vedi “L’attimo fuggente”, n. 11.
*Dice di sé.
Paolo Taggi. Ha passato gran parte della vita a realizzare cose che potessero finire in una quarta di copertina realistica e accattivante. Poi si è accorto che neanche questo gli avrebbe cambiato la vita. Ma è troppo tardi per tornare indietro: e poi, per fare che cosa? Tutto quello che sa fare è scrivere, insegnare a scrivere (cinema e televisione), fare fotografie, ideare programmi e realizzare documentari, cercando di dare un senso a tutto questo, anche se un senso non sempre ce l’ha. Glielo avevano detto quando era adolescente, ma allora non credeva a niente di quello che gli dicevano gli altri. Oggi ancora meno. Non gli resta che aspettare: che gli editori gli paghino i diritti su i suoi libri, che i programmi italiani si vendano all’estero e che il Novara torni in serie A. 

ALLEN GINSBERGOh, caro dolce roseo irraggiungibile desiderio… la mia unicarosa stasera, è il dono della mia nudità.
INTERVISTE Francesco Canino - Sabelli Fioretti,Un surfing accattivante sulla schiuma delle cose

Un grande intervistatore del giornalismo italiano si lascia intervistare sul tema delle interviste e dire che…

Francesco Canino*

“L’intervista è come il vino. Quello del contadino fa schifo”. Parola di Claudio Sabelli Fioretti. Incontrare il principe della domanda in questo periodo è davvero un’impresa ardua. Ha lasciato il suo buen retiro di Salina, il profumo di zagare e agrumi, e si è trasferito per qualche mese a Milano: la sua sarà un’estate in città, piuttosto silenziosa e meno caotica rispetto ai ritmi vissuti durante tutto il resto dell’anno, dove dai microfoni di Radio Due condurrà fino al 4 settembre “Un giorno da pecora”, primo esperimento di talk showradiofonico, in tandem col sodale Giorgio Lauro. Visti i troppi impegni è impossibile incontrarlo e parlagli de visu: non resta che arrischiarsi e tentare un’intervista telefonica anche se, come lui stesso spesso ripete, “un’intervista al telefono non crea complicità, l’elemento fondamentale per la buona riuscita della conversazione”.

Sfidando il precetto sabelliano e il timore che sempre si ha (o si deve avere) quando si parla con un maestro, lo chiamo e tutta l’ansia che avevo accumulato preparando le domande svanisce nell’attimo stesso in cui mi risponde al telefono e sfodera un’ironia e una semplicità che mi mettono subito a mio agio. Premesso che non sopporto il troppo protagonismo di certi intervistatori, sono costretto a parlare, se pur brevemente, di me per spiegare quanto fossi contento (e spaventato) di poter intervistare CSF.

Tutto il mio ultimo anno è ruotato intorno alla parola intervista, quasi un mantra ossessivo che ho scritto e ripetuto mille volte al giorno preparando la mia tesi, incentrata sulla metamorfosi dell’intervista, all’interno della quale si delinea una breve inchiesta sul lavoro dei più importanti giornalisti-intervistatori che attualmente scrivono sui principali settimanali italiani. Su cinquanta grandi giornalisti contattati in trentaquattro hanno accettato di rispondere ad una serie di domande su come preparano, scrivono (molto spesso riscrivono) e plasmano le interviste. Non mi aveva stupito più di tanto notare che CSF fosse stato scelto da trentuno di questi giornalisti come il migliore degli intervistatori sulla piazza: “un maestro”, “un faro”, “un punto di riferimento”, “un innovatore”, “un creatore di stile” e via dicendo, sono solo alcuni dei giudizi (da far girare la testa per la contentezza) che hanno decretato la plebiscitaria preferenza per le interviste del barbuto giornalista nato a Vetralla, tanto amante dei monti del Trentino quanto del mare delle Eolie, tanto temuto quanto ricercato (qualche volta inseguito e adulato) dai personaggi che intervista.

 

Siamo nel 2005. Lei scrisse: “Dura la vita dell’intervistatore: deve affascinare i lettori, deve accontentare il Direttore, deve compiacere l’intervistato”. Spiegava ai lettori il perché non avrebbe pubblicato l’intervista fatta (e già scritta) al giornalista e scrittore Ruggero Guarini.

 

“È passato qualche anno, ma il concetto resta uguale. Poi in quell’occasione era forse il commento più giusto visto che mi sono ritrovato di fronte ad una persona, Guarini appunto, che apparentemente aveva accettato di farsi intervistare, ma in realtà voleva solo comandare. È stato uno dei litigi più grossi della mia vita. Ma sa, a volte capita di trovarsi di fronte a persone che scambiano l’intervista per un interrogatorio e si pongono sulla difensiva non capendo che l’unica cosa che devono fare è quella di rispondere alle domande senza preoccuparsi del risultato finale”.

 

Cos’è che la infastidisce in particolare?

 

“M’infastidiscono quelli per i quali l’unica cosa che conta è che dall’intervista venga fuori un’immagine pulita e in linea col personaggio: così facendo non si lasciano andare e si sforzano di far passare solo quello che loro stessi pensano sia il meglio, spesso sbagliando. E tutto per paura di essere giudicati…ma chi se ne importa!”.

 

Nel 1983 il grande Andrea Barbato parlando della vulnerabilità del sistema dell’informazione scrisse: “L’intervista è diventata un po’ il canale attraverso il quale tutto passa, la classe politica esprime se stessa, si duplica, moltiplica la propria immagine, le proprie opinioni attraverso queste interviste che fanno sì che i giornali diventino una specie di registratore, di videocassetta, di verbale stenografico dell’opinione altrui”. Un’analisi ancora attuale non trova?

 

“Sì, anche se Barbato aveva una visione molto pessimistica… e pensare che all’epoca c’erano dei giganti come Enzo Biagi e Sergio Zavoli. Oggi il livello delle interviste ai politici si è abbassato ancora di più e si porge il microfono o la penna, nel caso di un giornale, con un servilismo imbarazzante. Non farò nomi, ma mi è capitato di leggere l’intervista ad un politico scritta da un giornalista considerato piuttosto bravo, che ha pensato bene di esordire chiedendo al politico: “Caro Rossi, come va?”. Dopo questo non resta che un colpo alla nuca”.

 

È messo peggio la tivù o la carta stampata?

 

“A livello di intervistatori direi la televisione. I politici si scelgono quelli che preferiscono, il che è paradossale. A me è capitato una volta di essere invitato in una trasmissione e poi allontanato perchè il tale deputato non gradiva la mia presenza. Ma sai che ti dico allora? Ma vai a quel paese!”.

 

Perché secondo lei il genere intervista è dilagato così tanto negli ultimi anni? Non c’è settimanale o mensile che non ne pubblichi due o tre a numero…

 

“Me lo sono chiesto molte volte, ma non saprei dare una risposta precisa. Io faccio interviste da trentotto anni e mi ricordo che fino a qualche tempo fa i direttori le snobbavano, quando le proponevi ti guardavano male. Ora è come se fosse stata riabilitata e tutti riempiono i giornali con questo genere che sicuramente è molto appassionante e ai lettori piace.

 

Non tutte le interviste però sono uguali: si leggono anche parecchie porcherie in giro.

 

“In generale non tutte sono bellissime, è vero. Ma non so se siano propriamente delle schifezze. Direi piuttosto che ci sono interviste preparate meglio o peggio e scritte meglio o peggio. Penso ad esempio a quelle di Roberto Gervaso: non posso dire che siano interviste brutte, però sono leziose e barocche. A me non piacciono quelle in cui lo stile, che per me è solo un mezzo, prevale sui contenuti”.

 

Mirella Serri, Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Roma e collaboratrice de “La Stampa”, mi ha detto: “Penso che come ci si prepara da intervistatori bisognerebbe anche studiare da intervistati. Ogni interpellato al suo livello e secondo la sua specifica competenza dovrebbe cercare di essere interessante, coinvolgente e mai banale Ma spesso gli intervistati non studiano abbastanza”. Concorda?

 

“Ha ragione, ma solo in parte. Io penso che tra i due sia l’intervistatore a dover essere maggiormente attrezzato, deve sapere tutto dell’intervistato e preparato al massimo sulla persona che ha di fronte”.

 

Allora è vero quando dice: “Leggo tutto quello che c’è da leggere, sia quello che altri hanno scritto sull’intervistato sia quello che lui ha prodotto: Emilio Fede ha scritto dieci libri, vi rendete conto? Sono un martire!”.

 

“Scherzo, ma fino ad un certo punto. Credo che il successo e la buona riuscita delle interviste dipenda soprattutto dalla preparazione che, nel mio caso, è meticolosa e quasi ossessiva. Io potrei psicanalizzare l’intervistato per la mole di nozioni e di cose che so su di lui…”.

 

Su oltre 500 interviste, a parte l’episodio già citato con Ruggero Guarini, annovera un altro litigio, quello con Ida Di Benedetto, e due conversazioni mai pubblicate: partiamo da quella con il regista e coreografo Sergio Japino.

 

“Quello fu un episodio che serve anche a spiegare come lavoro. Come sempre mi ero preparato molto bene, ma avevo dimenticato a casa i fogli con le domande. Non è che senza copione io non sappia fare un’intervista, perché un bel po’ di esperienza l’ho fatta in questi anni di lavoro, però nel caso dell’incontro con Japino sono rimasto spiazzato e non sono riuscito a rimediare… diciamo che avere un serio canovaccio scritto di domande è una salvezza specie se il personaggio è piatto, noioso e non ha nessun interesse a raccontarsi e ad aprirsi”.

Con Alain Elkann invece la conversazione non arrivò mai alla fine.

 

“Proprio così. Arrivai al Ministero della cultura con le mie domande e i miei registratori. Lui era tranquillo, chiacchierammo parecchio finché ad un certo punto si alzò e mi disse: “Mi spiace ma ho cambiato idea: non voglio più essere intervistato”. Lì per lì pensai ad uno scherzo, perché mi pareva strano che dopo un bel po’ di domande avesse realmente cambiato intenzione. Quando poi lo vidi uscire dalla stanza capii che faceva sul serio, ma nemmeno in quel caso me la sono presa perché penso che ognuno di noi ha il diritto di cambiare idea: così come io ho il diritto di pensare che lui sia un maleducato. Oltretutto non mi aspettavo un atteggiamento del genere da uno che nella vita fa anche l’intervistatore”.

 

Considerata l’imponente mole di interviste che ha realizzato ci si aspetterebbero molti più litigi e qualche querela. Invece niente. Qual è il suo segreto?

 

“Sono due. Registro sempre tutto, così evito misunderstanding e incomprensioni, che sono la prassi quando uno prende solo appunti e magari lo fa pure male. E poi, cosa molto importante, da sempre faccio rileggere il testo all’intervistato prima di mandarlo in stampa. Ci sono dei colleghi, specie quelli duri e puri, che mi criticano per questo.

Scegliere se far rileggere o meno è in generale una vecchia diatriba del giornalismo, ma io rivendico questo mio modo di fare, che da una parte tutela me e dall’altra tutela l’intervistato, che ha tutto il diritto di fare fino all’ultimo piccole correzioni, chiaramente senza alterare i contenuti dell’intervista che io intendo come un prodotto artificiale, che dunque va aggiustato e preparato con cura e attenzione”.

 

“L’intervista è come il vino. Quello del contadino fa schifo”. Lo ripete spesso.

 

“Perché come per fare del buon vino non basta spremere l’uva, così per fare una buona intervista non basta scriversi quattro domandine su un foglio di carta. L’intervista è un prodotto artificiale, va manipolato, aggiustato e rifinito, e come il buon vino ha bisogno di cure, di attenzioni e qualche volta anche di correzioni. Non è un prodotto ruspante e se si vuole portare a casa un’intervista ben fatta, che si faccia leggere con piacere da chi compra il giornale, si devono seguire delle regole semplici ma fondamentali”.

 

Della prima abbiamo già accennato: la preparazione deve essere meticolosa.

 

“Questa è la fase più importante del mio lavoro. Voglio e devo sapere tutto del personaggio che avrò di fronte, per cui mi documento per giorni, leggo tutto ciò che è stato scritto e detto su di lui, faccio un giro di chiamate chiedendo ad amici e nemici della persona che dovrò intervistare informazioni e curiosità, magari inedite, che potranno essermi utili anche solo per una domanda. E poi procedo nella scrittura delle domande”.

 

Si favoleggia di interviste lunghe tre o quattro ore, in sostanza delle sedute di psicanalisi.

 

“Ma è proprio così. Mi preparo dieci o anche venti pagine di domande, scrivendomi già anche quelle di riserva nel caso il personaggio non risponda a qualcosa, perché non mi piace lasciare nulla all’improvvisazione. Non mi vergogno affatto, come invece capita a certi miei colleghi, di presentarmi con i fogli pieni di domande perché per me sono fondamentali: chiaramente sono pronto ad abbandonare il copione o ad invertire l’ordine delle domande se è il caso e se l’intervistato mi porta verso argomenti che non avevo previsto”.

 

Dicevamo prima che è scoppiata una sorta di intervista-mania e, soprattutto i settimanali, da qualche anno a questa parte sono zeppi di conversazioni, proposte in tutti i formati. Mi racconta con che sguardo legge le interviste scritte dai suoi colleghi?

 

“Senza dubbio con occhio tecnico. Maneggio da così tanti anni la materia che mi accorgo subito quando l’intervistatore si è preparato bene, quando ha improvvisato, spesso malamente, quando tra i due non c’è stata sintonia e quando il giornalista si è inventato qualcosa… e ci sono molti colleghi che smaniano di dimostrarsi cattivi e giocano a fare domande scomode e irriverenti: peccato le inseriscano solo al momento della scrittura dell’intervista perché nel faccia a faccia non hanno avuto il coraggio di mostrare i muscoli”.

Qual è l’errore in cui più spesso cadono gli intervistatori?

 

“Fondamentalmente due. Non registrano l’intervista che è invece importantissimo perché così si evita il rischio di falsare il pensiero dell’intervistato… io poi, come ho già detto, non prendo appunti perché tanto farei fatica a decifrare quello che ho scritto (ride). L’altro errore, e lo ripeterò fino alla nausea, è quello di non prepararsi bene e di pensare che tanto con l’improvvisazione si può ottenere in ogni modo un buon risultato. Invece non è mai così”.

 

Che effetto le fa essere considerato un maestro delle interviste? Le piace o la imbarazza?

 

“No no, sono contentissimo. Consideri che sono narciso ed egocentrico per cui mi piace questa definizione. Se poi i complimenti vengono dai colleghi mi solleticano ancora di più la stima, perché arrivano da persone che lavorando nel giornalismo riconoscono delle qualità che ho sviluppato in quasi quarant’anni di lavoro”.

 

A proposito di colleghi giornalisti: vediamo cos’hanno detto di lei, senza ruffianeria, alcuni dei più bravi intervistatori italiani. Partendo da Giancarlo Dotto che ha dato una definizione molto particolare: “Sabelli Fioretti è un surfing accattivante sulla schiuma delle cose, mi piace”.

 

“Interessante. Questa è molto carina perché ha colto nel segno una mia caratteristica, che è quella di non provare il gioco facile del finto approfondimento, pur senza essere troppo superficiale: riconosco di non essere uno pesante, perché voglio che le mie interviste possano piacere ed essere comprensibili a tutti i lettori del giornale per il quale scrivo. Dotto per altro è davvero molto bravo, sicuramente tra i migliori dieci intervistatori in circolazione”.

 

Stefano Lorenzetto ha scritto: “Claudio Sabelli Fioretti e Giancarlo Perna sono le stelle polari che hanno sempre orientato il mio la­voro”.

 

“Beh questo mi lusinga molto, ma ho paura che la gente penserà ad un accordo sottobanco, ad una combine tra me Lorenzetto e Perna perché sono anni che rilasciamo pubblicamente attestati di reciproca stima (ride). Ma Perna non ha detto nulla di me?”.

Si, e giusto per proseguire nel ménage à trois, ha scritto: “Stefano Lorenzetto è quello che scrive meglio. Claudio Sabelli Fioretti è quello che cava di più dalle sue consenzientissime vittime”.

 

“Ha ragione Giancarlo: i miei intervistati sono sempre consenzienti, tranne nel caso già citato di Guarini, mentre altri non lo sono proprio del tutto ma fanno buon viso a cattivo gioco. In generale se accettano di farsi intervistare sanno a cosa vanno incontro”.

 

C’è poi la giovane Barbara Romano, di “Libero”, che mi ha detto: “Il miglior intervistatore italiano è Claudio Sabelli Fioretti. È il mio maestro, anche se lui non lo sa”.

 

“Beh ora lo so. La ringrazio. La leggo spesso e trovo che sia molto brava. Tra le giovani era molto brava anche Candida Morvillo quando scriveva per “Vanity Fair” e per “A”. Purtroppo poi ha scelto di far carriera e ha lasciato da parte la scrittura”.

 

A proposito di scelte: perché ad un certo punto lasciò il magazine del “Corriere della Sera” mollando milioni di lettori orfani del gioco della torre, degli adulatori e dei voltagabbana?

 

“Ho smesso perché lavoravo troppo e avevo voglia di fare altro. Di base sarei un conservatore, ma anche un innovatore per cui cambiare mi piace e inseguo la curiosità e le nuove avventure. Anche quelle più cretine come quella di fare a piedi da Masetti, frazione di Lavarone, a Vetralla, come feci qualche anno fa”.

 

Se dovesse definire con un solo aggettivo la sua anima direbbe che è…

 

“Cialtrona, senza dubbio (dice ridendo). Mi piace fare cose matte e un po’ imbecilli, cambiare all’improvviso, fare le valigie, partire e buttarmi in una nuova avventura. Ora ad esempio ho la fissa della Transiberiana, per cui progetto di prenderla e di arrivare in treno fino a Pechino”.

 

Idea da rimandare a settembre visto che sarà impegnato tutta l’estate, per il secondo anno consecutivo, ai microfoni di Radio Due con “Un giorno da pecora” al fianco del suo amico e compagno di avventure Giorgio Lauro.

“Esatto. Si tratta del primo esperimento di talk show radiofonico. Ci divertiamo molto a scandagliare argomenti di tutti i generi, anche quelli più seri e pesanti, ma sempre mescolando ironia e leggerezza, seguendo così la più classica delle lezioni arboriane. E avendo come obiettivo quello di non fare mai sbadigliare chi ci ascolta. Il promo della trasmissione è un piccola chicca perché lo ha fatto il Presidente Francesco Cossiga, che si è trasformato per noi in Dj Kappa”.

 

A Cossiga lei è legato a filo doppio: “Cossiga – L’uomo che non c’è” è, infatti, uno dei sei libri-intervista che ha scritto per Aliberti Editore.

 

“Uno di quelli che ha avuto maggior successo, anche se non l’avrei mai pensato. Ma del resto credevo che quello dedicato a Franco Grillini avrebbe avuto una grande eco, invece ha venduto molto di più quello di Cossiga. È divertente trasformare delle interviste in libro, perché puoi approfondire ancora di più la conoscenza del personaggio e qualche volta cambiare idea. Penso al libro-intervista col Ministro Sandro Bondi.

Sono uno dei pochi uomini di sinistra in Italia a cui Bondi sta simpatico: quella è stata una delle poche interviste che mi ha fatto cambiare il giudizio, o forse il pregiudizio, che avevo sull’intervistato. Ho scoperto che ci sono due Bondi: quello che va in tivù a difendere a spada tratta Berlusconi, e quello gioviale e simpatico con grande senso dell’umorismo che incontri a cena. Uno completamente diverso dall’altro, uno che non conosce l’altro al punto che forse nemmeno Bondi stesso conosce i suoi due io (ride)”.

 

Il motto del tuo sito è “Chi non ha un blog oggigiorno”. Sempre più spesso in libreria troviamo dei libri che sono tratti dai blog personali degli autori, tanto che si parla si block, cioè la crasi di blog e book, e tu stesso hai tratto dal tuo blog un libro. Che idea si è fatto di questo genere editoriale?

 

“Li vedo in realtà come due mondi molto diversi e così distanti che finiscono per non toccarsi. Il libro e il blog sono universi paralleli, che fanno fatica ad essere accomunati. In Italia poi i giovani non leggono i quotidiani e i lettori di libri, adulti e non, sono sotto i dieci milioni cioè molto pochi. A meno che non si tratti di un caso editoriale pazzesco non vedo continuità tra le due cose”.

Ultima domanda. È vero che sul suo biglietto da visita c’è scritto: “Non ho mai partecipato a “Porta a porta”, non sono mai stato in vacanza a Capalbio e non ho mai votato Democrazia cristiana”?

 

“Sì. Però nel frattempo sono stato, anche se involontariamente, a “Porta a porta” perché ero ospite al festival di San Remo e mi ritrovai nello studio allestito al teatro del casinò dove andava in onda la trasmissione di Vespa. A dirla tutta poi sono stato anche in vacanza a Capalbio a casa di alcuni amici e, come dice il mio amico Giorgio Lauro, pur non avendo mai esplicitamente crociato Dc ho votato per il Partito democratico, che ha al suo interno la Binetti, dunque è come se lo avessi fatto. Dice che è arrivata l’ora di buttare i biglietti e di farne di nuovi?”.
*Dice di sé.
Francesco Canino. Nato a Torino ventisette anni fa, laureato in scienze politiche. Amerebbe scrivere un libro su Bettino Craxi e sul suo ruolo di innovatore nella comunicazione politica Italiana. Pur non credendo nella reincarnazione, nella vita precedente pensa di essere stato un ozioso aristocratico dell’antica Roma morto (continuando a mangiare) durante l´eruzione del Vesuvio del 79 d.C. In quella futura spera di essere la nuova Raffaella Carrà. 

ALDOUS HUXLEYSto pensando a cosa Adamo ha visto il giorno
della sua creazione – il miracolo momento per momento di
un’esperienza completamente nudo.
AMARCORD Gian Paolo Ormezzano - Coppi e Bartali, due amici che l'Italia voleva rivali

Scritto con Andrea Coppi e Marina Bartali, i due figli che più hanno spartito  il tempo del duello fra i loro padri, un libro prova a chiedersi se davvero c’era fra i due campioni tutta quella competizione di cui si scriveva, si parlava, si nutrivano le conversazioni, le attese, i pronostici (1)

Gian Paolo Ormezzano*

In questo libro dovrò usare parecchie volte la prima persona singolare, da me volontariamente evitata quasi del tutto in oltre mezzo secolo di giornalismo (…).

Il fatto è che gli anni passano, gli amici o i complici se ne vanno, e così mi trovo sempre più spesso solo a ricor­dare, a testimoniare, a poter e dover usare l’“io c’ero”.

 

 

 

Cinquanta e dieci

 

Nel 2010 saranno cinquant’anni da che è morto Fausto (2 gennaio 1960), e dieci anni da che è morto Gino (5 maggio 2000). Per quarant’anni e quattro mesi Bartali è rimasto su questa terra anche a testimoniare Coppi, a dire della loro rivalità. I due dovevano operare insieme nel 1960, alla guida di una squadra innovatrice, già esistente e dedicata ai giovani professionisti, intitolata a un’acqua minerale e a un’aranciata famose – da qui il nome di San Pellegrino –, e votata a un talento emergente, l’ex pastorello emiliano Romeo Venturelli, meteora classica se ce ne è stata una.

Bartali, che aveva lasciato il ciclismo pedalato nel 1954, di questa squadra era il direttore sportivo (la carica era già sua, ma nell’occasione veniva ribadita e ingrandita), Coppi doveva essere il grande corridore all’ultima stagione, la bandiera, il monito, il sommo guru pedalante accanto ai discepoli.

Una malaria contratta in un paese dell’Africa centrale durante un safari di fine anno 1959, o addirittura laten­te nel corpo del campionissimo dai tempi della prigionia “militare” nell’Africa del Nord, una malaria non indivi­duata dai medici uccise Coppi all’alba di quello che sa­rebbe stato sicuramente un anno speciale, suo e di Bartali e del ciclismo italiano e mondiale.

Per inciso, devo al reportage sulla morte di Coppi la partenza lanciata di una bella mia vicenda giornalistica personale, la vicenda che ha riempito la mia vita di lavoro, lungo e tanto e bello: nel 1959 avevo seguito per “Tuttosport” il Giro d’Italia, il mio primo, soprattutto per rispetto della volontà di un defunto, il direttore – Carlo Bergoglio detto Carlin, gran tifoso di Bartali e anche gran cantore di Coppi – del quotidiano sportivo torinese. Carlin aveva annunciato per tempo di volermi portare con sé al Giro (tenevo in quella primavera del 1959 ventitré anni e rotti) per farmi fare esperienza e soprattutto per dettare al telefono gli articoloni che lui scriveva a mano: sì, perché io ogni martedì, quando lui a casa sua componeva un pa­ginone e passa di giornale per l’edizione del mercoledì, intitolata appunto “edizione Carlin”, facevo la spola, con una vecchia auto a metano ereditata da mio padre che se ne era andato via troppo presto da questo mondo, in tem­po comunque per amorevolmente convincersi che dovevo fare il giornalista e non – suo sogno – l’ingegnere edile, lasciandomi con la mia grande mamma e due fratelli pic­coli, facevo la spola dalla redazione a casa sua e ritorno, per rifornire in continuazione la tipografia dei suoi fo­glietti di taccuino scritti a mano con grafia minuta assai, e leggendo, anzi divorando, il testo in anteprima ai semafori ero diventato un esperto della sua scrittura.

Carlin morì di ictus il 25 aprile di quel 1959, il Giro d’Italia partiva il 16 maggio, al giornale rispettarono comunque la volontà di quel grande giornalista che peraltro sognava soprattutto di essere stimato come bravo pittore, e io fui aggregato a quella che allora si chiamava l’équipe di “Tuttosport”. Ma in quel Giro ebbi compiti, come dire?, minori, sommerso da un gruppetto di inviati speciali molto più speciali di me.

Uscii nuovamente dalla zona nobile e necessaria del la­voro, soprattutto redazionale, sei mesi dopo la conclusio­ne di quel Giro; vi uscii per andare a vedere e raccontare sul quotidiano “Tuttosport” l’ultima tragedia di Coppi, e non ci rientrai più: in quell’anno, per me giornalista appena regolarizzato come iscrizione all’albo, i Giochi olimpici invernali di Squaw Valley, California, Usa.

Niente Giro d’Italia perché si era preferito inviarmi ad un concomitante stage calcistico a Parigi presso il quo­tidiano sportivo francese, a tradurre al volo, “in diretta” al telefono, grazie alla mia strana, ma buona francofonia, per noi i testi dei suoi giornalisti, per loro i nostri testi delle partite di calcio di una vasta manifestazione calcistica che coinvolgeva tante squadre appunto d’Italia e di Francia.

Niente Giro ma, dopo il mese parigino, il Tour de Fran­ce vinto dall’italiano Gastone Nencini, toscano pieno, ruspante come Bartali, e poi nella stessa estate per me magica i Giochi olimpici estivi di Roma: insomma la pro­fessione piena di inviato (speciale, si diceva e scriveva allora), con tanto di assunzione dopo tanto precariato per quasi sette infiniti anni in unostatus, anzi in un non status che allora si chiamava abusivato ed era più lungo, ma an­che più caldo e utile di quello di adesso: nel senso che si imparava davvero il mestiere, in un Paese tanto pieno di speranze sagge quanto allora felicemente vuoto di televi­sione troppo presto scema e stornante e di succedanei di essa anche nella stampa scritta.

Paradossalmente divenni giornalista aiutato anche dal fatto di non essere giornalista, e tento di spiegarmi: si te­neva ogni 31 dicembre a Torino, nel celebre teatro Ca­rignano, un veglionissimo importantissimo per la crema della città, detto appunto “dei giornalisti”. La gente della meglio società cittadina cercava gli inviti preziosi presso giornalisti amici, io non ero ancora giornalista manco pra­ticante e quel 31 dicembre del 1959 dopo un amaro fru­strante brindisi di mezzanotte, non ricordo dove e con chi e con quali bevande sicuramente pessime e poco costose, andai a dormire. Il giorno dopo nella redazione di giornalisti-giornalisti tutti reduci dal veglione ero l’unico non sbadigliante, per questo verso le 17 fui spedito a Tortona dove Coppi era stato ricoverato in ospedale (non c’erano allora nelle festività di fine anno i giorni senza giornali). Forse, se fossi andato anch’io al veglione e fossi stato, quel pomeriggio del 1° gennaio 1960, pieno di sbadigli la mia vicenda, anzi la mia carriera (parolaccia, ma serve a spiegare) avrebbe preso una piega diversa.

Essì, arriva – non ricordo più il vettore – la notizia in redazione nel pomeriggio avanzato: Coppi sta male. Uffa, quello lì ne ha sempre una. No, questa volta sta davvero male, lo hanno ricoverato d’urgenza all’ospedale di Torto­na, più attrezzato di quello di Novi Ligure che pure è più vicino a casa sua. Chi parte? Tutti in redazione guardano al più giovane, l’unico a non aver fatto l’alba: non sbadi­glia, scrive in fretta, può darci in tempo una colonnina di notiziario, poi domani si vedrà, magari se ci saranno cose grosse verrà mandato un giornalista esperto. Si rimedia un’auto, strade ghiacciate (autostrada da venire), guida un autista della famiglia dei proprietari del giornale, un fuoristrada ad Asti senza danni seri, finalmente Tortona e subito Mario Mogni, il corrispondente locale, il quale dice che la febbre è alta e che qualcuno parla già di stato prea­gonico del Campionissimo, ricoverato lì da poche ore…

Coppi morì il mattino del 2, scrissi per tutta la notte, nutrendo il giornale di centinaia di righe per una serie pro­gressiva di edizioni sempre più allarmanti: l’agonia era chiara e pretendeva sempre più spazio, sacrificando quasi tutto il resto dell’attualità. Quando – ricordo l’ora, erano le 7 – si dovettero mandare a casa i tipografi, dopo ore e ore di lavoro nella notte e all’alba, si sapeva che Coppi ormai stava morendo. Lui spirò poco dopo la rinuncia no­stra coatta – impossibile proseguire con gli straordinari in una tipografia di cui il giornale era un inquilino – di stare dietro al dramma con ancora un’altra edizione speciale.

Avevo conquistato un letto in un alberguccio di Tortona, da qualche minuto stavo inutilmente cercando di dormire almeno un pochino (niente da fare, enorme la tensione, l’emozione del giornalista giovane e anche la commozio­ne del tifoso) quando il collega Ruggero Radice, amicis­simo di Fausto ma anche amico di mio papà e mio, e a me assai vicino nei miei primi passi “ciclistici”, bussò: aveva gli occhi rossi, “se ne è andato”, mi disse.

Mi venne in mente mio padre che il 4 maggio del 1949 – avevo 13 anni e mezzo – era entrato nella mia stanza da letto, che era poi anche la cucina del nostro alloggetto, dove smaltivo sonnecchiando, alle cinque e passa della sera, una leggerissima influenza, e mi aveva detto singhiozzando che l’aereo con i calciatori del mio Grande Torino si era schiantato a Superga, erano morti tutti.

Ricordo tutto di quel mio Coppi, emozione e commozione e ritorno a Torino con appena il tempo di prendere qualcosa per passare a Tortona la notte successiva in albergo e non nella corsia di un ospedale, e per seguire per il giornale i funerali.

Lavorai bene nonostante il dolore, fecero il titolo più intenso del giornale su una mia frase – “è morto da su­peruomo” – che diceva della lotta tremenda, quasi feroce dell’organismo dell’atleta contro un male che restava mi­sterioso, nonostante l’accorrere al suo capezzale di medici illustri, esperti anche in malattie tropicali.

Al ritorno in redazione trovai una lettera del direttore Antonio Ghirelli, un grande. Mi faceva i complimenti per gli articoli, tanti complimenti per tanti articoli, e però mi ammoniva per iscritto: “Il titolo sul superuomo va bene a patto che ci si ricordi sempre che gli ultimi presunti su­peruomini, i nazisti, sono finiti, nell’ultima guerra, sotto i cingoli dei carri armati del generale americano Patton”. Bella lezione, grazie ancora.

Avevo vissuto in pieno il dualismo dei due grandi campioni, da ragazzo tifoso e poi anche da giornalista o aspirante tale. Ero tifoso di Coppi senza un perché chiaro (manco sapevo che calcisticamente era granata come me, “fatto” ipertifoso del Toro da mio padre), di Coppi il cui nome avevo sentito per la prima volta al Motovelodromo di Torino, nel 1946, in una riunione su pista a cui il genitore amante di tutto lo sport aveva voluto portarmi perché fossi contagiato dalla pratica spinta dell’attività fisica, io che rischiavo di pensare sin troppo allo studio, da secchio­ne pallido. Fausto era anche inseguitore e si era permesso di impegnare a fondo in pista un certo Ortelli che pure la gente applaudiva assai (aveva appena vinto la Milano-Torino proprio su quella pista).

Avevo poi fatto in tempo a conoscere diciamo adesso giornalisticamente, ma per me allora soprattutto fisica­mente, direttamente, “toccando” l’idolo, Fausto Coppi, grazie ad una mia intervista a lui, gentilmente concessa al pivello che ero e ovviamente definita esclusiva, appun­to in quel 1959 della mia prima corsa rosa, alla vigilia del Giro d’Italia che però il Campionissimo, all’occaso atletico, non aveva corso per ragioni fisiche che nessuno voleva chiamare anagrafe ormai pesante di un trentano­venne consumato da fatiche e incidenti. Quanto a Bartali, aveva lasciato il ciclismo nel 1954, quando io ero appena un ragazzo di redazione, un giovane di studio.

Dal 1960 ho “patito” – per molti dei miei tanti anni di lavoro pienissimi di ciclismo, conclusisi, con l’accumu­lo di attività professionale sino alla pensione, all’inizio del 1991, e ricchissimi di ventotto Giri d’Italia e dodici di Francia –, ho “patito” dicevo Bartali che ricordava Coppi morto quel 2 gennaio a Tortona; Bartali che parlava ad ogni occasione di Coppi, spesso ovviamente limitandolo, onestamente cercando di dimensionarlo, anche perché la morte prematura dell’eroe aveva acceso nostalgie coppia­ne integraliste, memorie forti ed esclusivizzanti che sem­bravano penalizzare il superstite.

Diciamo che per diventare amico di Gino ci ho messo vent’anni di frequentazione, di sodalizio, di tappe del Giro sulla sua auto, di cene, di partite a boccette la sera nei retrobar di paeselli spenti, di partecipazione durante la corsa al suo festival personale di grande continuo reducismo fra la gente che lo riconosceva, lo invocava, lo faceva fermare per una foto di matrimonio, di prima comunione, o anche soltanto per un bicchiere di vino. Sono fiero e onorato di poter dire che siamo diventati amici, invecchiando vicini nonostante lui avesse ventun anni più di me.

Intanto facevo crescere in me il culto di Coppi, avevo la fortuna di conoscere e un pochino frequentare i suoi due figli, Faustino soprattutto e poi Marina; Faustino nato dopo Marina, ma arrivato prima di lei nella mia vita gior­nalistica grazie ad un appassionato novese, Pino Villa, un amico di suo papà e amico mio (e comunque Marina poi mi ha gratificato con tanta amicizia ricambiatissima).

Tornando a Bartali, ho conosciuto anche sua moglie Adriana, dolcissima compagna di viaggio ai tempi dei va­gabondaggi del campione nell’Italia che lo ricordava; ho conosciuto bene il suo figlio Andrea dopo la morte di Gi­no, al di là di frequentazioni occasionali antecedenti, ed è stata una cosa bella, tenera, che dura. Quando Gino stava per andarsene da casa sua mi preavvertirono: un tumore aveva aggravato il suo declino da vecchiaia. Non andai al funerale, non amo certe ufficialità del lutto, a quello di Fausto ero inviato per lavoro.

A proposito dei due decessi, ho due episodi da allaccia­re ad essi. Uno, postumo, il biglietto di auguri per un buon 1960 firmato Fausto Coppi, evidentemente pensato eguale per tutti i giornalisti di ciclismo, che mi arrivò dopo la sua morte. Era stato spedito da Novi Ligure a Torino, neanche cento chilometri, a fine 1959 e a quei tempi (soltanto?) le poste pativano terribili intasamenti sotto le feste, e mi procurò un dolore speciale, contorto e profondo insieme, quasi fosse una sorta di certificato di morte (oh il mio di­spiacere di non riuscire mai a spiegare bene a Marina cosa di grande, di favoloso, di fiabesco, di trascinante fu suo padre per me, quante attese trepide e quanti sogni realiz­zati gli devo!).

L’altro ricordo, precedente alla scomparsa del campio­ne, è quello di quando Gino Bartali era stato colto da un malore che lo aveva costretto ad accettare un bypass, e scherzando gli avevo detto, la prima volta che lo avevo rivisto, che avevo già scritto, come tutti al primo allarme serio sulla sua salute, il classico “coccodrillo”, l’articolo commemorativo che ogni giornale tiene pronto su ogni grosso personaggio, in caso di decesso improvviso. “Non sono più un giornalista a stipendio fisso – gli dissi super­scherzando –, sono pagato ad articolo e se tu non ti decidi a morire mi hai fatto lavorare invano”. Lui mi ribatté, par­lando duro alla toscana: “Sarei proprio curioso di leggere le bischerate che hai scritto su di me”. E io: “Appunto, tu ti decidi a morire, vai di certo in cielo, da lassù puoi leg­gere tutto”. Lui mandò avanti il gioco, finse di arrabbiarsi con me. Un comune amico, ex corridore e impresario di pompe funebri, Alcide Cerato, lo abbracciò dicendogli: “Gino, sai che Gian Paolo ti vuole bene”. E visto che lui continuava a fare il broncio, aggiunse: “E intanto io ab­bracciandoti ti ho preso le misure della bara”. Solo un pio come Gino riuscì, a quel punto, a non eseguire atti impro­pri con appropriati commenti e maledizioni.

Mi piace anche dire che sono l’autore di una frase sen­tenziante forse valida a proposito del gioco, diffusissimo negli sport, di giocare a quale campione è stato il massi­mo: “Coppi il più grande, Merckx il più forte”, ho scritto, e mi riprendono ancora la frase stessa, usandola in manie­ra ottima e abbondante. Quanto a Bartali, se ho un ram­marico è quello di non essere mai riuscito a liofilizzare la sua grandezza, unica, in poche parole scritte. Ma il fatto è che tra noi due parlava soprattutto lui…

 

I dubbi e il perchè

 

Ci siamo, nel senso che arrivo ad altri e – spero – con­vincenti e definitivi perché di questo libro. Frequentando Andrea, frequentando Marina, i due figli che più hanno spartito, per ragioni anagrafiche, il tempo grande del duello fra i loro padri, ho provato a chiedermi e soprattutto a chiedere se davvero c’era fra i due cam­pioni tutta quella rivalità di cui si scriveva, si parlava, si nutrivano le conversazioni, le attese, i pronostici. Ho co­minciato a sussurrare i miei dubbi ad Andrea e a Marina – fra l’altro buoni amici tra di loro, saldati da ricorrenze, rievocazioni, cerimonie assortite –, invitandoli a ricorda­re, a testimoniare. Li ho immediatamente scoperti dalle mie parti di pensiero, inconsciamente e no.

Devo subito precisare che Andrea rievoca il papà da ti­foso, da tifoso anzi appassionato e intanto documentato, mentre Marina accesa partigiana “ciclistica” di papà non è, non può esserlo al di là si capisce di un tifo affettivo più che competente: perché Marina era piccola assai quando papà vinceva, Marina stava con la mamma quando il pa­pà vinceva ancora, ma se n’era andato di casa, divenen­do una figura in un certo senso da rimuovere, da ovattare col silenzio. Marina poi ha perso il papà quando aveva troppo pochi anni – tredici: bambina? ragazzina? – per “studiarne” subito la figura sportiva e diventare sacerdo­tessa impegnata e piena del culto, almeno per quel che concerne l’ufficialità di esso. Così almeno penso, penso non affermo decisamente: perché non ho certo la pretesa gaglioffa di sapere e potere entrare nella testa e nel cuore di qualcuno.

Il libro nasce, oltre si capisce che da una mia convin­zione giornalistica e persino storica – le due prossime ri­correnze a cifra tonda –, dal gran parlare che ho fatto con i due sui loro padri, e anche con uno sul padre dell’altra, con una sul padre dell’altro. Andrea più ricco di dettagli, si capisce, lui insieme col padre per tantissimi anni, ol­tre mezzo secolo dall’avvento nel bambino dell’età della ragione. Marina più affidata a lampi di interpretazione, magari su mie sollecitazioni: lei comunque ha spartito in qualche modo direttissimo o indiretto col padre tredi­ci anni, e lui anche quando se n’era andato di casa per andare a vivere con Giulia Occhini detta la Dama Bian­ca era sempre in qualche modo vicino alla figlia, arriva­va al sotterfugio per farle visita, deviava per lei il corso normale degli allenamenti e il corso complicato della sua nuova vita. E se questo può significare poco ai fini della documentazione, significa molto ai fini della rievocazione sentimentale.

Ognuno dei due campioni era, per Andrea e per Marina, l’amico di papà. Nel loro inconscio, ma anche nella realtà dei fatti che li concernevano. Casomai “quello là” lo dice­va Gino di Fausto, lo diceva (meno) Fausto di Gino. Mica con convinzione. E mica sempre, magari soltanto quando c’era qualcuno, specie giornalista, a sentire. Poteva acca­dere che uno facesse eseguire operazioni di spionaggio sull’altro, ma anche questo era in fondo un omaggio, per­ché significava riconoscere la forza del rivale e studiare le misure, preparare i piani per contrastarlo, per batterlo o almeno per non essere da lui malamente sconfitto.

In sostanza, una rivalità nata in entrambe le parti dalla stima, una preoccupazione reciproca di genesi diversa, ma di pari intensità.

Considerando che i due si dividevano, molto sempli­cemente, tutta una certa vasta e splendida Italia dei senti­menti, che interpretavano o meglio personificavano dav­vero il sentire sportivo di tutta la nazione, che dovevano accettare ma intanto anche vivere la trasposizione della loro rivalità su un piano totale su cui stavano pure gli at­teggiamenti religiosi e laici, le idee politiche, il modo in­somma di affrontare tutta la vita, con addirittura ad un cer­to momento la dicotomia fra i loro atteggiamenti opposti verso il sacro concetto tradizionale di famiglia…

Considerando la conseguente complessità della loro convivenza nel mondo della bicicletta, ma anche la loro collocazione globale, a trecentosessanta gradi, nel mon­do tutto, appunto famigliare, sociale, religioso, politico, etico, persino etnico (anche se Curzio Malaparte nel suo pamphlet che abbiamo già ricordato avvicina in qualche modo i toscani e i piemontesi, definendoli i due “popoli” più intelligenti d’Italia, e quindi indirettamente potrebbe essere usato per propiziare una speciale comunione fra i due…).

Considerando tutto questo e altro ancora (ne diremo), e casomai frequentando il paragone dolente fra le tante en­fatizzazioni, le tante esasperazioni dello sport del dopo la morte di Coppi, lo sport delle dilatazioni massime di fatti minimi, con proiezione dei personaggi in orbite assurde e purtroppo anche didascaliche di popolarità gossipara.

Considerando, riconsiderando, straconsiderando tutto si deve dire che i due agirono, operarono, se si vuole an­che recitarono benissimo, con estrema dignità, con forte pudore, la parte dei contrari, degli opposti, dei rivali, non dei nemici, respingendo ogni sollecitazione legata alla enorme loro popolarità e a tutti i suoi vantaggi psicologici presso il popolo e anche presso l’aristocrazia del tempo, respingendo la conquista troppo facile di cuori e anche cervelli italici o italioti.

C’era sicuramente un’Italia, pre-fetente allora nell’in­conscio e adesso assai sviluppata e purtroppo sicura di sé e fiera delle proprie puzze, che aspettava che i due si prendessero a pugni per sbiellare (o sballare, come si dice adesso) con loro, e fu delusa.

C’era una stampa che ad un certo punto poteva anche desiderare di mordere ben altra carne umana di bipede campione, carne più saporita, più speziata, e fu delusa. C’era una tifoseria che voleva vivere una rivalità al me­glio della bellezza e della giustizia sportiva, e non fu de­lusa. Anzi.

Conferma Andrea Bartali: “Papà dopo la morte di Cop­pi ha rivisitato a lungo la loro contesa, il loro lottare su tutte le strade, e ha sempre trovato modo di arrabbiarsi, quando era stato Coppi a vincere, per il modo con cui si era dipanata la corsa, erano andate le cose, aveva agito il caso. Ma non aveva mai cercato di tirare in ballo qualcosa di fasullo, di irregolare per spiegare il successo dell’al­tro. Al massimo, qualcosa di anomalo. Nel suo concetto ampio di sport c’era posto anche per una vicenda in cui lui, che pur si riteneva più forte, veniva sconfitto. E chi lo sconfiggeva doveva comunque essere come lui, o quasi come lui, in ogni caso uno del suo mondo”. Non esplicita­mente un amico, assolutamente non un nemico.

Il tempo non sarà un galantuomo, ma almeno è un far­macista pignolo che mette a posto i pesi, i contrappesi, la chimica degli ingredienti, che lascia decantare le reazioni primarie, i giudizi sommari, che allinea e mescola le dosi giuste della cronaca, per far sì che si evolvano in storia. A mezzo secolo dalla morte di Fausto, si capisce, sempre meglio oltre che sempre più, che la dicotomia fu assai for­zata, per quanto riguardava tanti aspetti dei due campioni. Al punto che ci sentiamo di escludere o ridurre di virulenza quasi tutte le schematizzazioni che li hanno visti protago­nisti, fuorché una che dice sì di una diversità profonda, fra i due, ma così profonda da non poter riguardare che un aspet­to della loro vita, così profonda da non poter essere estratta e spalmata su altre situazioni, a cercare o creare verità simi­li. Si tratta molto semplicemente dell’atteggiamento diver­so verso il matrimonio: il supermonogamo Bartali fu sposo fedelissimo, sino alla morte, della dolce e cheta Adriana (che Andrea dice “disturbata” dalla Dama Bianca), Coppi fu prima sposo inquieto, non fedifrago, ma inquieto, di Bru­na, spaurita della celebrità del marito (lo testimoniano tutti gli… astanti della loro unione), e poi divenne bigamo, non riuscendo a divorziare con tutti i crismi di una legalità che allora per il nostro codice non poteva esistere.

Ma questo, si badi bene, senza nulla coinvolgere della loro religiosità. Bartali, terziario carmelitano, fu a lungo ispirato da un frate appunto carmelitano, Padre Mauro, piccolino e moralmente “altissimo” ben al disopra del suo metro e mezzo di statura, fra l’altro grande esperto di or­gani, pendoli, orologi preziosi. Bartali fu religiosissimo, ufficialmente ed effettivamente religiosissimo (“Gino Bartali il pio”, recita in italiano una lapide apposta sulle mura di Briançon, Francia, in memoria dei suoi successi su quel traguardo alpino del Tour, peraltro nobilitato an­che da imprese grandi di Coppi, ricordate a Marina non da una lapide, ma da un discorso storico tenuto in sua presen­za da un sindaco locale).

Bartali ostentò sempre sugli abiti il distintivo dell’Azione Cattolica, Bartali si infuriava se uno davanti a lui parlava male, parlava pesante (non dicia­mo, no, bestemmiava: sarebbe stato davvero troppo).

Ma Coppi era anche lui credente, andava anche lui in chiesa (“Spesso ad accompagnare sua mamma – dice Ma­rina – che io ricordo devotissima, prima e dopo la morte del figlio. E d’altronde so che ogni volta che il Tour o qualche impegno in Francia lo portava dalle parti di Lour­des non mancava mai di visitare il santuario e la grotta di Bernadette”), non era assolutamente un mangiapreti, anzi. E se si pensa ai due di fronte ad un imprevisto balordo, è più facile immaginare Bartali che impreca, usando magari una coloratissima espressione toscana, che non Coppi che arriva in qualche modo a perdere le staffe, usando poi pa­role empie o quasi.

La religiosità di Bartali ebbe comunque una vasta uffi­cializzazione in alto loco, così alto che più non si poteva, cioè in Vaticano: udienze papali speciali per lui e, quando erano udienze a tutti i corridori del Giro d’Italia, lui li rap­presentava anche formalmente, nel senso che li presenta­va al pontefice. Nel 1951 gli toccò di dover presentare al Papa la maglia rosa della corsa, di passaggio a Roma: era Hugo Koblet, svizzero praticante la religione protestante calvinista: Bartali fu il suo lasciapassare…

Da notare che il regolamento della corsa rosa vietava ai concorrenti qualsiasi impegno di carattere politico legato in qualche modo alle vicende sportive, o anche indiret­tamente collegabile ad esse, ma ovviamente l’udienza in Vaticano era altra cosa che lo schierarsi con un partito o con l’altro (comunque il primo Giro del dopoguerra ac­colse al via un gruppo sportivo che si intitolava al Fronte della gioventù, movimento giovanile collegabile con il Fronte popolare, di sinistra, che due anni dopo avrebbe cercato di vincere le elezioni nel nome del socialcomunismo di Nenni e Togliatti impegnati controla Democrazia cristiana di De Gasperi).

Gino era pienamente compreso del suo ruolo di espo­nente illustre della fede cattolica, ma non si contrappo­se mai a Coppi sventolando questa bandiera. Se il Giro d’Italia passava vicino a San Giovanni Rotondo, Bartali andava a confessarsi da Padre Pio, ma la cosa non veniva pubblicizzata in maniera eccessiva. Men che mai quella volta che il santo frate veggente di Pietrelcina ricevette la visita non solo di Bartali, ma anche di Vincenzo Torriani, il direttore del Giro d’Italia, e senza neanche essere bene informato del tipo di vita vagabonda dei due li ammonì: “State di più a casa!”.

In sostanza, se Bartali era amico del Papa, Coppi non era assolutamente un anticlericale. E se Pio XII intuiva l’importanza dello sport, per l’aggregazione del mondo cattolico giovane, Bartali non faceva certamente qualco­sa di specifico per appoggiare le parole del pontefice: nel senso che Bartali si comportava sempre nello stesso mo­do, non ritenendo la sua fede uno strumento da usare a comando.

Davvero esistevano le premesse e se si vuole anche le minacce di una forte strumentalizzazione politica dei due, ma essi furono superiori ad ogni disegno mimetizzato ed anche ad ogni azione esplicita che prevedesse un certo ti­po di loro “uso”. E quando, concluso un lungo rapporto con la Legnano, Bartali salì per le corse su una bicicletta che si chiamava Santamaria, ci fu chi pensò ad un marchio coniato su misura per il corridore pio: in realtà quello era il cognome del costruttore, che per di più era un cittadino di Novi Ligure, il paese dell’alessandrino che vantava co­me abitante illustre Fausto Coppi.

E la volta che Bartali si lasciò convincere ad accom­pagnare ai comizi un candidato speciale della Democra­zia cristiana, quel Vincenzo Torriani, cattolico attivissimo che da giovanotto aveva fatto strada velocemente nel giornale organizzatore del Giro d’Italia, la “Gazzetta dello Sport”, sino a diventare il direttore o meglio, alla francese, il patrondella corsa rosa, Bartali involontariamente danneggiò l’aspirante deputato, anziché fargli propaganda. Sì, perché le molte schede che recavano il suo cognome accanto a quello di Torriani, nella indica­zione delle preferenze, furono ovviamente annullate e ciao elezione.

La geografia politica di quei tempi – sinistra, centro, destra – poteva trovare una esemplificazione comoda nei tre ciclisti nostri più popolari: a sinistra Coppi rosso comunista, in centro Bartali bianco democristiano, a destra Magni nero neofascista. Ma non venne mai tentata credendoci sino in fondo, per fortuna e per buon gusto.

 

1) Pubblichiamo per gentile concessione della casa editrice, uno stralcio da “Coppi e Bartali. Due amici che l’Italia voleva rivali”, di Gian Paolo Ormezzano (San Paolo edizioni, 2009). Riproduzione riservata.
*Dice di sé.
Gian Paolo Ormezzano. Nato a Torino il 17 settembre 1935, tre figli e sei nipoti, tifoso del Toro, diplomato al liceo classico Cavour, quello di Pozzo, Berruti, Nebiolo e Nizzola, per stare a personaggi dello sport. A “Tuttosport” dal 1953 al 1979: giovane di studio, redattore, caposervizio del ciclismo, direttore. Da fine 1979 inviato speciale a “La Stampa” e più tardi, alla pensione, collaboratore fisso dello stesso giornale, con breve ritorno a “Tuttosport” nel 1997-98. Ha scritto di tutti gli sport fuorché del polo; ha visitato tutti i continenti fuorché l’Antartide. 

Fiammetta Jori - Per Nico, anche Obama, come il paradiso, può attendere

Orengo, ultimo paladino di ciò che non a tutti è visibile, sospeso tra prospettive naturali e fantastiche, in quella incerta linea di confine tra mare e cielo, cifra dei suoi molti racconti, romanzi e canzonette

Fiammetta Jori*

Avrei voluto scrivere un pezzo su Obama, 44° presidente degli Stati uniti d’America, quale nuova bellissima speranza del mondo. Ho raccolto un centinaio di articoli, notizie, dettagli spigolature – come giornalista sono un po’ troppo maniacalmente certosina, mi piace metabolizzare, lasciar sedimentare. Anche per questo, forse, rifiutai nell’ottantuno l’assunzione, in cronaca, nel santuario “Corriere della sera”, primo gradino offertomi, con indimenticata signorilità, dall’allora direttore editoriale Rosario Manfellotto che, bontà sua, mi riteneva da “terza pagina”… ma questa è un’altra storia – ed in testa l’ho già composto.

Mancava l’approdo cartaceo, sancito dalla mia fedele Olivetti lettera 35 (il computer è unoptional, non una conditio sine qua non); ma – anzi MA – è accaduto qualcosa che mi ha distolto, preso il cervello, inondato il cuore, occupato in ogni residuo pensiero.

Tornavo, l’ultimo giorno di maggio, da Londra, dove ero stata con una cara amica, ero anche un po’ febbricitante per una bronchite da aria condizionata (e soprattutto “condizionante” che da Harrods, tempio vagamente stucchevole dello shopping londinese, tengono a livelli polari, magari perché i più possano raggiungere in fretta le “anime” di Lady Diana e Dodi Al Fayed che, in auro bronzo, sovrastano la grande hall).

Salendo sull’aereo avevo preso una copia de “Il sole 24 ore” e, sfogliando distrattamente, mi folgora alla pagina “letture” un piccolo trafiletto di spalla: “Ricordo Nico Orengo – favolista della realtà”, a firma Giovanni Pacchiano. Anche Nico… è un pensiero mutilato, un battito di cuore, l’incipit di un’altra favola finita…

Apprendo, per quelle strane logiche del destino, della sua morte improvvisa in volo, ed è la metafora del mio stato d’animo; per chi è “spaesato” come me, il posto più giusto resta forse il cielo. È qui che sei, anche tu, Nico?

Nico Orengo, torinese innamorato dell’estremo lembo ligure della riviera di Ponente, dalle nobili ascendenze di una “madre Russia” tolstojana e perduta (suo bisnonno paterno era il conte Iosif Tallevic?, nato a Pietroburgo nel 1834, che da giovane ufficiale aveva combattuto a Sebastopoli, prendendo parte alla storica battaglia di Balaclava di cui Tolstoj narra, nei suoi racconti, disperazione ed indomito spirito degli uomini che vi presero parte. Colpito dalla malaria i medici gli consigliarono le salubri riviere del Mediterraneo; così egli era stato uno dei primi russi a venire a Sanremo, occupandosi, peraltro, dei tanti problemi che la comunità russa incontrava nel suo graduale ampliarsi.

In “Hotel Angleterre” (Einaudi 2007), autentico cammeo tra i tanti suoi libri, Orengo così lo presenta: “Intorno agli anni settanta, come segretario diplomatico onorario dell’ambasciata dello Zar Alessandro II presso la corte di Vienna, Iosif aveva incontrato, durante un ballo al castello di Schönbruun, la principessa Anna Tarassova, amica dell’arciduca Rodolfo, bella e un po’ vacua, e l’aveva sposata, mettendo poco a poco al mondo cinque figli. Una dei quali era, appunto, Valentina, la madre di mio padre Vladi”.

Ed è questa leggendaria nonna Valentina “dagli occhi di una melanconia lontana” la chiave di tutto il narrare di Nico, in questa deliziosa opera ed in quella, più vasta, totale, ineffabile di tutta la sua vita? Non è pleonastico questo lungo inciso per avvicinarsi all’aura di sogno, effimero eppure profondamente reale, di Nico Orengo. Sono le eterne meteore del Dna, letterarie traslazioni nel reale di retaggi infiniti… la voce flebile di un racconto, in un tramonto infantile e ancora nel ricordo dorato.

Entrato nel ’77 alla Stampa, dopo aver prestato servizio nel Regio reggimento Dragoni Einaudi – come ironicamente definisce la storica casa editrice Carlo Fruttero, anch’egli graduato Einaudi, nel suo tenero ricordo di Nico-direttore poi, molto amato, del supplemento “Tuttolibri”, fino al pensionamento, soi-disant, nel 2007. Nico, infatti, ha lavorato fino all’ultimo giorno, sommerso dalle sue carte, prigioniero felice tra le torri dei suoi libri e dei sogni che ancora avrebbe narrato.

Ultimo paladino di ciò che non a tutti è visibile, sospeso tra prospettive naturali e fantastiche, in quella incerta linea di confine tra mare e cielo, skyline dei poeti; questa la cifra dei suoi molti racconti, romanzi e “canzonette” (deliziosa raccolta di filastrocche – Einaudi 1981 – illustrate dal grande Bruno Munari) intrisi di naturalistica grazia ed evanescente candore.

L’eterna, tramandata saggezza della favola, raccontata con pazienza indolente fino alla fine. Fine che, nelle favole e non solo, è simbolo e premessa di un “inizio”.

Già, anche Nico… morto improvvisamente, forse per un infarto, a soli 65 anni… Proprio 65 anche gli anni di mio padre quando ci lasciò; invecchiando comincio a notare, con orrore, che esiste una sorta di oscura cabala nei dolori che macchiano di rosso (sono certa che sia rosso) la nostra vita. E ci sono delle morti a tradimento, laddove traditi sono tutti: chi muore e chi resta, mentre un indecifrabile disegno sembra legarle l’una all’altra. Un filo maledetto che ci accorgiamo di avere tra le mani, quando ormai è chiaro che non ci condurrà alla salvezza, ma al misterioso Minotauro che, irridente, ci attende.

Nico ed io, geograficamente, ci siamo incontrati, credo, non più di tre volte e sempre a Roma; l’ultima, appena un anno fa, a Palazzo Valentini dove lui presentava un romanzo di Andrea Vitali, insieme al “padre” di Montalbano (che ovviamente tutti, o quasi, sanno chi è, mentre pochi, ma i migliori, conoscono Nico Orengo. Ed è una vera grazia averlo conosciuto!).

Così io, rischiando mille multe, parcheggiando proditoriamente accanto ad una camionetta dei Carabinieri di guardia dietro Palazzo Grazioli – “sono una giornalista, vi prego è già tardi, si presenta un libro, c’è un amico di Torino che riparte subito…” – accordatomi il permesso, molto cavallerescamente dall’Arma, cui sarò sempre grata anche di questo, raggiungo di corsa, fermando le macchine di Piazza Venezia, la placida corte del palazzo della Provincia, quasi un’oasi di silenzio nel caos infernale del traffico romano.

Sono finalmente dentro la sala dove è in corso la presentazione cui la Garzanti mi aveva invitata, saluto alcuni amici e, inconfondibile, mi arriva la voce di Nico che, pacato e un po’ blasé come sempre, sta parlando dell’autore, dei ritmi perfetti delle sue pagine.

Non ci incontravamo da vent’anni, forse poco meno; certo Nico conosceva la mia voce, varie volte l’avevo chiamato a “La Stampa”, nell’89 gli avevo fatto avere il mio libro di poesie “Le pietre felici”, prefazione di Alberto Bevilacqua e un disegno dedicatomi da Renzo Vespignani – e l’aveva molto gradito. Diluite nel tempo, mi faceva poi piacere lui avesse letto alcune recensioni o articoli di argomento letterario che via via gli segnalavo, usciti sui quotidiani dove collaboravo (“La notte” di Milano, “Il lavoro” di Genova, “L’avanti”…), lasciandovi la mia firma come orma sulla sabbia.

Nel ’96, il 3 marzo, disperata per la morte di Dario Bellezza – e fu Dario che nel ’79 volle che ci conoscessimo, in una memorabile serata di cui la statua di Giordano Bruno, a piazza campo de’ Fiori vorrei potesse raccontare – gli inviai in un impulso emotivo che ricordo perfettamente, come per sapere fraternamente condiviso un insopportabile dolore, dei miei versi scritti di getto appena fuori dalla morgue del Forlanini, dopo aver salutato Dario, lasciando sull’immacolato candore del lenzuolo che lo ricopriva il rosso sfrontato di un’ultima rosa.

Mi colpì profondamente che Nico citasse, il giorno dopo, un mio verso nel chiudere il suo affettuoso ricordo di Dario su “La Stampa”. Da poeta a poeta.

Fui certa, come lo sono ora, che Nico mi voleva bene ed io, trafitta su questi fogli bianchi, sono qui a voler imperfettamente testimoniare un affetto per lui, confuso ed intrecciato al ricordo di Dario, tenerissima nostra liason.

Tornando al nostro ultimo incontro, temevo però che Nico, non vedendomi da tanto tempo, potesse non riconoscermi, nonostante i miei capelli sempre rossi, unica inalterata etichetta, invece lui, che mi aveva vista entrare, subito mi fece un largo sorriso, voluto, non di maniera, accompagnandolo con un vago gesto della mano che già teneva in aria, ad appoggiare con eleganza le sue ponderate parole.

Mai sorriso è stato da me ricambiato con gioia più immediata e sincera. “Temevo non mi riconoscessi, sai Nico?” – gli confessai dopo -. “Ma nessuno è più riconoscibile di te!” – mi rispose, disarmante – con l’inconfondibile leggerezza delle sue affermazioni, spontanee e fulminanti.

Era impossibile fraintendere le digressioni in cui a volte sembrava volersi perdere, non essere coinvolti dal suo fascino affabulatorio, non far tesoro della sua saggezza dal sapore antico. Sapeva incantare Nico en supplesse; per quelmelange di rigore intellettuale e sublime vaghezza che emanavano persino i suoi silenzi.

Così altrove eppure così fortemente presente, autorevole portavoce di una letteratura altra, a voler asserire una qualche misteriosa, irrinunciabile verità. Spero di aver afferrato un lembo, almeno, delle infinite verità che Nico Orengo ha per tutta la vita sussurrato “ai quattro venti” della sua stessa disperata speranza di tramandare la “sua” favola, con la tenace naïveté di chi crede nella morale delle favole che racconta.

Argenteo poeta di trote e anguille” – lo saluta, commosso, l’amico Fruttero – “che doveva restare lì e continuare ad incantarci ancora”.

Certo Obama può attendere, ne scriverò più in là, e Nico poteva attendere le mie vane parole, nel piccolo angolo di paradiso riservato ai poeti? Forse sì, ma sono io che non posso, non potevo attendere di dire il mio ennesimo rimpianto, la buffa delusione di chi, pure, illusioni non ne ha, come me; la tristezza ribadita un’altra volta di sapersi, risapersi soli “apolidi” in questo pianeta di grandi comunicazioni, network interattivi e chatline per weblovers, dove paradossalmente ciò che più sembra essere globalizzato è un siderale senso di solitudine.

“Il mondo – battuta che adoro di Umberto Eco – è pieno di miei dissimili”. Sono, ahimè, d’accordo e mi dispiace non sia mia la paternità di tale affermazione; sopperisco al deficit divulgandola con piacere. Così a Nico, uno dei rari “simili” che hanno costellato la mia vita, reale o immaginaria, và la mia esistenziale gratitudine.

Non è lontano Nico, non più di prima; Torino-Roma, nord-sud, terra-luna… la geografia ha i suoi limiti, non può con le sue imprescindibili e ferree latitudini e longitudini “dividere” ciò che il cuore, il sangue, la memoria unisce e salda, senza leggi né codici.

Le coeur a des raisons que la raison…

Distalità da atlante, percorsi impervi ed infiniti, persino la Via lattea non è che un soffio, un nulla per chi ci è accanto da sempre, da ancor prima, forse, che potessimo saperlo.

Rivedo campo de’ Fiori, una piccola trattoria dove Dario ci portò una sera di luglio (’79 o ’80 non ricordo l’anno), eravamo cinque a tavola: Nico Orengo, che l’indomani ripartiva per Torino, Giovanni Raboni insieme a Patrizia Valduga, entrambi felici di un exploit romano prima di rientrare a Milano ed io, con il mio dolce Dario che spesso amava chiudere il cerchio dei suoi amici e far nascere un’amicizia in suo nome.

“Anche Fiammetta, proprio come te, Nico, ha una nonna da mito, nata ad Aleppo, figlia di un diplomatico, un grande orientalista…”, Dario sapeva innescare ed accendere il fuoco della reciprocità, dell’incontro d’anime.

Il resto venne da sé ed ho in mente un fotogramma nitido, un fermo-immagine che mi ferma il cuore: una brigata ben assortita, tra risate, vino rosso e stralunati discorsi di blasonati bisnonni, di terre lontane come la mia Siria e la Russia di Nico. Rideva Dario di questi fasti d’antan rievocati gustando una prosaica carbonara!

Un’altra Roma, un altro tempo, Dario e Nico li ritroverò a quella tavola, forse, con mio padre… e le due nonne tanto amate, evocate Valentina e Lavinia, li avranno raggiunti?

Su un libro di Nico qualche notte fa, con la mia matita viola, ripensando ai suoi teneri versi per bambini, ho scritto, timida, forse imperdonabile, una filastrocca a lui dedicata. Come da alunna che sogni, ostinata, per il suo maestro una favola, più della vita, lunga, infinita…

 

Posata la penna

il racconto finisce

ma un’eco lontana

ancora ci unisce.
*Dice di sé.
Fiammetta Jori. Chiedo venia, ma non voglio occupare uno spazio ulteriore per me, che sono ancora qui per potermi raccontare. Vorrei solo ricordare, invece, a chi non le conoscesse alcune delle molte opere di Nico Orengo, passate e più recenti, tutte pubblicate da Einaudi: “Cartoline di mare vecchie e nuove” (in ristampa), “Ribes”, “Miramare”, “Il salto dell’acciuga” e “Di viole e liquirizia”. 

Mauro della Porta Raffo - A Varese per una saga familiare all'italiana

La storia e le vicissitudini di due nobili famiglie che il caso ha fatto incontrare. Nell’inverno 1946 ha inizio la lunga avventura dei della Porta Raffo nella città Giardino

Mauro della Porta Raffo*

Dominante, diritto come un fuso, nobile all’aspetto non meno che di natali, Gino Raffo, altissimo funzionario statale oramai al culmine di un’onorata carriera che lo ha portato ad essere, ora e per gli anni a venire, il deus ex machina dell’Enic, l’ente che decide e determina i contributi da concedere a sostegno dell’industria cinematografica, a capotavola, discretamente – acché nessuno osi pensare di scalfirne l’armatura – compiaciuto, quasi senza volgere sui presenti lo sguardo (rara capacità), ci osserva.

È Natale, il Natale, credo, del 1949, e nel mentre, come sempre affaccendata ai fornelli e a dirigere il personale di servizio, trafelata, si agita nonna Gina, nella casa di via Calabria numero 32 a Roma, siamo metà di mille: gli otto figli, i generi e le cognate, i primi nati tra i molti nipoti.

Poco dopo arriverà suo padre, “nonno Omero”, ultranovantenne e talmente in gamba da correre con me nei lunghi corridoi sui quali, a destra e a sinistra, si aprono le molte e misteriose (tali mi appaiono) stanze. D’un tratto, con voce che ancora oggi nel ricordo suona profonda e autorevole alle mie orecchie, mi chiama.

“Mauro”, dice, “Vai in camera mia e apri il primo tiretto del cassettone. A destra, troverai due mazzette di banconote. Portamele”. Onorato per l’incombenza affidatami di tutta evidenza in quanto abiatico maschio, eseguo.

Le cinque e le dieci lire che compongono il malloppo sono nuove di pacca, quasi fossero state appena stampate. Grande novità – la cerimonia, che coinvolge e coinvolgerà tutti i bambini presenti, si ripeterà per anni nei successivi Natali, quando, da Varese, arriveremo invariabilmente nella capitale per il raduno dei Raffo – entro in possesso di soldi “miei” che “sono sicuro spenderai bene, vero?”.

È questa, nella memoria, non tanto la prima quanto, di certo, la maggiormente nitida immagine di mio nonno paterno. Altre, non molte, seguiranno e pressoché sempre legate al suo essere collocato, imperante, al capo di una tavola imbandita, negli ultimissimi tempi, avendo accanto la seconda consorte, una ex collaboratrice che, poverina, sembrava essere costantemente in attesa di disposizioni da parte del “capo”.

Del tutto diverso, opposto per indole e attitudini, in qualche modo folle, di quella follia che tutti amano e che pur facendo soffrire quanti lo circondano viene ogni volta perdonata, Enrico della Porta Rodiani Carrara, padre amatissimo di mia madre. Incredibilmente, compagno di scuola (coetanei e nobili i due, non poteva essere in vero altrimenti dato che l’istituto da frequentare per gli aristocratici era negli anni novanta dell’Ottocento nell’urbe quello e quello solo) di Gino – che rivedrà e riconoscerà solamente quando i rispettivi figli si sposeranno nel 1942 – amante del mare, Enrico è da subito disponibile all’avventura.

Mozzo imberbe e dipoi “giovanotto” a bordo di piccoli legni mercantili di scena nel Mediterraneo, a diciotto anni si imbarcherà per la prima transoceanica dalla quale tornerà, con una bandana in fronte e un pappagallo sulla spalla destra, tanto mutato da non essere ammesso in casa dal maggiordomo che non lo individua e lo fa passare dalla porta di servizio.

Capitano di lungo corso, impiegherà le lunghe ore di navigazione a vela (il carbone, troppo ingombrante, impediva il carico delle merci, ragione per cui ancora si sfruttavano i venti) e i turni di riposo nello studio, tanto, alla fine, da conoscere a memoria uno sterminato numero di poemi e romanzi italici.

Rimatore, inventore, disegnatore, progettista, eserciterà le proprie capacità in mille, differenti direzioni non trascurando il volo ed ottenendo tra i primi il brevetto di pilota.

Donnaiolo impenitente e scialacquatore di capitali – ricordando un suo danaroso rientro dal Brasile prima della guerra del quindici/diciotto, narrava di avere offerto da bere e ben altro per sei mesi a un numero imprecisato di amici e che quel semestre era decenni dopo ancora favoleggiato “da tutte le puttane di Roma” per l’agiatezza nella quale le aveva fatte vivere – in tarda età, privo di ogni sostentamento, si farà mantenere dai figli a Sanremo usando parte del denaro mensilmente ricevuto per omaggiare (fiori e champagne) “le femmine” che frequenterà fin oltre gli ottant’anni. Dapprima, d’impeto, dannunziano, sarà quindi fascista e seguirà Mussolini in tutto e per tutto.

Pieno di donne con le quali capitava perfino andasse a convivere fino a quando la moglie, una dolente Giorgina, scopertone il rifugio, non andava a riprenderselo, avrà figli cinque figli oltre gli illegittimi. Vagabondo, anche da anziano, veniva a Varese portando da solo una valigia del resto non molto pesante visto che sua abitudine era, dovunque arrivasse, comprare sul posto il vestiario indispensabile che, poi, ripartendo, invariabilmente eliminava.

Forte quanto un toro, compatto, mai ammalato, sopravvisse a tutto e tutti per morire della morte dei giusti, quella veloce e senza dolore, ottantasettenne, con la seconda, affranta e giovane moglie, piangente al capezzale.

È da questi due robusti, differenti (e simili?) tronchi che nascono Manlio e Anna Maria che il caso volle si incontrassero a Terracina.

Fascista e pronto a menare le mani e imbracciare le armi per la Patria (con la P maiuscola), il tenente Manlio Raffo, romano, già volontario in Grecia – fronte dal quale era tornato semi congelato – era, nei primissimi mesi di quel notevole 1942 approdato nella predetta cittadina laziale per partecipare al corso ufficiali riservato a quanti nell’esercito avevano chiesto di essere inviati in Russia per dare quello che si rivelerà un valorosissimo, ma del tutto inutile, apporto all’invasione germanica in atto.

Incredibile, per il vero, che, al fine di abituare i soldati alle rigide temperature russe che li attendevano, l’alto comando avesse pensato di spedirli appunto a Terracina, il cui clima era esattamente all’opposto. Per converso, Anna Maria – nata a Genazzano laddove la madre Giorgina con i fratelli possedeva una villa a molti piani in collina chiamata “Il Tofale” in quanto sul tufo edificata – in quella località viveva da anni avendo la genitrice, assente il marito impegnato in mare, colà in gestione un civettuolo e, per quei tempi, raro lido balneare.

Un colpo di fulmine, un amore che fa superare i terribili e subito emersi contrasti di carattere, ed ecco che, nel momento in cui il colonnello comandante chiede agli ufficiali di confermare la propria decisione o di fare un passo in avanti, Manlio, mettendo in opera il gesto, annuncia al mondo che non partirà per sposare pochi mesi dopo Anna Maria. Un atto – la sofferenza fu forte in particolare nell’istante in cui il superiore, vedendolo avanzare di quel benedetto passo, ebbe d’istinto a dirgli “Lei, tenente Raffo?”, esprimendo con tali parole tutta la propria meraviglia – deciso in piena coscienza, ma del quale, sono certo, non si darà mai pace (e, Dio non voglia, la cui responsabilità vorrà a volte attribuire ad Anna?)

Cinquant’anni e passa di litigi feroci e di rappacificazioni altrettanto violente, tre figli a distanza di anni e dopo un veloce passaggio a Napoli e un secondo brevissimo momento a Catania, l’amata Varese.

 

1946

 

L’estate a Catania, dove il consorte dirige l’ente turistico? Un caldo insopportabile. Meglio, molto meglio partire per altri lidi.

È così che mia madre Anna Maria, il sottoscritto in braccio, muove in aereo nientemeno che verso Valmorea, sperduto paesello in provincia di Como, peraltro non lontano da Varese.

Raggiunge colà i genitori e i superstiti fratelli (Giami, l’amato maggiore, con Mussolini fino all’ultimo o quasi, è scomparso in Germania e mai più tornerà). Romani, romanissimi, come diavolo i della Porta erano finiti nel comasco?

Due le ragioni: in primo luogo, nel 1943/44, l’urgenza per nonna Giorgina di seguire da vicino le vicissitudini dei figli (anche di Giovanni, preso per strada durante un rastrellamento e portato a nord, per lungo tratto non si era saputo più nulla) e in secondo luogo il fatto che suo fratello, Federico Giorgi, vivesse da tempo con la famiglia a Como, laddove teneva cattedra in un liceo.

Ecco, quindi, Anna Maria, in bicicletta e con la sorella Teresa, percorrere in lungo e in largo le strade di allora, in anni nei quali, se dio vuole, le auto sono rarissime.

Ed eccola a Varese – dove il redivivo Giovanni e Maurizio frequentano il classico – scoprire che il posto di direttore dell’ente provinciale per il turismo non è al momento ricoperto da alcuno. Bella la cittadina, assolutamente migliore ai suoi occhi il clima.

Vicini, per di più, i familiari: perché non invitare il marito Manlio a chiedere il trasferimento da Catania?

Corre l’inverno 1946/47: ha inizio la lunga avventura dei della Porta Raffo nella Città Giardino.
*Dice di sé.
Mauro della Porta Raffo. Narratore e saggista, classe 1944, svolti più o meno svogliatamente mille diversi mestieri, ha intrapreso l’attività giornalistica nel 1996 su sollecitazione di Giuliano Ferrara, che lo ha ribattezzato “il Gran Pignolo” per la sua curiosità onnivora, per la propensione alla cultura erudita e la precisione dimostrata. Per lo stile asciutto al servizio di un’informazione che di una notizia premia l’originalità e l’inedito, della Porta Raffo è collaboratore passato e presente di tutte le principali testate nazionali. 

SCARLETT JOHANSSONCredo di essere in quella fase della vita in cui si entra a proprio
agio con la propria sessualità, però non la porterei mai sullo
schermo. Non girerei mai un nudo integrale e mi imbarazza
quando le riviste si inventano i miei flirt.
(Da “Reflections-Interviste”, 2004)
COSTUME Edoardo Raspelli - Fornelli roventi

Una nuova pagina si aggiunge alla recente polemica scatenata da “Striscia la notizia” su cucina molecolare e guide gastronomiche

Edoardo Raspelli*

Per fortuna che c’è Striscia! Per fortuna che il dissacrante, sbarazzino, irriverente telegiornale creato da Antonio Ricci esiste e trasmette. Per fortuna che 6-8-10-12 milioni di italiani ogni giorno posso vedere la realtà anche attraverso gli occhi di Moreno Morello, Max Laudadio e Gimmi Ghione.

Non fanno nulla di straordinario, fanno soltanto, correttamente lucidamente intrepidamente, il mestiere dei giornalisti, cosa che sulla carta stampata è quasi finita e che ne sta decretando la crisi.

Mi riferisco al tormentone che per settimane ha invaso i teleschermi di Canale 5 in prima serata. Si è partiti con un’accusa di tipo sanitario (certi cuochi alla moda, leggi Ferran Adrià, mettono prodotti chimici nei loro piatti) per allargarsi alla critica di preparazioni gastronomiche con eccesso di fantasia.

I nostri di Striscia non sono speti: hanno fatto un po’ di confusione tra cucina destrutturata e molecolare, ma chi se ne importa: sono stati gli unici a gridare che “il re è nudo”.

Dalla cucina degli chef si è passati a prendere in esame il giornalismo gastronomico ed i suoi critici. Finalmente non sono più solo: si sono fatti nomi e cognomi di chi va in giro nei ristoranti scroccando i pranzi; di chi prova i locali (e ne scrive) dopo averli fatti aprire apposta durante il giorno di chiusura visto che si era sulla strada del ritorno dalle vacanze con la famiglia; si sono fatti capire i meccanismi pubblicitari che legano le multinazionali del bere e del mangiare alle classifiche che pongono certi cuochi ai vertici (sono gli stessi cuochi da loro pagati, e pazienza se i ristoranti di questi super chef magari sono stati chiusi per intossicazione dei loro clienti).

Il tutto, nel più colossale totale smisurato silenzio della carta stampata: perché i giornali parlassero dell’inchiesta di “Striscia la notizia” si è dovuta attendere la mia richiesta di un milione di euro ad uno chef e ristoratore bresciano che aveva detto a quasi sette milioni di italiani che avevo parlato male del suo ristorante senza esserci mai stato!
*Dice di sé.
Edoardo Raspelli. Deve al direttore responsabile de “L’attimo fuggente” la sua circonferenza ed il suo peso. Da ex cronista di nera, nell’ottobre del 1975 Cesare Lanza lo fece diventare cronista di gastronomia. Un direttore di peso ha fatto lievitare il suo dai 60 ai 123,5 chilogrammi. Ovviamente non per gola, ma per lavoro matto e disperatissimo. 

MARSHALL MCLUHANL’automobile è diventata un articolo di vestiario
senza il quale ci sentiamo nudi, incerti, incompleti.
Giancarlo Livraghi - Pensieri semplici sulla complessità

La teoria del caos in cinque disegnini, nel tentativo impertinente di semplificare la complessità

Giancarlo Livraghi*

Questo articolo continua e completa

il ragionamento sul tema della semplicità,

iniziato nel numero di maggio(1),

partendo da una nuova e diversa prospettiva.

 

 

Da trent’anni sto cercando di capire che cosa si possa imparare dalla Teoria del Caos e da tutte le analisi che ne derivano in fatto di complessità, sistemi turbolenti, eccetera. Non è facile, ma è affascinante. Perché si tratta di capire come quelle cose che chiamiamo “caos” non siano affatto caotiche, ma seguano leggi che non sempre riusciamo a definire – e come la “complessità” in realtà sia semplice, ma il nostro modo di pensare la faccia sembrare complicata.

Nel suo libro “Complexity” (1992) Mitchell Waldrop lo spiegava così: «L’orlo del caos è dove la vita ha trovato abbastanza stabilità per sostenersi e abbastanza creatività per meritare il nome di vita. L’orlo del caos è dove nuove idee e genotipi innovativi rosicchiano continuamente il bordo dello status quo; e dove anche la più radicata vecchia guardia sarà, presto o tardi, rovesciata».

L’orlo del caos è la situazione in cui stiamo vivendo. Ma in pratica che cosa vuol dire?

Un giorno, nel 1997, mi venne un’idea bizzarra. Come spiegare alcuni aspetti della complessità in modo estremamente semplice? Dopo avere scritto questo testo, l’avevo fatto leggere a varie persone che avevano approfondito seriamente il tema del caos e della complessità, chiedendo se c’erano errori o se l’eccessiva semplificazione era sciocca.

Benché un po’ imbarazzati, mi avevano detto che il ragionamento regge. “Sarà vero?” A distanza di tre anni, non ne ero del tutto sicuro.

Nel 2000 lo pubblicai in un piccolo libriccino, in poche copie, che regalai ad alcuni amici. I loro commenti mi incoraggiarono a renderlo un po’ più largamente disponibile, qualche anno dopo, come appendice a Il potere della stupidità. So che molti lettori trascurano le “appendici”, ma più che proporre questi ragionamenti “a tutti” mi interessava conoscere l’opinione dei più attenti. Di nuovo ebbi commenti favorevoli – e, con mia rinnovata sorpresa, nessuno che considerasse il ragionamento superficiale, irreale, insensato o insostenibile.

Eccomi anche qui con il tentativo impertinente di interpretare la complessità senza complicazioni (che è un altro modo di ragionare sulla semplicità, oltre a quelli che avevo proposto nel numero di maggio). Con la speranza che non sembri troppo banale – e che qualcuno lo trovi utile.

 

Se fra chi legge queste paginette ci sono persone esperte in matematica, fisica, statistica, ecologia, biologia o teoria della gestione, vorrei scusarmi con loro per la puerilità dei ragionamenti che seguono e dei “percorsi” che cerco di tracciare. Non sto tentando di proporre modelli scientificamente corretti, ma solo stimoli (anche visivi) per un ragionamento.

Non intendo entrare qui nelle analisi, profonde e impegnative, che riguardano la “teoria del caos”, i sistemi turbolenti e la complessità. C’è una vasta letteratura su questo argomento – e da molti anni è chiaro (almeno per i teorici) che il fenomeno non riguarda solo la fisica, la meteorologia o l’ingegneria, ma anche i comportamenti umani – e, di conseguenza, le organizzazioni, la società, l’economia, la politica e la cultura.

Comincio con un ragionamento che può sembrare banale. Ma spesso le cose “lapalissiane” sono i migliori punti di partenza.

Se il nostro obiettivo è andare da A a B, nella nostra mente si profila un percorso lineare:

 

 

 

Nel mondo reale, le linee rette non esistono. Fra A e B ci sono necessariamente ostacoli, interferenze, percorsi indiretti – perciò anche se l’operazione che intendiamo svolgere è estremamente semplice, come andare al bar a prendere un caffè, è probabile che il percorso assuma un aspetto come questo:

 

 

 

In un’operazione così semplice, e che dura pochi minuti, sarà difficile che nel frattempo dimentichiamo dove stavamo andando e perché. Ma il problema diventa assai diverso quando entra in gioco un’organizzazione, con percorsi enormemente più complessi, eventi imprevisti, continui cambiamenti della situazione in cui ci si muove, eccetera.

Qualsiasi gruppo di persone che fanno qualcosa insieme è, di fatto, un’organizzazione. Anche quattro o cinque persone che vanno al bar. E anche nel caso più semplice la realtà è più complessa di come è rappresentata in questi schemini5.

Diventa così possibile (anzi accade molto spesso) che alcune parti dell’organizzazione dimentichino la direzione originaria…

 

 

 

… e anche che l’intero sistema perda di vista l’obiettivo – con la complicazione aggiunta che diverse parti dell’organizzazione credano di essere dirette verso CDE o F e quindi lavorino in disarmonia fra loro.

Questo è comunque un problema – ma è da notare che se chi si dirige verso C o F si sta spostando, sia pure con un percorso laterale, in modo da avvicinarsi a B, chi si dirige verso D o E sta andando nella direzione contraria e per tornare sulla strada che porta a B dovrebbe fare una complessa, faticosa (e spesso costosa) inversione di marcia.

Non è difficile, osservando il comportamento delle organizzazioni, constatare fenomeni di questo genere.

In un ambiente stabile, o in fasi di evoluzione prevedibili e controllabili, la soluzione (almeno in teoria) è semplice.

Basta che le componenti del sistema abbiano una bussola. Cioè che non ci sia troppa “parcellizzazione” del lavoro e delle responsabilità, che ci sia una conoscenza condivisa del fatto che la rotta è verso B – e il processo sia governato da una sistematica verifica dei percorsi così che le (inevitabili) deviazioni riconvergano nella direzione giusta.

Di conseguenza il sistema dovrebbe comportarsi così:

 

 

Ma in un ambiente complesso e turbolento (come è quasi sempre la realtà) il processo si può evolvere in tutt’altro modo. La situazione è mutevole e imprevedibile.

Proseguire ostinatamente solo verso l’obiettivo B può rivelarsi un errore.

Se osserviamo lo schema della dispersione in direzioni diverse vediamo che (per esempio) due deviazioni “casuali e spontanee” (C e D) convergono verso una direzione imprevista.

Ci conviene essere curiosi – e cercare di capire perché. Potremmo scoprire una situazione come quella che vediamo nel prossimo (e ultimo) “impertinente e approssimato disegnino”.

 

 

Cioè l’evoluzione “turbolenta” del sistema potrebbe farci scoprire un nuovo obiettivo N, sul quale dovremmo far convergere le nostre energie – ma senza tagliare i rami che vanno esplorando altre, e impreviste, possibilità.

Notiamo che alcuni di questi “rami esplorativi” hanno direzioni simili al “vecchio” obiettivo B, altri non divergono molto dal “nuovo” obiettivo N, altri ancora si dirigono in territori meno conosciuti – e che l’intero sistema ha una struttura forse poco “logica”, ma più semplice delle situazioni in cui ci si invischia se si tenta di seguire un modello “lineare”.

Infatti la cosiddetta “complessità” non è intrinsecamente più complessa dei sistemi apparentemente “ordinati” – e tende a sintesi sostanzialmente più semplici. La difficoltà sta nel fatto che non siamo preparati a capirla.

Tutto questo somiglia molto più alla crescita di una pianta che al funzionamento di una macchina o alla fabbricazione di un oggetto. Infatti, sembra quasi inevitabile che le analisi dei sistemi complessi portino ad analogie biologiche.

Sarebbe complicato approfondire le considerazioni, più o meno elaborate, che per molti percorsi diversi convergono su questa (abbastanza ovvia) conclusione.

Ma credo che la semplice comprensione intuitiva di questo fatto possa aiutarci a capire come muoverci in un mondo dominato dalla turbolenza e dalla complessità, in cui è spesso vincente il pensiero “non lineare”.

 

 

(1) Vedi “Lev Tolstoj: “Non c’è grandezza dove non c’è semplicità”, in “L’attimo fuggente”, n. 11, maggio 2009
*Dice di sé.
Giancarlo Livraghi. Se avesse mille vite, farebbe mille mestieri. È curioso di tutto, ma al centro della sua attenzione ci sono sempre la comunicazione e la cultura umana. Afflitto da inguaribile e impenitente bibliofilia, ha anche scritto alcuni libri (il suo preferito è “Il potere della stupidità”). Il suo sito online è
http://gandalf.it

HUGH JACKMANUna notte mi sono svegliato di soprassalto: mia figlia piangeva a
dirotto. Mi sono precipitato in camera sua, l’ho presa in braccio.
C’era la tata. Le ho chiesto: “È molto che piange?”.
E le ho fatto il terzo grado. Sono andato avanti un pezzo.
Poi mi sono accorto che mi guardava sconcertata dalla vita in
giù. Ho abbassato gli occhi: ero completamente nudo.

 

ALFRED NOBELLa speranza è quel velo della natura che nasconde
le nudità della verità
CINEMA Enrica Coscia Cavagna - I molteplici colori de La perfezionista

Il rosso dell’amore, l’azzurro della gioia, il bianco della purezza, diventano un arcobaleno di istanti ritrovati nello scrigno della memoria, in una delicata analisi dell’opera prima di Cesare Lanza

Enrica Coscia Cavagna*

E’ un film di cuore, questo di Cesare Lanza. Uno di quei film che, mentre li guardi, sei rapito dalle immagini, che scorrono sullo schermo e ti trovi a parlare con i personaggi, perché ad un tratto essi sono “uno, nessuno o centomila” di pirandelliana memoria e tu diventi appunto, uno di loro, perso a cercare risposte alle grandi verità della vita, frammentato e diviso tra mille decisioni da prendere ogni giorno, le piccole più difficili delle grandi, senza riuscire a scegliere l’unica, che corrisponde alla tua più profonda coscienza.

Tutti eroi del quotidiano siamo noi esseri mortali, tutti a combattere la paura della banalità di un vivere annoiato ed annoiante, che intorpidisce le membra e rattrappisce il cuore in atti ripetuti all’infinito, solo uno sprazzo di luce ogni tanto, ma abbiamo timore soprattutto della felicità e confondiamo un’opaca monotonia, con la pace del cuore.

Così è Giselda, la protagonista, giovane donna dal fascino sensuale e dalla raffinata intelligenza, tutta protesa a ritrovare nel proprio suo “tempo perduto” un’eco di emozione, abbastanza forte da potersi ricordare.

Protegge se stessa dalla vita “perfezionando” ogni gesto del lento susseguirsi delle sue giornate in un ossessivo quanto innocente rito magico, spezzettato in frammenti d’abitudini, che proteggono il suo cuore come una grande quercia, sotto la pioggia.

Ogni giorno, ad un’ora precisa, mentre è al lavoro mangia una mela verde, dopo averne acquistate tre – simbolo di perfezione e purificazione – tagliata in spicchi e se ne ciba non ghiotta o avida, bensì malinconicamente appagata dal ritornare di quel gesto.

Ogni giorno ancora ed ancora, si siede ad un tavolino del bar vicino a casa, sempre il medesimo e con gesti misurati porta una tazza alle labbra, inconsapevole della drammatica sensualità del suo atto. Lei stessa dirà al suo amato: “io non ho mai scelto nella mia vita, io ho solo abitudini nella mia vita….”.

Una breccia, tuttavia, nel suo animo, che non conosce primavere, si fa strada: la nostra Giselda ama riamata di un amore leggero un giovane pianista, dall’anima gitana, che la ricambia di un sentimento fatto di fuoco e stelle, sorrisi alla luna e luce di candele, petali di fiori vibranti al tramonto di una sera d’estate.

Mirabile la scena dei baci appassionati in un giardino, avvolto nel profumo di una notte silenziosa e complice, in cui un capo di lingerie se ne vola sul ramo più alto, quasi al cielo, testimone di un’estasi d’amore appena sussurrata e poi gridata al vento, in una gioia fatta di blu.

Gli dei, lo sappiamo, non amano vedere gli esseri umani più felici di loro e così, inesorabilmente, il bel concertista si ammala di un male fatale ed è un addio percepito ancor prima della diagnosi, che si protrae come un canto di sirena, sino all’ultimo istante.

Ed è a questo punto della narrazione che il ritmo del film si fa da fluido ad energico, da carezza a pugno, che non fa male però ti fa solo pensare. Il compagno chiede a Giselda il sacrificio più grande e lo fa con poche parole, perché le parole spesso non dialogano con l’anima, lo fa con lo sguardo simile a lago alpino: “dato che tu m’ami, aiutami ad andare….”.

Il tema dell’eutanasia è trattato con forza delicata e si lega a quello dell’amore e a quello del dolore provocato da un distacco lacerante nel rispetto della dignità e della libertà morale di colui il quale si vede condannato a trascinare la propria vita in giorni inerti, gusci vuoti di un’esistenza fatta solo di rimpianti.

E lei, riportata alla vita vera da una disperazione accecante, in un misericordioso atto d’amore, per la prima volta “sceglie” non se stessa, ma il volere del suo amore e si condanna, proprio ora che non ha più paura di vivere, a morire a sua volta.

Ho vivida nella memoria l’immagine delle lacrime di doloroso stupore di Giselda, mentre con un’ultima carezza regala a lui la tenerezza prima del grande viaggio poi lo stringe al collo solo un poco… ecco il rantolo di lui, simile al lamento di un usignolo in gabbia.

Ricordo lo sguardo della nostra. Dopo: non più un singhiozzo, il destino è compiuto, solo un’attenzione lucida alla gardenia nel vaso, che proprio non vuole sfiorire, metafora di un sentimento, che neppure la morte può toccare con le sue livide dita.

Giselda è stata riportata alla vita dalla morte e resa umana dal dolore, non riesce più a perfezionare il suo tempo: la vediamo a tratti sbadata, persino disordinata, il suo incedere non è più d’antica vestale, ora è sbarazzino e quasi allegro, mentre osserva il mondo intorno a sé: un riverbero del sole sui tetti, il bagliore di un vetro colpito dalla luce, la brezza che sfiora due innamorati ai giardini e una bella signora che a volte le ammicca, ma poi scompare in un luogo dove non vive la ragione. Adesso lei può leggere nelle cose e può ricordare, nella nuova dimensione del suo “tempo ritrovato”.

Una parola sugli attori, protagonisti e non: sono mani e volti e sguardi, che hanno saputo divenire altre mani, altri volti ed altri sguardi oltrepassando la loro storia personale. Essi non recitavano, dato che essi erano.

La storia di Giselda e del suo compagno, si snoda inoltre attraverso simboli volutamente ripetuti, che scandiscono i contenuti e calmano l’anima, dopo le scene più crude, togliendo ad esse ogni sorta di violenza o saturazione visiva.

Vorrei porre l’accento sull’allegoria, che avvolge tutto il film come un velo, e riguarda i fiori.

Essi sono presenti lungo tutta la storia con immagini poetiche e si inframmezzano qua e là, trasfigurando la realtà col rosso colore dell’amore, con l’azzurro colore della gioia, con il bianco colore della purezza, in un arcobaleno di istanti ritrovati nello scrigno della memoria, poiché tutti siamo ciò che ricordiamo di essere stati.

Giselda si innamora del bel pianista, proprio perché egli la paragona al fiore più bello…

Ed è nella caduca bellezza dei fiori che Lanza ci svela il suo sentire: la vita è bella come un bocciolo e come esso al suo fiorire eccolo svanire al di fuori degli orizzonti terreni, dove non esiste il tempo.

La protagonista ha trasceso la mera dimensione dell’ego, ha sfidato le squallide convinzioni sociali e l’ambigua morale comune, per udire ciò che le andava narrando il suo cuore e, paradossalmente, uccidendo il suo amore gli ha dato la vita.

Il tempo da ritrovare è il tempo del perdono ed è anche il tempo del suo commiato, dolce ragazza che si consegnerà all’immortalità.

Infine Giselda, sciolta dalle catene di una vita immobile ed indifferente, trasfigurata da un amore grande quanto l’atto estremo da lei compiuto, sale le scale che conducono a quell’appartamento icona del suo sacrificio – solo uno sguardo di piuma alla gentile oscura signora che l’osserva salire per l’ultima volta – esce sul terrazzo profumato di colori, guarda il cielo di un celeste accecante – solo qualche leggera nuvola, che non turba il suo cuore – sorride finalmente felice e con dolcezza garbata si lascia cadere non nel vuoto, bensì nel grembo del suo amore, che l’attende per condurla nel luogo dell’altrove dove vivere insieme per sempre.

In un finale ad un tempo forte e struggente, ecco apparire una fanciulla bella d’una bellezza arcana, ignara dell’accaduto, che innocentemente domanda: “cosa è successo qui?”. Eh si, perché la vita torna, torna sempre a cantare la sua canzone.

Che dire di Cesare Lanza, questo poeta, che si cela, dietro la macchina da presa?

Grazie Cesare e lo dico in sordina, perché so che ami le parole appena sussurrate e quelle gridate ti intimidiscono, grazie perché il tuo film è un balsamo per i nostri cuori, smarriti lungo sentieri che non portano all’essere, ma solo all’apparire e Dio sa quanto abbiamo tutti bisogno di custodire nel cuore un nocciolo di preziosa eternità. Ricorderemo Giselda e ancor di più ricorderemo te, moderno cantore dell’amore vero e della suprema libertà.
*Dice di sé.
Enrica Coscia Cavagna. Ama la letteratura il cinema ed il teatro come libere espressioni del pensiero in volo. Scrive poesie, in modo testardo e lieve, da quando è bambina e reputa la parola il suo mezzo per condividere emozioni. Collabora con le edizioni Bacherontius di Marco Delpino. 

Roberta Bottino - Il mercato della settima arte tra botteghino e nicchia

Un viaggio nella distribuzione cinematografica italiana in compagnia di Giampaolo Letta della Medusa film e Stefano Ricci della Minerva international

Roberta Bottino*

Le luci si spengono. Silenzio. Le prime immagini che compaiono sullo schermo catalizzano l’attenzione degli spettatori. Dalla sala, che fino a quel momento sonnecchiava in una penombra carica d’attesa, salgono le note della colonna sonora. I titoli di testa iniziano a scorrere, ed è in questo preciso momento che scatta la magia del cinema. Un universo di immagini, parole e suoni s’impone allo spettatore con tutta la sua forza comunicativa.

“L’arte è una bugia che insegna a vedere la verità” sostenne Pablo Picasso. La meraviglia del cinema risiede proprio in questo confine confuso e ambivalente, sospeso tra la realtà e la finzione. Ma se da un lato il grande schermo è fonte di emozioni, dall’altro nasconde in sé un mondo complesso e non propriamente poetico, popolato dal denaro, tra interessi e regole di mercato che rischiano di penalizzare la qualità del prodotto cinematografico. La settima arte diventa così un mero strumento per far soldi, o meglio cassa, al botteghino.

“Le sale italiane sono gestite dalla distribuzione delle multinazionali – sostiene Natale Antonio Rossi, presidente dell’Unsa, Unione nazionale scrittori e artisti della Uil – Se si vanno a controllare le statistiche alla fine dell’anno, vediamo che solamente il dieci per cento dei proventi arriva dal cinema italiano, mentre tutto il resto è straniero, in gran parte statunitense”. L’equazione a questo punto è presto fatta: pochi finanziamenti uguale poca visibilità.

Le grandi case di distribuzione hanno acquisito nel corso del tempo un potere decisivo anche sulla produzione, diventando quasi sempre coproduttori dei progetti su cui intervengono. Il cinema è sostanzialmente una caleidoscopica macchina che racchiude in sé arte e industria. Oltre ai produttori, al regista, agli autori, al cast, ai tecnici, il successo di un film dipende anche e soprattutto dalla sua commercializzazione.

La conoscenza del mercato, delle sue spesso incomprensibili dinamiche, l’attenzione allo scenario competitivo, la capacità di cogliere le mode e la sensibilità del pubblico diventano elementi cruciali per l’affermazione commerciale; ancor di più se di tratta di vendere film europei all’estero, in un contesto altamente competitivo, in cui le produzioni provenienti dai paesi europei assumono, il più delle volte, il carattere di prodotto di nicchia.

Osservando i dati forniti da Anica, l’associazione nazionale delle industrie cinematografiche audiovisive e multimediali, si scopre che il cinema italiano in realtà gode di buona salute. Nel 2008 è aumentato in modo rilevante il numero dei film prodotti: 154 titoli (comprese le coproduzioni), rispetto ai 121 del 2007 e ai 116 del 2006. Nel dato totale è compreso un numero di film low budget, cioè con un costo industriale inferiore a 200mila euro, nettamente superiore all’anno precedente (29 film contro 5), ma aumentano anche quelli di fascia intermedia (44 rispetto ai 40) e superiore a 1,5 milioni di costo industriale (50 contro 25).

“Con l’avvio degli incentivi fiscali – precisa Riccardo Tozzi, presidente dei produttori di Cattleya, film and tv production – contiamo nell’ultimo anno su almeno 100/150 milioni di euro di maggiori investimenti da parte dei privati”. Rispetto al resto d’Europa, in Italia esiste il più alto numero di esordienti alla regia, con l’età media più alta, attorno ai trentotto anni. Sarà anche per questo motivo che i nuovi film usciti nel 2008 sono stati in totale 376 sugli 845 titoli complessivamente in programmazione nelle sale, 130 dei quali di nazionalità italiana. Venti titoli in più rispetto al 2007. Un risultato positivo, che attestandosi complessivamente al 29 per cento, conferma il trend positivo degli ultimi anni.

Purtroppo però, quando si parla di cinema, non sempre la “favola tra realtà e finzione” si conclude con un lieto fine. Gli incassi in sala infatti sono scesi dai 617 milioni del 2007 ai 593 milioni del 2008 e i biglietti sono finiti sotto la quota dei 100 milioni, anche se, nel complesso, i film natalizi hanno avuto il consueto successo di pubblico. Basti pensare che “Natale a Rio” di Neri Parenti si è aggiudicato la medaglia d’oro degli incassi con la bellezza di 17,6 milioni, seguito da “Grande, grosso e…Verdone” e “Scusa ma ti chiamo amore” di Federico Moccia con quasi 13 milioni, e “Gomorra” di Matteo Garrone sui 10 milioni. Questi dati però riportano alla luce un annoso problema: conviene produrre e distribuire film da botteghino o di nicchia?

La top 20 delle società di distribuzione del 2008 vede la “Universal” al primo posto con 49 film e 117 milioni d’incasso Cinetel, pari a circa il 20 per cento del totale annuo. “Medusa film” conquista il secondo posto (17%), seguita da “01 Distribution” (11%), “Warner Bros” (10%) e “FilmMauro” (8%).

“La rete di distribuzione italiana – sottolinea Rossi dell’Unsa – è internazionale ed è afferente alle multinazionali del cinema. Tant’è vero che un regista famoso come Gabriele Muccino, sostenuto dalla “Miramax”, in occasione del suo penultimo film, ha avuto un incredibile successo perché la sua casa di distribuzione ha pianificato l’uscita nelle sale, oltre 600, durante un fine settima di febbraio, dopo aver consultato le previsioni meteorologiche. Non sto scherzando, sembra assurdo, ma è accaduto davvero. La gente in quel week end è andata al cinema perché pioveva e cosa si è trovata sugli schermi? La prima visione del nuovo film di Muccino.

È ovvio che in questo modo sono stati penalizzati tutti gli altri film in programmazione. Questo è il vero problema. In Italia purtroppo, le sale cinematografiche rimangono gestite dalle multinazionali e se una di esse inserisce nel cartellone delle proiezioni un suo film, cancella automaticamente da oltre seicento sale gli altri, imponendo il proprio”.

Si apre un bivio, l’aut-aut che impone ai registi e ai produttori una scelta precisa: cinema commerciale o cinema indipendente? “Per determinati film non propriamente da botteghino – aggiunge Rossi – esistono circuiti particolari di distribuzione come il cinema d’essai o le sale parrocchiali”.

Per quale motivo in Italia un certo tipo di prodotto cinematografico non riesce a trovare uno spazio di visibilità? Negli ultimi tempi ci hanno provato in molti a scardinare il sistema. È il caso de “Il vento fa il suo giro” di Giorgio Donetti, film vincitore di molti premi in tutto il mondo, ma incomprensibilmente ignorato dagli operatori della distribuzione.

La crisi si sente e si vede: i piccoli cinema di quartiere chiudono i battenti strozzati dalla forza delle multisale e dalla piaga della pirateria. I risultati d’incasso nel 2008 si diversificano in base alle strutture: negativi per le monosale, le piccole e medie multisale, e leggermente positivi per le sole strutture multiplex che continuano a sostenere il mercato. Sul totale dei film si va dal -18 per cento di presenze nelle monosale al +1,3 per cento di presenze nei multiplex. Il mercato conferma però il rallentamento generale dello sviluppo di nuove strutture e una sempre più marcata difficoltà per quelle con un minor numero di schermi.

Un film esce nelle sale per poi passare alla vendita, al noleggio e alla programmazione televisiva. Le reti generaliste italiane nel 2008 hanno programmato 3.995 film, il 35 per cento dei quali italiani, l’8 per cento europei. Rispetto agli anni precedenti si è registrata una lieve flessione nel numero di titoli trasmessi e un calo nello share medio (9,6 per cento contro il 10,25 del 2007). Rete 4 e Rai2, passate al digitale terrestre, sono in assoluto le reti che programmano più cinema italiano nell’intera giornata, seguite da La7 e Italia 1. I canali satellitari invece hanno trasmesso lo scorso anno 34.386 film che corrispondono a solo 3.853 titoli diversi, confermando la media dell’anno precedente di circa 9 passaggi per ogni titolo. Ben il 24 per cento della programmazione di film, però, pari a 8.226 unità, ha riguardato il cinema italiano, con un numero di passaggi molto superiore a quello del 2007, (era il 18 per cento), e circa il doppio del cinema europeo. Il film di casa nostra è rappresentato in proporzione di più su canali come RaiSat che su Sky Cinema.

A fronte di questi dati quindi, che futuro si prospetta per il cinema? “L’introduzione del tax credit (un sistema di credito d’imposta) – spiega Tozzi –, favorirà sempre di più l’apporto del capitale privato, con incrementi stimabili intorno al 15 per cento, ma il problema rimane quello dei tagli al Fondo unico per lo spettacolo, che non garantiscono più al cinema il 25 per cento dei finanziamenti pubblici”. Adesso però è giunto il momento di abbandonare i numeri e di tornare alla magia del film. Passano i titoli di coda. Le luci nella sala si accendono. Gli spettatori si alzano dalle poltrone. The end.

 

 

Medusa Film

Giampaolo Letta, amministratore delegato

 

Il cinema non sia più artigianato di lusso

 

Medusa film, nata nel 1995, è una tra le case di distribuzione italiane ai vertici del panorama cinematografico. Grazie ad una linea editoriale che si focalizza sul made in Italy, riesce ad ottenere ogni anno ottimi risultati di mercato.

Ha più volte dichiarato che il cinema italiano assomiglia sempre di più ad un comparto industriale. Cosa intende dire?

 

“A livello organizzativo e produttivo le società si sono lentamente e col tempo trasformate, e da piccole organizzazioni famigliari sono diventate più grandi, sempre più simili a vere e proprie industrie”.

 

Quanto investe Medusa nel cinema italiano?

 

“Ogni anno circa 60 milioni di euro. Seguiamo una linea editoriale che vuole spaziare dai blockbuster americani ai film d’autore o di nicchia. Produciamo così i campioni d’incasso natalizi come Aldo, Giovanni e Giacomo, ma non chiudiamo le porte alla voglia di sperimentare anche nuovi generi. Amiamo gli autori di qualità come Ozpetek , Muccino, Pupi Avati.

Si è ritrovato un clima di fiducia reciproca tra il mondo autorale e produttivo da un lato e il pubblico dall’altro. Non mi sorprendono quindi gli ottimi risultati ottenuti a Cannes da film come “Gomorra” e “Il divo”. D’altronde, che il cinema italiano sia vitale lo dimostrano i numeri”.

 

Medusa può vantarsi di un vero e proprio primato nella distribuzione, ma non pensa che le grandi case come la vostra soffochino le piccole realtà?

 

“Il metro e la proporzione la offre sempre il mercato. Bisogna fare una distinzione tra chi produce e chi distribuisce. Le grandi case spesso lavorano con una pluralità di produttori più o meno piccoli. L’aspetto industriale è importante per noi, alla fine ciò che comanda è il prodotto”.

 

I festival del cinema sono la prova del nove per i film e per le case di distribuzione. Bilanci e previsioni?

 

“Il bilancio è positivo, a parte l’ultimo festival di Cannes. A Venezia con il film di Pupi Avati e la Coppa Volpi a Silvio Orlando, abbiamo ottenuto grandi soddisfazioni. Siamo fiduciosi e ci aspettiamo grandi cose con “Baaria – la porta del vento” di Giuseppe Tornatore, un kolossal che aprirà il prossimo festival di Venezia”.

Purtroppo la pirateria è diventata una piaga per tutta l’industria cinematografica.

 

“È un danno per ogni comparto del cinema e non solo per chi produce i film e li distribuisce, ma anche per tutti coloro che ci lavorano. È un danno stimato tra i 500 e i 600 milioni di euro tra video e sale; più di un terzo del fatturato viene letteralmente mangiato dalla pirateria. È un problema che deve essere affrontato al più presto, con forza e vigore perché rischia di mettere a repentaglio l’industria dell’audiovisivo”.

 

I film di Natale, quelli cioè da botteghino, fanno grandi incassi a discapito della qualità?

 

“Non bisogna essere netti quando si parla d’incassi e qualità. Si possono fare bei film che fanno anche botteghino come possono esistere quelli d’autore di pessima qualità. Ogni progetto ha una storia a sé. A me piacciono sia i lungometraggi di Aldo, Giovanni e Giacomo sia “La ragazza del lago” di Andrea Molaioli”.

 

Cosa consiglierebbe ad un regista di film non propriamente da botteghino. Quali strade dovrebbe intraprendere per avere visibilità?

 

“Non deve sicuramente lasciar perdere. Noi rivolgiamo la nostra attenzione a tutti, è però naturale che la qualità paghi sempre”.

 

 

Minerva International

Stefano Ricci, responsabile marketing

 

L’ultimo anello della catena: l’entertainment e l’audiovisivo

 

La Minerva si è affermata nel settore dell’entertainment e dell’audiovisivo a livello nazionale ed internazionale distribuendo e commercializzando diritti filmistici; nell’ultimo anno avete registrato dati positivi?

 

“Siamo contenti dei risultati del primo semestre 2009. Calcolando una flessione congiunturale generale, il nostro fatturato di quest’area ha tenuto bene: sia il catalogo, sia le ultime acquisizioni. Ci aspettiamo una crescita nel secondo semestre, vista anche l’affermazione del digitale terrestre in Italia che moltiplicherà i canali televisivi e quindi l’offerta.

 

Film da botteghino o di nicchia; un’eterna diatriba. Quali film distribuite più facilmente?

 

“Sicuramente i film d’autore sono l’asset principale del nostro catalogo e il cuore del nostro business. La “Minerva pictures” tuttavia è attenta anche alle produzioni più strettamente commerciali sia italiane sia straniere: le acquisizioni di “Meet Bill” con Aaron Eckhart, “Personal effects” con Michelle Pfeiffer e Aston Kutcher e “While she was out” con Kim Basinger, solo per citarne alcuni, testimoniano che il nostro interesse è rivolto ai film di qualità anche con un cast da blockbuster.

Riguardo ai film italiani crediamo nelle potenzialità del nostro cinema, dopo aver lanciato un regista promettente come Gabriele Albanesi, considerato l’erede di Dario Argento, producendo il film “Il bosco fuori”, abbiamo coprodotto con Bibi film e Rai cinema “Fortapàsc” di Marco Risi, che ha avuto un buon successo al botteghino. Ci piace inoltre segnalare che è in postproduzione “Napoli Napoli Napoli”, ultimo lungometraggio di Abel Ferrara, una produzione italiana girata interamente in Italia che crediamo sarà la sorpresa dei prossimi mesi”.

 

Cosa pensa del problema legato alla pirateria?

 

“La pirateria per chi fa della proprietà intellettuale il proprio business è il nemico da combattere. Non solo inasprendo le pene previste da una legislazione a oggi troppo permissiva, ma anche moltiplicando l’offerta per intercettare quel pubblico che fa del digitale, attraverso internet, la forma principale di fruizione del mercato cinematografico. Bisogna dare loro un’offerta legale a un prezzo contenuto. È su questi due fronti che si deve vincere la lotta alla pirateria”.

 

Il cinema che momento sta attraversando, e quale sarà il suo futuro?

 

“Siamo sicuramente prossimi a una svolta epocale. Le tecnologie cambiano rapidamente e influenzano altrettanto rapidamente le abitudini dei consumatori: sala, home video, internet sono tre attori che reciteranno una parte importante nei prossimi anni nel panorama cinematografico mondiale. Seguiamo le evoluzioni del mercato per cogliere i segnali degli scenari del futuro, consapevoli che chi come noi è un fornitore di contenuti, deve soprattutto pensare a fornire film di qualità”.
*Dice di sé.
Roberta Bottino. Giornalista, musicista e scrittrice genovese, diplomata in pianoforte, laureata… ma quanto è imbarazzante parlare di sé, soprattutto se si è vivi e vegeti e si hanno ancora tanti sogni nel cassetto da realizzare. Preferisco lasciarvi un pizzico di curiosità e di mistero, almeno fino al prossimo numero. Ai posteri l’ardua sentenza. 

CARLO DOSSIIl pudore inventò il vestito per maggiormente godere la nudità.
(Da “Note azzurre”, 1912)
Gianluca Ferrara - Cinema, tv, spettacolo, internet: un campo giochi infinito

Lo scrittore e sceneggiatore Italo Moscati rende omaggio al grande regista Sergio Leone

Gianluca Ferrara*

Apprezzabile tributo quello dedicato dalla Casa del cinema di villa Borghese, a Roma, al regista Sergio Leone, in occasione del ventennale della sua morte. Il meeting che ha visto la partecipazione, tra gli altri, di personaggi quali Ennio Morricone e Gianni Minà, è stato condotto da Italo Moscati, autore del libro: “Sergio Leone – Quando il cinema era grande”, in cui vengono ripercorsi gli scenari personali, familiari e professionali del regista irpino. Un’occasione di confronto e dibattito che mi ha permesso di approfondire con lo scrittore milanese alcuni argomenti legati sia al grande che al piccolo schermo.

L’omaggio a Leone è poi proseguito nelle giornate successive, con la proiezione di una serie di contributi audiovisivi e la presentazione della rassegna completa dei sette film del regista.

 

Perché un libro su Sergio Leone?

 

“Ho deciso di scrivere il libro con l’intenzione di progredire con la mia (implicita) storia del cinema, per il momento italiano, cominciata con le storie di Clara Calamai, Anna Magnani, Vittorio De Sica, Eduardo De Filippo, Sophia Loren, Pier Paolo Pasolini e, infine, per adesso, Sergio Leone. Con gli altri personaggi-attori, scrittori, registi, ho cercato di ricostruire tanti percorsi, come se fossero strade o affluenti, per sfociare in una autostrada o in un fiume: il cinema italiano. Lo sto facendo perché, senza impancarmi rispetto ad altri prestigiosi studiosi, penso che le vicende del nostro cinema stiano sfuggendo a molti  e che su molti registi, per restare a Leone, ci siano pesanti equivoci. Leone ha dovuto fare grande fatica per vedere riconosciuti il suo valore, i suoi meriti.

I suoi film – pochi – sono non dico gli unici lavori italiani, ma quasi, che sono apprezzati in tutto il mondo in modo crescente. Oggi gli si dedicano retrospettive, documenti filmati, recuperi di scritti e di testimonianze. Che cosa vuol dire? Un fatto prima di tanti altri.

Il cinema vero, quello capace di proporre idee e di farne spettacolo inteso come valore estetico, non è sempre stato quello cosiddetto “d’autore” ma è, Leone lo dimostra, quello che conquista stima e consensi perché i suoi western, che sono western fino ad un certo punto considerato il loro respiro, e l’ultimo “C’era una volta in America” sono opere capaci di sprigionare una forza complessiva che non finisce di stupire e far riflettere, opere nemiche di ogni forma di provinmo in celluloide e nei progetti produttivi”.

 

Come descriverebbe Sergio Leone dal punto di vista personale e professionale?

 

“Leone è stato un artigiano cresciuto in una famiglia e in un ambito artistico del cinema muto (il padre regista, la madre attrice) ed è diventato, a poco a poco, un grande artista, forse scoprendo egli stesso il talento.

E ciò dopo aver fatto il garzone sul set, la comparsa, l’aiuto regista, lo sceneggiatore avventizio. Non ha preso corse velleitarie, ha imparato, anzi ha affinato le sue qualità. Davvero un’avventura abbastanza unica nel nostro Paese, dove da qualche tempo il mestiere del cinema e in particolare quello del regista corrisponde più alla logica dello status-symbol sociale che ad una ricerca paziente (o veloce non importa, ma senza salti) come del resto è avvenuto per un’attrice come la Magnani o per un regista-attore come De Sica”.

 

Qual è il destino del cinema in Italia?

 

“Quello di continuare sulla strada su cui si è incamminato, anche per ragioni di sostanza. Il mercato dei film non esiste più. Un tempo (fino agli anni Settanta inoltrati) i grandi registi-autori si mescolavano ai grandi registi, ad esempio, della “commedia all’italiana” (in realtà il racconto in anticipo delle caste e delle varie derive italiane). C’era il pubblico. Poi la televisione ha ridotto il mercato delle sale e i produttori hanno preferito farsi finanziare dalle televisioni, e dal ministero, piuttosto che investire.

Nessuno, o pochissimi, vogliono rischiare. Nessuno ha una strategia produttiva a lunga prospettiva. I giovani debuttano (un numero altissimo e senza risultati), ma non riescono a fare il secondo o il terzo film.

Sono spremuti e abbandonati. Gli stessi giovani non sempre hanno le idee chiare su cosa e come fare proprio nell’individuare storie capaci di interessare e finiscono spesso per precipitare nella banalità o nell’autoreferenzialità autoriale”.

 

Cosa pensa della fiction italiana?

 

“Ha modelli antichi (i fotoromanzi, gli sceneggiati, i film di Matarazzo) e tende a ripetersi, togliendo possibilità ad illuminati dirigenti tv, ai produttori e agli sceneggiatori o registi meno conformisti, di migliorare scelte e qualità.

La fiction ha una storia abbastanza breve, circa quindici anni, da quando Rai e poi Mediaset hanno deciso di investire molti capitali nel genere, finalizzando un pubblico, avendo anche alti indici di ascolto. Ma bisogna andare avanti, rompere paure (nei contenuti), convenzioni (i linguaggi sono troppo omogenei e asfittici), incrostazioni e abitudini parassitarie nelle proposte (santi, mafia, buoni sentimenti, lacrime, toni e temi da soap opera). Lo devono fare coloro che lavorano nelle tv e gli autori più bravi e più coraggiosi”.

 

Lei si occupa, tra le altre cose, anche di tv. Quali sono i programmi che preferisce e quali, invece, quelli che detesta?

 

“Vedo un po’ tutto in tv, con moderazione. Cerco di spiare anche dentro i reality (che mi piacciono poco) o dentro le fiction (talune sono riuscite) o dentro i talk show, i documentari. Il risultato di questa attenzione sono i tre cicli di “Viziati” (a giugno andrà in onda il terzo ciclo): uno spettacolo, un’inchiesta, una guida nella tv trash, il trash comehumus che possiede spunti e soluzioni valide, e invece come speculazione tremendamente dilettante e inqualificabile.

I tre cicli di “Viziati” (complessivamente 30 puntate di 50’) sono il mio tentativo di azionare una sorta di termovalorizzatore, salvando ciò che merita di essere salvato. Non dimentico che il grande varietà teatrale e musicale ha fatto per decenni da humus al cinema e alla tv: da Totò agli spettacoli tv, molti hanno trovato in un trash spontaneo, intelligente (inteso come campionario di futilità divertenti e demenziali) gli ingredienti e le risorse per colloquiare con il pubblico, intrattenerlo e persino stimolarlo. Si veda il prossimo “Viziati 3”.

 

Chiambretti va su Italia 1, Fiorello, Cuccarini e Panariello su Sky. Come giudica questi cambiamenti nel panorama televisivo ita­liano?

 

“Oggi le tv, comprese quelle satellitari, non stanno mai ferme. Non possono. La pubblicità che finanzia tutti o completa i finanziamenti (canoni di abbonamenti, pay tv) pretende una mobilità continua e intensa. Si ha molta fretta nelle tv.

Non c’è tempo di preparare nessuno. Serve “carne da cannone”, come si dice in guerra, da buttare sul video: le veline sono appunto questo.

E poi i pochi nomi che fanno ascolti vengono disputati dalle tv. Ma non è una soluzione. Sono maggiori le delusioni. Le campagne acquisti significano spesso poco o nulla.

 

Mi cita i nomi di qualche autore (per la tv) e regista (per il cinema) che apprezza particolarmente?

 

“Senza tornare troppo indietro, faccio alcuni nomi, lasciando stare i personaggi che lavorano poco e sono ormai da anni in pensione: Gregoretti (vecchia guardia di cui bisogna ricordare lo spirito ironico), Piero Angela (vecchia guardia che continua a fare programmi con pulizia e chiarezza), Minoli (in attività da anni e coerente nei suoi racconti e documentari); e, fra i più giovani, Floris, Santoro (quando non si autocita, ossia si lascia tradire dai suoi schemi), la Gabanelli, Antonio Ricci, la Littizetto. Nel cinema, oggi, scelgo Sorrentino, Garrone, Virzì”.

 

Quali consigli si sente di dare ai giovani che vogliono lavorare nel cinema e nella tv?

 

“Non pensare, come va di moda, che le raccomandazioni servono sempre e comunque. È vero, il sistema è negativo e non premia i meriti, ma basarsi sulla speranza delle raccomandazioni può essere tossico. Laurearsi non basta. Non bastano i corsi qua o là per la regia, sceneggiature o altro. Bisogna sapere, ma bisogna attrezzarsi, avere pazienza, cercare le occasioni (senza arrendersi subito). Bisogna insistere, insistere, insistere. Con se stessi, guai a staccare; e con gli altri (committenti). Da una cosa nasce l’altra. Così fece Leone (che arrivò alla regia a 30 anni!). Così si è sempre fatto.

Scegliere i tram giusti, ovvero avvicinare le persone che si stimano, far leggere i propri lavori, rendersi disponibili. La situazione non è facile, anzi è difficile. Ma è una prova di forza e non solo di talento. Il talento magari vien fuori se si è forti dentro, e si cerca di vedere cinema e tv come imprese e non come leggende che vivono della luce del passato o dei bagliori morti del presenzialismo specialmente televisivo. Allora, in bocca al lupo. Diffidate di chi fa le cose facili.

D’altronde, la tv, lo spettacolo, il cinema, internet sono un campo giochi infinito, meglio della città dei balocchi. C’è chi finisce con le orecchie da somaro e chi sa approfittarne nel senso di usare i media secondo talento e secondo intelligenza, fidandosi poco di certi guru. I maestri veri ci sono. Basta cercarli”.

 

E lei, di se stesso, cosa direbbe?

 

“Non mi piace descrivermi, ci sono i miei lavori a farlo (sceneggiature, regie, libri, radio, tv): basta cercare anche su internet le orme di questi percorsi e andare a verificare. Sono anche quello che gli altri scoprono…”.
*Dice di sé.
Gianluca Ferrara. Sociologo con la passione per la scrittura. Considera importanti tre cose: obiettività, coerenza, capacità di riconoscere i propri limiti. Intuitivo, si lascia guidare spesso dall’istinto. Il suo motto: “Ascolta, pensa e sorridi” 

CLAUDIA GERINIIl corpo, vestito o nudo, è uno strumento dell’attore che deve
continuamente comunicare, l’attore trasmette le emozioni attraverso
la voce, il viso e il corpo.


CARLOS RUIZ ZAFÓNUn racconto è la lettera che un autore scrive a se stesso per
mettere a nudo la propria anima.
BELPAESE Domenico Mazzullo - Gli alpini, simbolo e memoria dell'Italia

La storia di un’amicizia personale diviene lo spunto per un omaggio ad uno dei corpi militari più longevi ed amati del Paese

Domenico Mazzullo*

Sul cappello, sul cappello che noi portiamo

c’è una lunga, c’è una lunga penna nera…

 

 

 

Sono le parole con cui si apre una delle più celebri e amate canzoni degli Alpini, nota in tutto il mondo. Con queste stesse parole si schiude questo articolo, meglio detto racconto, che vede come protagonista proprio un cappello, un cappello da Alpino, con una lunga, lunga penna nera…

Se fossero stati ancora in vita, questo racconto sarebbe stato certamente scritto da loro, Salvator Gotta, celebre autore de “Il piccolo Alpino”, o Edmondo De Amicis, autore del non più così celebre e letto “Libro Cuore”, ma purtroppo non sono più tra noi e allora chiedo umilmente loro in prestito la penna, la intingo nell’inchiostro e con mano tremante, questa storia la scrivo io, chiedendo fin d’ora scusa per la mia inadeguatezza, per la mia incompetenza a scrivere e descrivere quanto è avvenuto e quanto ho provato sulla mia persona.

Non sono un alpino, non ho servito negli alpini, durante il servizio militare, ma ho avuto l’onore e il piacere di conoscere gli alpini, di essere con loro, in loro compagnia e al loro fianco, di averne provato e toccato con mano, il sentimento di abnegazione, umiltà, attaccamento al dovere, lo spirito di corpo, la grande umanità, l’orgoglio e la gioia di appartenere a questo mirabile corpo.

Alpini non lo si è per un periodo limitato della propria vita, solo quando si indossa la divisa, smessa la quale si torna ad essere persone normali. Alpini lo si è per sempre, per tutta la vita, anche quando questa è finita, perché gli alpini, a differenza dei comuni mortali, non muoiono mai… ma “vanno avanti”, per indicarci la strada, per precederci e proteggerci, ancora una volta, per prenderci per mano quando toccherà a noi, accompagnandoci in questo ultimo, periglioso viaggio verso l’ignoto.

La storia, come tutte le storie che si rispettano, comincia da lontano, lontano nel tempo, circa tre anni fa, quando, con mia moglie a Venezia, in una breve pausa estiva, dopo aver visitato il ghetto della città, con le sue meraviglie, decidemmo di sostare in un bar, approfittando di un tavolo all’aperto per gustare un gelato. Terminato questo e recatomi alla cassa per pagare, ad una gentile signora, che successivamente si rivelò come la proprietaria, mi sentii rifiutare il denaro con delle semplici, decise, determinate parole, che non ammettevano repliche o opposizioni di sorta:”No, signore.

Lei non paga. L’ho sempre vista per due anni, tutti i pomeriggi in televisione. Mi piace come parla. Sono sempre stata d’accordo con i suoi pareri. Il gelato lo offro io”.

Non ebbi il coraggio di ribattere nulla di fronte a tale decisa e ferma determinazione. Lusingato e ammirato, chiamai mia moglie per presentarla alla signora che così gentilmente mi aveva apostrofato… e trascorremmo il resto del pomeriggio al bar, parlando di Venezia, della sua storia, dei ricordi del passato, di noi.

A sera eravamo amici.

La sera successiva eravamo ospiti a cena a casa sua, ove conoscemmo il suo “compagno”: odio questa parola, ma non trovo un equivalente. Marito? Non è esatto. Fidanzato? Sembra ridicolo tra persone adulte. Amante? Offensivo e riduttivo.

Roberto era una persona che mi suscitò un’immediata, intensa, spontanea, inspiegabile simpatia, forse per la sua semplicità, la sua schiettezza, il suo viso sincero e riservato, la sua voce seria e pacata, il tono basso e disteso, gli occhi onesti e dialoganti con i miei, la semplice, profonda bontà che essi esprimevano.

In un battibaleno diventammo amici e ignorando le signore che parlavano di cucina, ci lasciammo trascinare dal discorso in confidenze personali di vita, fino a che, come se entrambi fossimo arrivati ad un appuntamento predestinato, il discorso scivolò impercettibilmente, approdò, (per caso?) alla Prima guerra mondiale, una delle mie molteplici passioni e della quale Roberto si rivelò essere un profondo e acuto conoscitore.

Parlammo del Grappa, di trincee, di filo spinato, di elmetti italiani Adrian, di corazze Farina, del Carso, del Ponte di Bassano, del Piave, fiume sacro alla Patria, dell’Ortigara, dei generali che mandavano gli uomini allo sbaraglio in ondate di attacchi ripetuti, per conquistare solo pochi metri di terreno al nemico.

Come sullo schermo di un fantastico, immaginario cinematografo, passavano, scorrevano davanti ai nostri occhi le scene di guerra, di assalti alla baionetta, di trincee ricolme di fango, di soldati abbarbicati sulle montagne in avamposti impossibili, di mitragliatrici, di granate, di obici e mortai, di attacchi con i gas asfissianti, di orrore e di eroismi, di giovani e giovanissimi caduti, dei “Ragazzi del ’99”, in guerra a soli 18 anni, di ardimenti quotidiani e non conosciuti, di immensa sofferenza, di immane catastrofe.

Roberto era un alpino, aveva compiuto il servizio militare negli alpini, anni addietro e seppure ora vestisse abiti civili, rimaneva un Alpino, per quel discorso cui accennavo prima.

Fu lui a dirmi, per primo, che alpini lo si è per sempre, lo si rimane sempre, perché il cappello e la penna nera che lo sovrasta, rimangono a vita nel cuore… e mentre mi diceva questo gli brillavano gli occhi per l’emozione e la commozione, che coinvolsero anche me, suggellando in un attimo la nostra simpatia e sintonia. Mi mostrò i libri che aveva e le foto, che mai avevo visto prima d’allora, delle trincee, restaurate e conservate, custodite dagli alpini, come una reliquia, come una memoria sacra, di un passato che appartiene a tutti noi italiani.

La serata trascorse così, tra ricordi di guerra, storie recenti, racconti inediti, canti degli alpini e grappa, che a me astemio, fece girare immediatamente la testa, accentuando ancor più quello stato sognante, quello stato crepuscolare nel quale ero ormai piombato e nel quale i canti degli alpini, le voci delle mitragliatrici, i boati dei cannoni e gli scoppi di granate, si mescolavano mirabilmente e con le immagini di trincee fangose, filo spinato, camminamenti scavati nella roccia, urla di feriti e immagini di ufficiali che al grido di “Avanti Savoia”, incitavano i soldati in grigio-verde, a saltar fuori dalle protettive trincee e andare all’attacco.

Ad ora tarda ci salutammo, con la promessa, sulla porta, da parte di Roberto, di organizzare per me, una visita alle trincee e ai campi di battaglia. Tornai a Roma, con questa promessa nel cuore, ma con una certa pessimistica sfiducia che mai si sarebbe potuta verificare e realizzare la promessa fatta e che forse Roberto l’avrebbe presto dimenticata.

Ma Roberto non dimenticò e qualche mese dopo giunse puntuale la telefonata, con l’invito, a recarmi di nuovo a Venezia, perché saremmo andati in trincea.

Roberto non dimenticò la promessa. Avevo sottovalutato la promessa di un alpino. Gli alpini non dimenticano e mantengono la parola data.

Tralascio i dettagli della visita alle trincee, non perché non siano interessanti, ma perché sono irripetibili e indescrivibili, non comunicabili, le emozioni che essi suscitarono entro di me, che fino ad allora avevo solamente letto, visto in fotografia, immaginato quei luoghi, quei campi di battaglia, che ora mi trovavo a visitare personalmente, quei terreni dove si era combattuto e in tantissimi erano morti e sui quali, ora io posavo i miei piedi, quelle trincee nelle quali istintivamente abbassavo il capo, per non essere colpito dai cecchini nemici.

Fu una giornata indimenticabile, commovente, emozionante, gravida di significati e di sensazioni nuove e mai provate, di gioia profonda, ma anche di struggente malinconia, per trovarmi in luoghi così carichi di storia, di dolore, di eroismi passati, ma ancora così presenti e pregnanti.

Ma se gli eroismi passati, trascorsi, mai dimenticati, erano presenti e tangibili, nell’aria, nel terreno, nelle trincee e nei camminamenti, nei loculi ricavati nella roccia, per dormire qualche ora tra un attacco e l’altro, in un momento di pausa del combattimento, negli oggetti di uso quotidiano rinvenuti e conservati gelosamente, nelle schegge di granata e nei proiettili inesplosi, un altro eroismo, singolo, privato, solitario, unico, personale, si stava verificando in quel momento e io ne ero testimone e partecipe, consapevole, ma inerme e impossibilitato a fare qualcosa per essere di aiuto.

Roberto, infatti, la mia guida, il mio mentore, il cicerone di questo museo all’aria aperta, di questa galleria di ardimenti quotidiani e di quotidiane sofferenze, inerpicandosi sul terreno scosceso del Grappa, calcando i gradini di pietra, dei camminamenti, procedendo nelle strettoie delle trincee, era sempre più visibilmente, sofferente, il suo viso era contratto da un dolore che non proveniva, come per me, da un passato e dalla memoria di questo, ma da un disperato, maledetto, crudele presente.

Il presente di una malattia molto grave, cattiva, crudele che lo affligge da quando aveva da poco superato i venti anni di età, quando era giovanissimo e aveva tutta la vita davanti con tutti i sogni e le aspirazioni che un giovane può avere. Sogni e aspirazioni interrotti, bloccati, chiusi, negati da una diagnosi orribile, senza speranza, che Roberto, senza essere medico, aveva già formulato da solo, ma che poi venne irrimediabilmente e senza appello confermata dai medici. “Morbo di Burger”.

Detto così non significa niente, ma per noi medici significa tantissimo, purtroppo.

Significa una malattia gravissima, che dopo anni di acutissime, insopportabili sofferenze, conduce inevitabilmente alla morte.

Significa una malattia per cui progressivamente le arterie, quei tubi che attraversano tutto il corpo e che veicolano il preziosissimo sangue dal cuore in tutti gli organi, gradualmente si ostruiscono, si chiudono e il sangue non arriva più dove deve arrivare, con tutte le conseguenze drammatiche, che è facile immaginare.

Sarà capitato a tutti, avendo accavallato una gamba sull’altra e avendo con questo semplice gesto compresso una arteria, al momento di porci di nuovo in piedi, sentire la gamba come morta, non più rispondente ai comandi provenienti dal cervello, e se malauguratamente la compressione è durata solo un poco di più nel tempo, essere colpiti da dolori lancinanti, insopportabili, insostenibili, provocati dal temporaneo venir meno dell’afflusso di sangue all’arto.

Per nostra fortuna, basta ristabilire la circolazione, eliminare la compressione e tutto torna come prima, il dolore cessa in breve tempo.

Ma se quel venir meno dell’afflusso di sangue, non è come a noi accade, temporaneo, ma permanente, definitivo, progressivamente ingravescente, allora i dolori non cessano, ma divengono perenni e sempre più acuti, intensi, insopportabili, insostenibili. E naturalmente ogni movimento acuisce ancora di più il dolore, a dismisura, aumentando il bisogno di sangue da parte dei muscoli; ma tale bisogno non è possibile soddisfarlo, perché il sangue non arriva più.

Naturalmente i primi a soffrire sono gli arti inferiori, i piedi, le estremità, più lontane dal cuore e quando il flusso di sangue diviene così scarso, da non riuscire a nutrire nemmeno un poco i tessuti, questi muoiono e subentra la gangrena. Allora per cercare di salvare la vita al paziente bisogna amputare.

La dinamica, la logica di questa malattia è semplice e crudele, e come un albero in inverno perde le foglie, così un uomo, nell’inverno della sua esistenza, perde parti di se stesso, prima le dita dei piedi, poi i piedi, poi le gambe e infine la vita stessa.

Il mio amico Roberto si era incamminato per questa via, quando aveva venti anni e già allora conosceva bene il percorso a lui riservato, avendo perso il padre, per la stessa malattia, quando era ancora bambino.

Oggi, ogni passo, ogni metro da percorrere a piedi era per lui un supplizio, per i dolori che gli provocava, e ciononostante aveva voluto farmi da guida lo stesso, nelle sue trincee, per insegnarmi, per illustrarmi, per scoprire, nei miei occhi e nel mio viso, lo stupore e la meraviglia di quella giornata fantastica sul Monte Grappa.

Avevo assistito all’ennesimo eroismo di un alpino. La giornata si concluse con una cena indimenticabile, assieme agli alpini del gruppo di Ramon, che mi avevano accolto nella loro sede, con canti di montagna e grappa, costringendomi, per quella volta, a non essere più astemio e a cantare con loro.

Tornai a Roma, portando negli occhi e nelle orecchie le immagini dei loro volti, delle loro voci, dei loro canti e nelle mani una cassettina di legno, da loro confezionata, avvolta in un nastro tricolore e contenente per me, oggetti raccolti in trincea, reliquie, per loro e per me, e che mi avevano donato. La promessa reciproca di rivederci tutti alla successiva adunata nazionale, nel 2009, a Latina, il 10 maggio.

Chi non conosce gli alpini non sa, non può comprendere, quanto per loro sia importante, fondamentale, indispensabile partecipare all’adunata annuale, alla quale accorrono tutti, da tutta l’Italia e anche dai paesi esteri più lontani. Per Roberto in particolare è, ed è sempre stata, un’occasione, una ragione per sentirsi ancora vivo e presente.

Mancavano pochi giorni alla data fatidica, che attendevo con ansia e trepidazione; tutto era pronto per il grande evento, quando, una sera ricevetti una telefonata, improvvisa e inaspettata: la telefonata di Roberto, che con voce emozionata, nella quale non mi fu difficile riconoscere i segni della commozione, mi annunciava la sua impossibilità a partecipare all’adunata: Domenico, sono ricoverato in ospedale. I dolori sono diventati insostenibili e forse dovranno amputarmi un piede.

Non posso venire. Non potrò sfilare assieme agli altri, ma voglio che almeno sfili il mio cappello da alpino. Voglio che sia tu a portarlo in capo, così assieme a te e al mio cappello, sarò anche io, idealmente, con voi. Lo porteranno giù gli alpini e tu lo indosserai per me, al posto mio”.

La telefonata terminò qui, perchè né Lui, né io, avevamo voglia, desiderio, o bisogno di aggiungere altro. La mattina del 10 maggio, alle prime luci del sole, a Latina, gli alpini mi consegnarono il cappello di Roberto con la penna nera.

Assieme al cappello, una piccola busta stropicciata dal viaggio, sulla quale erano scritte solo due parole, ma nelle quali lessi e riconobbi immediatamente la grafia della “compagna di Roberto”, la signora veneziana conosciuta al bar: “Per Domenico”:

“Caro Domenico, scusa se non ti scrivo su qualcosa di più decente che su questi foglietti da appunti, ma, in realtà sto usando quello che ho sottomano. Sono poche parole scritte di getto e sono dedicate a due “tipi” alquanto speciali che conosco e amo. Sono a casa di Roberto. Sono le 15,30.

Questa sera il copricapo di Roberto partirà con Marilena alla volta di Latina perchè, per suo espresso desiderio, tu abbia a sfilare, indossandolo, nel giorno più importante di tutte le adunate alpine. Il suo desiderio è questo ed io non posso che avvallarlo con immensa gioia. Non conosco nessuno che più di te sia degno di rappresentare l’uomo che amo in un momento simile. Consegno a te, attraverso il suo cappello, anche il suo spirito, la sua lealtà alla sua terra e la sua onestà verso essa e verso gli amici che lo circondano.

Ti prego porta tutto questo con te in quella parata. Portalo nel tuo spirito e nel tuo grande cuore. So che la tua essenza intrecciata a quella di Roberto renderanno quella penna nera la più lucida, la più forte, la più alta di tutte le altre e ti farà incontrare anche solo per un secondo con il Signore delle cime.

Con immenso affetto

Kika”

 

E così, con queste parole nel cuore e con il cappello di Roberto sul capo, ho sfilato, assieme a tantissimi alpini, per le vie di Latina, in quel meraviglioso 10 maggio 2009.

Mi correggo, il cappello di Roberto ha sfilato per le vie di Latina, recato, portato, sorretto indegnamente da me, ma sotto quel cappello non c’ero io. C’era lui, c’era Roberto e per questo la penna nera sul cappello era la più lucida, la più forte, la più alta di tutte, come certamente ha voluto e desiderato il Signore delle cime.

Dicono che quando si muore ci passino in un battibaleno, davanti agli occhi, le immagini dei momenti più significativi e importanti della nostra vita. Sono certo che quando toccherà a me di “andare avanti” una delle poche immagini sarà rappresentata da quel cappello con la lunga penna nera, la più lucida, la più forte, la più alta di tutte le altre.
*Dice di sé.
Domenico Mazzullo. Medico-chirurgo, speta in psichiatria. Psicoterapeuta. Assolutamente laico e quindi profondamente libertario. Romanticamente illuminista. 

FERRUCCIO DE BORTOLICredo che qualche volta il raccontare i retroscena
di quelli che sono gli avvenimenti politici, aiuti moltissimo
a comprenderli. Anche se spesso, quelle sono ricostruzioni che i
politici non gradiscono, perché non sono ricostruzioni ufficiali,
sono ricostruzioni nelle quali spesso si va a rimettere a nudo
l’uomo, piuttosto che il politico, il personaggio privato
piuttosto che il personaggio pubblico.
Danilo D'Anna - Una vita da genoano

L’argentino Milito ha lasciato il Genoa per l’Inter piangendo come un vitello che sa di finire al mattatoio. Lacrime che fanno capire che seppur i soldi siano tutto un piccolo spazio per i sentimenti si trova sempre

Danilo D’Anna*

Se avete letto “Febbre a 90°” di Nick Hornby potete capire come mi sentivo nell’estate del 2005: il Genoa veniva retrocesso dalla giustizia sportiva in serie C, due settimane dopo la storica promozione in serie A attesa per dieci anni, e io per motivi di lavoro dovevo trasferirmi a Pontedera, piccola cittadina in provincia di Pisa; un posto impermeabile a ogni forma di divertimento diversa dal raccontare agli amici al bar una trombata con la vicina di casa o con la commessa del negozio più costoso del corso principale. Il Vecchio Balordo rischiava l’estinzione, io mi rompevo le palle. In quei giorni giuravo a me stesso che non avrei mai più visto una partita di calcio e che da quel luogo sarei venuto via alla velocità della luce. Ho mantenuto solo l’ultima parte della promessa.

Con questa voglia di rivalsa calcistico-sociale ascoltavo pazientemente gli amici con la mia stessa passione per i colori rossoblù mentre mi snocciolavano i nuovi acquisti: “Guarda che Zaniolo sotto rete è bravo, stai tranquillo ti dico che Grabbi è ancora forte”.

Volevo tagliarmi le vene e maledivo quel giorno che decisi che il calcio sarebbe stata la mia passione più grande. Anzi, la seconda: la prima inizia con effe e non è la filosofia. E mi interrogai – senza darmi risposta – perché tra tante squadre scelsi il Genoa Cfc 1893.

Quando presi quella storica decisione avevo sei anni, mio padre da buon meridionale faceva il tifo per la compagine di Sampierdarena (sì proprio quelli con la maglietta d’Arlecchino) e così anche la maggior parte dei miei amichetti. A me piaceva il Genoa, nonostante le persone che mi circondavano, nonostante la domenica Paolo Valenti mi facesse venire il magone annunciando la sconfitta dei miei eroi a Novantesimo. Nonostante tutto. Più mi faceva male, più mi stringevo al Grifone.

Nel 2005 però la botta fu davvero brutta. Pizzighettone, San Marino, Teramo, Pro Sesto, Pro Patria e La Spezia… non volevo neppure pensarci. Pareva di leggere una pagina di “Febbre a 90°”: la vita mi aveva portato in un posto insignificante e la mia squadra era piombata in un campionato insignificante. Odiavo il mondo.

Ora sia la serie C sia Pontedera sono dei ricordi sbiaditi. Il mio Genoa ha riconquistato perfino l’Europa, diciassette anni dopo la prima volta.

Quella dei miei vent’anni, quella del mio mito di sempre: Pato Aguilera. E io mi sento come Hornby, che ha visto il suo Arsenal vincere la Premier league.

Certo non ho ancora brindato allo scudetto – sarebbe il decimo, quello della stella – ma festeggiare in piazza De Ferrari in una domenica di fine maggio con un bimbo di un anno e mezzo, mio figlio Davide, sulle spalle è stata un’emozione che non avrei mai neppure immaginato di poter sfiorare. Io con la maglietta numero 77 di Milanetto, del quale mi definisco frocio impippandomene del politically correct; lui con quella numero 22 del principe Milito.

L’argentino che se ne è andato all’Inter piangendo come un vitello che sa di finire al mattatoio. Lacrime che fanno capire che seppur i soldi siano tutto – e, infatti, Diego vestirà nerazzurro -, un piccolo spazio per i sentimenti in fondo si trova sempre.

Proprio le lacrime di Milito sono lo spot più vero di questo Grifone e dei suoi tifosi. Gente che si alza in piedi per salutare l’uscita del centrocampista più forte visto all’ombra della Lanterna – Thiago Motta – con la stessa dignità con cui esultava per una rete di Boisfer, nonostante la retrocessione in serie C fosse già matematica da tempo.

Non si può spiegare cosa muova chi ama il Grifone. E non è una frase fatta: tre anni fa un settantenne fu colto da infarto a Marassi dopo un gol decisivo allo scadere.

Fu portato all’ospedale con poche speranze di riprendersi. A tenergli la mano la moglie, che lo aveva visto cambiare colore, toccarsi il petto e stramazzare mentre tutto intorno a loro si faceva festa. I medici gli salvarono la vita, lui aprì gli occhi e seppur intontito dai farmaci guardò la donna, che non si era mai staccata un secondo dal suo letto. Le chiese soltanto una cosa: “Abbiamo vinto?”. Inutile specificare dove fu mandato.

Un piccolo aneddoto di una storia infinita che ti coinvolge già dalle prime righe: un medico inglese, sir Spensley, mandato a Genova a curare i marinai della regina, aveva tanta nostalgia del gioco del soccer che si inventò il Genoa. Era il 7 settembre del 1893. Siamo sopravvissuti a tutto e a tutti. Più rabbia che felicità, più sconfitte che vittorie. Eppure lacamiseta rossoblù resta tatuata sulla pelle di uomini e donne di ogni ceto sociale, dal bambino di un anno e mezzo che sorride sulle spalle del papà al settantenne che pur di vedere quelle maglie è pronto a mettere a rischio le coronarie.

“Yes we go”, è la frase che scimmiotta lo slogan di Obama nella campagna elettorale americana che la dirigenza rossoblù ha scelto per celebrare la qualificazione in Europa.

Il popolo preferisce il dialetto: “Ghe l’emmu feta”, sospira. Ma Pizzighettone e Pro Patria non si possono dimenticare: da quei campi di periferia, tra un assaggio di pecorino e novanta minuti di adrenalina, il Grifone è rinato dalle sue ceneri. Io come Nick Hornby quando qualcosa non gira per il verso giusto nella mia vita privata penso sempre al Genoa. Ma questa simbiosi con la mia squadra di pallone mi piace sempre di più. Forse non vinceremo mai la Champion’s league, ma ci vorremo sempre bene, finché una rete a tempo scaduto non mi farà capire che anche per me è arrivato il triplice fischio . E pazienza se per quella volta non potrò prendere in giro i doriani per la vittoria della squadra do mae coe (per i non genovesi vuol dire del mio cuore). Ci sarà sempre quel bimbo che adesso ha un anno e mezzo a far sorridere il suo papà.
*Dice di sé.
Danilo D’Anna. Cronista di provincia quarantenne, da qualche anno gira per l’Italia come la merda nei tubi. Disincantato da tutto ciò non sia Genoa. Con un incubo: i treni. 

ANTONIO CANOVAHo letto che gli antichi una volta prodotto un suono
erano soliti modularlo, alzando e abbassando il tono
senza allontanarsi dalle regole dell’armonia.
Così deve fare l’artista che lavora ad un nudo.
Gianfabio Florio - Cosa metto nel mio I-pod?

Da Renato Zero e Claudio Baglioni a Giusy Ferreri ed Arisa, una rapida carrellata sull’attuale panorama musicale italiano, tra vecchie glorie e incoraggianti promesse

Gianfabio Florio*

Come da tradizione, la stagione estiva porta con sé orecchiabili motivetti mordi e fuggi dal sapore esotico, tanto rapidi ad inculcarsi nel cervello dell’uomo della strada quanto a passare nel dimenticatoio non appena si ripongono costumi e creme abbronzanti nell’armadio.

Quest’anno è quantomeno singolare che l’arrivo dell’estate sia stato preceduto da un mega concerto degli artisti per l’Abruzzo, dal nobile intento benefico, in programma allo stadio Olimpico lo scorso 20 giugno, proprio l’ultimo giorno di primavera, quasi come per dare un segnale alle popolazioni terremotate. La stagione, notoriamente frivola e spensierata, porterà anche a loro un pizzico di serenità in più. Almeno questo – oltre alla raccolta di fondi, ovvio – speriamo sia stato l’intento di, tra gli altri, Renato Zero, Gianni Morandi, Gigi D’Alessio, Fiorella Mannoia, Antonello Venditti, Pino Daniele e Claudio Baglioni.

Fatta questa doverosa premessa, cos’altro offre il panorama musicale italiano, notoriamente ancorato alla tradizione? Claudio Baglioni partirà con l’ennesimo tour il prossimo ottobre, giusto il tempo di rinvigorire l’abbronzatura d’ordinanza in questi tre mesi che precedono il via. Teddy Reno si sta riprendendo da un delicato intervento: auguri. In forma ci sembra un altro mostro sacro, Renato Zero, 30 album per lui, di cui l’ultimo per ricordare a tutti che è ancora Presente”, e i suoi sorcini non se ne sono certo dimenticati, regalandogli fino ad oggi 300 mila gioie. Nel disco anche spunti originali, come il duetto con Mario Biondi, che quando canta in italiano sembra quasi un altro. Sulle note del testo biografico di Renato, Biondi gli dedica più volte l’appellativo “poeta”. Gli chiede: Dimmi come ti va poeta – quella musica il bene che fa – è’ ancora la tua dignità il tuo pane.

In questi giorni è comparsa in libreria un’opera dedicata ad un altro poeta, il grande Paolo Conte, dal titolo “Prima la musica, in cui l’artista ha dichiarato di comporre partendo dalle note, per poi completare il tutto con il testo. Pertanto, prima la musica. Probabilmente non è il solo a pensarla così, perché se diamo un’occhiata in giro ci accorgiamo che non viene sempre dedicata ai testi la giusta attenzione. Se nel suo nuovo lavoro che, siamo certi, venderà moltissimo, Tiziano Ferro canta per rivelarci che “notizia” è l’anagramma del suo nome, non si intravedono all’orizzonte grandissime novità. Cosa che non può dirsi neanche di un altro mostro sacro, quell’Eros Ramazzotti che dalla fine del suo matrimonio ha scelto di continuare a mandare messaggi alla sua amata Michelle, e per farlo utilizza le note e lo spartito. In ogni album c’è almeno una mezza dozzina di tracce che sembra strizzarle l’occhiolino.

D’accordo, non è solo un paese per vecchi – non ce ne vogliano Claudio, Teddy o Renato, il termine “vecchio” viene usato nell’accezione più nobile, come a dire “esperto”, “sapiente” – e i giovani ascoltano anche le nuove tendenze. E nuove tendenze al momento si chiamano reality, anche se un altro ex ragazzo, Mogol, uno che ha fatto la fortuna di un certo Lucio Battisti, non usa parole troppo dolci per definire questa nuova scena musicale figlia della tv. A suo avviso i nuovi format non hanno prodotto nulla di buono, ma le vendite sembrerebbero contraddirlo. A Sanremo ha trionfato Marco Carta, uno dei tanti prodotti di Maria De Filippi, che con la sua storia ha commosso il pubblico e venduto in quantità. A me per certi versi ricorda Pago, una delle tante meteore estive del passato, ma un tempo si diceva: de gustibus ecc.… Con “La forza mia”, scritta dal chitarrista di Laura Pausini, ha scalzato nelle classifiche un’altra creatura tv, Giusy Ferreri, che qualcosa di originale in fondo l’ha mostrata, e che grazie al suo timbro di voce inconfondibile è assurta al ruolo di eroina di tutte le commesse che in lei identificano il nuovo Italian dream.

Programmi come “X-Factor”, da un lato, permettono a tanta gente di saltare la gavetta e affacciarsi al successo passando direttamente per il portone principale. A volte, dobbiamo ammetterlo, il risultato non è così cattivo. Giusy si ispira senza negarlo ad Amy Winehouse, almeno nella voce, ma senza avere la pretesa di avvicinarsi alle potenzialità della ribelle inglese. I Bastard sons of Dioniso di inglese hanno il nome, ma vengono dalla Valsugana, dove hanno tirato su una band che si diletta a comporre testi diretti, ma originali, che compensano in parte i loro limiti di melodie non del tutto orecchiabili che evidentemente non hanno condizionato più di tanto il giudizio di Morgan & Co., da cui hanno ricevuto lo scettro di vincitori del programma “X-Factor”.

L’originalità si può appalesare anche con una voce straordinaria dal timbro mai monotono, e con dei testi di alto spessore che raccontano storie, vere o finte che esse siano. E in questo caso ci si riferisce ai Baustelle, e al frontman Francesco Bianconi, che ha azzardato perfino un duetto con Valeria Golino in “Piangi Roma”. Splendido il risultato, com’era logico prevedere per una band il cui nome in italiano significa più o meno “cantiere”, evocando quindi l’immagine di un laboratorio in cui si produce sempre qualcosa di nuovo. Roma, tra l’altro, piange davvero. Perché dopo i fasti degli anni ’90, in cui i figli de “Il Locale”, Niccolò Fabi, Max Gazzè, Federico Zampaglione avevano monopolizzato la scena musicale nazionale, almeno per quanto riguarda la nicchia più colta e mainstream, adesso la capitale ha perso un po’ di posti in classifica.

Ci sono i soliti Vasco (quasi 500 mila copie con Il mondo che vorrei. Lui ha voluto Slash alla chitarra, mica male), Zucchero e Ligabue – che promette un nuovo album per il 2010, sperando che non si tratti dell’ennesimo clone di Certe notti – emiliani doc, sul podio delle regioni più rappresentate, ma il nord in generale si è avviato ad una rapida ascesa in classifica. A Roma c’è Cristicchi, certo, uno che da semi sconosciuto al grande pubblico è riuscito a vincere Sanremo. Roba da matti. Matti, appunto, come quelli di cui cantava il Crispino del rione Monti nella sua canzone festivaliera, in un’annata straordinaria che ha visto tra le nuove proposte trionfare il talentuoso – e coraggioso: cantare contro la mafia non è da tutti – Fabrizio Moro, anch’egli romano e con un nuovo EP fresco di pubblicazione: Barabba, ennesima accusa ad un immobilismo del sistema italiano. Per il resto tra i fan più chic crescono le quotazioni di Tricarico, ad avviso di chi scrive un vero genio, tanto schernito e deriso come fu anche il Rino Gaetano degli esordi.

Che altro? Ci sono I Negramaro, un successo strepitoso in soli tre anni. La band pugliese di Sangiorgi in alcuni passaggi riesce a ricordare perfino l’eclettico Moltheni (dieci anni di carriera per lui, auguroni, anche per il suo meraviglioso “I segreti del corallo”, pubblicato lo scorso autunno). Ma si tratta solo di spunti, di idee, perché il risultato finale è piuttosto differente e forse ciò che più di tutti conquista i fan dei Negramaro non è tanto la metrica delle canzoni, ma la voce inconfondibile del loro pelato leader. Che ha anche duettato con un sempreverde Jovanotti in “Safari”, omonimo brano che nell’incipit sembra ricordare “Splendido splendente” della Rettore, ma che presenta un intermezzo orchestrale in grande stile, estratto dal fortunatissimo album che ha venduto 700 mila copie e vede tra i contributi quello, straordinario, di Ben Harper.

Peraltro, sarà per le recenti elezioni, sarà per i tempi che cambiano, ma gli artisti italiani cominciano sempre più a guardare oltre confine. Le collaborazioni con artisti stranieri sembrano essere di gran moda al momento, e i vicentini Lost, affermatisi ad un pubblico minore con il loro Sospeso, riescono a far cantare nell’album il vocalist dei Good Charlotte. Anche una voce come quella di Francesco Renga si affida ad un disco di cover – in uscita il prossimo autunno – per raggiungere cosi un pubblico più internazionale.

Il suo vecchio sodale Omar Pedrini, dopo lo straordinario “Pane burro e medicine” del 2006, si appresta a pubblicare un “best of” e darsi alla tv (avrà preso in dote la passione per il tubo catodico dalla bellissima Elenoire Casalegno?). Inoltre, nell’anno in cui si separano i Pooh dopo decenni di gloriosa carriera, occorre spendere qualche parola per i loro discendenti. Alcuni delle vere e proprie meteore, come DJ Francesco, figlio di Roby Facchinetti, che del singolo estivo aveva costruito la sua fortuna, è stato inghiottito da altre realtà, forse più remunerative, come quella televisiva. Invece il figlio di Dodi, Daniele Battaglia, esce con un EP anticipato dal singolo Parole impreviste”, opera dello straordinario Paolo Nutini che, purtroppo, di italiano ha solo il nome e le origini, perché cresciuto nella fredda Scozia.

E se gli artisti italiani sono sempre più parte del grande melting pot paneuropeo, come non segnalare l’ultima svolta di Syria, per l’occasione trasformatasi in “Airys” (nient’altro che il suo nome al contrario), che esce con un album sperimentale definibile elettropop, anche se la bella Cecilia – il suo nome all’anagrafe – non ama racchiudere il suo progetto sotto un’etichetta. D’altra parte in un passato ormai lontano anche gente del calibro di Ivana Spagna, Raf e – addirittura – Sabrina Salerno, aveva raggiunto popolarità e vetta delle charts in Europa con brani dal sapore danzereccio, così adatti ad essere suonati in spiaggia.

In spiaggia, ne siamo certi, saranno in molti ad ascoltare nel loro i-pod l’ultimo lavoro di J-Ax, Rap ‘n’ Roll, anticipato dal singolo “Decadance, probabile tormentone estivo. Così come la Sincerità di Arisa, freschezza tipica della sonorità della musica leggera iberica, che nessuno ancora riesce a togliersi dalla testa. Basteranno i primi falò notturni ed i primi amori estivi a scalzare il simpatico fumetto vivente dall’overplay radiofonico? E, in effetti, la sincerità, elemento imprescindibile di una storia, contrasta un po’ con i pensieri di trasgressione che accompagnano l’arrivo del grande caldo.

Per il resto, nulla di nuovo sotto il fronte musicale. Per chi volesse “far qualcosa che serva” il consiglio è di seguire in tour gli Afterhours reduci dalla – scontata – bocciatura sanremese, accompagnati spesso nelle esibizioni live da un interessante Marco Parente. E come in mare aperto, anche in un negozio di dischi si possono trovare delle perle rare, come Ginevra di Marco, che con il suo Donna Ginevra mischia sonorità della tradizione locale regionale italiana con le esperienze maturate nei Csi con una delle costole dei Bandabardò.

Tra i nomi nuovi si possono azzardare un paio di scommesse. La prima è Giulia Villari, 25 anni, gran voce e presenza scenica forte, fortissima. La ragazza ha già prestato le proprie corde vocali ai Marlene Kuntz, che l’hanno voluta in passato come corista, e comincia a sentirsi sempre più spesso circolare in giro il suo nome. Siamo certi che farà strada. Un po’ PJ Harvey, un po’ Courtney Love, un po’ sé stessa. Quando si limiterà ad essere sé stessa il salto nell’olimpo dei più grandi sarà possibile.

Altro nome da tener d’occhio è quello di Andrea di Donna, uno che, per dire, ha fatto fare brutta figura ad un certo Adam Ficek, già bassista del tormentato Pete Doherty. Lo scorso marzo, al Piper club di Roma, il giovane Di Donna – appena 20 anni portati troppo bene – ha oscurato la scena a quella che doveva essere la guest star britannica. D’altronde, voce suadente, testi in inglese e pronuncia perfetta, e via sul palco armato solo di chitarra, a ricordare un po’ le sonorità dei Radiohead e a volte quelle più datate di Simon & Garfunkel. Roba forte, ragazzi. Per cui andiamoci piano, ma se fossi uno scommettitore, il mio euro sul ragazzo ce lo punterei.

Ad ogni buon conto: ognuno inserisca sul proprio i-pod ciò che preferisce. La musica, si sa, è emozione, e la scelta è vasta, ce n’è per tutti i gusti. Se poi qualche temerario decidesse di prendere una chitarra in mano e sfidare il giudizio altrui, beh, un po’ di spazio lo troveremo anche per lui.
*Dice di sé.
Gianfabio Florio. Avvocato, 30 anni, olandese per metà. Per combattere la violenza contemporanea si affida all’ironia. Fumatore a intermittenza e tifoso della Roma (in pianta stabile). Il suo primo romanzo verrà pubblicato a luglio. Da bambino sognava di diventare grande e adesso se ne pente amaramente. Sogno nel cassetto: un’isola deserta, Belen Rodriguez e… chissà perchè queste parole mi sembra di averle già lette sulla Gazzetta dello Sport. 

CLEMENTE MASTELLAI calzini sono utili. Il fatto di indossare un indumento
che copre una nudità che potrebbe anche rimanere scoperta
mi dà un senso di sicurezza.
(Da “A Natale regalate calzini”, 2007)
LETTURE Giorgio Specioso - Philip Roth, una non intervista

L’articolo della vita compromesso. Sullo sfondo l’elezione di Barak Obama e una guerra civile inattesa. Ma nulla è mai del tutto perduto…

Giorgio Specioso*

Prima parte

 

Da: Giorgio Specioso [g.specioso@gmail.com] Inviato: 05 novembre 2008
A: Redazione [redazione@redazione.it] Oggetto: Cari colleghi

 

 

Ho rispettato una fila di quasi otto ore e adesso è il mio turno. Ho soltanto pochi minuti e questa è la cronaca delle mie ultime quarantotto ore e dell’intervista allo scrittore Philip Roth che non ho potuto realizzare.

Scrivo da un affollato Internet point ubicato nella zona “Intercontinental arrivals and departures area” dell’aeroporto di Newark, New Jersey.

All’alba di ieri mi sono imbarcato sul volo AZ 972. Nonostante la levataccia ero piuttosto lucido. La stanchezza era stata spazzata via dall’orgoglio: come ben sapete, dopo settimane di corteggiamento, John Doe, l’agente dello scrittore americano Philip Roth, aveva dato il suo benestare e il nostro capo aveva scelto me per l’intervista.

Avrei dovuto incontrare Roth nella mattinata di oggi proprio qui a Newark. Lo avrei invitato a rispondere alle mie domande, passeggiando lungo le malandate strade della città così ben descritta nel suo “Pastorale americana”. Forse il capo aveva scelto me perchè adoro Roth, ma se sperava in un’intervista in ginocchio era fuori strada. Ultimamente, la mia ammirazione per Roth aveva preso a vacillare a causa un articolo di un suo collega, il compianto David Foster Wallace.

Roth stesso è il protagonista di ogni suo romanzo ed io avevo sempre attribuito a questa costante l’etichetta diespediente narrativo: partendo da se stesso, Roth ci racconta tutti, racconta l’uomo. Foster Wallace, invece, nel suo articolo definisce Roth Il grande narcisista: Roth parlerebbe di Roth perchè è di Roth che vuole raccontare. Il grande scrittore che avrei dovuto intervistare sarebbe quindi un piccolo uomo incapace di andare oltre il proprio ombelico. È ciò possibile? Forse.

In effetti, nella produzione rothiana, gli ingredienti sono sempre gli stessi: Newark, la sua famiglia di origine, la sua infanzia, il periodo post bellico, l’ebraismo, sua madre, il suo rapporto con il sesso, l’attesa della propria morte. Per non tacere del suo doppio letterario, Nathan Zuckerman: beh, ecco servito un altro se stesso. Insomma, il celebrato Philip Roth è un autentico scrittore oppure da trent’anni a questa parte non fa che blaterare di se stesso?

È con questo interrogativo che mi preparavo all’intervista più importante della mia vita, ma quando il volo è atterrato a Newark le cose si sono messe subito male. La polizia aeroportuale ha bloccato tutti i passeggeri in arrivo e in partenza. Tutti chiusi all’interno dell’aeroporto senza uno straccio di spiegazione, se non uno scarno comunicato ufficiale diffuso a mezzo altoparlanti: per questioni di sicurezza, i signori passeggeri verranno trattenuti all’interno dell’aeroporto.            Come tutti gli altri ho pensato ad un possibile attentato, un nuovo undici settembre, ma quel che abbiamo saputo in un secondo momento è stato ancor più spiazzante: l’elezione di Barack Obama ha scatenato un violento movimento reazionario e gli Stati uniti d’America rischiano una seconda guerra civile. Ecco il motivo per il quale la mia intervista con Roth è saltata. Invio comunque le domande che avevo preparato, domande che per forza di cose non avranno risposta.

 

Foster Wallace l’ha definita il grande narcisista, perchè secondo lei?

Parlare di se stesso nei suoi romanzi non rischia di sovraesporla?

Scrivere di se stesso e’ una forma di autoanalisi?

Perchè nei suoi lavori sceglie di parlare tramite un doppio letterario?

In un ulteriore ribaltamento fra realtà e finzione, uscirà mai un libro di Nathan Zuckerman il cui protagonista è Philip Roth?

Foster Wallace, sosteneva che bisogna uccidere i personaggi dei propri libri per poterne scrivere di nuovi, lei non ha mai ucciso i suoi personaggi, è forse per questo che ripropone sempre il solito personaggio ovvero se stesso?

In molti suoi romanzi il protagonista è ossessionato dalla figura materna, che rapporto ha avuto con sua madre?

È stato un bambino felice?

Ci racconterebbe un episodio della sua gioventù di cui non è orgoglioso?

C’è stata un’occasione in cui non è stato completamente onesto con i suoi lettori?

Lei pensa di influenzare i suoi lettori? E se sì, ne sente la responsabilità?

Ernest Hemingway il secolo scorso, David Foster Wallace il dodici settembre duemilaotto. Due nomi fra quelli degli scrittori che si sono tolti la vita. C’è una relazione fra la scrittura e il suicidio?

Mr. Roth, cosa si aspetta dal futuro?

 

Giorgio, Newark, 05 novembre 2008

 

Seconda Parte

 

 

Da: Giorgio Specioso [g.specioso@gmail.com] Inviato: 10 novembre 2008
A: Redazione [redazione@redazione.it] Cc Philip Roth; John Doe
[roth@roth.ny; doe@litterature_agency.ny] Oggetto: Alla ricerca del senso perduto

 

Cari colleghi, quando una hostess della Continental airlines si è avvicinata e ci ha detto di seguirla per poter espletare le procedure di imbarco, il mio corpo si è messo a tremare. Tornavo a casa, finalmente. Non ne potevo più. Come tutti gli altri, dormivo da tre giorni sul freddo pavimento di una sala d’attesa e da mangiare non mi era rimasto che un tubetto di caramelle al limone senza zucchero. Ho raccolto le mie cose e ho seguito l’hostess della Continental, il messaggero della nostra salvezza, fino al gate 131. Prima che sparisse di nuovo, le ho sorriso e le ho sussurrato thank you. Lei mi ha guardato con gli occhi fissamente spalancati e ha annuito prima di incamminarsi nuovamente nell’inferno delle sale d’attesa, dove migliaia di passeggeri attendevano da troppo tempo il permesso di volar via.

Quando l’aereo è decollato, c’è stato un applauso spontaneo, fragoroso. L’eccitazione è durata fin quando non ho guardato fuori dal finestrino: proprio sotto la pancia dell’aereo, Newark bruciava. Ho mandato giù due compresse diTavor e mi sono addormentato.

Signore? Signore? Stiamo atterrando. Signore? Mi sono svegliato con una hostess che mi tirava per la manica della camicia. Intorno a me soltanto altre facce da fantasma. Mi sentivo in pezzi. Ho allacciato le cinture incapace di godere del ritorno a casa, piuttosto mi sono chiesto se la furia della guerra civile avesse oramai cambiato per sempre la faccia degli Stati uniti.

Una volta fuori dall’aeroporto ho evitato il solito impasto di giornalisti, parenti sollevati e curiosi e mi sono messo in fila per un taxi. Rientrato a casa ho mangiato un boccone e subito ho messo mano al computer per scrivere questa e-mail nella quale cercherò di rispondere, come forse avrebbe fatto Roth, alle domande che gli avrei posto. Proverò così a dare una parvenza di compiutezza alla mia ultima settimana, al mio lavoro di intervistatore, all’esclusiva che il capo ha promesso ai lettori della nostra rivista. Cari colleghi, nel caso valuterete la mia non una soluzione, ma un patetico espediente, allora, vi prego, cestinate le mie risposte senza neanche sottoporle all’esame del capo. Vi ringrazio e sappiate che ho totale fiducia nel vostro giudizio: io sono troppo scosso per valutare con lucidità quanto mi accingo a fare. E adesso ecco le mie domande e le mie risposte.

 

David Foster Wallace l’ha definita il grande narcisista, perché secondo lei?

 

“Sia io che altri scrittori della mia generazione siamo stati spesso accusati di guardarci l’ombelico. In verità, soltanto io e il mio amico John Updike (ride ndr). Ricordo bene l’articolo in cui Foster Wallace ci critica aspramente. Updike, in particolare, era accusato di aver speso circa trenta pagine di un suo libro di centocinquanta per parlare della sua prostata. Ma che dire? Oggi chiunque a problemi di prostata, Nathan Zuckerman per primo, come lei certo saprà se ha davvero letto i miei libri. Credo di poter parlare anche per Updike, ma di certo ciò di cui io mi occupo nei miei romanzi sono la vita e la morte. Niente di più, e non vedo cosa ci sia di narcisistico in questo: la vita e la morte sono di tutti”.

 

Parlare di se stesso nei suoi romanzi non rischia di sovresporla?

 

“No, il contrario. Sa, in letteratura la cosa più difficile è decidere quanto scavare, se andare fino in fondo oppure mantenere comunque un filtro. Io credo di scavare molto, ma scavo dove dico io. Spero di esser stato chiaro”.

 

Scrivere di se stesso è una forma di autoanalisi?

 

“Non per me. Io scrivo per rappresentare me stesso agli altri, per mettere gli altri nelle condizioni di accedere al mio immaginario”.

 

Perché nei suoi lavori sceglie di parlare tramite un doppio letterario?

 

“Il doppio letterario è soltanto uno strumento dello scrittore, come potrebbe essere una penna. Sarebbe come chiedere ad un trombettista perché suona scegliendo di utilizzare la tromba”.

 

In un ulteriore ribaltamento fra realtà e finzione, uscirà mai un libro di Nathan Zuckerman il cui protagonista è Philip Roth?

 

“Gli piacerebbe di vendicarsi a quello lì (ride ndr). No, è impossibile. Come le dicevo prima, Zuckerman è soltanto un mezzo e un mezzo non può ergersi a principio creatore, ad autore”.

 

Foster Wallace sosteneva che bisogna uccidere i personaggi dei propri libri per poterne scrivere di nuovi; lei non ha mai ucciso i suoi personaggi, è forse per questo che ripropone sempre il solito personaggio ovvero sé stesso?

 

“Può darsi Foster Wallace non sbagli, ma lei di certo sì (sembra un po’ piccato ndr). Si legga “Everyman”, che si apre con la scena del funerale del protagonista. E comunque, i miei personaggi, anche se vivi, non se la passano certo bene: chieda a Zuckerman della sua prostata”.

 

In molti suoi romanzi il protagonista è ossessionato dalla figura materna, che rapporto ha avuto con sua madre?

 

“Un rapporto conflittuale. Per lei era importante avere tutto sotto controllo, anche il minimo particolare. Era una donna intelligente, che però non riusciva a tagliare il cordone ombelicale con me ed i miei fratelli. Anche in età adulta continuava a assillarci: attenti che fa freddo! Sicuri di essere sazi? Mio padre la prendeva in giro dicendo che lei manifestava il suo amore con le due c: caldo e calorie. Fosse stato per lei saremmo dovuti vivere sotto una campana di vetro e guardare tutto da una posizione comoda, sicura”.

 

È stato un bambino felice?

 

“Sì, lo sono stato. Sono cresciuto attaccato a mio fratello Sandy. Mi ha insegnato tutto quello che c’era da sapere prima di morire in guerra. Partì volontario. Era un pilota, fu abbattuto dai nazisti”.

 

Ci racconterebbe un episodio della sua gioventù di cui non è orgoglioso?

 

“Con un mio amichetto dell’epoca, sotto le feste di Natale, ci siamo divertiti a seguire le donne dal supermercato fino a casa; beh, una volta ci siamo spinti fin dentro il salone di una di loro. Quando la donna ci scoprì, io ebbi molta più paura di lei”.

C’è stata un’occasione in cui non è stato completamente onesto con i suoi lettori?

“Non sono mai onesto con i miei lettori. Come le ho detto, nei miei romanzi parlo della vita e della morte, ma in fondo è sempre di romanzi che si tratta. Nulla è come sembra (ride ndr). Piuttosto mi può succedere di non essere onesto con la mia scrittura e allora capita che non ho tanta voglia di lavorare e magari tiro via un paragrafo così, senza starci tanto a pensare, ma il mio amico ed agente John Doe, in sede di editing, subito se ne accorge e mi chiama per bacchettarmi”.

Lei pensa di influenzare i suoi lettori? E se sì, ne sente la responsabilità?

“Beh, non scrivo mica di messe nere! Non lo so, mi sembra si sia sempre discusso troppo di etica della scrittura. In fondo siamo tutti scrittori: autori, giornalisti, blogger… c’è chi fa un buon lavoro e chi no, tutto qui. Vale per noi così come vale per qualunque altro tipo di lavoro, smettiamola di considerare lo scrittore come uno stregone”.

Ernest Hemingway il secolo scorso, David Foster Wallace il dodici settembre duemilaotto. Due nomi fra quelli degli scrittori che si sono tolti la vita. C’è una relazione fra la scrittura e il suicidio?

“Vede, non io, ma alcuni di noi diventano scrittori perché il mondo che abitano proprio non gli piace. Da scrittori, invece, è loro possibile creare un mondo diverso, nuovo, che magari avrà maggiori criticità di quello dove vivono, ma che al contrario di esso sarà loro comprensibile e quindi accettabile. Insomma, non è la scrittura ad uccidere, ma è chi ha una tensione alla scrittura che può essere un potenziale depresso e quindi un possibile suicida”.

Mr. Roth, cosa si aspetta dal futuro?

“Di morire; per il resto può succedere di tutto”.
Giorgio
*Dice di sé.
Giorgio Specioso. Sono nato a Roma il 28 ottobre del 1972 e questo tutto ciò che so di me. 

JUAN RAMÓN JIMÉNEZLa rosa: la tua nudità fatta grazia.
La fonte: la tua nudità fatta acqua.
La stella: la tua nudità fatta anima.
(Da “Antologia poetica”, 1985)
SCIENZA Rosario Sorrentino - Panico. Una bugia che può rovinarci la vita

Circa due milioni di italiani soffrono di attacchi di panico: una sindrome destinata a diventare uno dei disturbi psichici più diffusi fra la popolazione mondiale. Ma si può guarire (1)

Rosario Sorrentino*, Cinzia Tani*

La bugia del cervello

 

Perché definisce l’attacco di panico una bugia del cervello?

Perché il problema non c’è, ma in realtà c’è. E crea quella netta linea di demarcazione e incomprensione tra chi soffre di attacchi di panico e chi non ne soffre. È vero che il pericolo non esiste, ma è altrettanto vero che chi prova un attacco di panico percepisce le stesse terribili sensazioni di chi si trova a combattere nel mezzo di una terribile emergenza. Il fatto è che tutto ciò non traspare all’esterno, ma purtroppo per il malcapitato, è confinato soltanto nella sua mente.

È lì che si accende rapidamente il codice rosso, la madre di tutte le emergenze e le paure, che non consente di riflettere ma soltanto di agire. Appare come una bugia perfetta, molto credibile, che lascia ben poco spazio ai dubbi. Una bugia che vive di trappole, di tranelli molto ben congegnati, che farebbero capitolare chiunque, proprio perché assai convincenti.

 

Ma allora l’attacco di panico è una malattia del cervello?

 

È una malattia che fa parte dei disturbi di ansia. Ne conosciamo ormai l’identikit e ha un profilo di sintomi di tutto rispetto. È difficile non riconoscerla. Come dicevo, negli anni ottanta è stata inclusa nel Dsm. Fino ad allora le definizioni erano molto più vaghe e a volte distorte. Si parlava di “reazione di allarme”, “reazione di ansia”, “sindrome del cuore irritabile”, ecc. Ora, invece, viene riconosciuta come malattia vera e propria, come “disturbo da attacco di panico” (Dap).

 

Come si presenta l’attacco di panico e come è riconoscibile la prima volta?

 

Il primo attacco di panico è un’esperienza sconvolgente. La partecipazione emotiva con cui lo descrivono i pazienti è quella di “un incontro ravvicinato con un profondo senso di morte”. Alcuni lo descrivono come qualcosa di devastante perché irrompe improvvisamente, “a freddo”, spesso in una situazione di totale benessere, senza alcun tipo di circostanza che possa giustificarne l’insorgenza.

I racconti sono vari. Molti parlano di una crescente difficoltà respiratoria che, progressivamente, porta a un vero e proprio senso di soffocamento. Il paziente cerca di liberare il respiro con dei colpi di tosse, quasi per eliminare un corpo estraneo che gli impedisce di respirare. Subentra l’idea di essere sul punto di morire, di avere un infarto, a causa dell’accelerazione improvvisa della frequenza cardiaca, con sensazioni di tuffo al cuore, di aritmia. Il battito cardiaco rimbomba in tutto il corpo, tanto che il paziente può contare i propri battiti senza mettere le dita sul polso.

E poi brividi, sudorazione, oppure la sensazione sgradevolissima di qualcosa che nasce in prossimità dello stomaco e che poi velocemente sale verso l’alto. E, inoltre, un senso di confusione, di stordimento, la sensazione di poter impazzire, di perdere il controllo e il contatto con la realtà. Sono sintomi che durano pochi minuti, anche se il paziente ha una percezione dilatata del tempo, infinita. La prima cosa che fa, appena è in grado di muoversi, è di correre al pronto soccorso a chiedere aiuto.

Quello che prova in quel momento è una vera e propria tempesta chimica, biologica, neurovegetativa, che lo porta ad attivare tutti gli organi facendo appello alle sue migliori energie. È consapevole che sta affrontando qualcosa di veramente straordinario, perciò si reca al pronto soccorso, dove però non è infrequente che i suoi sintomi vengano erroneamente ricondotti ad una sindrome ipertensiva o cerebrale.

Perché al pronto soccorso, ancora oggi, non si riconosce un attacco di panico?

 

Perché si tende spesso a rilevare solo l’aspetto fisico del panico, senza però rendersi conto che l’epicentro di tutti quei sintomi è nel cervello, ed è da lì che bisogna partire, immediatamente. È, infatti, il cervello che scarica la maggior parte di quelle sostanze che poi si abbattono sul nostro organismo. Molto spesso questa tempesta viene interpretata e archiviata come una semplice crisi ipertensiva, o come una banale tachicardia.

 

Che cosa succede realmente nella nostra mente? Abbiamo parlato di una sentinella, l’amigdala. Perché viene allarmata?

 

Il primo attacco di panico può insorgere, per esempio, in un soggetto geneticamente predisposto, dopo uno stress prolungato o in seguito alla perdita di una persona cara. Quel sensore importante nel nostro cervello che è l’amigdala, già allertata per le ragioni sopra citate, interpreta una serie di segnali in maniera anomala. Ecco così che nasce la “bugia” nel cervello: in quel momento la persona è convinta che stia succedendo qualcosa di straordinario, che può mettere a rischio la sua incolumità, la sua vita. L’amigdala suona l’allarme e comincia a coinvolgere altre regioni del cervello: l’ippocampo, la corteccia prefrontale e la corteccia occipitale, ma anche altre aree vicine, informandole rapidamente che si sta verificando qualcosa di anomalo.

 

Di anomalo?

 

Sì, di anomalo, perché qualcosa di strano è accaduto urtando la sensibilità e la suscettibilità, già alte, di alcuni centri nervosi. A questo punto il cervello lancia un ordine esplicito: “combatti o fuggi perché la tua vita è in pericolo”. Si assiste a una grammatica conferma del nostro istinto di sopravvivenza, che ci fa urlare il desiderio di vivere.

In alcuni pazienti e in certi casi si verificano crisi ipertensive accompagnate dall’incremento della frequenza cardiaca; in altri può esservi un effetto opposto, fino a perdere i sensi.

Infatti, a volte, le emozioni sono talmente forti da modificare drasticamente l’afflusso di sangue al cervello, con conseguente transitorio abbassamento della pressione e alterazioni dello stato di coscienza, provocando la sensazione dello svenimento. Quando, durante un attacco di panico, si verificano fenomeni neurosensoriali di una certa intensità, può rendersi necessario distinguere questo disturbo da una sindrome comiziale, e in particolare da un’epilessia del lobo temporale.

 

Ci sono delle parentele fra gli attacchi di epilessia e gli attacchi di panico?

 

Dal punto di vista dei sintomi, il Dap e le crisi epilettiche sono facilmente riconoscibile, ed è perciò difficile confonderli. Tuttavia, alcuni disturbi che si presentano durante un attacco di panico possono riscontrarsi anche in qualche forma di epilessia, come quella del lobo temporale. Sono i fenomeni di depersonalizzazione che il paziente vive e riferisce come un’alterata percezione del proprio corpo, che gli appare improvvisamente estraneo, irreale, oppure che vede trasformato in alcune sue parti.

Altre volte può avvertire un forte senso di estraneità verso l’esterno, che gli fa apparire la realtà circostante, gli ambienti consueti, familiari come profondamente diversi se non addirittura irreali. Limitatamente a questi sintomi, l’attacco di panico si presenta come una sorta di ponte fra la neurologia e la psichiatria. In questi casi (piuttosto rari) è utile approfondire l’aspetto clinico e quello diagnostico, sottoponendo i pazienti a un elettroencefalogramma che potrà meglio chiarire la natura dei disturbi che vengono riferiti.

 

Lei ha detto che il primo attacco di panico può arrivare all’improvviso e che chi lo conosce teme di avere un infarto e corre al pronto soccorso. Come mai però, anche dopo averne avuti parecchi, alcuni continuano ad andare al pronto soccorso?

 

È vero, dall’esperto si arriva dopo un lunghissimo, estenuante e spesso inutile accumulo di esami diagnostici. Anche i medici di base, non riconoscendo subito questo disturbo, tendono a perseverare nel cercare una causa fisica, organica, che possa spiegare la comparsa dei sintomi.

Va poi tenuto conto che, culturalmente, il paziente è più propenso ad accettare una malattia che riguarda il resto del corpo piuttosto che il cervello, perché in questo caso dovrebbe prendere in considerazione la possibilità di avere un problema di natura mentale.

La persona che subisce un attacco di panico ha paura di impazzire. È una paura fondata?

 

Assolutamente no. Quello che terrorizza il paziente è che, perdendo il controllo, possa anche perdere il contatto con le persone più care, con i suoi affetti, con l’esterno, con il mondo a lui familiare. È angosciato dall’idea di essere abbandonato, di trovarsi da solo, in balìa di quel profondo malessere che lo ha travolto. Questo stato gli può dare la sensazione di aver sfiorato la pazzia. Ovviamente, al di là dei fenomeni di depersonalizzazione e di de realizzazione, più riconducibili a crisi di panico con un denominatore psichico e sensoriale, non esiste questo tipo di pericolo.

 

È mai capitato che una persona abbia avuto un solo attacco di panico?

 

Per diagnosticare un disturbo da attacchi di panico sono necessari attacchi che si ripetono nel tempo, con frequenza giornaliera, settimanale o mensile. Si possono avere anche crisi sporadiche, occasionali, che per la loro intensità sono in grado di cambiare radicalmente la vita di un individuo. E questo perché, anche a distanza di tantissimi anni, ciò che ha provato rimarrà profondamente impresso nella memoria. Ne sarà molto condizionato ed eviterà tutte le situazioni che anche lontanamente risveglino quel ricordo. Cercherà allora di garantirsi sempre e comunque delle rapide vie di fuga. Per esempio, se quell’unico attacco di panico lo avrà colpito mentre era in macchina, da quel momento si rifiuterà di guidare da solo, oppure si opterà per mezzi di trasporto alternativi.

 

C’è una tipologia di individui più vulnerabili agli attacchi di panico?

 

Le donne sono colpite più degli uomini in un rapporto di 2-3 a 1. Si va dalla giovane età alla maturità piena, ma non si tratta di parametri rigidi.

 

Colpiscono anche i bambini?

 

I bambini possono presentare precocemente segnali che preannunciano l’insorgere degli attacchi di panico. Cambiano improvvisamente carattere, diventando aggressivi e a volte violenti. Si rifiutano ostinatamente di andare a scuola, e protestano con forza quando devono separarsi dai genitori. Hanno una riuscita scolastica inspiegabilmente cattiva.

Lamentano spesso la comparsa di invalidanti disturbi fisici che compromettono il rendimento nelle attività sportive, scolastiche e ricreative. Molti di loro si rifiutando di giocare, di andare alle feste, di uscire se non in presenza dei genitori.

 

Per quanto riguarda i bambini, che cosa si può fare? Magari il genitore sottovaluta il fatto che il figlio non voglia allontanarsi da lui, né andare a scuola. Come si fa a distinguere un bambino che poi potrà sviluppare crisi di panico da uno solo fragile e ipersensibile?

 

Bisogna individuare innanzitutto quei fattori che a livello familiare potrebbero, in un bambino predisposto, favorire la precoce comparsa di attacchi di panico: per esempio, le separazioni, i conflitti tra i coniugi, la mancanza di uno dei due genitori, un lutto in famiglia. Poi è necessario indagare nell’ambito scolastico per verificare se qualcosa nel suo comportamento sta effettivamente mutando e osservare come si pone con i compagni, se partecipa alle attività di gruppo, se è preoccupato, se è soggetto a bruschi cambiamenti di umore. Può essere importante anche la comparsa improvvisa di sintomi come nausea, vertigini, mal di testa, dolori alla pancia, così come la frequenza di bruschi risvegli durante la notte perché in preda all’angoscia di rimanere da solo o di essere abbandonato.

Se poi il bambino ha degli attacchi di panico che si ripetono, sarà utile iniziare una cura con farmaci a bassi dosaggi per controllare le crisi, ma anche garantire un supporto psicologico, utile a monitorare il comportamento dei genitori.

 

Torniamo alle donne. Su dieci pazienti che vengono da lei quante sono le donne?

 

I due terzi.

 

Perché?

 

Perché la donna è diventata il ganglio terminale di una serie di stress psicosociali che la sollecitano in modo eccessivo. Certamente, la maggiore predisposizione genetica e il suo delicato profilo ormonale incidono molto, ma è altrettanto evidente che mai come oggi la donna è al centro di un delicato equilibrio tra l’ambito lavorativo, quello familiare e quello sociale, nei quali è impegnata in modo altamente competitivo. C’è anche da dire che lei stessa pone una maggiore attenzione ai segnali provenienti dal proprio corpo. Questo la spinge più facilmente ad accettare di rivolgersi al medico se preoccupata dal persistere di certi disturbi.

 

Educata nei secoli a rimanere in casa, la donna è più portata a soffrire di agorafobia, mentre l’uomo è abituato da sempre a lasciare la tana, per esempio per andare a caccia.

 

La donna è molto più sensibile ai cambiamenti del suo ruolo sociale, soprattutto nell’ambito familiare. Pensiamo alla sindrome del “nido vuoto”, quando i figli, ormai grandi, diventano autonomi. Una volta indipendenti, si allontanano e, infine, decidono di vivere da soli. È un momento spesso doloroso per la donna, perché vede drasticamente ridimensionata la sua sfera di influenza in famiglia e si ritrova con una qualità di vita e un livello di gratificazione diminuiti.

Quando i figli escono di casa, le donne provano un certo senso di colpa perché temono di non riuscire più a svolgere un ruolo pedagogico ed educativo nei loro riguardi. È un’emancipazione, quella femminile, pagata a caro prezzo.

 

Quindi, uscire di casa, abbandonare questo luogo di aggregazione che è la famiglia, può portare la donna a soffrire di disturbi psichici.

 

Può essere la vittima di nuove paure nel momento in cui si confronta con un modo di comunicare e competere legato all’apparenza e alla fisicità. Può sentirsi allora profondamente inadeguata se non riesce a corrispondere a quei modelli estetici che vengono presentati sempre più come l’unico importante biglietto da visita.

Oggi la magrezza è diventata, insieme alla visibilità e alla popolarità, uno dei valori più importanti per la donna. Uno dei disturbi in aumento è quindi la dismorfofobia, come pure l’anoressia e la bulimia, legate all’ossessione dell’immagine. Un fenomeno dilagante anche tra gli uomini, che appaiono sempre più attratti dal mito della bellezza. Sono, infatti, sempre di più gli uomini che, inseguendo il sogno di avere un corpo perfetto, si affidano ai bisturi. Si controllano spesso allo specchio, per osservare la forma del naso, degli occhi, i lineamenti del volto. Arrivano a spendere somme consistenti per creme e massaggi e sono dominati dall’idea di essere fisicamente irresistibili.

Abbiamo detto che il primo attacco di panico arriva all’improvviso, ma per quanto riguarda i successivi, che cosa percepisce la persona che ne soffre?

 

L’attacco di panico si manifesta quasi sempre con le stesse modalità. E questo in parte rassicura il paziente perché l’ha già vissuto in passato. Però, alcune volte può, in maniera più subdola, presentarsi con sintomi inconsueti, diversi. A quel punto il paziente, terrorizzato, si sente in pericolo, corre al pronto soccorso perché convinto che qualcosa di nuovo stia per accadere.

 

Facciamo degli esempi?

 

Le prime volte possono esseri dei sintomi respiratori, che danno la drammatica idea di essere sul punto di soffocare. Altre volte l’attacco può manifestarsi con un senso di pressione a livello toracico, accompagnato da fitte e da un forte e improvviso dolore nel braccio che fanno subito pensare ad un infarto. Oppure un’angosciante e persistente sensazione di “anestesia” alle braccia o alle gambe, che fa pensare a una “paralisi muscolare” diffusa.

In alcuni casi le prime avvisaglie possono essere piuttosto sfumate, un senso di distacco, di estraneità verso l’esterno. La persona sente che qualcosa nella sua percezione è profondamente cambiata, al punto che è convinta di “non esistere più”. Tutto è falsato, più ovattato, e poi all’improvviso c’è una straordinaria accelerazione del pensiero. E allora i suoni, le voci, i colori, la luce diventano ostili, insopportabili. Si instaura una relazione drammatica tra sé e sé, dove tutto viene ascoltato, monitorato, percepito e seguito in maniera ossessiva fino a che poi il paziente non sopporta più queste sensazioni e chiede aiuto, perché è certo di essere sul punto di impazzire. Piange, si dispera e si aggrappa a chi in quel momento si trova vicino a lui.

Chi subisce l’attacco di panico spesso si vergogna delle proprie paure e a volte decide di ritirarsi da tutte le occasioni sociali. Teme molto il giudizio degli altri, ma anche di non essere compreso o di trovarsi in situazioni da cui può risultare difficile sfuggire.

 

E quanto dura un attacco di panico? Ha una durata standard o dipende da persona a persona?

 

L’attacco di panico può durare da pochi minuti fino a un massimo di venti minuti, mezz’ora. Ma le sensazioni sono talmente intense che il paziente ha la certezza di aver vissuto un’angoscia lunghissima della quale non riusciva a vedere la fine.

 

Quindi, finisce così, all’improvviso come è iniziato? Il cuore riprende a battere normalmente, si ricomincia a respirare…

 

Esaurita la fase acuta, subentra la “fase post-critica”. Il paziente appare ancora profondamente provato, esausto. Entra in uno stato di prostrazione e di astenia fisica protratta, perché la crisi appena trascorsa ha sollecitato in modo intenso tutto il suo corpo. E questo ci fa capire quanto la dimensione fisica partecipi durante l’attacco di panico, quanto il cervello coinvolga ogni parte del corpo.

La persona sente un forte bisogno di dormire, di recuperare forze ed energie perdute. Ma al risveglio riaffiora quella sensazione angosciante di insicurezza e di precarietà riguardo la propria vita e il proprio futuro. Così compare anche la “fobofobia”, la paura di avere paura.

 

Chi soffre di attacchi di panico può arrivare fino al punto di non uscire più di casa?

 

Si arriva a sterilizzare in maniera ossessiva la propria vita. Anche delle nuove amicizie o degli amici troppo propositivi diventano improvvisamente “pericolosi” perché possono contribuire a sconvolgere quell’agenda quotidiana che chi soffre di panico ha determinato in modo rigido e rigoroso per garantirsi la sicurezza e il controllo totale.

 

Questo vale anche per un nuovo amore, una nuova amicizia, un viaggio… Ecco allora che entra in campo l’immaginazione, che è potentissima nelle persone che soffrono di crisi di panico. L’immaginazione ti fa ipotizzare tutto ciò che potrebbe ancora accadere con un miglioramento professionale: già mi vedo nella riunione, vedo gli sguardi giudicanti delle persone, sento di arrossire, le gambe tremano…

 

È una “fiction esistenziale” costante, perché la vita di queste persone è pianificata in modo ossessivo. Prevalgono l’analisi e il monitoraggio continuo che porta a un’interpretazione di tutto quello che accade all’interno e all’esterno della propria vita. L’obiettivo primario di queste persone è sempre quello di prevedere e anticipare tutto ciò che può essere potenzialmente pericoloso per loro. Tendono a simulare e a immaginare circostanze catastrofiche che le riguardano. Se sono costretti a recarsi in un luogo diverso dalla propria città, che è già stata preventivamente mappata, alcuni pazienti fanno fare dei sopralluoghi preventivi a qualcuno. Fino a quando, dopo aver a lungo esitato, decidono e partono.

 

Cercano delle garanzie?

 

Sì, ma non sono mai sufficienti per loro. Si informano se in quel luogo c’è un presidio ospedaliero, un servizio di pronto soccorso, se ci sono dei bravi dottori. Prima di partire cercano di ottenere dei numeri telefonici a cui poter ricorrere nell’eventualità di una qualunque emergenza o di un attacco di panico. Sono straordinari strateghi nel pensare e nel prevenire tutto quanto potrebbe verificarsi, per non trovarsi impreparati ad affrontare un eventuale pericolo.

 

1) Pubblichiamo per gentile concessione dell’editore un estratto dal libro “! Panico. Una ‘bugia’ del cervello che può rovinarci la vita”, di Rosario Sorrentino e Cinzia Tani (Mondadori, 2008). Pagg. 64-73, 81-82. Riproduzione riservata

*Dice di sé.
Rosario Sorrentino. Neurologo, fondatore e direttore dell’Ircap, l’istituto per la ricerca e la cura degli attacchi di panico presso la casa di cura Pio XI di Roma. www.rosariosorrentino.it   

Cinzia Tani. Giornalista e scrittrice, è autrice e conduttrice di programmi radiotelevisivi.www.cinziatani.com 

Tiziana Stallone - Perchè un cioccolatino mi fa felice

L’attrazione dell’uomo verso i cibi che contengono carboidrati e grassi ha una radice evolutiva. Questi contengono una quantità elevata di energia e di calorie preziose per i processi vitali

Tiziana Stallone*

Qualche sera fa, in uno dei pochi momenti in cui riesco a guardare la televisione, mi sono soffermata davanti ad una puntata del noto programma “Porta a porta” condotto da Bruno Vespa, in cui si dibatteva di alimentazione, diete ed eccesso di peso, con la complicità dell’estate imminente e del conseguente desiderio di liberarsi dei chili di troppo.

Tra gli ospiti la splendida e statuaria Nina Moric, un modello non proprio confortante per i poveri obesi, che dichiarava di mangiare in abbondanza e di compensare in palestra, e la nostrana Lorena Bianchetti, che sosteneva di controllare il peso corporeo, rinunciando ai bucatini all’amatriciana.

C’erano anche esperti a confronto quali il singolare farmacista Alberico Lemme, rivoluzionario inventore della dieta della pasta a colazione, che si firma “il genio” e che ha liberato le diete dal monotono calcolo delle calorie, e il professor Giuseppe Calabrese, noto dietologo, che tentava di ricondurre alla scientificità il discorso e la stessa nutrizione. Come biologo nutrizionista, sono rimasta a guardare.

Chiamato a spiegare la sua dieta rivoluzionaria, Lemme sosteneva che il potere calorico degli alimenti non contava, importava invece il momento in cui questi alimenti erano assunti e con quali sostanze venivano associati. Nei primi giorni di dieta, è consentita una quantità di pasta a colazione che va da zero a infinito, ma senza sale, promuovendo quest’ultimo l’assorbimento degli zuccheri, compresi quelli contenuti nella pasta. Nei giorni successivi si continua con asparagi, sempre a colazione, e funghi di sera Lemme proseguiva inveendo contro la frutta, pericolosa alleata del grasso, per il suo alto contenuto di zuccheri, e lodando i grassi, incluse le fritture, che non entrano nel percorso biosintetico del grasso di riserva umano, e che, per questo, non promuoverebbero l’obesità.

Mentre l’alimentazione mediterranea veniva in quel contesto miseramente screditata, cresceva l’ira del professor Calabrese, la curiosità di alcuni ospiti, lo sgomento di altri e l’esaltazione del conduttore.

Occupandomi di diete, obesità e altri problemi inerenti all’alimentazione, e cercando da anni di assecondare i gusti delle persone in tema di cibo, mi piacerebbe domandare al dottor Lemme, cosa si possa mangiare qualora non si gradissero pasta sciapa e asparagi, assieme al caffè della mattina, ma suppongo che per lui conti di più il metodo, che le esigenze individuali.

Nei miei anni di lavoro nella nutrizione e sugli aspetti a questa correlati quali, sovrappeso, obesità, disturbi del comportamento alimentare, ho capito che conta più il sostegno che lo speta offre al paziente, che a lui si rivolge per chiedere aiuto, rispetto alla prescrizione dietetica stessa.

La mole di materiale che in tema di diete è stato e viene ancora pubblicato dai giornali e su internet, trasmesso per radio e in televisione, sarebbe sufficiente a risolvere definitivamente il problema del peso corporeo. Tuttavia, l’obesità e le sue critiche conseguenze sullo stato di salute, quali ipertensione, cardiopatie, diabete, rimangono ancora un problema serio, aperto, tutt’altro che risolto ed in crescita.

La comprensione del perché si continui a mangiare troppo, nonostante si parli spesso di nutrizione, talvolta anche correttamente, e del perché si ingrassi e per questo ci si ammali, a dispetto dei numerosi metodi per dimagrire, dai più congrui ai più bizzarri -di cui quello del dottor.

Lemme, a mio parere, è solo l’ultimo di una lunga lista- è la base da cui partire per una possibile soluzione del problema. L’obesità non può essere limitata alla giusta collocazione dei pasti in termini di orario, agli alimenti buoni e cattivi, al sale, alle allergie, intolleranze e alle psudo-intolleranze.

Basterebbe recuperare un album di famiglia, guardare un documentario storico o sfogliare una rivista d’epoca acquistata in un mercatino, per realizzare come cinquanta anni fa di diete non si parlasse affatto e gli obesi fossero una limitata fascia della popolazione italiana, e non. Sarebbe sufficiente rileggere il libro “Cuore” di Edmondo De Amicis, per ricordarsi che nelle classi elementari bambini simili a Garrone per sovrappeso erano, dove ve ne fossero, solamente uno o due.

In quei periodi di dignitosa povertà, non ci si preoccupava dell’orario in cui mangiare, né di cosa mangiare, quanto piuttosto di riuscire a mangiare.

Per le grandi difficoltà che riscontro nei pazienti, quando riduco loro il cibo e ne riorganizzo l’alimentazione, per il continuo sostegno di cui percepisco il bisogno durante il loro dimagrimento, per gli sguardi di complicità che ricercano durante le visite, per le richieste di aiuto che manifestano tramite un’e-mail, un sms, o una telefonata, per tutto questo, e non solo per questo, credo che l’obesità vada affrontata non ricercando diete nuove e nuovi metodi, ma anche e soprattutto in termini di una dipendenza, più sottile e celata rispetto alle altre dipendenze quali l’alcol, la droga, il gioco d’azzardo, ma non meno pericolosa, se non altro poiché il cibo è più a portata di mano.

Il cibo, presente ora in abbondanza e in confezioni sempre più invitanti, rappresenta per molti, anche se non per tutti, una continua tentazione, un piacere al quale è difficile sottrarsi, un godimento a relativo basso costo e facilmente reperibile. Tra i tentatori, un posto d’elezione è rappresentato dai cibi che contengono zuccheri quali dolciumi, pasta, pane, pizza. Seguono i cibi dolci e grassi, come la cioccolata, e cibi grassi e salati quali patatine ed altri snack.

Perché la sola vista del cibo, o l’odore sono sufficienti per attivare la salivazione, per stimolare i succhi gastrici e far partire i morsi della fame? Perché ci piace la cioccolata, mentre l’odore del cavolo ci repelle? Perché il cibo ci attrae, ci seduce, ci tenta, ci appaga? Dal cibo si può dipendere?

L’attrazione dell’uomo verso i cibi che contengono carboidrati e grassi ha una radice squisitamente evolutiva. Questi cibi, infatti, contengono e concentrano una quantità elevata di energia, di calorie, preziose per i processi vitali.

È per questo che l’uomo ha sviluppato una naturale attrazione in primis verso zuccheri e grassi. Nel procurarsi il cibo, quando l’uomo primitivo non era ancora in grado di cacciare, era importante che prediligesse radici, frutta e semi oleosi, ricchi di grassi e carboidrati, il cui sapore nel tempo si è associato anche al piacere, piuttosto che i vegetali, ugualmente commestibili, ma poveri di energia e calorie (ad esempio il cavolo che in più, come difesa dall’aggressione degli animali, ha sviluppato un odore ripugnante).

L’associazione cibo e piacere, ha lo stesso significato evolutivo del legame che intercorre tra sesso ed orgasmo, poiché per la sopravvivenza della specie uomo, è importante il nutrirsi quanto il riprodursi. È questa la ragione per cui il mangiare e il riprodursi hanno un ritorno edonistico.

I secoli e l’acquisita tecnologia ci hanno fornito i mezzi per misurare e individuare gli artefici del piacere. I mezzi sono la genetica, la biochimica e la biologia molecolare, gli artefici del piacere sono i neurotrasmettitori del benessere, quali la serotonina e la dopamina, prodotti in specifiche aree del sistema nervoso legate ai circuiti emozionali, come il sistema mesolimbico.

Esperimenti di laboratorio condotti sui topi, hanno dimostrato che un’alimentazione a base di patatine fritte o di zucchero vanigliato, è in grado di far impennare i neurotrasmettitori del piacere nel sistema mesolimbico. Nel cervello dei topi la produzione di serotonina e dopamina, aumenta anche per la somministrazione di cocaina, verso cui è nota la possibilità di sviluppare dipendenza.

Pertanto, si può ricercare il piacere nel cibo, ma anche dipendere da tale piacere per compensare la tristezza, la depressione del tono dell’umore, per lenire l’ansia, per quietare le paure e la solitudine. Il cibo in questi casi agirebbe come un antidepressivo naturale, poiché i farmaci antidepressivi influenzano verso l’alto proprio i livelli di dopamina e/o di serotonina.

I dolci e le bevande zuccherine, ma anche pane, pasta, pizza, e tutte le altre forti di carboidrati, sono anche precursori delle molecole del benessere, poiché contengono triptofano, un amminoacido dal cui scheletro viene costruita la serotonina.

Mangiando alimenti ricchi di zuccheri, attiviamo a breve termine i circuiti cerebrali del piacere, ma alimentiamo e rafforziamo a lungo termine lo stato di benessere attraverso la produzione di nuova serotonina.

Il confine tra piacere del cibo e dipendenza dal cibo è legato ad un sottile equilibrio, influenzato dalla nostra struttura di personalità.

Potrei definire mangiatore edonista, chi nella continua ricerca del piacere nelle sue diverse forme, cede al cibo nella libera e consapevole ricerca di godimento, non curandosi né dell’obesità, né delle ripercussioni che il sovrappeso potrebbe avere sul suo stato di salute. Il mangiatore edonista sminuisce l’obesità e i suoi rischi, poiché la ricerca del piacere, anche culinario, diviene prioritaria.

Quella del mangiatore edonista non è una reale dipendenza dal cibo, poiché il cibo può essere sostituito ad altre fonti di piacere, poiché l’assenza di cibo non necessariamente genera malessere, e poiché l’abbuffata non scatena i sensi di colpa. La vista del cibo, rappresenta semplicemente una tentazione alla quale è molto difficile sottrarsi. Il mangiatore edonista è, a mio avviso, refrattario alle diete e alle costrizioni in genere.

Completamente diverso è colui che definirei mangiatore malinconico, il cui stato di depressione, in risposta ad esempio ad eventi esterni pressanti e spiacevoli, lo fa rifugiare nel cibo, ed in questo trovare conforto.

Tale godimento è transitorio, poiché dopo l’abbuffata subentra il disagio, l’alienazione, ci si pente delle proprie, presunte debolezze e dell’incapacità di riuscire a dimagrire e ci ripromette di smettere.

Tuttavia, nei momenti di sconforto e solitudine, il cibo rappresenta una tentazione subdola e costante. In questi casi, a mio avviso, si può parlare di dipendenza. In questo caso la somministrazione della dieta, deve tener conto dello stato psichico e delle esigenze specifiche.

Per ritornare alle diete e ai metodi per dimagrire, come quello della pasta a colazione, al di là della loro legittimità e scientificità, essi hanno tutti, nessuno escluso, un’incolmabile carenza, quella di precostituire un modello, che viene somministrato a persone completamente diverse, senza considerare il loro vissuto, i gusti e le preferenze, ma soprattutto i punti deboli. In questo modello precostituito, passato il primo naturale fermento, il rischio è di sentirsi prima ingabbiati e poi spacciati e convincersi di non avere vie di uscita per riuscire a dimagrire.

La dieta che funziona, non è legata al metodo, ma al buon senso. È quella che si sostiene, nella quale ci si riconosce, che ci viene cucita addosso, fugando gli sterili virtuosismi e gli inutili supplizi nel mangiare ciò che non gradiamo. La dieta che funziona è quella in cui ci si sente sostenuti, tenuti per mano in un percorso tutt’altro che semplice.

La dieta equilibrata lo è nei nutrienti, ma anche nella sua logica, che deve tener conto delle regole, come delle eccezioni, cioccolata inclusa, perché il corpo risponde, solo se è felice anche lo spirito.
*Dice di sé.
Tiziana Stallone. Biologo, speta in scienza della nutrizione umana e dottore di ricerca in anatomia, svolge la libera professione di nutrizionista clinico. Le sue passioni: lavoro, musica, cinema, alberi e cimiteri. 

ANIA

Ora che rimango sola grido fra le stelle.
Ti maledico luna!!!
Nuda… come la notte
nuda… sento la mia pelle
tra le tue braccia ancora….
(Da “Nuda”, 2008)

 

INDICE DEI NOMI

Abbado, Claudio 
Adrià, Ferran 
Aguilera, Pato 
Al Fayed, Dodi 
Albanesi, Gabriele 
Angela, Piero 
Argento, Dario 
Arisa , 
Armani, Giorgio
Avati, Pupi 
Baglio, Cataldo
Baglioni, Claudio 
Baldassarri, Mario
Barbato, Andrea 
Barenboim, Daniel
Bartali, Gino
Bartali, Marina 
Basinger, Kim 
Bastard sons of Dioniso
Battaglia, Daniele 
Battaglia, Dodi 
Battisti, Lucio 
Baudo, Pippo 
Bela Lugosi 
Bellezza, Dario
Benedetto XVI
Bergoglio, Carlo 
Berisa, Ferdi 
Berlusconi, Silvio 
Bevilacqua, Alberto 
Biagi, Enzo 
Bianchetti, Lorena 
Bianconi, Francesco 
Bignardi, Daria 
Binetti, Paola 
Biondi, Mario 
Bizet, Georges 
Boccaccio, Giovanni 
Boisfer, Rodrigue 
Bonaparte, Napoleone
Bondi, Sandro 
Bongiorno, Mike 
Bottino, Roberta
Boulez, Pierre 
Brancati, Vitaliano 
Bruno, Giordano 
Calabrese, Giuseppe
Calabrò, Corrado
Calamai, Clara 
Canino, Francesco
Canova, Antonio
Carrà, Raffaella 
Carta, Marco
Casalegno, Elenoire 
Cattleya 
Cerato, Alcide 
Chaucer, Geoffrey 
Chéreau, Patrice 
Chiambretti, Piero 
Chung, Myung Whun 
Comazzi, Alessandra 
Conte, Paolo 
Coppi, Andrea 
Coppi, Fausto
Corona, Fabrizio 
Coscia Cavagna, Enrica
Cossiga, Francesco 
Costanzo, Maurizio 
Craxi, Bettino 
Cristicchi, Simone 
Cuccarini, Lorella
D’Alessio, Gigi 
D’Anna, Danilo
d’Annunzio, Gabriele 
Dandini, Serena 
Daniele, Pino
Dante, Emma 
De Amicis, Edmondo
De Bortoli, Ferruccio
De Filippi, Maria 
De Filippo, Eduardo 
De Gasperi, Alcide 
De Santis, Giuseppe 
De Sica, Vittorio
Del Basso, Cristina 
della Porta Raffo, Mauro
della Porta Rodiani Carrara, Enrico 
Delpino, Marco 
Di Benedetto, Ida 
di Donna, Andrea 
di Marco, Ginevra 
Diana Est 
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Doherty, Pete 
Dolcenera
Domingo, Placido 
Donetti, Giorgio 
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Dossi, Carlo
Dotto, Giancarlo 
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Faletti, Giorgio
Fazio, Fabio 
Fede, Emilio 
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Fini, Massimo 
Fiorello, Rosario 
Florio, Gianfabio
Floris, Giovanni 
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Frizzi, Fabrizio 
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Gaetano, Rino 
Garrone, Matteo
Gatti, Daniele 
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Gerini, Claudia
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Livraghi, Giancarlo
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