Edizione n. 4

INTRODUZIONE Cesare Lanza - Auguri irrituali

Mentre scrivo questa nota, sono consapevole di essere di pessimo umore: da buon metereopatico, mi è inflitta una malinconia aggiuntiva da una Roma, città fascinosissima quando è illuminata dal sole, oggi (29 novembre 2007) coperta da nubi inquietanti. Quindi, può essere che il mio pessimismo globale ne risulti estremizzato.

Fatto sta che alla fine del 2007, alla vigilia del 2008, le mie previsioni sono nerissime: non trovo lo spazio per prospettive felici da augurare ragionevolmente a questo nostro infelice e tormentato Paese. Sono angosciato anche dai pensieri legati a ciò che lasciamo in eredità ai nostri figli. E non credo che i giovani, su cui sempre nei momenti bui si fondano le speranze di svolta e di riscatto, siano attrezzati, pronti e fiduciosi a battersi per ricostruire la nostra società sulle rovine che gli lasciamo.

Sì, mi dispiace dirlo – ma il mio pessimismo è totale. I giovani sono cresciuti in una società decadente – da tardo romano impero – volgare e grossolana: mentre l’Italia diventa sempre più povera, abbiamo indicato ai nostri figli un solo riferimento da raggiungere per la loro vita, il denaro, il successo legato al denaro.

Denaro, denaro, denaro; ricchezza, ricchezza, ricchezza. Da raggiungere, in un Paese storicamente infettato da Machiavelli e dall’arte di arrangiarsi, con qualsiasi mezzo, perché il fine (il denaro, il successo) giustifica il mezzo. Ma se questa orribile e dilagante educazione a vivere senza valori e senza sentimenti non bastasse, c’è un’altra amara considerazione che mi impedisce di pensare che dai nostri giovani possa arrivare la rinascita. Ed è questa. Oggi i giovani sono convinti, nella stragrande maggioranza, che comunque non ci si possa affermare, non si possa arrivare al successo, secondo criteri di meritocrazia: indispensabile, pensano, è sempre la spintarella, la raccomandazione, l’appartenenza ad una casta. In sintesi rozza: il calcio in culo.

Non è così, non è sempre così, non è del tutto così. Ma basta guardarsi intorno per capire che questa rassegnazione è giustificata da migliaia e migliaia di esempi distruttivi. È uno dei disastri che si sono delineati nel progressivo, e ormai incrollabile, scollamento tra la classe che detiene il potere politico ed economico e la gente della società reale. Mille volte ho scritto che, alla fine, se un giovane ha una vera vocazione, un vero talento, una vera determinazione, potrà riuscire a farcela, a imporsi, a spazzare via ogni meschino ostacolo. Mille volte l’ho detto e scritto e mille volte sono stato contestato: da genitori incazzati neri e da giovani frustrati, delusi, avviliti.

E comunque, vero o no che sia lo slogan sempre più diffuso (la spintarella è indispensabile e io non ce l’ho!), l’alibi psicologico e morale diventa devastante: perché impegnarmi, se comunque non ce la farò, sarò sempre preceduto da chi è raccomandato, da chi ha un sottosegretario almeno, un vescovo, un imprenditore alle spalle, per essere assistito ed evitare la fatica di misurarsi?

Mi chiederete: ma allora quale speranza esiste? Per me, nessuna possibilità, tra le ipotesi benefiche. Per società precipitate in una crisi come quella italiana di oggi, con una gioventù priva di ideali e una classe dirigente priva di onestà e di autocritica, storicamente la svolta può arrivare solo da qualche evento traumatico: guerre, tragedie epocali… sì, eventi che ci spezzino la schiena, ci buttino nel fango e nell’orrore, ci costringano a specchiarci e ci inducano a rimboccarci le maniche, a ritrovare una buona coscienza.

Ma è giusto scrivere tutto questo, nel momento della grande finzione universale, il vecchio anno da buttare, l’anno nuovo da salutare, le bottiglie di champagne da stappare?

Non è giusto, non è opportuno. E vi chiedo scusa. Perché resta, comunque, la voglia di fare qualcosa di positivo, di essere ascoltati dai nostri figli, il desiderio di costruire. È l’eterna illusione. Ma c’è. E l’illusione più importante è quella che anima questa rivista: saper cogliere gli attimi fuggenti, tentare qualche riflessione sul senso e sul non senso della vita, vivere come persone per bene, credere nella nostra libertà, da difendere sempre, e in quella degli altri, da tutelare e non offendere mai, far circolare le nostre idee, senza compromessi e senza dipendenze.

Può servire a qualcosa? Forse no. Temo di no. Ma è tutto ciò che possiamo fare, servirà almeno ad alleviare nella nostra anima il dolore che ci porta la visione, aspra e disperata, del mondo. Sono auguri irrituali. Ma ve li dedico con il cuore. Arrivederci nel 2008. E guarda un po’! Dietro quelle nuvole (lo so, l’eterna illusione è una trappola, ma già mi sento un po’ meglio) sta rispuntando il sole, un raggio pallido, pallido – ma, mi sembra, tenace.

Cesare Lanza


GUILLAME APOLLINAIRE
E i loro volti erano pallidi
spezzati i loro singhiozzi.
Come la neve dai petali puri
o le tue mani sui miei baci
cadevano le foglie autunnali.(“La partenza”, 1913)
COPERTINA Ottavio Rossani - Sciascia, l'uomo che non poteva ridere

Illuminista. I suoi miti letterari erano Voltaire e Stendhal. La sua città Parigi

Ottavio Rossani *

L’incontro con Leonardo Sciascia è stato di quelli che cambiano le persone. Forse io non avevo bisogno di trasformare la mia vita, già proiettata verso la responsabilità sociale, verso la professione giornalistica, intesa come testimonianza sulle persone e sulle cose, quindi devota ad un criterio di verità (non di obbiettività, che secondo me non esiste). Ma Sciascia per me ha significato qualcosa di più.

Averlo conosciuto, avergli parlato molte volte, quando passava da Milano o quando io facevo un salto a Roma per lavoro, aver scritto il libro “Leonardo Sciascia” (Luisè, 1990) sulla sua vita e soprattutto sulla sua opera di scrittore, di parlamentare, di “voce nel deserto” (“da quando non c’è più Pasolini, mi accorgo che sono rimasto l’unico a urlare della politica e della società”, ha scritto una volta; sul fatto che fosse considerato già allora la “coscienza critica” del nostro Paese in avaria, egli ha scritto: “mi duole l’Italia”): tutto questo mi ha permesso di approfondire con lui il dialogo culturale e in qualche modo anche il rapporto umano.

Certo, tra noi non c’è stata un’amicizia conviviale né familiare: non sono mai stato a casa sua durante tutta la sua vita; quasi a visitare un piccolo museo, mi sono recato nella sua casetta di campagna, in contrada Noce, a Racalmuto, soltanto molti anni dopo la sua scomparsa, insieme con Matteo Collura, il collega giornalista/scrittore che gli ha dedicato, a sua volta, una monumentale biografia dal titolo “Il maestro di Regalpetra” (Longanesi, 1996), divenuta ormai un cult per gli appassionati di Sciascia.

Ho conosciuto la moglie solo in occasione di un convegno sullo scrittore, in Sicilia, ma non ho mai avuto con lei familiarità o frequentazione. Così come con le figlie. Quando sono andato nella casa alla Noce, sono entrato quasi con devozione, come si fa, per esempio, in casa Leopardi a Recanati o nella casa del Manzoni a Milano. Mi sono soffermato a lungo nello studiolo al primo piano dove egli ha scritto quasi tutti i suoi libri. Lo faceva d’estate quando si ritirava lì con la famiglia e per un mese, o più, metteva su carta la materia che per molto tempo aveva elaborato facendo ricerche e leggendo documenti.

In quello studiolo ho conosciuto il nipote prediletto dello scrittore e ho potuto “guardare” alcune stampe da lui molto amate, qualche fotografia, e alcuni classici che non si stancava di rileggere. Egli stesso si definiva discepolo del Manzoni e diceva che ne “I promessi sposi” c’era già l’Italia di ieri e quella di oggi, con pregi e difetti, con le contraddizioni e lo scetticismo che contraddistingue le diverse popolazioni delle regioni italiane, malamente unificate dagli uomini del Risorgimento.

E si definiva anche illuminista. I suoi miti letterari erano, tra gli altri, Voltaire e Stendhal. La città che gli permetteva di respirare un’aria internazionale era Parigi, dove andava almeno una volta all’anno, per un mese, spesso però due. Sciascia è stato lo scrittore siciliano che si è allontanato di più dalla Sicilia, pur restando sempre lì residente, abbarbicato come un dattero di mare al suo scoglio.

Il mio primo incontro con lui è stato a Milano. Una lunga conversazione nell’atrio dell’Hotel Manzoni, in via Santo Spirito, proprio dietro la Galleria Manzoni. Il quadrilatero tra via Montenapoleone e via della Spiga, tra via Santo Spirito e la parallela via Manzoni, era il suo spazio stendhaliano che amava di più. Da lì partiva per le sue passeggiate milanesi, che lo conducevano nelle gallerie d’arte, nelle librerie (negli anni Settanta non mancava di andare a trovare il suo amico libraio Gaetano Manusé che aveva un chiosco in piazza san Fedele, libraio che ogni tanto si improvvisava anche editore con volumi di grande pregio e stile: è stato lui, infatti, a editare, per primo, i tre capitoli iniziali del capolavoro di Vincenzo Consolo, “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, proprio su suggerimento di Sciascia, romanzo che poi è stato pubblicato da Einaudi (1976) e da Mondatori (1987).

Galleria Manzoni: per lui era un luogo e un destino. Il suo amato Alessandro Manzoni riviveva in tutti gli spazi milanesi dove don Lisander aveva portato i suoi piedi e la sua testa, quindi quella Galleria che portava il suo nome era un po’ il regno milanese di Sciascia, perché lì, allora sorgeva una libreria cui facevano capo tutti gli intellettuali di Milano, la Libreria Einaudi diretta Wando Aldrovandi, che si era conquistato l’amicizia dello scrittore siciliano perché era molto schivo, non amava parlare molto di sé, aveva una cultura enciclopedica, ma soprattutto era sempre aggiornato sulle iniziative editoriali. Non raccontava quasi mai la sua storia di partigiano.

Aveva militato nelle Brigate Garibaldi, con un incarico prestigioso. Aveva scritto di lui Alberto Vigevani nel libro “L’educazione borghese”: “Al e io eravamo compagni di scuola, alle elementari di via Spiga. Lui era bello, alto, aristocratico, un po’ inglese… Andavamo insieme ai giardini, in monopattino. Poi non l’ho più visto, per anni. Ma una notte in Svizzera, dov’ero andato per conto del Cln, me lo ritrovai davanti: il mio compagno di giochi era diventato un grande partigiano”.

Leonardo entrava, molto spesso, di mattina, nella libreria a chiacchierare con Aldrovandi, ma anche per guardare qualche stampa, per saggiare le novità librarie. Poi andava a pranzo in qualche trattoria del centro con uno o due dei tanti amici che aspettavano la sua permanenza in città per omaggiarlo, fargli compagnia, conversare o semplicemente passeggiare per il centro. Sciascia aveva un certo numero di amici in Italia e in Francia, con i quali teneva un rapporto intenso, anche quando era lontano da loro. A Milano ne aveva tanti (cioè, in realtà, pochi, ma fedeli e importanti per lui) e non bastavano i giorni per rivederli tutti e stare un po’ di tempo insieme con loro. Perciò l’appuntamento che mi aveva dato, per telefono, direttamente in albergo, era un evento eccezionale.

Non mi aspettavo, quando ero riuscito a raggiungerlo per telefono a Palermo, che nel giro di tre giorni mi avrebbe fissato quell’incontro: infatti, la rivista per la quale avrei scritto l’articolo non era certo qualificata come “culturale” per via della sua tradizione di riempire il corpus centrale di immagini di donne nude, più o meno; inoltre, non mi conosceva. Più tardi sono venuto a sapere che si era documentato su di me chiedendo notizie a qualche suo amico del “Corriere della Sera”.

L’aveva fatto con molta discrezione e aveva chiesto la stessa cosa agli interlocutori. Nei rapporti umani era così: contenuto, rispettoso, attento a non apparire aggressivo, spesso suadente con la sua riflessione. A quell’epoca io lavoravo per il Corriere d’Informazione, solo qualche anno dopo sarei passato alCorriere della Sera.

Appuntamento quindi nella hall dell’hotel Manzoni. Mi sono seduto non di fronte, ma di fianco a lui, su un divano dal quale entrambi potevamo guardare l’ingresso e il bancone del ricevimento. L’arredamento leggermente old style non era sgradevole, anzi aveva un che di familiare, di tradizionale, insomma non metteva a disagio. Chi passava davanti a noi, se riconosceva Sciascia, lo salutava da lontano, ma non si avvicinava perché si capiva che stava parlando con un ospite, cioè con me.

Intervistarlo lì, in esposizione al pubblico sia pure discreto, non era stato facile. Prima di tutto perché lui non parlava molto, aspettava le domande e dava risposte laconiche. In secondo luogo, anche se io avevo preparato una serie di quesiti che spaziavano dai suoi romanzi al suo impegno politico ai film tratti dai suoi libri, tuttavia non ero a mio agio. In quell’ora e mezza che passammo insieme tra le mie domande e le sue riflessioni il risultato non mi sembrò soddisfacente.

Probabilmente egli si rese conto della cosa, perché a un certo punto mi disse che avrebbe dovuto incontrare un paio di amici per pranzo e, se gradivo, avrei potuto accompagnarlo nella passeggiata per arrivare al ristorante Ciovassino (vicino a Brera, in via Ciovasso, era molto frequentato, allora, da gente della cultura, ma anche da giornalisti e da persone impegnate nella moda o nelle gallerie della zona), e restare a pranzo. Avremmo potuto continuare a parlare, sperando che i suoi amici non mi disturbassero.

Era proprio quello che desideravo e non osavo chiedere, perché sapevo che nessun incontro è migliore di quello che avviene a tavola. La conversazione conviviale, che spazia da argomenti di semplice attualità a riflessioni profonde, come lui sapeva fare, ero convinto che sarebbe stata la più sostanziosa, la più significativa. Al tavolo ricordo che c’erano con noi un suo amico carissimo, il fotografo Ferdinando Scianna, e Franco Sciardelli. Sciascia con me è stato amabile.

Non mi ha abbandonato, e mentre parlava con l’amico fotografo, con il quale aveva in comune la passione per Parigi – e molte volte si mettevano d’accordo per incontrarsi lì e girovagare sui lungoSenna, a scatenarsi sulle bancarelle dei bouquinistes alla ricerca di reperti interessanti (soprattutto incisioni o stampe) da portarsi a casa con pochi franchi -, si rivolgeva a me spiegando e facendo confidenze che mi permettevano di entrare nella conversazione in modo diretto e senza timidezze.

Naturalmente Scianna ha fatto centinaia di fotografie molto belle del suo amico scrittore nelle vie di Parigi. Da allora sono diventato amico anche del fotografo. Sciascia non rigettava alcuna delle domande che lì al tavolo facevo sull’abbrivio degli interventi ora suoi ora dei suoi amici. Così tutto è stato naturale. L’incontro formale si era trasformato in una piacevole, arguta messa a punto degli argomenti che stavano a cuore a me e a lui. Tra l’altro, un elemento mi gratifica ancora oggi: quando è uscito l’articolo mi ha telefonato per farmi i complimenti “per aver rispettato il mio pensiero” – mi ha detto – “nonostante lei non avesse scritto molto sul suo taccuino. Buona memoria e correttezza. Una cosa un po’ rara tra i giornalisti”.

Devo dire che l’allora direttore di Playboy, Paolo Mosca, con il quale eravamo stati, per poco tempo, compagni del corso di laurea in Scienze politiche e sociali all’università Cattolica di Milano, da dove lui era sparito presto per dedicarsi prima alle canzonette partecipando a un Cantagiro, poi al teatro e infine al giornalismo, aveva collocato l’intervista sotto la rubrica intitolata, riprendendola dall’edizione americana,candid conversation, cioè interviste a tutto tondo e senza reticenze a personaggi più o meno discussi. E questo aveva favorito la possibilità di pubblicare, per intero, la lunga conversazione condotta nelle diverse fasi della giornata.

Perché, dopo il pranzo, è stato inevitabile partecipare ad una lunga passeggiata digestiva per il centro della città, via Brera, la Scala, la galleria, corso Vittorio Emanuele, san Babila, poi corso Matteotti, Montenapoleone, e infine ritorno in Santo Spirito, in albergo. Lì, i saluti, ancora una volta brevi e rapidi: “arrivederci e buon lavoro”.

Da allora ci siamo incontrati diverse volte. Anch’io sono diventato uno dei suoi amici “milanesi”, che avvisava quando stava per arrivare in città, in modo che ci scappava una passeggiata, o una colazione insieme con altri suoi amici, sempre comunque un dialogo letterario e anche sull’attualità, per via degli articoli che a un certo punto aveva cominciato a scrivere anche su problemi politico/morali.

Ho fatto appena in tempo nel 1989 a comunicargli che avevo preso l’impegno di scrivere un libro su di lui e sulla sua opera e che quindi avrei voluto incontrarlo un po’ più spesso. Non è stato possibile perché era già malato. Anche se ha soggiornato per diversi mesi a Milano per curarsi, non ho mai avuto il coraggio di disturbarlo con altre richieste. Il libro l’ho finito dopo alcuni mesi dalla sua morte ed è stato pubblicato nel giugno del 1990.

Ecco come ho riassunto le fasi dell’incontro con Sciascia e dell’intervista nel mio libro, in un capitolo dal titolo “Un uomo che spera”:

Passeggiata stendhaliana

Conobbi Sciascia nel 1976, in occasione di un’intervista. A quell’epoca su “Playboy”, in apertura, erano pubblicate delle candid conversation. Incontri ravvicinati con personaggi di successo o che valeva la pena ascoltare. Insomma dei modelli, uomini che potevano essere di riferimento a un pubblico che, progressivamente, si stava distaccando da vecchi “maestri” e non ne trovava di nuovi ai quali rapportarsi. Erano, quelli, i primi “anni di piombo”. La società italiana era lacerata dalle incursioni violente dei gruppi eversivi, che tentavano la strada della rivoluzione. Cera molta confusione. Molti “cattivi maestri” imperversavano.

Quando telefonai a Sciascia, egli non negò la cortesia di incontrarmi. Ma sentii nella sua voce una certa perplessità ad “esibirsi” su una rivista che non godeva di fama edificante. Ma Sciascia era abituato a non giudicare sulla base delle apparenze. Oltre ai nudi, quel mensile “per soli uomini” proponeva servizi, inchieste, e interviste “di peso. Mi diede appuntamento nella hall dell’hotel Manzoni alle dieci del mattino.

Tra un caffè e una sigaretta, cominciò a rispondere titubante, o meglio, se così posso dire, un po’ diffidente. L’intervista, insomma, non funzionava: troppo formale, troppi steccati. La non conoscenza tra noi, nonostante la sua gentilezza, era come se bloccasse ogni naturalezza.

Lo guardavo e lo ascoltavo con atteggiamento “rapito”. Forse come lui guardava, a Caltanissetta, Vitaliano Brancati uscire dall’istituto dove insegnava con un fascio di giornali sotto il braccio. Lo sentivo “inarrivabile”. E pensare che in tanti anni avevo incontrato quasi tutti gli scrittori italiani: e in genere i colloqui, sempre lunghi e approfonditi, erano stati più semplici. Con Riccardo Bacchelli, per esempio, sin dalla prima intervista, nel suo arruffato studio di via Borgonuovo, la comunicazione era stata torrentizia. Così, con altri, anche se avevano un carattere da grande combattimento: come Zavattini, come Prezzolini.

Con Sciascia c’era qualcosa che non andava, c’era una difficoltà. Non capivo che cosa, né perché. Forse era un inconsapevole eccessivo suo riserbo, una forzata cautela, per il fatto che l’intervista era destinata a “Playboy”? Pensai proprio questo. Ma nonostante la glacialità dell’approccio, mentre eravamo seduti nel salottino d’angolo, vicini ad una finestra, lì nell’albergo, su poltrone non molto comode, per cui lui stava con le braccia appoggiate sulle ginocchia, alternando i gesti, una volta il sorso dalla tazzina, un’altra la boccata dalla sigaretta, notavo nei suoi occhi tendenti a stringersi, sotto le sopracciglia che ogni tanto sussultavano, senza che si muovessero i muscoli del viso, dei lampeggi di curiosità. E mi faceva domande su Milano, sui giornali, sul mio lavoro. Quando gli chiesi se gli piacesse passeggiare per la città, fu come aprire una porta.

Accennai alla sua passione per Stendhal, e i suoi occhi brillarono, le labbra abbozzarono quel caratteristico sorriso che subito si ritraeva. Cominciò così, tra una fermata, uno sguardo e un’indicazione al palazzo o alla strada che per qualche motivo Stendhal aveva frequentato, un colloquio amichevole, naturale. Capì che non avevo fretta, che non ero il giornalista con le domande preconfezionate, che ero curioso di conoscere prima di tutto lui, e che volevo confrontare le impressioni dal vivo con quelle suscitate dalla lettura dei suoi libri.

“Vedo che l’ha letto”, commentò due o tre volte, davanti a qualche riferimento a un romanzo o un saggio. Passammo dal libraio Gaetano Manusè, che aveva la bancarella in San Fedele. Girovagammo in una splendida giornata di sole non calda, finché approdammo al “Ciovassino”, dove gli piaceva andare quando era a Milano.

Lì aveva, del resto, appuntamento con Ferdinando Scianna, appena tornato da Parigi, e con FrancoSciardelli, l’editore-tipografo che qualche anno dopo avrebbe dato il via a una deliziosa collanina di racconti con incisioni originali di pittori, “Gli amici della Noce”stampata apposta come omaggio a Sciascia. Brevi racconti scelti dallo scrittore tra i suoi amici scrittori che in genere frequentavano, d’estate, la sua casa di Racalmuto.

La preziosa raccolta comprende solo sei volumi: 1) Sciascia, con unincisione di Giancarlo Cazzaniga; 2) Vincenzo Consolo, con un’acquaforte di Luigi Guerricchio; 3) Matteo Collura, con un’acquaforte di Antonietta Viganone; 4) Mario La Cava, con un’incisione di Bruno Caruso; 5) Gesualdo Bufalino, con un’incisione di Luciano Cottini; 6) ancora Sciascia, con un’acquaforte di Walter Piacesi. Il progetto si fermò quando Sciascia si ammalò. Oggi la collana è una vera rarità per bibliofili, anche perché stampata in esemplari numerati e col torchio a mano.

Per tornare al primo incontro con Sciascia, in quella straordinaria giornata, ricordo che arrivati davanti al ristorante, mi invitò a restare a colazione con lui e i suoi amici. Lintervista perciò continuò al tavolo, ma con tono più confidenziale, tra una notizia e un commento. Diventò una di quelle occasioni particolari, in cui non è importante quanto viene detto, ma che cosa e come viene detto. Quando uscì sulla rivista il resoconto di quel dialogare, di quel passeggiare, cose che durarono diverse ore, egli mi telefonò per dirmi che era contento di avermi conosciuto.

Si compiacque del fatto che pur avendo fidato sulla memoria per realizzare quel reportage, avevo riportato le sue testuali parole. “Non era facile”, commentò. Da quel momento ci furono altri incontri. Certo, io non ebbi con lui la familiarità o lassidua frequentazione che alcuni altri possono vantare. Certamente, era nata un’amicizia intellettuale.

Ripropongo qui, integralmente, l’intervista pubblicata sul numero di agosto (la conversazione risaliva a maggio) di Playboy, per diversi motivi. Primo: perché è vasta ed esauriente. Secondo: perché nel 1976 anticipava, in modo organico, tutti i temi che poi, con maggiori riferimenti e particolari, egli avrebbe sviluppato nelle interviste diventate libri. Terzo: perché credo che nella sostanza mostri uno Sciascia “vero”, nel pieno vigore della sua forza polemica, con tutte le sue convinzioni fondamentali, nella sua grande umanità e nelle sue possibili “aperture” alle occasioni intellettuali successive.

Non era ancora lo Sciascia dolente e “toccato” dal “caso Moro” e dal “caso Tortora”: ma già stava constatando dall’interno le storture del potere politico, stando nel consiglio comunale di Palermo. In quell’incontro si mostrava ancora fiducioso in quella esperienza politica, e non parlò di dimissioni, che arrivarono l’anno dopo. Ritengo, perciò, che resti una testimonianza utile – sia pure datata – perché mai più ripubblicata.

Intervista

Nella presentazione, scrivevo così:

Leonardo Sciascia, lo scrittore imperturbabile. Mai perde la calma. Il suo volto, quasi rotondo, si muove lentamente solo perché i muscolini sopra gli occhi fanno sollevare le palpebre, oppure quando le labbra si spostano a sinistra in un sorriso o assenso inviabile, o in un dissenso sorpreso. È quasi normale, anche, fargli una domanda e aspettare lunghi minuti una risposta.

E allora si resta indecisi se porre un altro quesito oppure se quegli occhi, abbassati a fissare lasfalto o una vetrina, mentre cammina dondolando incerto ora sul marciapiede ora sulla strada, nascondano un pensiero che si sta formando lentamente, quindi una risposta meditata, concisa. Qualche volta le parole escono, brevi, secche, caustiche da quella bocca che, movendosi, solletica anche le rughe della fronte; altre volte invece il silenzio domina luomo, e chi gli sta accanto tenta di riportare in vita il dialogo.

Sciascia, nato a Racalmuto nel 1921, ha fatto il maestro elementare per vent’anni. Ora è consigliere comunale, eletto nelle liste del Pci, come indipendente, nelle ultime amministrative. Ha scritto una ventina di libri tra romanzi, saggi e un volumetto di poesie, “La Sicilia, il suo cuore”, quasi sconosciuto, che segnò ilsuo esordio letterario. Nei mesi scorsi, ancora una volta, è rimasto coinvolto in una polemica suscitata dall’uscita dell’ultimo film tratto da uno dei suoi libri “Todo modo”, diretto da Elio Petri.

Il regista, qualche giorno prima che la pellicola entrasse in distribuzione, aveva denunciato una serie di pressioni da parte di esponenti democristiani sulla società americana associata nella produzione alla Warner Brothers, con lo scopo di non far apparire il film sugli schermi italiani. Il potere democristiano,diceva Petri, in un momento cruciale per la sua sopravvivenza, con l’imminenza delle elezioni anticipate, aveva paura che un film critico sulla dissoluzione del sistema di governo, sulla corruzione, sulle lotte interne “baronali” della Dc, potesse assestare un altro colpo al processo di sgretolamento in atto dei fragili equilibri di potere.

“Todo modo”, infatti, descrive le sequenze di un ritiro per gli esercizi spirituali in un convento retto da un prete scettico ed erudito e in cui i meditabondi sono tutti esponenti della Democrazia cristiana. Nella vicenda, una serie di omicidi, finché non resta vivo alcun uomo di potere.

Già nel febbraio scorso un’altra polemica era sorta con il film “Cadaveri eccellenti” che il regista Francesco Rosi aveva tratto dal romanzo “Il contesto”, pubblicato nel 1971. In quel libro lo scrittore aveva anticipato i temi, oggi comuni nella cronaca nero-politica, della corruzione di ministri, di tentati golpe, della strategia della tensione, della corsa del Pci al compromesso storico e della corresponsabilità del partito rivoluzionario nella gestione degenerante della democrazia. L’accusa finale: il Pci ha rinunciato alla rivoluzione?

Qual è l’atteggiamento di Sciascia di fronte a queste polemiche? Nella querelle che puntualmente si ripete ogni volta che viene tratto un film da un suo libro (ricordiamo “Il giorno della civetta” e “A ciascuno il suo”, che tanto scalpore provocarono con i forti contenuti critici sul fenomeno mafioso), Leonardo Sciascia non entra mai da protagonista: se ne sta in disparte ad ascoltare, a curiosare, a sondare le reazioni, anche di quelli che non scrivono.

Ogni volta commenta: “Se il film fa così male, come accade anche con i miei libri, è segno che la realtà è stata descritta bene: non siamo di fronte a fantascienza quando si raccontano episodi che riguardano le deformazioni del potere, ma siamo di fronte ad ipotesi plausibili, quindi è naturale che colpiscano nel segno”.

Nei gialli di Sciascia, però, non ci sono soluzioni: perciò i lettori restano sgomenti e incuriositi, e ognuno può inventare la risposta agli interrogativi posti dai libri. Per questo i suoi romanzi sono stati definiti “gialli aperti”. Nei film, invece, spesso la sceneggiatura riscritta, sulla base dei libri, presenta nomi e situazioni che nei testi dello scrittore non ci sono, anche se si possono intuire. I libri quindi lasciano più libertà ai lettori, e alle loro congetture.

È un caso che le polemiche, le accuse, le tante possibili soluzioni dei puzzle costruiti da Sciascia, siano sempre di carattere politico? “Non è un caso – spiega lo scrittore – ho sempre voluto disegnare una società malata, cerco di scoprire i suoi difetti. I miei tentativi, evidentemente, sono finora riusciti, se suscito tanto consenso ma anche tanto malumore”.

Ed ecco l’intervista:

Vuol parlare della polemica suscitata da “Todo modo” e prima ancora da “Cadaveri eccellenti”? Lei ha visto i film: che cosa ne pensa?

“Mi sono piaciuti. Ma í libri sono una cosa e i film un’altra. Sono opere autonome. “Cadaveri eccellenti” segue un po’ più da vicino “Il contesto”; mentre “Todo modo” è stato rifatto con molta libertà. Entrambi riecheggiano però lo spirito critico e mordace dei libri”.

Sì, ma le polemiche?

“Le polemiche sono in fondo la dimostrazione che il pugno ha colpito nello stomaco. La verità, non solo “non sempre è rivoluzionaria”, come dice Rosi nel film, ma è anche sgradita, almeno quasi sempre”.

La verità. Che cosa vuol dire, che i suoi libri e i film che ne hanno tratto si riferiscono a situazioni reali?

“Prendiamo “Il contesto”. Il libro è partito, scaturito proprio da un fatto di cronaca. Poi si è sciolto da solo sulla traccia dei giudici ammazzati a ripetizione. Così procede anche il film. Non credo che sia una cronaca di fatti accaduti, non potrebbe essere. Non si riferisce, perciò, in modo reale al fenomeno delle intercettazioni telefoniche, ai “golpe” spesso tentati nel nostro Paese, allo scoperto compromesso che ha inseguito fino alle elezioni anticipate il Partito comunista. Diciamo, allora, che le situazioni descritte, compreso il forse appena abbozzato quadro della strategia della tensione, sono ipotesi non lontane dalla realtà. Perciò il film ha conquistato il consenso del pubblico, e perciò ha provocato tante polemiche”.

Il romanzo “Il contesto” ha anticipato di anni sia i temi dei complotti, sia quelli delle istituzioni sconvolte, sia quelli del compromesso storico tra democristiani e comunisti. Lei non è contento ovviamente dell’avverarsi delle ipotesi romanzesche. Ci spiega allora come la pensa?

“Io non ho mai approvato il progetto del compromesso storico. Naturalmente mi dispiace che l’Italia stia andando alla deriva, con il discredito che colpisce polizia, magistratura, politici. Il compromesso non l’ho mai visto come soluzione alla decadenza del sistema politico. Ho sempre pensato al compromesso come a una ridistribuzione delle parti tra due componenti del potere”.

Ma qual’è l’alternativa in Italia, al punto in cui siamo?

“Il discorso, qui, rischierebbe di farsi troppo lungo”.

Tentiamo di farlo in breve.

“D’accordo. Allora brevemente ricorderò che il “Times” di Londra, in un articolo che tentava una radiografia dell’Italia, qualche mese fa, si chiedeva: “Perché il Partito comunista non dovrebbe avere la possibilità di dimostrare quel che può fare? Gli ultimi trent’anni della sua storia hanno dimostrato che in Italia i comunisti hanno accettato il sistema pluralistico e il gioco democratico di maggioranza e opposizione. Perché allora un partito logoro, povero di idee, pieno di corrotti, come la Democrazia cristiana, non dovrebbe passare all’opposizione e così, forse, rigenerarsi?”.

Al di là dei risultati elettorali, qual è la sua posizione politica? Alla luce della critica teorica al sistema di potere democristiano degli ultimi trent’anni, lei cosa vorrebbe in Italia?

“Vorrei un cambiamento di gestione. La Democrazia cristiana all’opposizione e la sinistra al potere. Perché non si potrebbe tentare in Italia un’esperienza di governo fatta da comunisti e soti? C’è chi dice che non si può tornare indietro, se le cose non funzionano. E c’è chi dispera che la Democrazia cristiana all’opposizione sappia e voglia rigenerarsi?”.

Parliamo di letteratura, ora. Della neo-avanguardia, che cosa ne dice?

Finita in una bolla di sapone. Dove sono le “rotture” che proclamavano di voler fare? Siamo rimasti, nonostante tutto, al dopoguerra”.

Prima ha parlato di Brancati come suo maestro. All’istituto di Caltanissetta dove lei studiava, lo ha avuto veramente come professore? Che cosa ricorda di quell’esperienza?

“Ricordo poco. Era impaziente, esuberante, con un linguaggio vivo e stoccante. L’ironia era la sua buona arma a scuola. Ma la scuola non lo interessava: finite le lezioni correva a casa a fantasticare le sue storie. Ma questo l’ho saputo dopo, quando egli si era trasferito a Roma”.

Lei ha coniato il termine, in francese, di sicilitude. Non è molto bello; è stato anche criticato per il suo significato spregiativo.

“Certo, è spregiativo. Non per la Sicilia, ma per quel fenomeno che da secoli opprime i siciliani: la mafia, la necessità di liberarsene, la mortificazione di essere chiamato fuori dall’isola “siciliano” quasi sempre con l’accompagnamento della smorfia. E allora “sicilianità” è il tentativo dei tanti esiliati e no di riscattare questa situazione meschina”.

E parliamo di mafia. Con lei è d’obbligo. In che modo lei ritiene di aver contribuito alla lotta contro la mafia?

“In nessun modo, in quanto la lotta alla mafia non c’è stata. La “Commissione antimafia”, che ha concluso di recente l’inchiesta cominciata nel 1963, non ha eliminato la mafia. Ci ha dato un’altra analisi contraddittoria, incompleta, imprecisa. Ma allora, perché istituire una commissione, non bastava l’inchiesta fatta nel secolo scorso da Sonnino?”.

Nei suoi libri si parla tanto di mafia, comunque.

“Certo, ma non nel senso che spesso si pensa: e cioè che i miei libri siano racconti di mafia e di mafiosi. Io dico invece che il costume mafioso si è diffuso ed è inarrestabile, sia al Sud sia al Nord”.

La mafia non si combatte, non si estirpa. Niente da fare?

“Non posso estirpare io la mafia. Il potere se n’è lavato le mani, perché è esso stesso mafioso, connivente, e protegge la mafia perché la sua esistenza fa parte del gioco. Sempre è stato così. Ripeto frasi di unaletteratura scontata. Ma quelli del Nord ridevano delle nostre truculenti e assurde storie di mafia: ora la sentono, la vedono e ne hanno terrore.

Ma non c’è niente da fare. La mafia è una piovra: e non si potrà farla morire finché esisterà l’attuale sistema del massimo profitto, raggiunto anche col delitto e con la corruzione. Bisogna andare alla radice del fenomeno, da sempre studiato, ma mai affrontato seriamente. Parole ovvie, anche queste. Basta”.

Lei prima ha detto che i premi non amano i solitari, per spiegarmi il perché a lei non vengono assegnati premi letterari. Però ha avuto il Prix Segnier, in Francia, molto importante.

“Sì, è vero. Ma i francesi amano i Robinson Crusoe, anche se letterati”.

Sciascia, lei crea personaggi nei suoi libri che sono grandi conoscitori del mondo illuministico, e le prestano il fiato alle citazioni. Per esempio, l’ispettore Rogas ne “Il contesto”, il prete scettico don Gaetano in “Todo modo”. Ci dia una spiegazione.

“La spiegazione è nella definizione che io do ai miei libri: racconti filosofici”.

Sposato, due figlie e nipotini. Qual e l’importanza della famiglia per lei, uomo e scrittore?

“La famiglia mi ha dato un equilibrio, una serenità, una regola di vita. Non ho sofferto, non ho avuto molte felicità. Ma sono diventato scrittore anche per questo”.

E per quali altre cose?

“Soprattutto perché sono nato in Sicilia. E poi perché sono rimasto in Sicilia, dove ho potuto fare, unico tra migliaia, le cose che volevo fare senza sottostare a condizionamenti o ricatti o umiliazioni. A differenza di tanti siciliani che perdono i loro connotati e la loro forza quando sono costretti ad uscire dal loro ambientenaturale e ad “inserirsi”, quasi sempre male, in altri tessuti sociali, stranieri e ostili.

È stato veramente e soltanto un danno l’emigrazione?

“C’è stato un periodo in cui l’emigrazione è stata la migliore forma di cultura proletaria; poi un altro periodo nel quale è stata la forma più comune di umiliazione e di sfruttamento; ora credo che l’emigrazione sia uno degli aspetti detonanti di questa società sbagliata e ingiusta”.

Se lei dovesse scegliere dove vivere, dove scrivere: quale luogo finirebbe per scegliere?

“Questa è una domanda molto vicina ai miei pensieri. Quante volte sono stato sul punto di abbandonareaddirittura la città e di rifugiarmi, definitivamente voglio dire, perché destate ci vado sempre, a Racalmuto. In un piccolo paese, nel proprio paese, anche se non sembra, si vive più liberi, più vicini a personaggi veri, non inventati come spesso ti accade di incontrare in città”.

Lei, in fondo, è uno dei pochissimi scrittori non nevrotizzati dal nostro attuale modo di vivere, soprattutto nelle grandi città.

“È vero. Ma non c’è niente di strano. Sono razionale, l’ho già detto. Applico la mia razionalità come sistema di vita. Alla mattina prevalentemente scrivo, prendo appunti. Alla sera, dopo cena, leggo, e poi vado a letto. Una vita da “paesano”, non da cittadino”.

Che cosa pensa di Berlinguer?

(Silenzio, per cinque minuti).

Scusi, Sciascia, Di Berlinguer, sì, che opinione s’è ,fatta?

“Come uomo mi è simpatico. Come politico, mi sembra più abile di Togliatti”.

Come sta andando la sua esperienza di consigliere comunale?

“È assolutamente detestabile”.

È terribile. Anche lei, pur essendo vicino da anni al Partito comunista, come molti altri intellettuali, sente inutile la sua presenza politica. È così?

“Non esattamente. La mia presenza politica, modestamente, credo sia utile. A me, prima di tutto, e poi perché non ambisco a posizioni di potere. Quindi posso dire sì o no a seconda delle circostanze, senza tener conto di convenienze. La mia esperienza è detestabile soltanto perché un intellettuale non è un politico.

Io arrivo in consiglio comunale ad ogni convocazione, e aspetto sempre due ore seduto in aula da solo finché, finalmente, arrivano gli altri. I quali si siedono, leggono il giornale, discutono tra loro mentre uno sconosciuto parla per tre quarti d’ora. Infine approvano senza tante storie fasci di delibere, e se ne vanno. E io mi accorgo che potevo anche starmene a casa”.

Insomma, perché non si dimette, se la sua presenza è inutile?

Non è inutile, l’ho detto. È detestabile: è diverso. E poi, ora c’è un sindaco che sta tentando di fare qualcosa. Le convocazioni sono regolari, ogni settimana. Prima, magari, passavano alcuni mesi, e la politicacomunale era decisa con gli squilli del telefono. Anche adesso, intendiamoci, quando i consiglieri arrivano in aula, i giochi sono stati già fatti.

Ma il piccolo cambiamento dimostra che potrebbe esserci un’inversione di rotta più profonda. Ma credo che questo sindaco o si adegua al vecchio metodo o sarà costretto ad andarsene. Il sistema di governare Palermo è sempre lo stesso. Se non cambia tutto, non c’è niente da fare”.

Sciascia, lei è uno scettico.

“Certo, sono scettico politicamente, e socialmente pessimista”.

Lei è ritenuto uno degli scrittori italiani più intelligenti. Viene tradotto molto all’estero, soprattutto in Francia. Che valore può avere per lei questa esperienza politica così detestabile?

“Un valore grandissimo. Mi ha permesso di conoscere, e di più la conoscerò, la mentalità dei politici”.

E che cosa ne ha concluso?

“Diciamo che ho fatto una prima e provvisoria constatazione: i politici non sono adatti al loro ruolo per incapacità storica e per nullità morale; la seconda è che uno scrittore è ugualmente inadatto per “mancanza di indizi”, cioè per l’inesistenza, in sé, di certe attitudini alla politica”.

I suoi libri sono notissimi in Francia. Un fatto raro per uno scrittore italiano. Come se lo spiega?

“Perché la mia scrittura è vicina all’esprit francese. Io amo i razionalisti, gli illuministi, ho sempre subitol’influenza di Stendhal, che io definisco l’ultimo illuminista, nato in ritardo. Perché il mio scrivere è più francese che italiano”.

Lei va spesso a Parigi, perché?

“E lei va spesso a fare una passeggiata, perché? Ecco, fuori dallironia, a Parigi ho molti amici. Ci sono tante mostre grafiche (colleziono stampe e opere grafiche), e poi ci trovo un’atmosfera letteraria che non c’è in nessuna città italiana. Dirò di più: mi affascina talmente, che alcune parti dei miei libri le ho scritte a Parigi, seduto a qualche tavolino da caffè. Ora non si pensi alla “grande generazione” degli americani, perché non ho niente in comune.

Però, nonostante tutto quel che avviene – la dissacrazione dei gruppuscoli, degli irregolari, dell’avanguardia – Parigi è la città più letteraria e più intellettuale d’Europa. Ecco, si respira quell’aria europea che Stendhal diceva di aver trovato in certi salotti di Milano”.

Insomma. Parigi, oh cara!

“No. Non si tratta di romanticismo. Sarebbe troppo banale. Il mio è un bisogno d’aria, di respirare un’ansia diversa. Insomma, è un “abitare diverso”.

Per questo, periodicamente passa anche da Milano?

No, è un’altra cosa. Anche a Milano ho molti amici. Ma di questa città amo soltanto certe cose e non altre. E forse mi serve come relax. Vengo sempre nello stesso albergo; qui dietro l’abside di San Fedele c’è il mio amico Manusè, che anche da un anno all’altro mi conserva libri solo per il gusto di consegnarmeli con le sue mani.

Comunque altri me li spedisce a Palermo. A Milano amo passeggiare per via sant’Andrea, via Spiga, e da Brera a san Babila. Il centro di Milano è bello. In queste strade Stendhal trovava ispirazione pari alla sensualità che avvertiva nei salotti di contesse piene di grazia, e poco intellettuali. E poi, ma forse più importante vedo come cambia in avanti la società italiana”.

Stiamo facendo il cammino a ritroso: dopo Parigi e Milano, per lei esiste Palermo. Roma, la saltiamo?

“Abito bene a Palermo. Esco poco, però, e solo per andare in qualche circolo o galleria. Incontro i soliti, vecchi amici, con i quali non parliamo di letteratura, anzi parliamo pochissimo. Quel che conta è la presenza fisica, non essere solo. A Roma, ho tentato anche di trasferirmi alcuni anni fa, di inserirmi: ma dopo un po’ ci ho rinunciato. Troppo caos, troppa approssimazione, troppa superficialità anche tra intellettuali. Ero proprio fuori quadro, lì”.

Da Palermo a Racalmuto, dov’è nato. Che cosa le è rimasto?

“Tutto m’è rimasto. La campagna, l’aria pulita, il mistero dei visi tristi, la saggezza antica, le chiese addobbate, gli occhi ammiccanti”.

Lei d’estate va a La Noce, e scrive, nel caldo. Che rapporto c’è tra caldo e scrittura?

“C’è un rapporto collante. Con il caldo, d’estate, mi consumo fisicamente su un libro. E quando torno in città mi sento libero da quell’idea continua e insistente, che mi faceva intravedere situazioni, personaggi, luoghi. Il caldo mi opprime e mi spreme: e da questa linfa alla rovescia escono le mie pagine che cerco di lasciare scarne come i pensieri asciugati da quel sole cocente”.

Lei dice: quell’idea insistente, continua. Quale idea?

“Io vivo a Palermo come un qualsiasi uomo che legge, scende a prendere il giornale, passa per l’aperitivo quasi sempre nello stesso bar. Per fortuna, con la mia piccola pensione e i diritti dautore, posso vivere ormai senza dover andare in un ufficio e fare orari fissi. E mentre svolgo queste attività, da pensionato, anche quando sono impegnato in consiglio comunale, io penso alle letture fatte, alle persone che ho conosciuto nei miei viaggi, alle cronache dei giornali.

Così comincia a nascere un’idea, una storia confusa, che man mano diventa chiara. Quando arriva l’estate, nella libertà della campagna, riesco a materializzare sulle pagine il disegno già tutto preciso”.

Così è nato anche “La scomparsa di Majorana”, l’ultimo racconto, diverso rispetto agli altri?

 “Il Majorana non è diverso, anzi è coerente con i temi che ho sempre affrontato. Il mistero della scienza non è stato risolto. Gli scienziati mi fanno paura. Perciò indagare sulla sorte di Majorana, che si diceva fosse scomparso per le prospettive agghiaccianti che era riuscito ad intuire per la bomba atomica, mi ha piano piano così avvinto che naturalmente è nato il libro. Mi pare che l’interrogativo interessi molti, dato che anche Majorana ha avuto un grande successo”.

Lei ha scritto anche testi per il teatro. Che cos’è per lei il teatro?

“Soltanto una variazione degli stessi interessi. Cambia il mezzo tecnico espressivo”.

Molti sostengono che il suo miglior romanzo sia “Il Consiglio d’Egitto”. Lì cè una figura di prete che riesce a raggirare la Chiesa, il principe, il popolino con le sue storie inventate. Anche in “Todo modo” uno dei protagonisti è prete. Perché questa figura ritorna nei suoi libri, e perché quasi sempre è un erudito, depositario di virtù intellettuali che altri personaggi non hanno e che legittimamente potrebbero avere?

“Perché la Chiesa, proprio nelle sue espressioni più comuni, non è altro che un numero di preti. Queste figure sono così incarnate nel tessuto sociale, che diventano emblematiche di situazioni grottesche, paradossali, che trovano spazio nelle mie storie”.

Come scrittore ha colpito i pilastri della società contemporanea: Stato, Chiesa, Famiglia. Quale rimane il più importante?

“Tutti e tre, se riuscissero ad essere veramente Stato, Chiesa e Famiglia. Ma tutti questi valori vanno rivisti, perché come sono strutturati, non rispondono più alle esigenze elementari della gente”.

Lei scrive pagine ambigue, allusive, ammiccanti; eppure logiche, razionali, semplici. Quando parla, però, è più lapidario, ed anche più ironico. Ne conviene?

“Non so. Lascio agli altri il giudizio. E poi non m’interessa. È importante che io sia quello che sono”.

Comunque, se mi permette, la sua scrittura è fortemente ironica. Una dote non molto congeniale, tranne qualche eccezione, agli scrittori italiani. Da dove nasce questa sua facoltà?

“Dall’essere siciliano. Spesso si crede che i siciliani siano o debbano essere tristi, dolenti, sofferenti. Non è sempre così”.

Ma lei ha un viso dolente, lei sembra infelice. Come mai?

“Io non parlavo dellaspetto fisico. Mi riferivo al linguaggio e alla scrittura. Pensiamo a Vitaliano Brancati: nelle sue pagine sulla Sicilia, su Catania, quanta ironia. Lui è un altro dei maestri, lunico forse siciliano. Aggiungo Pirandello, per il gusto dell’ambiguità, del doppio gioco delle parole. Comunque è di minore importanza nella mia scaletta degli scrittori che mi sono stati ispiratori e modelli di stile”.

Lei è un grande lettore. Qual è il livello degli scrittori italiani contemporanei?

(Silenzio. Passeggiata. Un amico lo saluta. Ancora qualche passo. Trascorre un quarto d’ora di silenzio).

“Non cè molta varietà, né novità. È molto migliorata la ricerca storica. Gli storici hanno imparato ad essere più scrittori. Ora sono capaci di farsi leggere, oltre che spulciare negli archivi. Perciò i saggi storici, oggi, hanno successo. La narrativa e la poesia, invece, stanno vivendo decisamente un periodo di mediocrità”.

I suoi libri sono facilmente sceneggiabili. Una fortuna. Qual’è il motivo?

“Sì, sono sceneggiabili. Forse perché le vicende, anche se paradossali, sono plausibili. E l’ambientazione è abbastanza precisa. Restano sfuggenti, talvolta, i personaggi. Ma quando scrivo non penso ai film, che del resto lascio fare agli altri. Io non intervengo mai. La mia presenza durante la lavorazione di un film condizionerebbe il regista, e non farebbe più l’opera autonoma che un film deve essere”.

Lei non reagisce quasi mai quando i critici trattano male un suo libro, che comunque si presta a molte interpretazioni e perciò a facili polemiche. Perché?

“Non reagisco. Intervengo solo se devo fare qualche precisazione nel caso che chi scrive lo fa a caso o senza aver letto l’opera. Capita troppo spesso ormai. Comunque, una volta pubblicato, il libro è lontano da me, ed è giusto che ne parlino gli altri. Ortega diceva che un libro esiste soltanto come somma dei differenti punti di vista”.

Lei ha nemici?

“Non credo di avere nemici. In politica ho avversari, oppositori anche astiosi. Come scrittore, ho rimbeccato qualche critico superficiale o poco razionale: qualcuno di questi magari non me l’ha perdonata. Non saprei però pensare a qualcuno che mi sia veramente nemico”.

Lei non scrive molto per i giornali, a differenza di altri scrittori. Perché?

“Perché dovrei scrivere, se non ho niente da dire? Non ho mai voluto quei contratti che stabiliscono, a priori, quanti articoli bisogna scrivere in un mese o in un anno. Se ho un’idea, un’opinione da comunicare, allora scrivo e chiedo ospitalità su alcuni giornali che accettano i miei articoli”.

Sciascia: pessimista, scettico, ironico. Ha detto che un libro è sempre frutto della speranza. l suoi libri nascono quando affiora questo filo di speranza?

“No, niente di tutto questo. Sono pessimista perché non posso entusiasmarmi davanti alla situazione in cui si trova questo benedetto Paese. La mafia è sconfinata dappertutto. Quando io dicevo che presto la mafia avrebbe invaso anche il Nord, mi ridevano in faccia come fossi un matto. Ora ci studiano sopra: si chiedono perché. La risposta non è poi complicata: la mafia attecchisce dove è possibile il parassitismo, dove l’uso spregiudicato e illegale delle risorse economiche è permesso. L’altra faccia del problema è il Sud: nessuno ha mai voluto veramente affrontare e risolvere la “questione”, né al Nord né al Sud.

Si può non essere pessimista davanti all’ondata di violenza di ogni genere che monta spaventosa? Nonostante questo mio sentimento di fondo, che è anche rassegnazione, sento che comunque non può finire così, non può essere solo questa la realtà. Il futuro può essere migliore, se si vuole. Una società giusta, in cui i cittadini siano garantiti contro i soprusi, in mille modi esercitati, è nelle possibilità dell’uomo.

Questa speranza, questo mio credere nella ragione degli uomini, entra naturalmente nei miei romanzi, anche se parlano di situazioni negative. Quindi non è il barlume di speranza che affiora dentro il mio pessimismo che mi porta a scrivere un libro. Accade il contrario, è il libro da me scritto che fa affiorare un sentimento di speranza. Perché scrivere un libro significa già sperare. La scrittura è il mio ottimismo”.

Come il lettore può constatare, le parole di Sciascia registrate nel 1976, 31 anni fa, appaiono ancora oggi terribilmente profetiche. Avrei voluto che la storia a lui successiva lo avesse smentito. Purtroppo non è così. La mafia è dilagata ed è più forte e presente che mai. Il Sud non esiste più: prima era una “questione”, oggi è soltanto un’ “espressione geografica” dalla quale si fugge oppure lì si è costretti a stare in silenzio, per non morire, e quelli che resistono al pizzo, alla prepotenza, alla prevaricazione vengono eliminati perché siano d’esempio a chi magari vorrebbe imitarli.

La società italiana ha perso la propria identità unificante: la gente non si sente popolo, ma solo cittadini calpestati da tasse, precariato, cattiva amministrazione, mancanza di servizi adeguati, nessun investimento nella ricerca scientifica e culturale, e soprattutto ingiustizie continue e palesi, mancanza di certezza del diritto, disaffezione per la politica. E si potrebbe continuare. Ma a che pro? Non ci sono parole più significative di quelle pronunciate da Sciascia rispondendo alla mia intervista di allora per descrivere la degenerazione sociale, politica e morale del nostro Paese, cioè di noi stessi.

* Dice di sé:
Ottavio Rossani. Giornalista al “Corriere della Sera”. Laurea in Scienze politiche e sociali. Come inviato speciale, ha viaggiato in Italia e nei diversi continenti, soprattutto in America Latina, firmando reportage, interviste, analisi su questioni e personaggi della politica, del costume, della letteratura. Ha pubblicato una decina di libri. Poesia: tra gli altri, “Le deformazioni” (Campironi, 1976), “Falsi confini” (Xenia, 1989), “Teatrino delle scomparse” (Periferia, 1992), “L’ignota battaglia” (Iride-Rubettino, 2005). Il romanzo: “Servitore vostro humilissimo et devotissimo” (Bonanno, 1995). Saggi: tra gli altri, “L’industria dei sequestri” (Longanesi, 1978), “Leonardo Sciascia” (Luisé, 1990), “Le parole dei pentiti” (Datanews, 2000), “Stato società e briganti nel Risorgimento italiano” (Pianetalibro, 2003). Ha curato alcune regie teatrali e diverse mostre personali e collettive dei suoi quadri (acrilici) in Italia e all’estero. Da ottobre 2007 è responsabile del blog dedicato alla Poesia sul “Corriere della Sera on-line”, il primo nel mondo su un quotidiano elettronico.

JOSEPH CONRADRisalire quel fiume era come compiere un viaggio indietro nel tempo, ai primordi del mondo, quando la vegetazione spadroneggiava sulla terra e i grandi alberi erano sovrani. Un corso d’acqua vuoto, un silenzio assoluto, una foresta impenetrabile; l’aria calda, spessa, greve, immota. Non c’era calore gioia nello splendore del sole. Deserte, le lunghe distese d’acqua si perdevano nell’oscurità di adombrate distanze.(Da “Cuore di tenebra”, 1899)

 

BELPAESE? Giuseppe Marra - Da Castelsilano ad un impero mediatico

Il fondatore di Adnkronos affronta le delicate questioni legate alla politica, all’etica e al pluralismo dell’informazione nella lectio doctoralis tenuta all’università di Foggia in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Economia. Proponiamo di seguito un estratto

Giuseppe Marra 

Per ragioni di studio e di lavoro venne il giorno in cui anch’io lasciai Castelsilano e Crotone, come mio padre, come tanti altri amici. La mia meta, rispetto alla loro, era però dietro l’angolo, era Roma. Ricordando quel momento, umilmente vorrei dire che sbaglia chi parla del Sud con sussiego. A questo atteggiamento, qualche volta indulgeva anche Gianni Agnelli, persona estremamente cortese e che stimavo molto. Una volta che ebbi l’occasione di incontrarlo gli suggerii di non sottovalutare il Sud, la Magna Grecia e lo stesso consiglio mi permisi di darlo più tardi al caro amico Cesare Romiti.

È innegabile. L’industria, la finanza, il lavoro guardano al Nord, a regioni come la Lombardia, il Veneto, il Piemonte. Queste regioni sono un riferimento preferito, dentro e fuori i nostri confini. Eppure il Sud è una cassaforte che custodisce patrimoni di valore inestimabile, e spesso inutilizzati, di intelligenza e cultura.

Il Meridione d’Italia andrebbe riscoperto e valorizzato. Andrebbero comprese le sue grandi capacità come i suoi autentici limiti; la sua cronaca, non solo nera, e la sua storia, non solo di brigantaggio e di perversa rivolta a tante sudditanze. Scusatemi la sincerità brutale, ma sento di dovermi esprimere così come meridionale che parla della sua terra.

Nonostante il globalismo culturale, noi meridionali non accettiamo le parole spinose dei forestieri. A volte abbiano le nostre buone ragioni per rifiutarle, perché chi le pronuncia spesso nemmeno sa chi siamo e quali siano i nostri reali vizi e le nostre autentiche qualità.

Tuttavia noi meridionali non dobbiamo cercare giustificazioni a tutti i costi, né elevare ad alibi la nostra cultura, la nostra intelligenza, i nostri valori di riferimento. Altrimenti rischiamo di restare fermi, di autocontemplarci e autocompiacerci invece di metterci in cammino verso il futuro. Né dobbiamo dimenticare che certi tesori, ereditati senza alcun merito, li abbiamo poi dissipati.

A chiuderci in noi, nel nostro orgoglio, nella nostra superbia rischiamo di parcheggiare il presente nel passato invece di rendere il passato presente. In una fase creativa della storia come quella odierna, questo errore sarebbe imperdonabile.

Grazie alla new economy, grazie alle interconnessioni planetarie, oggi l’intelligenza, la creatività e l’impegno contano quanto le risorse materiali delle quali l’uomo dispone.

Sì, il sole ora sorge per tutti, come diceva mio padre. Né è vero, come pure si ripete, che il momento sia impossibile. Il momento è invece buono, ottimo, per chi vuole osare. Dal travaglio di questi anni si può uscire forti, saldi. Un mondo nuovo, una nuova economia, una nuova politica, nuove occasioni si annunciano per tutti, per chi ha e per chi non ha. A condizione, però, che non si resti fermi né ci si attardi in comodi alibi. I verbi di movimento sono vincenti mentre i verbi statici sono perdenti, ripeteva un mio professore di lettere.

In una corrispondenza da Roma, l’inviato di un giornale americano mi ha definito – bontà sua – “l’uomo che ha messo in rete gli italiani nel mondo”. Si riferiva al fatto che la Giuseppe Marra Communications, il mio gruppo editoriale, ha puntato per primo su Internet per mettere in rete i nostri connazionali all’estero.

L’agenzia Adnkronos è stata, infatti, il primo mass-medium italiano ad alimentare in tempo reale le informazioni dirette verso le oltre quattrocento testate giornalistiche italiane all’estero, verso l’intera rete diplomatica e consolare, verso tutte le associazioni italiane all’estero e i singoli italiani e oriundi italiani sparsi sul pianeta.

Quella intuizione vincente fu suggerita proprio dalla mia esperienza di figlio di emigrante. Quella stessa esperienza mi rende ora sensibile al problema, tutt’altro che risolto, dell’informazione di ritorno. Infatti, se i nostri connazionali all’estero ormai sanno molto dell’Italia, l’Italia sa poco o nulla di loro, di quello che hanno fatto e fanno.

Non sa che le scelte politiche di nazioni importanti, addirittura di superpotenze e potenze, dipendono anche dal voto e dal prestigio di comunità italiane o di oriundi italiani. E parlo di Paesi come gli Stati Uniti, l’Australia, l’Argentina, il Canada.

Un dialogo più stretto tra italiani in Italia e italiani fuori d’Italia potrà rafforzare quella identità nazionale che altrimenti rischia di dissolversi nel mondo soprannazionale e globalizzato. Inoltre potrà favorire la conoscenza della nostra lingua, della nostra cultura e alimentere iniziative economiche, finanziarie, commerciali che contribuiranno ad accrescere la ricchezza nazionale.

E vengo all’informazione e comunicazione nel nostro tempo. Spesso mi sento chiedere quali problemi e responsabilità comportino lo sviluppo tecnologico e i mutati contesti culturali per i comuni cittadini oltre che per gli editori e i giornalisti. Cercherò di rispondere senza spogliarmi dei miei panni di editore e giornalista e indossarne altri che non mi appartengono e mi starebbero stretti o larghi, come quelli di teorico delle nuove tecnologie di telecomunicazione o di massmediologo.

Nessuno può ignorare la rivoluzione tecnologica che, quasi inavvertitamente, sta sconvolgendo l’universo della comunicazione. Secondo il noto istituto di ricerca giapponese Nomura, questa rivoluzione è tale se amplifica le capacità dell’uomo e dischiude nuove opportunità ai singoli cittadini e a intere comunità; se promuove la crescita e l’evoluzione del genere umano e, nel nostro caso, della Nazione italiana, così da metterla al passo di altre Nazioni avanzate e farla diventare una cyber-Nazione, una Nazione in movimento.

Come un tempo la nostra società è stata capace di passare dalla cultura agricola a quella industriale, così ora deve procedere speditamente verso le società delle reti, ossia verso società culturalmente integrate e fondate sulla combinazione tra informatica, elettronica e telematica.

Navigare nelle reti, in Internet, nel kaos attuale dell’informazione planetaria, richiede una cultura che divide e distingue le generazioni, richiede una preparazione specifica che permetta di ordinare, delimitare, codificare il kaos mediante sistemi software progrediti, tipo il motore di ricerca Google. In questo caso navigare nelle reti è semplice e bastano nozioni elementari per salpare.

Non dobbiamo però nasconderci i rischi che il mercato globale e le nuove tecnologie comportano, come quello assai delicato di ridurre il pluralismo e dunque la libertà dell’informazione. Infatti, il mercato planetario e le tecnologie più sofisticate impongono aziende editoriali sovradimensionate e perciò limitate nel numero. Lasciare l’informazione e la comunicazione planetaria nelle mani di pochi giganti favorisce strutture monopolistiche. Questa minaccia si può e si deve contenere, ma a condizione che si prenda coscienza di questi pericoli.

Editori, giornalisti e l’intera opinione pubblica devono comprendere le implicazioni e gli effetti estremi delle nuove tecnologie in qualsiasi campo del sapere e del fare. Come pioniere di queste tecnologie sono autorizzato a vantarne le potenzialità positive, ma anche a denunciarne quelle negative.

Agli inizi degli anni Novanta, intervenendo a una conferenza dell’informazione a New York, sono stato l’unico editore a presentare un progetto, Italy Global Nation, per mettere in rete i nostri connazionali sparsi nel mondo. Annunciando quel progetto, poi realizzato dal Gruppo GMC-Adnkronos, sono stato preso per un visionario, non solo da altri editori ma, ahimè!, da autorevoli colleghi giornalisti. Allora, il mondo editoriale e giornalistico italiano si attardava a dibattere se Internet potesse avere un’influenza planetaria fino a essere il principale mezzo di trasmissione. Eppure Internet esisteva dal 1969!

È grave, lo so, quello che dirò, ma non posso tacerlo. Ancora oggi, ormai senza più alcuna giustificazione visto lo sviluppo di Internet, non pochi operatori dell’informazione continuano in questo dibattito sterile.

Eppure ormai nessuno può dubitare che, quando ci sarà un computer su ogni banco delle scuole di ogni ordine e grado, Internet divorerà tutti gli altri mezzi di comunicazione – dal telefono alla radio, alla televisione, alla carta stampata – e creerà con le tecnologie digitali quelle condizioni di mercato, ovvero di pubblico e pubblicità, che rilanceranno a tutti i livelli – locale, nazionale, continentale, mondiale – la competizione tra portali e siti d’informazione e comunicazione.

Ho voluto fare questa premessa non per trarne motivi di vanto, ma per non essere accusato di neoluddismo per quanto dirò. Come l’editoria e il giornalismo sono ieri arrivati in ritardo a prendere atto delle potenzialità delle nuove tecnologie, così ora rischiano di commettere l’errore opposto. Vale a dire di dare risalto eccessivo al dato tecnologico rispetto ad altri dati di fondamentale rilievo, come quelli che riguardano l’attendibilità,  la qualità e l’eticità dell’informazione. A rischio di essere banale, vorrei ricordare che due sono i momenti essenziali del nostro lavoro di editori e giornalisti.

Il primo momento interessa i contenuti dell’informazione – notizie o opinioni – e la loro specificità secondo i diversi mass-media.

Il secondo interessa i modi e la velocità di trasmissione delle notizie e quindi le tecnologie utilizzate.

Tra questi momenti del lavoro editoriale e giornalistico ci sono correlazioni e reciproche contaminazioni che, a seconda dei singoli mass-media, influenzano i contenuti, la qualità e l’eticità dell’informazione con effetti socio-politici che possono essere devastanti.

Mi spiego. La tecnologia ha accelerato la trasmissione di dati e notizie. I mass-media raccontano gli avvenimenti nel momento in cui avvengono. Per verificare quanto veloce sia l’informazione basta seguire le agenzie, i televideo, i portali e i siti Internet, le emittenti radio e televisive.

Appena pochi anni fa, l’informazione in tempo reale era prerogativa quasi esclusiva della radio: per esempio, il calcio minuto per minuto forniva i risultati del campionato di calcio in tempo reale. Ora tutti gli sport si seguono in tempo reale e, quando questo non avviene come nel caso delle Olimpiadi di Atene, è solo per scelte dettate dall’audience e da calcoli aziendali di tipo economico-pubblicitario.

Ma il tempo reale non riguarda solo l’informazione sportiva, riguarda l’intera informazione, dagli affari interni a quelli internazionali, dalla finanza alla cronaca nera, all’economia, alla cultura, allo spettacolo.

Altro esempio tragico e clamoroso. L’11 settembre 2001 l’intero pianeta ha seguito in diretta l’evento bellico più terribile dopo la seconda guerra mondiale. L’attacco delle Twin Towers è stato, come Pearl Harbour, uno di quegli eventi capaci di mutare il corso della storia mondiale. Ma gli americani e l’opinione pubblica mondiale appresero dell’attacco a Pearl Harbour con ore o giorni di ritardo, l’intero pianeta ha sofferto, trepidato, pianto in tempo reale per l’attacco alle Twin Towers.

Questo induce a riflettere dal punto di vista della verità e della credibilità dell’informazione, e a porsi una domanda inquietante o che così appare. Le telecronache o radiocronache in diretta, quelle cronache pubblicate dai giornali nelle edizioni speciali – del tutto anacronistiche, tra parentesi, visto che quei giornali erano già vecchi una volta raggiunti i punti di vendita – erano relativamente fondate o relativamente infondate, relativamente veritiere o relativamente bugiarde?

Pensiamo al numero dei morti. Quel numero non è solo una macabra statistica. Chiediamoci, invece: le reazioni dell’Amministrazione e del Congresso americani, dei Governi e dei Parlamenti di tutto il mondo sarebbero state le stesse qualora le vittime annunciate dai mass-media non fossero state venti, trenta o quaranta mila, come in quelle ore si disse valutandole in base al volume degli edifici abbattuti, e non in numero notevolmente inferiore, come si è sostenuto più tardi?

Il rilievo umano e etico di quel dato avrebbe suscitato comunque reazioni straordinarie. Ma sarebbero state reazioni politiche di uguale o di diversa intensità?

Non dimentichiamo che quelle cifre hanno contribuito a spingere l’America e il Congresso a stringersi attorno al Presidente e a conferirgli poteri quasi illimitati. Era la prima volta nella storia che la Nazione americana si sentiva vulnerabile in casa perché erano state colpite le sue sedi istituzionali e finanziarie più rappresentative. Questa novità tremenda imponeva dunque reazioni politiche e militari proporzionali all’offesa, vale a dire non limitate nemmeno dal diritto internazionale.

A distanza di anni, alla luce di nuove informazioni, l’opinione pubblica americana e lo stesso Congresso hanno appreso verità e cifre diverse da quelle di allora. A torto o a ragione (non è questo il tema che interessa ora discutere), molti americani sembrano voler revocare una parte dei consensi e della fiducia allora concessi al Presidente in quelle ore di allarme senza precedenti.

Mi chiedo, chiediamoci. Di fronte a questo genere di notizie, come potevano o dovevano reagire i mass-media?

Potevano non ripetere le cifre, in verità neanche mai fornite dalle fonti ufficiali, che correvano in quelle ore, in quei giorni, nel sistema dell’informazione planetario?

La risposta è questa. I media non potevano tacere, né contestare quei numeri. Analoghe domande potremmo fare e analoghe risposte dare per le guerre poco raccontate e ancora meno viste in Afghanistan, nell’Israele di Sharon e in vaste regioni dell’Africa, così come per le armi di distruzione di massa nelle mani di Saddam, casus belli dell’attacco all’Iraq. Eppure questi conflitti hanno sollevato onde anomale, coinvolto l’opinione pubblica mondiale, suscitato consensi e dissensi ovunque, determinato scelte politiche, economiche, finanziarie.

Ho ricordato eventi macroscopici perché aiutano a capire più degli eventi minori come la velocità dell’informazione condizioni il sistema mediatico e incida sulla qualità della stessa informazione. L’eccessiva velocità può fare sì che la verità virtuale oscuri la verità reale o quanto meno le impedisca di emergere.

Influenzando in questa misura i sistemi mediatici nazionali e sopranazionali si potrebbe realizzare il paradosso che la verità reale diventi, rispetto a quella virtuale, secondaria, irrilevante, da pagine interne, secondo il vecchio gergo dei giornalisti dei quotidiani, con effetti pratici e morali intuibili. Per assurdo le moderne società immerse nella realtà virtuale potrebbero smarrire ogni riferimento con la verità e dunque con la vita reale.

All’origine di questo genere di rischi, in parte ipotetici e in parte reali, c’è l’esasperata velocità dell’informazione e la sua estrema, inevitabile superficialità. Il rischio non risparmia alcun aspetto della vita. Tutti possiamo essere influenzati, condizionati, da protagonisti virtuali i quali dominano i campi più disparati del sapere e del fare, le istituzioni, la politica, l’economia, la finanza, il lavoro, il costume, la cultura, lo sport. Protagonisti che crediamo di conoscere e invece non conosciamo affatto.

Lo crediamo attraverso notizie sempre meno verificabili, ma più veloci, che sono fornite dagli operatori dell’informazione. I quali, a loro volta, possono essere vittime e sicari virtuali a prescindere dalla loro volontà e moralità. Tutti possiamo contribuire, così, a rappresentare e a venerare semidei fasulli, protagonisti mai conosciuti o incontrati, ma disegnati da notizie di riporto in una catena virtuale della quale è impossibile sapere chi ha saldato il primo anello. A volte, paradossalmente, non lo sa neppure chi presume di essere l’autore di quella saldatura!

Altro esempio significativo. Prima però vorrei aprire e chiudere una breve parentesi. I miei esempi chiamano in causa il Grande Paese di John Dos Passos perché è la mia seconda patria per quello che ha dato a mio padre e alla mia famiglia, ma anche perché come unica superpotenza l’America è il perno intorno al quale ruotano i destini del mondo, il progresso o il regresso dell’umanità, di sei miliardi di uomini.

L’esempio che intendo fare riguarda George W. Bush, la sua elezione, la sua presidenza. Quattro anni fa la maggioranza degli elettori americani elesse un Presidente di cui sapeva poco o nulla, se non chi fossero il padre e la madre. Un anno dopo gli conferì poteri pressoché illimitati. A tre anni dall’attacco alle Twin Towers, lo ha sottoposto a un processo mediatico fondato anch’esso su dati virtuali. In pratica un certo numero di americani lo ha accusato di non averli avvertiti su quello che sarebbe successo l’11 settembre e di non aver valutato adeguatamente le informazioni ricevute dagli organi di sicurezza. Così, stando ai “si dice”, Bush sarebbe stato avvertito di probabili attacchi terroristici di Al Qaida con l’uso di aerei civili. Nei mesi successivi, questo genere di accuse ha investito gli organi di sicurezza che avrebbero fornito allo stesso Presidente informazioni generiche sull’attacco alle Twin Towers e addirittura infondate sulle armi di sterminio di massa nelle mani di Saddam.

Non interessa in questa sede, ripeto, quale sia la verità; interessa osservare che si processa un Presidente sulla base di “si dice” virtuali promossi a verità reali. Supponiamo che i servizi d’informazione avessero trasmesso a Bush una serie di ipotesi: da quelle di attacchi alla centrali nucleari a quelli di inquinamento delle reti idriche o altro. Queste ipotesi generiche potevano bastare al Presidente per disporre, non si sa per quanto tempo, la paralisi o la semiparalisi degli Stati Uniti?

Nel caso Bush avesse fatto queste scelte sulla base di informazioni relativamente fondate, non avrebbe rischiato di cedere al ricatto dei terroristi e gettare nel panico gli americani più di quanto abbia fatto l’attacco dell’11 settembre?

Infatti, paralizzando l’America intera, quella ipotetica opzione avrebbe prodotto danni meno spettacolari, ma sostanzialmente più gravi di quelli provocati dall’attacco alle Twin Towers. Eppure, agli occhi dell’America e del mondo, il Presidente Bush è stato costretto a difendersi da accuse virtuali, fino a prova contraria, come fossero reali.

Enormi, drammatici possono essere dunque gli effetti reali dell’informazione virtuale, superveloce e non verificabile, acritica e forse non veritiera. Questa informazione solleva problemi anche sotto l’aspetto etico e su di essi dovremmo riflettere tutti, cittadini, istituzioni, operatori dell’informazione e della comunicazione, editori e giornalisti.

Il quesito di fondo è come conciliare l’etica della responsabilità e la qualità dell’informazione con la velocità delle notizie resa possibile dalle nuove tecnologie.

Il pluralismo, dicevo. Ecco l’altra, e non meno grave minaccia, alla libertà d’informare e di essere informati, dovuta al mercato globale e a imprese sovradimensionate. Il rischio che pochi giganti informino sei miliardi di uomini mediante reti attraversate da flussi di informazione inarrestabili e non contrastabili, è già presente nel settore editoriale.

In questi casi il problema è dato dalla quantità dell’informazione piuttosto che dalla qualità, che nemmeno è considerata e discussa (potrebbe farlo solo qualche nano sciolto). Questo è un pericolo drammatico perché tocca lo stesso sviluppo della democrazia nel mondo.

Conoscendo il campo in cui opero da tanti anni, onestà intellettuale m’impone di credere che solo se sarà difeso il pluralismo delle fonti, la libertà resterà l’asse inattaccabile del sistema dell’informazione e le soluzioni ai problemi indicati saranno imposte dalla stessa opinione pubblica.

I dati Auditel più recenti e quelli delle vendite dei giornali segnalano crescenti segni di insofferenza verso l’informazione non veritiera, drogata, sensazionalistica, del mordi-e-fuggi.

Questi segnali obbligheranno editori e giornalisti a scegliere se diffondere in tempo reale tutte le notizie a tutti i costi, anche quelle non vagliate e prive di fonti responsabili. O se invece sacrificare quelle non controllate o non controllabili. Insomma gli operatori dell’informazione dovranno conciliare il massimo di attendibilità delle notizie con la loro velocità di trasmissione.

Da molti anni il problema si è posto per le fonti d’informazione primarie, come le agenzie, capaci di eccitare o infettare, diciamo così, i sistemi dell’informazione nazionale e internazionale. Tuttavia le notizie di agenzia sono sottoposte a un duplice esame, da parte di altri mass-media e da parte dei lettori di questi stessi mezzi di informazione.

Solo nei regimi illiberali e totalitari l’informazione è filtrata, distillata, da organi istituzionali. Nei regimi democratici e liberali sono i cittadini a selezionare l’informazione e a discriminarla. Ma perché i cittadini siano in grado di operare queste selezioni devono essere educati a leggere le notizie e a vedere le immagini criticamente, sin dalla scuola, devono saper scegliere i mezzi d’informazione di massa veritieri, affidabili, e non delegare a organi istituzionali questo dirittofacoltà di scelta o di censura.

Il pubblico si orienterà con sempre maggiore consapevolezza, ne sono certo, verso i mass-media più credibili e preferirà la qualità delle notizie e delle opinioni rispetto alla quantità e velocità di trasmissione delle stesse. Grazie alla diffusione di Internet, il singolo cittadino potrà crearsi il proprio giornale, la propria radio, la propria televisione e i propri palinsesti. In questo modo la velocità tornerà a essere uno dei dati e non ildato della questione editoriale-giornalistica.

Personalmente, dopo una vita dedicata all’editoria e al giornalismo non ho dubbi che l’opinione pubblica nazionale e mondiale saprà rilanciare la cultura della verità, la sola capace di favorire l’essere rispetto all’apparire. Certo, il cammino della verità è tormentato e la soluzione di questi problemi non è mai semplice, ma siamo già a buon punto se un numero crescente di cittadini prende coscienza del problema. L’etica della verità reale sta uscendo dall’ombra in cui era stata confinata dalla non-etica della verità virtuale.

MODENA CITY RAMBLERSBuon viaggio hermano querido e buon cammino ovunque tu vada, forse un giorno potremo incontrarci di nuovo lungo la strada. Di tutti i paesi e le piazze dove abbiamo fermato il furgone abbiamo perso un minuto ad ascoltare un partigiano o qualche ubriacone le strane storie dei vecchi al bar e dei bambini col tè del deserto sono state lezioni di vita che ho imparato e ancora conservo.(Da “La strada”, La grande famiglia, 1996)

 

Rachele Zinzocchi - Libertà oggi? La libertà dell'individuo

Il professor Vincenzo Zeno-Zencovich su ruolo dei mass media e potenzialità di espressione in una società che voglia dirsi liberale

Rachele Zinzocchi *

Mass media e libertà di informazione: un tema di attualità sempre maggiore. Questa volta abbiamo voluto discuterne con un esperto della materia: Vincenzo Zeno-Zencovich, avvocato e illustre docente, grande conoscitore del mondo dei mezzi di comunicazione e del loro ruolo nella società, quella di ieri così come quella odierna.

Zeno-Zencovich, ordinario di diritto privato comparato nell’Università di Roma Tre, e già titolare della stessa materia dal 1990 al 1999 presso l’Università di Sassari, ha insegnato nelle Università di Genova, Cagliari e Oxford. Tra i suoi principali temi di indagine vi sono proprio i diritti della personalità, le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, il diritto privato europeo. Perciò chiediamo a lui di parlare del confine – attribuito, imposto, o che comunque deve sussistere – nell’espressione dei mass media: di quella che oggi chiamiamo libertà di stampa. E partiamo dalla posizione che i media, in particolare la televisione, ricoprono attualmente nei confronti della società: se cioè la televisione sia semplice espressione della realtà che ci circonda, limitandosi a darne una rappresentazione, o se al contrario la influenzi – spesso negativamente, secondo i detrattori.

Qual è oggi il ruolo dei mass media? Specchio della realtà, con la sua violenza e il suo male? O piuttosto ulteriore stimolo, strumento che influisce e condiziona la società nella sue espressioni più malsane?

“Attualmente, la concezione che viene diffusa dei mass media è assai ipocrita. I mezzi di comunicazione passano per essere, in qualche modo, il nuovo totem della società moderna, su cui vengono scaricati e riversati tutti i mali della nostra realtà. I media stessi rappresenterebbero anzi, secondo questa visione, l’elemento malefico della nostra società. Ma essi, a mio avviso, non sono neppure definibili come “specchio” della società in senso tecnico”.

Che intende esattamente?

“I mass media sono fatti da persone: non certo da marziani. Non esistono i “buoni” – che saremmo noi, da una parte – di contro ai “cattivi” dall’altra: i mezzi di informazione che ci inonderebbero di violenze e brutture. La tv non solo non è il “male”, ma neppure è specchio della società: al contrario, costituisce parte integrante della società stessa, così come le strade, le scuole, le famiglie. Ora, sulle nostre strade accadono quotidianamente eventi che vanno dallo sgradevole all’orrendo: ma nessuno si sogna di prendersela con le strade in sé. Nessuno le ritiene buone o cattive.

Certo, la differenza è che, mentre noi vediamo costantemente ciò che la tv trasmette, non assistiamo con la stessa puntualità a ciò che accade sulle strade. La tv e le sue immagini fanno più effetto. Ma prendersela con la televisione sarebbe come prendersela con le strade perché, su queste, ci sono le prostitute, gli spacciatori, quelli che parcheggiano in doppia fila e che ci danno fastidio. Ciò non ha senso. Se la televisione (così come le altre realtà del mondo in cui viviamo) è brutta, volgare o violenta, è perché noi per primi siamo brutti, volgari e violenti”.

La tv, insomma, non influirebbe per lei sugli accadimenti della nostra società, non sarebbe stimolo verso azioni negative: i mezzi di informazione sarebbero fatti della stessa pasta della società, rappresentando né più né meno ciò che noi stessi siamo. È così?

“Esattamente. Questo va ribadito con chiarezza: infatti, è proprio da una simile visione sbagliata dei mass media, intesi come “totem”, che scaturiscono poi decisioni di tipo normativo-regolamentare davvero prive di senso. Mi riferisco a certe limitazioni alla libertà dei mezzi di comunicazione che nessuno si sognerebbe mai di imporre a nient’altro nel mondo in cui viviamo”.

Perché certi limiti, secondo lei?

“L’argomento, per me strabiliante, è sempre lo stesso: la tv sarebbe molto potente, avrebbe un’influenza capace di determinare le coscienze, di incidere sulle decisioni. Ma questi sono gli stessi principi in base ai quali, nel Quattrocento o nel Cinquecento, ci si scagliava contro la stampa e la sua libertà. L’intento è porre un limite a un mezzo, sul presupposto che questo sia in grado di influenzare decisivamente in maniera definitiva le persone.

Ma ciò è assurdo: siamo di fronte a un atteggiamento paternalistico, che non ritiene i cittadini in grado di fare autonomamente delle scelte, e li ritiene del tutto dominabili dalla televisione. È come asserire che le menti delle persone siano ‘deboli’ e perciò facilmente plasmabili dalla tv. Questo però è grave, e può portare a conseguenze ancora peggiori”.

Può farci qualche esempio?

“Sostenere che una società evoluta – quale la nostra è da secoli – si trovi in questi condizioni, che i cittadini italiani siano così stupidi da dover essere protetti, è come dire che allora, in questo Paese, è meglio non dare a tutti il diritto di voto. In altre parole, equivale a pensare: “decidiamo chi deve votare e chi no”. Ma chi dovrebbe stabilire un simile criterio? Il discorso sul controllo della televisione porta a concludere che, allora, non viviamo in uno Stato libero, fatta di cittadini tutti uguali e responsabili”.

La tv non ha influenza nemmeno sulle scelte politiche?

“La televisione contribuisce a orientare la gente: ma non fissa né stabilisce alcunché. Posso guardare un programma che parla dell’emergenza rom e poi, liberamente, pensare che non mi ritengo d’accordo, oppure scagliarmi contro i rom e dire “Cacciamoli tutti”. Allo stesso modo, posso guardare dalla mattina alla sera Emilio Fede e non votare Forza Italia; o posso guardare Santoro e non votare a sinistra. Il cittadino è e resta comunque libero di scegliere: siamo adulti e responsabili. Norme del genere sono contrarie alla visione di uno Stato liberale. Non è certo una trasmissione tv che plasma le nostre menti”.

Forse per lei è più facile parlare così, in quanto uomo di profonda cultura. Magari per altri, come per i minori, qualche attenzione in più ci vorrebbe. O sbaglio?

“Certo. Come in tutte le situazioni, la libertà e gli onori si accompagnano agli oneri, alle responsabilità. Anche a livello sociale: questo vale proprio nel caso dei minori. Fatta salva la libertà di cui sopra, esistono delle attenzioni da usare. In certi contesti è senza dubbio necessaria una regolamentazione: ma è lo stesso discorso che si fa anche con determinati giocattoli o medicine, quando si stabilisce che non devono essere vendute ai minori, o con la guida dei motorini, quando si fissa che non devono essere usati dai minori senza determinate regole.

Proteggere i minori è giusto: così come lo è, o lo sarebbe, anche imporre obblighi di servizio generale. Prevedere, ad esempio, canali dedicati a servizi importanti, come la musica classica. A me piace molto, e non capisco perché non abbia un canale dedicato: sono certo che avrebbe un gran successo”.

Libertà sì, dunque, ma con dei limiti?

“Bisogna capirsi sul concetto di libertà. Come ho ribadito, non è da società liberale imporre dei limiti esterni, delle regolamentazioni ai mezzi di espressione. Ma non per questo il giornalista deve ritenersi depositario di chissà quale libertà d’opinione. La libertà – in particolare la libertà di manifestazione del pensiero – appartiene all’individuo, ai singoli cittadini: questa va difesa. Ma la libertà di espressione non compete ai giornalisti più di quanto la libertà di circolazione o il diritto alla salute competano ai ferrovieri o agli infermieri”.

Che intende?

“Vede, il ferroviere mentre viaggia non sta esercitando un proprio presunto diritto alla libera circolazione. Sta piuttosto svolgendo il dovere di portarmi là dove io l’ho pagato per portarmi. Non potrebbe mai condurmi a Battipaglia se io ho pagato il biglietto per andare a Firenze.

Oggi invece nei mass media è diffusa una logica priva di senso: i mezzi di comunicazione si riterrebbero detentori di una libertà costituzionale vera e propria, da esercitare come meglio credono. Ma i giornalisti non sono detentori di nessun particolare diritto costituzionalmente garantito: sono piuttosto dipendenti degli editori. Non possono scrivere quello che passa loro per la testa in quel momento: si occupano piuttosto di quel che l’editore dice loro di scrivere.

Mi spiego: se l’editore dice al giornalista di occuparsi di un determinato argomento, lui non può rispondere che preferisce occuparsi di costume, o magari della Finanziaria. Deve scrivere di quello. Al massimo, se poi l’editore gli taglia il pezzo o lo modifica, il giornalista ha facoltà di chiedere che venga ritirata la sua firma. Poi potrà far valere le sue ragioni: ma è il massimo che può fare. Il giornalista usa il proprio intelletto né più ne meno di quanto lo faccia l’avvocato che segue una causa o il commerta che si occupa di un cliente. Tutti i professionisti dell’intelletto esercitano le loro attività in funzione di chi li paga. Il giornalista fa quello verso cui viene indirizzato: e ciò è tanto più vero quanto più il giornale per cui lavora è di tendenza.

Una visione che sia differente da questa è altrettanto sbagliata, quanto quella di chi vede nei mass media un totem capace di influenzare le coscienze, incarnazione di tutto il male che si può trovare nel mondo. Ci sono persone, nel mondo dei media, che ignorano qualsiasi limite, forti del fatto che starebbero esercitando un diritto costituzionale: nessuno potrebbe dire loro nulla. Ma il giornalista fa solo ciò che gli dice l’editore. Se questi vuole il reality, allora lui fa i reality; se vuole il giornale popolare, allora si dedica a quello”.

A cosa si riduce, allora, la libertà che l’informazione – anzitutto secondo lei – deve avere? Alla libertà dell’editore?

“No: direi piuttosto che oggi la libertà è fondamentalmente quella del singolo individuo. Ciò che c’è di bello oggi è lo straordinario recupero del concetto di libertà individuale. Non a caso, in passato, il termine “media”era stato coniato proprio per indicare che i mezzi di comunicazione erano, appunto, intermediari della notizia: soggetti che facevano da tramite per il singolo quando questi necessitava di informazioni. Oggi invece, viviamo nel mondo digitale, delle comunicazioni elettroniche: i cosiddetti intermediari sono saltati. Il più delle volte, se io ho bisogno di notizie vado a cercare le informazioni direttamente alla fonte, senza transitare da fronti intermedi. Inoltre l’informazione ha ormai una molteplicità di fonti: queste si sono moltiplicate”.

Perché?

“Si sono abbattuti drasticamente i costi di ingresso nel mercato, che un tempo erano altissimi per i comuni cittadini. Oggi chiunque può crearsi il proprio sito web e fare egli stesso comunicazione, in maniera egregia e a costi contenuti. Inoltre, mentre nel mondo predigitale il circuito informativo terminava una volta raggiunto il consumatore, che non poteva più utilizzare o fruire diversamente dell’informazione ottenuta, oggi il consumatore è anche produttore: può produrre egli stesso informazione. L’esempio più classico è il ragazzino che, con il proprio videofonino, se ne sta tranquillamente in gita scolastica e, inaspettatamente, becca in Austria il Ministro delle Finanze con una ricca ereditiera: scatta le foto e le diffonde, creando lui stesso una notizia che farà il giro del mondo”.

Libertà del singolo: questa dunque la parola chiave per un corretto intendimento della libertà dei mezzi di informazione, e più in generale per la realizzazione di una società liberale?

“Certo, la libertà dell’individuo è il cardine. Come tutte le libertà, anch’essa comporta responsabilità: storicamente, da Adamo ed Eva. Ma è la storia dell’uomo moderno: non esiste una libertà assoluta, prevalente su tutte le altre: le libertà devono contemperarsi, senza separazioni o assolutismi. Esistono solo diritti relativi: di ciascuno, in direzione funzionale alla collettività”.

* Dice di sé:
Rachele Zinzocchi. Trentun anni, fiorentina di nascita, ma romana d’adozione, una laurea in filosofia teoretica alla Scuola Normale Superiore di Pisa – sulla metafisica e la finitezza umana – e un amore ancora oggi viscerale per ciò che significa “pensare”: oltre che per la possente lingua tedesca. Giornalista per desiderio di libertà nella comunicazione, è stata folgorata sulla via di Damasco da una grazia divina.

Flavia Carrara - La questione culturale in Italia: l'anestesia è dilagante

Università, impresa, comunicazione: sembra mancare un motore di cultura, di etica dell’operare al di fuori di schemi dettati da chi ha interesse ad addormentare idee e coscienze

Flavia Carrara *

Scrive Federico Filippo Oriana, sul numero tre della rivista “L’attimo fuggente”, a conclusione del suo interessante intervento, che “… un’evoluzione culturale tanto profonda, quale quella che occorrerebbe, richiederà generazioni e (comunque) … non è questione di questo secolo”.

Non credo ci sia affermazione più condivisibile. La questione culturale del nostro paese, sia esso inteso come Italia, Europa o mondo intero, non è più cosa di cui, anche chi intellettuale non è, possa fare a meno di affrontare. È diventata, soprattutto nell’ultimo trentennio, di una portata tale da inficiare gli aspetti primari della vita di ciascuno quali la salute, fisica e psichica, il lavoro, il proprio programma di vita. Molto dipende da come viene inteso, comunemente, il significante cultura, ovvero qualcosa che ruota intorno al sapere, alla conoscenza relativa a discipline differenti, alla competenza.

L’intellettuale è inteso come il professionista della cultura, colui che fa dell’acquisizione di conoscenze la sua attività principale e la esplica attraverso l’insegnamento, attraverso la parola, astenendosi dall’operare nell’industria, confrontandosi con l’economia e con la finanza. L’evoluzione del professionismo della cultura, che comprende certamente quello tecnologico, ha coinciso con un’involuzione drammatica di un’altra cultura di cui mi pare manchi completamente il culto: quella dell’etica dell’operare.

Credo che una delle verità più sconvolgenti in cui mi sono imbattuta in questi miei primi quarant’anni sia la tanto paradossale quanto assoluta  inutilità di ciò che il nostro mondo definisce cultura rispetto al progresso della civiltà se non accompagnata, meglio trasformata o ancor meglio, fatta assurgere ad un’etica dell’operare intesa come audacia di intraprendere, assumendo il rischio che questo comporta, di elaborare strategie, di pensare liberamente, senza presupporre l’esistenza di un sistema, senza pregiudizi e farlo non al fine di una mera speculazione teorica, ma per verificare l’inscindibilità tra teoria e pragma.

Se, da un lato, il professionismo della cultura è avulso dall’etica del fare, dall’altro chi al fare è preposto per professione, dall’etica del fare risulta altrettanto avulso. In un certo senso, alla luce di quanto detto, anziché chiedersi la ragione della difficoltà a spingere la nostra economia verso più salti tassi di crescita, c’è da meravigliarsi di come ancora si riesca a sopravvivere. Mi riferisco alle aziende, soprattutto quelle di dimensioni medio grandi, magari quotate in borsa e presenti nei suoi migliori indici.

Qui i dirigenti non dirigono, il personale trascorre il tempo disponibile a fare riunioni inutili dove nulla è mai deciso e ad applicare modelli elaborati da società di consulenza, per lo più incomprensibili, aventi l’unico scopo di scaricare su di esse ogni tipo di responsabilità, frustrare alla morte i più meritevoli, e restare in un impasse assoluto. Persino il vertice dell’azienda si può dire si muova all’interno di margini strettissimi e non sia più il motore dell’azienda troppo impegnato alla lotta per la sopravvivenza tra azionisti, politici e giornalisti.

L’università, dal canto suo, è quanto di più lontano possa esserci dal porsi quale motore di cultura e fonte di intellettualità per il paese. L’ateneo in quanto istituzione – ovvero, fatta salva l’attività dei singoli docenti i quali sopravvivono alla frustrazione con svaghi esterni quali conferenze, editoriali su quotidiani, incarichi di vario tipo – sia per quanto riguarda tanto le logiche di gestione interna che quelle che ispirano i suoi rapporti con l’esterno gravitano nel più cupo oscurantismo.

Mai come nell’università, pur verificandosi anche nella grande azienda, logiche di potere prevalgono su quelle di pensiero, mai come nell’università è la burocrazia ad avere il sopravvento sul fare. Tutto questo avviene con la tacita complicità dei quotidiani i quali, vittime di un complesso di inferiorità nei riguardi dell’università non esercitano quella funzione di controllo che invece esercitano, più o meno bene, nei confronti delle aziende.

La stampa nazionale fa assurgere all’onore delle cronache soltanto casi di nepotismo, test truccati, docenti pedofili, fatti per lo più verificatisi in università di secondo piano, spesso al Sud tacitando, in questo modo, quello che è lo scandalo vero, quello che attiene alle università anche e soprattutto di prestigio, anche e soprattutto del Nord le quali ancora beneficiano di un’impunità assoluta, mancando nei loro confronti anche i più semplici meccanismi di controllo.

Sui più autorevoli quotidiani nazionali, la copertura riguarda prevalentemente gli atenei in quanto luoghi dove avvengono manifestazioni, oppure in quanto entità meritevoli di attenzione in quanto fenomeno sociale che attrae quel tal numero di giovani, confeziona centinaia di corsi insignificanti; piace persino la competizione tra università che tentano di accaparrarsi allievi e allora si acconsente a dare visibilità a questa o a quella prendendo spunti pretestuosi.

Una sorta di dogma, misto a timore e a una curiosa devozione che impedisce di andare a capire quale sia il prodotto di queste entità – molte delle quali ormai ridotte a circoli ricreativi per ragazzi che si trovano in una certa fascia d’età – quale l’insegnamento che sono in grado di erogare, quale l’intellettualità che esprimono e in base a quale orientamento strategico, quali siano i caposcuola del pensiero proprio di ciascuna.

Nel migliore dei casi, si parla di università in termini di finanziaria, si lamenta la scarsità dei fondi ad essa concessi, se ne valutano le riforme nei programmi – la scomposizione e la ricomposizione dei percorsi di studio. Tutto questo per eludere l’unica questione e al tempo stesso vero scandalo: l’università non è più motore di cultura per il paese, in altre parole, l’università non esiste più.

Uno degli osservatori dai quali la questione culturale appare più evidente e drammatica è quello della comunicazione. A meno di non intendere la funzione del comunicatore secondo il luogo comune di colui che possiede gli strumenti per dare visibilità a un’istanza precostituita da un qualsivoglia vertice di istituzione – come un qualche cosa, quindi, di meramente tecnico – è proprio la comunicazione a soffrire maggiormente della questione culturale del paese Italia, Europa o mondo che sia (avendo viaggiato molto, non ho individuato realtà molto più evolute rispetto alla nostra).

La comunicazione è quanto di più intellettualmente anarchico ci sia; consiste nel mettere in gioco il proprio sapere, le proprie credenze per giungere, nell’incontro con l’Altro, all’invenzione, all’inedito. In quanto tale, la comunicazione è intransitiva, non si comunica qualcosa di precostituito, bensì la comunicazione è ciò che di inedito risulta dall’apertura. In altre parole, è tutto il contrario di ciò che i potenti non-illuminati vorrebbero fosse: uno strumento al servizio dei privilegi costituiti, di interessi particolari, un altoparlante al proprio ego, alla propria megalomania. È incompatibile con la burocrazia, che vorrebbe assoggettarla a sé, e al conformismo, che vorrebbe inquadrarla, classificarla, governarla allo scopo di fare in modo che mai nulla di inedito possa accedere.

Se esistesse ancora l’Università, farne la comunicazione sarebbe uno dei mestieri più intellettualmente raffinati esistenti. Ma attualmente gli atenei, alla stregua delle aziende private e pubbliche e delle istituzioni governative e non, ne fanno egualmente (forse ancor più) scempio.

L’Italia sembra trovarsi senza motore di cultura, ovvero di sviluppo, di etica dell’operare al di fuori di schemi e conformismi dettati da chi, alla stregua dell’ex regime sovietico, ha interesse ad anestetizzare il paese. Stiamo vivendo una forma subdola di regime, invisibile, fatta di ipocrisia, dove non è vero che c’è libertà di opinione.

Se non l’università, se non le istituzioni pubbliche, se non l’azienda pubblica e privata, chi può farsi motore di cultura del paese? Se qualcuno ha qualche idea, si faccia avanti.

* Dice di sé:
Flavia Carrara. Giornalista, è stata corrispondente dall’Italia e successivamente da Bruxelles del Nihon Keizai Shimbun (gruppo Nikkei), il primo quotidiano economico e finanziario giapponese e collaboratore, negli anni ’90, del Corriere della Sera e del Sole 24 Ore, per passare ad occuparsi di comunicazione prima nell’Olivetti pre-opa, poi all’Università Bocconi di Milano e ancora, sempre a Milano, alla Edison. Membro del comitato scientifico della Ernst & Young, attualmente è il Portavoce della Scuola Normale Superiore di Pisa, diretta da Salvatore Settis. In questa occasione si esprime, naturalmente, a titolo personale.

Paola Tomaselli - Il futuro della comunicazione nel Paese della Colpa

Considerazioni sul costruttivismo a supporto della vita di relazione, pubblica e privata, per un presente migliore e un futuro d’eccellenza

Paola Tomaselli *

Il mio primo ricordo del Paese Italia risale a quando avevo circa cinque anni. Figlia di veneti emigrati in Brasile per questioni di lavoro, ricordo l’emozione di entrare per la prima volta in un uccello di ferro che mi avrebbe portata in Italia a conoscere i miei nonni. Ovviamente, nella mia percezione di bambina, i miei nonni vivevano in un Paese che giaceva sulle nuvole, di conseguenza erano angeli, così come tutti gli abitanti di quel posto.

Era notte fonda e la mia emozione si confondeva con la preoccupazione per il domani: non sarei andata a scuola e questo mi dispiaceva molto. Avevo un gran senso del dovere, una gran voglia di imparare e di giocare con tutti quei bambini che parlavano una lingua diversa dalla mia. Nonostante ciò riuscivamo benissimo a capirci e le maestre non mi facevano pesare il fatto di appartenere ad un altro popolo.

Per comunicare, a parte le parole, usavamo i colori, i disegni, la musica, le mosse e qualsiasi altro strumento universale. C’era la curiosità di attendere la reazione dell’altro: una parola nuova, una inventata, una smorfia, uno scherzo e, alla fine, era tutto un gioco. Il gioco consisteva nell’esprimere la propria unicità come nello scoprire l’unicità dell’altro. Per noi bambini la diversità veniva percepita come qualcosa da scoprire per divertirsi.

I principi di una comunicazione assertiva e sana si basano sull’ascolto e sulla verifica oggettiva, su quanto crediamo di avere compreso. Mi chiedo quanti di noi adulti, effettivamente, attuiamo questo tipo di comunicazione nella nostra vita di relazione. Singolare come i bambini riescano a comunicare ovunque e con chiunque, indipendentemente da razza, sesso o religione. Sbalorditivo che molti adulti credano che i bambini non capiscano niente, nonostante gli studi scientifici dimostrano quanto sia importante la comunicazione già a partire dal periodo di gestazione, durante il quale anche un piccolo trauma, un cattivo rapporto in famiglia, uno spavento possono influenzare lo sviluppo del feto e, in alcuni casi, risultare in un disturbo del comportamento anni dopo la nascita del bambino.

Il carattere di un bambino, come quello di una nazione, si modella in base alle piccole e grandi esperienze di tutti i giorni, a ciò che avviene nel contesto storico e temporale nel quale vive, alle persone che frequenta, ai comportamenti che lo circondano. Io ho genitori veneti, cresciuti tra i resti di una guerra che, come tutte le guerre, genera solo perdenti, dato che anche i vincitori hanno i loro traumi da smaltire. Ancora oggi vedo e sento nelle loro spalle il peso di quei traumi, anche se molto lavoro di pulizia è stato fatto.

Negli occhi di mia madre, ad esempio, è possibile scorgere ancora la tristezza e lo shock causato dall’immagine di tutti quei papà impiccati in piazza, in tempo di guerra, dopo essere stati sottratti alle loro famiglie, brutalizzati per chi sa quale colpa, assegnatagli da chi sa quale giudice, di chi sa quale fazione; trascinata in piazza insieme ad altri bambini, figli d’Italia, forzati a guardare per giorni di fila quei corpi “dormienti” penzolanti, scoloriti e mal composti, si chiedeva come facessero a dormire così a lungo.

Finita la guerra, arrivarono le assegnazioni: vincitori e vinti, violentati e violentatori, colpevoli ed innocenti. Con le assegnazioni giunse purtroppo anche la consapevolezza che i “papà dormienti” non sarebbero più tornati. Sorprendente scoprire che molti di questi bambini, mia madre compresa, ancora oggi portano dentro il cuore la colpa ed il dolore di avere guardato, curiosato e anche, con innocenza, deriso, quei “papà dormienti”.

L’innocenza di quei piccoli angeli venne così violentata dalla guerra, i bambini lasciati soli nel loro trauma insieme agli adulti che sostenevano le lacrime delle perdite. Con questa eredità, il Paese si chiuse nel silenzio nel tentativo di trovare le forze per ricostruire. In nome della fede cristiana, i bravi bambini di allora chiusero nei loro cuori il dolore della colpa e con questo la paura, lo sgomento, la rabbia, il risentimento, la confusione di tanti perché senza risposte. Una volta tolti i “papà dormienti” dalle piazze, vennero rimpiazzati con ricchi monumenti ai caduti. Rimasero i perché senza risposta ed i bambini di allora, sono diventati i nonni di oggi, pensionati, lavoratori, mendicanti e anche capi di Stato. Tutti così diversi e così legati da un comune denominatore: la guerra e la voglia di rifarsi una vita.

Un Paese che abbia vissuto una guerra oppure una tragedia collettiva può costruire un presente migliore ed un futuro d’eccellenza se provvede ad un sostegno psicologico e ad una rieducazione civica della popolazione, a tutti i livelli, partendo dall’educazione nelle scuole per arrivare a quella nelle aziende. Se ciò viene tralasciato, le cose non si sistemano da sole e prima o poi, arriva il conto con gli interessi. A giudicare dalle notizie nazionali diffuse tutti i giorni nel nostro Paese direi che ci siamo.

È necessario tornare a stimolare e premiare quello spirito naturale di collaborazione e di scambio che ci insegnano i bambini ancora non profanati da esperienze traumatiche. La collaborazione arricchisce le persone, attenua il senso di solitudine e di impotenza derivanti dal sentirsi esclusi dal gruppo, mette gli individui nella situazione di sperimentarsi da più punti di vista e di sviluppare la consapevolezza che la perfezione si basa su metri di valutazione soggettivi, in quanto strettamente legati a colui che li impartisce; di conseguenza la perfezione, in tal senso, è un’utopia.

La vera perfezione deve essere legata più ad un concetto di eccellenza, che di competizione e prevaricazione sull’altro; eccellenza intesa come il cercare di fare del nostro meglio in qualsiasi situazione, non importa di quanto si tratti. In questo modo, invece di seminare colpe e colpevoli, costruiamo un cammino di crescita reciproca, senza aspettare che sia qualcun altro a fare il primo passo, bensì pensando a ciò che ognuno di noi può fare adesso, poco o tanto che sia.

Facciamo un esempio pratico: analizziamo la differenza tra fare notizia nel Paese della colpa e fare notizia in una Italia costruttiva. Sappiamo bene quante notizie di cronaca nera riportino i giornali italiani. Personalmente non credo che gli episodi che leggiamo siano novità dei nostri tempi, perché la storia ci dice che l’essere umano è stato, da sempre, capace di delitti assurdi, in nome della cultura, della religione e di altre etichette servite come scusa per giustificare reati atroci e scampare alle proprie responsabilità.

Quello che mi fa riflettere è la modalità con la quale spesso comunicano molti giornalisti, pubblicitari, comunicatori, educatori e politici nel nostro Paese; modalità che definisco “del Paese della colpa”. Ogni volta che applicano questa modalità, diventano loro stessi protagonisti delle proprie condanne, giuste o sbagliate che siano; diventano promotori e sponsor di una forza motrice che genera un orrore ancora più terribile di quello che denunciano: levano alla gente che si trova ad ascoltarli la speranza in un presente migliore ed in un futuro d’eccellenza che l’Italia e gli italiani meritano di avere.

Per fortuna ci sono anche coloro che utilizzano una modalità di comunicazione che definisco “costruttivista”, perché esprime tre aspetti fondamentali:

  1. la partecipazione attiva – il giornalista partecipa attivamente alla costruzione della notizia, facendo indagini, raccogliendo prove e dati concreti, riportando quanto raccolto senza manipolazioni di parte, di interesse privato e/o politico del momento;
  2. la chiarezza nella forma – il giornalista tiene conto del fatto che la forma è il risultato di una sua personale struttura cognitiva di base, quindi deve essere espressa in maniera chiara al lettore, in modo che possa comprenderne il vero significato e sentirsi libero di scegliere anche altre possibilità, altre “verità”;
  3. il principio dell’autopoiesi – il giornalista tiene presente che, essendo l’uomo un sistema auto-organizzantesi che protegge e mantiene la propria integrità, è importante tenere conto dell’impatto che il suo operato può avere a più livelli nella società e, di conseguenza, che deve riflettere sulle proprie intenzioni positive e sulle responsabilità a catena che derivano dalla pubblicazione di una certa notizia prima di presentarla al proprio direttore.

Ho letto troppo spesso di violenze impunite, di una giustizia lenta, inefficace, fatta di leggi e cavilli che salvaguardano i delinquenti a scapito delle persone per bene; qualcuno ha pensato di mettere l’etichetta “al nord ci sono i ladri”, “al sud c’è la mafia”. Questi argomenti si ripetono con il risultato che lettori accaniti di giornali come me, ad un certo punto, smettano di comprare il giornale tutti i giorni. Un altro effetto a catena è che i giovani incomincino a credere che questa sia la definizione dell’Italia e che, per sopravvivere, debbano aderire ad una delle due correnti.

Mi chiedo quale sia l’intenzione positiva verso la comunità di questo tipo di giornalismo, che giustamente denuncia i fatti che non vanno, però lo fa in modo fatalista e per niente propositivo, ripetendo la dose, giorno dopo giorno, per intere settimane, senza considerare minimamente l’impatto socio-depressivo che ne consegue. Contente le aziende farmaceutiche: l’Italia è tra i primi posti nel consumo di farmaci antidepressivi. Il messaggio si concentra sul fatto che siamo un Paese colpevole, deficitario, quindi quando parlano male di noi all’estero hanno ragione: dobbiamo vergognarci, sentirci in colpa e nasconderci. Dove sono le notizie riguardo quello che si sta facendo per cambiare la situazione? Non credete a coloro che dicono che in Italia non si fa niente. Purtroppo si è sparsa la voce che a vendere i giornali siano le brutte notizie. Forse abbiamo la responsabilità, come cittadini, di essere un po’ pettegoli, perché vedendo il male negli altri ci sentiamo meglio nel nostro dolore, anche se poi ci sentiamo un po’ in colpa.

Rimanere nella colpa, nasconderci oppure fare finta di non vedere, significa paralizzarci e la paralisi non fa bene a nessuno, quanto meno al Paese. Se invece ognuno di noi si prende, con quel sano amore e fede cristiani, anche una piccola responsabilità verso la situazione nella quale si trova il Paese, possiamo unire i nostri piccoli sforzi ed insieme aumentare enormemente la possibilità di ottenere risultati concreti; questi saranno poi merito della collaborazione di tutti noi, che potremo sentirci orgogliosi di essere italiani.

Se vogliamo costruire un presente migliore ed un futuro d’eccellenza, ognuno di noi nel proprio piccolo, indipendentemente da quale sia la propria occupazione o disoccupazione, può e deve fare qualcosa per migliorare la propria qualità della vita, come quella degli altri, per sentirsi importante, utile ed amato, per risvegliare quel senso di rispetto per la madre Patria, quello che gli emigranti, come i miei genitori, tanto coltivano quando si ritrovano ad essere lontani dal loro Paese d’origine. Si incomincia dalle piccole cose del quotidiano, da una comunicazione a due vie, da una risposta garbata, da un saluto gentile, da una richiesta di aiuto, perché tutti siamo importanti e possiamo contribuire; noi rappresentiamo la società, di conseguenza, partecipiamo e siamo responsabili, sia nel pubblico sia nel privato, delle sembianze che questa società ha oggi.

Il libro verde della Comunità Europea (Bruxelles 18/07/2001) prevede il capitolo “La responsabilità sociale può rivestire un valore economico diretto; anche se la loro responsabilità principale è quella di generare profitti, le imprese possono, al tempo stesso, contribuire ad obiettivi sociali e alla tutela dell’ambiente, integrando la responsabilità sociale come investimento strategico nel quadro della propria strategia commerciale, nei loro strumenti di gestione e nelle loro operazioni”.

Aggiungo che nel 2007, con un pianeta sofferente e questa specie di “terza guerra mondiale” in corso tra le mura domestiche, che sfocia in delitti atroci, il vero profitto di un’azienda d’eccellenza, che lavora per un futuro dell’eccellenza è quello che opera con una modalità costruttivista, dove ogni decisione verso il “profitto”, tenga in conto il sistema per intero, fatto anche da altre due “P” di un nuovo marketing: “Persone” e “Pianeta”.

* Dice di sé:
Paola Tomaselli. 65 chili per 1,82 m di una vita ricca di esperienze, viaggi, studio, amici; la sua più grande passione: l’Umano; il suo cibo preferito: cucinato a casa tra amici; la sua canzone preferita: scritta o eseguita con destrezza e con il cuore; la sua curiosità del momento: sapere cosa ne pensano i lettori (paola.tomaselli@libero.it); il suo presente migliore: occuparsi di Responsabilità Sociale e di Corporate Coach; il suo futuro d’eccellenza: la famiglia.

JOHANN WOLFGANG VON GOETHELa Sicilia m’indica e mi fa intendere l’Asia e l’Africa, e non è poca cosa trovarsi nel centro meraviglioso dove son diretti tanti raggi della storia universale. Ho trattato Napoli alla sua stessa maniera: sono stato, meno che altro, laborioso; ma ho veduto molto e mi sono formata un’idea generale del paese, degli abitanti e delle cose.(Da “Viaggio in Italia”, 1817)
MADAME DE STAËLI paesi celebri, anche quando sono spogli de’ loro grandi uomini e de’ loro monumenti, esercitano un gran potere sull’immaginazione. Ciò che colpiva gli sguardi non esiste più, ma vi è restato l’incantesimo del ricordo.(Da “Lettere a E. G. Lambert”, Mosca, 1915)
ATTUALITÁ Domenico Mazzullo - Morire? Come addormentarsi dopo l'amore. Stanchi,tranquilli e con un senso di stupore

Preghiera per l’uomo-albero

(Se e quando io non sarò più io)

Grazie per avermi dato

una seconda giovinezza

grazie per amarmi

grazie per leggere, giocare e parlare

con me

di tutto ciò che ti interessa

e mi interessa

grazie per correre con me

per camminare con me

nell’ombra dei boschi o sulle pendici

dei monti

colorati di ginestre

grazie per abbracciarmi

per fare l’amore con me

con il corpo e con il cuore

per salire in alto con me

come su un aliante

sollevati da una corrente calda

sempre più in su

fino a stancarci.

E grazie per quando

io più vecchio di te

non potrò più correre

io indebolito

non potrò più seguirti

io più stanco

faticherò ad amarti

grazie di essere con me

di sostenermi

di lasciarmi appoggiare

perché so che per te

la vita con me non è solo sesso

non è solo correre e giocare

la vita è anche solo un sorriso

una parola una carezza

e queste sarò sempre in grado

di dartele, anche da vecchio.

Ma se e quando io non sarò più io

quando la vecchiaia o un male oscuro

mi strapperanno da me

quando qualcosa di misterioso e inesplorabile

mi dividerà in due –

la mia anima la mia mente e il mio

cuore

proiettati per sempre negli spazi

il mio corpo immobile

su una sedia a rotelle –

quando ridotto ad albero

non potrò neanche sorriderti

perché non capirò più

cosa sei tu

e cosa sono io

allora amore

dovremo separarci.

Io non ti ringrazio

per quello che farai

per quell’Uomo-Albero

Uomo-Sasso

Uomo-Carne

Corpo grossolano

Pura materia

senza luce dell’anima

senza cuore

senza sorriso

che porterà il mio nome

ma non sarò più io.

Io, amor mio, mentre tu ti sacrifichi

per quella cosa inerte

io sarò altrove

sarò a passeggiare tra le nuvole

sarò sulla cima dell’Epomeo

a veder sorgere il sole

sarò sullo Sciliar

a giocare con un deltaplano,

sarò a meditare

in una grotta delle Egadi.

Io, amor mio,

sarò nei libri che ho letto e in quelli

che ho scritto

sarò nella memoria

delle persone che mi hanno incontrato

e mi hanno voluto bene

sarò negli occhi delle mie figlie

sarò nel tuo cuore

sarò dovunque

tranne che là

in quella controfigura umana

in cui non mi riconosco

e che non avrà più niente

a che vedere con me.

Perciò ti prego amore mio,

parlo seriamente,

non voglio sacrifici

specie se inutili.

Quando vedrai che non sono più io

conservami solo

nella tua memoria.

Non conservarmi

a fini statistici.

Non aiutarmi a sopravvivere

privato di tutto ciò che mi rende

umano

anche se ti diranno

che un Dio lo vuole.

Ma se un Dio ha potuto volermi fare

questo

e se è lo stesso Iddio

che ha voluto e accuratamente programmato

la Shoah

che organizza i massacri

le pestilenze e i flagelli

che funestano questo mondo

solo per “metterci alla prova”

e “realizzare il suo disegno

provvidenziale”

non è un Dio Buono

e probabilmente

non è neppure un Dio

ma solo la proiezione

delle loro povere menti

e tu non devi ascoltarlo.

Ascolta, ti prego, solo il tuo cuore

e il mio.

Trova in te la forza di aiutarmi.

Prendimi con te

per un ultimo viaggio

verso un Paese buono

dove capiscono che gli Uomini-albero

gli Uomini-sasso

anche se non possono esprimerlo

vogliono morire

non vogliono essere obbligati a vivere

una vita di sasso e di albero –

senza alcuna offesa

per queste rispettabili

Entità dell’universo.

E tu, amor mio, non portare

il mio lutto

non essere triste a causa mia

sappi che ci ritroveremo

un giorno o l’altro

una vita o l’altra

forse trasformati in due farfalle

o magari in due rondini

voleremo insieme

su su per i cieli

e avremo dei piccoli sempre affamati

da nutrire di insetti

e la notte ci ameremo al buio

nel nostro nido di paglia

con il cuore e con il corpo

fino a stancarci.

Amore se mi vuoi bene

(Anonimo)

De providentia

Eppure, capitano addosso molti fatti che sono causa di preoccupazione, di paura, duri a sopportare. Poiché non mi era possibile sottrarvi a coteste vicende, gli animi vostri li ho armati contro ogni avversità: sopportate con coraggio. Questo è ciò in cui superate la divinità: lei è fuori dalla sopportazione del male, voi sopra la sopportazione. Non fate conto della povertà: nessuno vive una vita tanto povera, quanto è nato; non fate conto del dolore: o sarà sciolto o scioglierà; non fate conto della morte: o pone fine al vostro essere o vi trasporta in altro luogo; non fate conto della fortuna: nessun dardo le ho dato con cui ferire l’animo. Soprattutto, ho avuto cura che nulla vi trattenesse contro voglia: è spalancata l’uscita; se combattere non volete, vi è possibile fuggire.

Per questo motivo, fra tutte le cose che ho voluto vi fossero necessarie, nulla di più facile ho fatto che il morire. In declivo ho posto l’anima, la si trascina. Prestate solo un po’ di attenzione, e vedrete quanto breve sia e quanto facile la strada che conduce alla libertà. Non così lunghi indugi ho posto per voi all’uscita, quanti al momento in cui vi entravate – altrimenti grande signoria su di voi la fortuna avrebbe avuto, se un uomo ci mettesse tanto a morire quanto a nascere. Ogni momento, ogni luogo puòinsegnarvi quanto sia facile disimpegnarsi con la natura e restituirle il dono da lei fatto; proprio in mezzo agli altari e agli usuali riti di coloro ,che operano il sacrificio, mentre si implora la vita, imparate con chiarezza la morte. I corpi grossi dei tori crollano giù per una piccola ferita, ed animali di grande forza, è il colpo portato dalla mano di un uomo che li abbatte: da un ferro sottile è rotta la giuntura del collo, e quando quel tendine che tiene insieme testa e collo è stato tagliato, tutta quella grande massa crolla a terra.

Non nel profondo sta nascosta la forza vitale e certamente non la si deve trarre fuori con il ferro; non con una ferita impressa in profondità bisogna scrutare i precordi: vicina è la morte. Non un luogo preciso per questi colpi ho destinato: per dovunque tu voglia, c’è un passaggio. Persino quell’atto che è chiamato morire, per cui l’anima si allontana dal corpo, è troppo breve perché sia possibile avvertirne così grande velocità: sia che il cappio abbia spezzato la gola, sia che l’acqua abbia ostruito la trachea, sia che la durezza del terreno sottostante abbia frantumato coloro che sono scivolati a testa in giù, sia che il fuoco inghiottito abbia spezzato a metà la corsa del respiro ritornante: di qualunque cosa si tratti, agisce in fretta. Non arrossite dunque? di ciò che tanto velocemente avviene, voi avete paura per lungo tempo?!

( Da “De providentia”, I libro dei “Dialoghi”, Lucio Anneo Seneca)

Lettera 70 a Lucilio

Ho rivisto la tua Pompei dopo molto tempo. Mi ha riportato indietro alla mia giovinezza; mi sembrava di poter ripetere tutte le mie giovanili imprese compiute là, e che fossero recenti.

2 Navigando, Lucilio, ci siamo lasciati alle spalle la vita e come in mare si allontanano paesi e città, scrive il nostro Virgilio, così in questa corsa rapidissima del tempo ci siamo lasciati dietro prima la fanciullezza, poi l’adolescenza, poi tra giovinezza e vecchiaia quell’età che confina con entrambe, poi gli anni migliori della vecchiaia; ora in ultimo comincia a mostrarsi quella che è la fine comune di tutti gli uomini.

3 A noi, nella nostra immensa stupidità, appare come uno scoglio: e invece, è un porto: non lo si deve mai evitare, anzi talvolta bisogna cercarlo, e se uno ci arriva nei primi anni della vita, non se ne lamenti, come non si lamenta chi ha portato a termine con rapidità la sua traversata per mare. Uno, lo sai, è trattenuto da venti deboli che si prendono gioco di lui e lo stancano con una bonaccia tenace ed esasperante; un altro, invece, un soffio costante lo trasporta a gran velocità.

4 Pensa che per noi è lo stesso: alcuni la vita li porta molto rapidamente a quella meta, che, anche temporeggiando, dovevano raggiungere, altri li snerva e li fiacca. Non sempre, lo sai, la vita va conservata: il bene non consiste nel vivere, ma nel vivere bene. Perciò il saggio vivrà non quanto può ma quanto deve.

5 E considererà dove vivere, con chi, in che modo, e quale attività svolgere. Egli bada sempre alla qualità, non alla lunghezza della vita. Se le avversità che gli si presentano sono tante e turbano la sua serenità, si libera e non aspetta di trovarsi alle strette: non appena comincia a sospettare della sorte, considera seriamente se non sia il momento di farla finita. Non ritiene importante cercare la morte o accoglierla, morire prima o poi: non teme la morte come un grave danno: uno stillicidio non causa a nessuno grandi perdite.

6 Non importa morire presto o tardi, ma morire bene o male; morire bene significa sfuggire al pericolo di vivere male. Giudico, perciò vilissime le parole di quel famoso rodiese, che, gettato dal re in una gabbia e nutrito come una fiera, rispose a uno che gli consigliava di non toccare cibo: “Finché c’è vita, c’è speranza”.

7 Se anche fosse vero, non ci si deve comprare la vita a qualunque prezzo. Ammettiamo pure che si offrano beni cospicui e sicuri, io non vorrei ottenerli con una vergognosa professione di viltà: dovrei pensare che la fortuna ha pieni poteri su chi è in vita e non che è impotente contro chi sa morire?

8 A volte, tuttavia, il saggio, anche se lo minaccia una morte sicura e sa di essere destinato alla pena capitale, non presterà la mano al suo supplizio: farebbe un piacere a se stesso. Morire per paura della morte è da insensati: il boia viene, aspettalo. Perché vuoi precederlo? Perché ti fai carico della crudeltà altrui? Invidi il tuo carnefice, oppure ne hai compassione?

9 Socrate avrebbe potuto mettere fine alla sua vita col digiuno e morire di fame invece che di veleno; eppure stette in carcere trenta giorni aspettando la morte: non pensava che ogni esito era possibile e che un periodo di tempo tanto lungo consentiva molte speranze; voleva mostrarsi obbediente alle leggi e offrire agli amici la possibilità di trarre profitto dai suoi ultimi giorni. Disprezzare la morte, ma temere il veleno non sarebbe stato l’atteggiamento più insensato?

10 Scribonia, donna austera, era zia materna di Druso Libone, un giovane nobile, ma scriteriato, che nutriva speranze irrealizzabili per chiunque in quell’epoca o per lui stesso in ogni altra. Egli, malato, venne ricondotto dal senato in lettiga; non lo accompagnavano in molti: tutti i congiunti lo avevano piantato in asso senza nessuna compassione; ormai era più un cadavere che un imputato. Cominciò a riflettere se dovesse darsi la morte o aspettarla. Gli disse Scribonia: “Che gioia ti dà sbrigare una faccenda che tocca ad altri?” Non lo persuase: egli si suicidò e a ragione. Se uno è destinato a morire entro tre o quattro giorni ad arbitrio del suo nemico, se vive, sbriga proprio una faccenda d’altri.

11 Quando una forza esterna minaccia la morte, si deve aspettare o prevenirla? Non si può stabilire una regola generale; molte sono le circostanze che possono fare propendere per l’una o per l’altra decisione. Se l’alternativa è una morte fra atroci sofferenze oppure una morte naturale e facile, perché non approfittare di quest’ultima? Come scelgo la nave, se devo andare per mare, e la casa in cui vivere, così sceglierò la morte quando dovrò lasciare questa vita.

12 E poi, una vita più lunga non è necessariamente migliore, ma una morte attesa più a lungo è senz’altro peggiore. In nessuna cosa più che nella morte siamo tenuti ad obbedire alla volontà dell’anima. Esca per quella strada che ha preso di slancio: sia che cerchi una spada o un cappio o un veleno che scorre nelle vene, avanzi decisa e spezzi le catene della sua schiavitù. La vita ognuno di noi deve renderla accettabile anche agli altri, la morte solo a se stesso: quella che riesce gradita è la migliore.

13 È insensato pensare: “Qualcuno dirà che ho agito da vigliacco, qualcuno con troppa sconsideratezza, qualcun altro che c’era un genere di morte più eroico.” Vuoi convincerti che si tratta di una decisione in cui non bisogna tenere conto dell’opinione altrui! Bada a una sola cosa: a sottrarti nel modo più rapido al capriccio della sorte; del resto ci sarà sempre qualcuno pronto a criticare il tuo gesto.

14 Troverai anche uomini che hanno fatto professione di saggezza e sostengono che non si debba fare violenza a se stessi; per loro il suicidio è un delitto: bisogna aspettare il termine fissato dalla natura. Non si accorgono che in questo modo si precludono la via della libertà? Averci dato un solo ingresso alla vita, ma diverse vie di uscita è quanto di meglio abbia stabilito la legge divina.

15 Dovrei aspettare la crudeltà di una malattia o di un uomo, quando posso invece sottrarmi ai tormenti e stroncare le avversità? Ecco l’unico motivo per cui non possiamo lamentarci della vita: non trattiene nessuno. La condizione dell’uomo poggia su buone basi: nessuno è infelice se non per sua colpa. Ti piace vivere? Vivi; se no, puoi tornare da dove sei venuto.

16 Contro il mal di testa sei spesso ricorso a un salasso; si apre una vena per diminuire la pressione del sangue. Non è necessario squarciarsi il petto con una vasta ferita: è sufficiente un bisturi ad aprire la via a quella famosa grande libertà: la serenità dipende da un forellino. Cos’è, allora, che ci rende indolenti e inetti? Prima o poi dovremo lasciare questa dimora, ma nessuno di noi lo pensa. Ci comportiamo come inquilini di vecchia data che l’abitudine e l’attaccamento al posto trattiene anche in mezzo ai disagi.

17 Vuoi essere indipendente dal corpo? Abitalo come se stessi per trasferirti. Tienilo presente: questa convivenza verrà a mancare, prima o poi: sarai più forte di fronte alla necessità di andartene. Ma se uno non ha limiti in tutti i suoi desideri come potrà venirgli in mente il pensiero della propria fine?

18 Non c’è cosa su cui si debba meditare come sulla morte; per altre evenienze ci si esercita forse inutilmente. Lo spirito si è preparato alla povertà: e invece, siamo rimasti ricchi. Ci siamo armati per disprezzare il dolore: e invece, il nostro corpo si è mantenuto fortunatamente integro e sano e non ha mai richiesto che mettessimo alla prova questa virtù. Ci siamo preparati a sopportare da forti il rimpianto di cari perduti; e invece, il destino ha tenuto in vita tutti quelli che amavamo.

19 La meditazione della morte è l’unica che un giorno dovrà essere messa in pratica. Non pensare che solo i grandi uomini abbiano avuto la forza di spezzare le catene della schiavitù umana; Catone strappò con le sue mani l’anima che non era riuscito a gittar fuori con la spada; non credere che possa farlo lui solo: uomini di infima condizione sociale si sono messi in salvo con straordinario impeto e, non potendo morire a loro agio e nemmeno scegliere il mezzo che volevano per darsi la morte, hanno afferrato quello che capitava sotto mano e con la loro violenza hanno tramutato in armi oggetti di per sé innocui.

20 Non molto tempo fa, durante i combattimenti tra gladiatori e bestie feroci, uno dei Germani, mentre si preparava per gli spettacoli del mattino, si appartò per evacuare gli intestini. Era l’unico momento in cui gli fosse concesso stare solo senza essere sorvegliato: lì c’era un bastone con attaccata una spugna per pulire gli escrementi: se lo cacciò in gola e morì soffocato. Uno sfregio alla morte. Proprio così, in maniera immonda e indecente: fare gli schizzinosi davanti alla morte è la cosa più stupida.

21 Che uomo forte, degno di poter scegliere il proprio destino! Con quanta fermezza avrebbe usato la spada, con quanto coraggio si sarebbe gettato negli abissi del mare o in un burrone. Era privo di ogni mezzo, eppure trovò il modo e l’arma per uccidersi; la mancanza di volontà è il solo ostacolo alla morte: egli ce lo dimostra. Ognuno giudichi come crede l’azione di quest’uomo indomito, ma sia chiaro: alla schiavitù più pulita è preferibile la morte più sozza.

22 Visto che ho cominciato con esempi sordidi, continuerò così: esigeremo di più da noi stessi, vedendo che la morte può essere disprezzata anche dagli uomini più disprezzati. Catone, Scipione e altri, i cui nomi sono abitualmente oggetto di ammirazione, li giudichiamo inimitabili: ma io ti dimostrerò che esempi di questa virtù tra i gladiatori ce ne sono quanti tra i capi della guerra civile.

23 Una mattina, poco tempo fa, un gladiatore mentre veniva trasportato sotto scorta allo spettacolo, come se gli ciondolasse la testa per il sonno, la piegò fino a infilarla tra i raggi di una ruota e rimase fermo al suo posto finché questa girando non gli spezzò l’osso del collo; con lo stesso mezzo che lo portava al supplizio vi si sottrasse.

24 Se uno vuole spezzare le catene e fuggire, non ci sono ostacoli: la natura ci custodisce in un carcere aperto. Quando le circostanze lo permettono, si cerchi una via di uscita agevole; se poi uno ha a portata di mano più possibilità di affrancarsi, faccia la sua scelta e consideri il modo migliore di liberarsi. Mancano le occasioni? Allora afferri la prima che gli capita come se fosse la migliore, anche se è strana e insolita. A chi non manca il coraggio non mancherà una strada ingegnosa verso la morte.

25 Non vedi che anche gli schiavi più umili, quando li pungola la sofferenza, prendono coraggio ed eludono anche la più stretta sorveglianza? L’uomo che non solo decide di morire, ma trova anche il modo di farlo, è grande. Ti ho promesso più esempi dello stesso genere.

26 Durante il secondo spettacolo di naumachia un barbaro si cacciò in gola tutta quanta la lancia che impugnava per combattere gli avversari. “Ma perché, perché?” disse, “non sfuggo subito a ogni tormento, a ogni umiliazione? Ho in mano un’arma, perché aspetto la morte?” Questo spettacolo fu tanto più bello quanto è più onorevole che gli uomini imparino a morire e non a uccidere.

27 E allora? Persino degli sciagurati, dei delinquenti hanno questo coraggio: e non lo avrà chi a questa evenienza è preparato da una lunga meditazione e dalla ragione, maestra di vita? Essa ci insegna che gli accessi alla morte sono numerosi, ma il punto di arrivo è lo stesso; non importa da dove cominci una cosa che arriva senz’altro.

28 La ragione stessa invita a morire, se è consentito, come ci piace, altrimenti come possiamo, e ad afferrare qualunque cosa capiti per darci la morte. È vergognoso vivere di rapina, morire di rapina, invece, è bellissimo. Stammi bene.

(Da “Lettere a Lucilio”, Lettera 70, Lucio Anneo Seneca)

Il Giuramento di Ippocrate

Giuro per Apollo medico e per Asclepio e per Igea e per Panacea e per tutti gli Dei e le Dee, chiamandoli a testimoni che adempirò secondo le mie forze e il mio giudizio questo giuramento e questo patto scritto.

Terrò chi mi ha insegnato quest’arte in conto di genitore e dividerò con Lui i miei beni, e se avrà bisogno lo metterò a parte dei miei averi in cambio del debito contratto con Lui, e considerò i suoi figli come fratelli, e insegnerò loro quest’arte se vorranno apprenderla, senza richiedere compensi né patti scritti.

Metterò a parte dei precetti e degli insegnamenti orali e di tutto ciò che ho appreso i miei figli del mio maestro e i discepoli che avranno sottoscritto il patto e prestato il giuramento medico e nessun altro.

Sceglierò il regime per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio, e mi asterrò dal recar danno e offesa.

Non somministrerò a nessuno, neppure se richiesto, alcun farmaco mortale, e non prenderò mai un’iniziativa del genere; e neppure fornirò mai a una donna un mezzo per procurare l’aborto. Conserverò pia e pura la mia vita e la mia arte.

Non opererò neppure chi soffre di mal della pietra, ma cederò il posto a chi è esperto di questa pratica.

In tutte le case che visiterò entrerò per il bene dei malati, astenendomi ad ogni offesa e da ogni danno volontario, e soprattutto da atti sessuali sul corpo delle donne e degli uomini, sia liberi che schiavi.

Tutto ciò ch’io vedrò e ascolterò nell’esercizio della mia professione, o anche al di fuori della professione nei miei contatti con gli uomini, e che non dev’essere riferito ad altri, lo tacerò considerando la cosa segreta.

Se adempirò a questo giuramento e non lo tradirò, possa io godere dei frutti della vita e dell’arte, stimato in perpetuo da tutti gli uomini; se lo trasgredirò e spergiurerò, possa toccarmi tutto il contrario.

Questa volta, per questo articolo, ho voluto fare un passo indietro e lasciare spazio e voce a Chi, prima di me, meglio di me, si è espresso a proposito di questo argomento che turba le coscienze di tutti, ma che è impossibile non prendere in considerazione nella nostra esistenza, come è impossibile non prendere in considerazione la nascita e la morte, traguardi irrinunciabili, nel mezzo dei quali si sviluppa e si esplica la vita.

Ho voluto porre, come titolo, la frase di Piergiorgio Welby che, nella sua lapidaria semplicità, riassume tutto il discorso sulla essenza della morte e la cui umanissima vicenda ha commosso tutti, credenti e non, ma che non ha impedito a chi professa il perdono, di non perdonare.

E proprio la sua vicenda, proprio il rifiuto della Chiesa cattolica, per bocca e volontà del Cardinale Ruini, di concedere a un suo figlio che li desiderava, i funerali religiosi, ha comportato una piccola, forse per altri insignificante, conseguenza personale, ma che mi onoro di citare: mi sono sempre dichiarato assolutamente laico ed agnostico, in privato. La vicenda di Piergiorgio Welby mi ha obbligato moralmente a sbattezzarmi, ossia a chiedere e ottenere, per mano dello stesso Cardinale Ruini, la annotazione, nel mio atto di battesimo, di non voler più far parte della Chiesa cattolica. Un atto minimo, insignificante, ma per me e per la mia coscienza, importante.

Tornando all’eutanasia, dopo le parole di Seneca alle quali, credo, nulla di più si possa aggiungere, ho voluto trascrivere integralmente il Giuramento di Ippocrate, il giuramento che tutti noi medici abbiamo pronunciato, con voce tremante per l’emozione, al conseguimento della Laurea, al momento di entrare nella nostra professione, il giorno in cui “nova incipit vita Medicinae dicata”, come recita il giuramento della nostra professione, professione che ci vede tutti chiamati in prima linea, riguardo al problema dell’eutanasia, giuramento che proibisce esplicitamente a noi medici di somministrare la morte ai pazienti, anche se una buona morte, una morte pietosa, come significa la parola, per liberarli dalla sofferenza alla quale non sappiamo porre rimedio.

Personalmente, ho deciso di oppormi in tutti i modi a questo impedimento e faccio parte del movimento che in tutto il mondo si batte per il riconoscimento legale dell’eutanasia e di ciò che è ad essa correlato,  in Italia la associazione “Libera uscita”. In Spagna “dmd” “diritto a morire con dignità”.

Spesso problemi di ordine morale ci appaiono astratti e legati solo al territorio di dispute ideologiche, fin quando non occorre qualcosa che ci tocca da vicino, che ci investe personalmente, che ci obbliga a prendere posizione, da una parte o dall’altra, inequivocabilmente.

Per me ciò è avvenuto poco dopo l’inizio della professione, in due circostanze vicine cronologicamente, ma soprattutto vicine nei contenuti e nei significati ad essa sottesi: da poco laureato fui chiamato, come emergenza, a casa di un paziente che non riusciva ad urinare.

Si trattava di un uomo apparentemente sessantenne, medico anche lui, costretto alla immobilità totale da una forma avanzata di sclerosi multipla, che lo aveva privato della capacità di compiere qualsiasi movimento, ma non di intendere, purtroppo. Era assistito amorevolmente dalla moglie. Risolto il problema fisico, mi intrattenni un poco a parlare con lui: “vedi collega come sono ridotto? Tu sei giovane e non posso chiedertelo, ma se fossi in grado di muovermi lo farei da solo… per liberare mia moglie dallo strazio di dovermi assistere”.

Non molto tempo dopo, ad una cena annuale con i miei compagni di liceo, parlando con la più bella della classe, alla quale ero seduto vicino, fui costretto a sospettare e pochi giorni dopo a diagnosticarle, con certezza, un tumore del colon. Operata d’urgenza, non c’era più nulla da fare. Era piena di metastasi. A turno, tutti noi compagni le prestavamo assistenza, soprattutto notturna a casa.

Una notte, durante il mio turno, mi chiese di prometterle che se mai i dolori si fossero fatti insopportabili e me lo avesse chiesto, l’avrei aiutata a dare le dimissioni dalla vita. Non me lo chiese; forse non fece a tempo; ma so per certo che, se me lo avesse chiesto, l’avrei aiutata. Considero mio dovere di medico aiutare i pazienti a non soffrire inutilmente, quando lo chiedono e non c’è più nulla da fare e la vita diviene non più degna di essere vissuta.

Voglio morire con le scarpe allacciate.

Bruno Bettelheim, psichiatra ottantenne morto suicida in una casa di riposo per anziani.

* Dice di sé:
Domenico Mazzullo. Medico-chirurgo, speta in Psichiatria. Psicoterapeuta. Assolutamente laico e quindi profondamente libertario. Romanticamente illuminista.

Per saperne di più:

Libera uscita. Associazione per la depenalizzazione dell’eutanasia. www.liberauscita.it

UAAR. Uione degli atei e degli agnostici razionalisti. ww.uaar.it

Letture consigliate:

Roberto Quintini “La strage di Natale”, Avagliano Editore

Stoici-Seneca-Hume-Nietzsche “In difesa dell’eutanasia”, Il melangolo

Derek Humphry “Eutanasia: uscita di sicurezza”, Elèuthera

A. Boraschi, L. Manconi “Il dolore e la politica”, Bruno Mondadori

E. Catania “Vivere a tutti i costi?”, Marsilio

S. Foglia “Il posto delle fragole. La scelta di morire con dignità”, Armenia

G. Franzoni “La morte condivisa: nuovi contesti per l’eutanasia”, Edup

H. Kung “Una difesa della libera scelta”, Rizzoli

D. Lamb “L’Etica alle frontiere della vita. Eutanasia e accanimento terapeutico”, Il Mulino

D. Neri “Eutanasia. Valori, scelte morali, dignità delle persone”, Laterza

J. Rachels “La fine della vita”, Sonda

M. Reichlin “L’Etica e la buona morte”, Edizioni di Comunità

LOUIS-FERDINAND CELINEQuelli di Parigi hanno sempre l’aria occupata, ma di fatto, vanno a passeggio da mattino a sera; prova ne è che quando non va bene per passeggiare, troppo freddo o troppo caldo, non li si vede più; son tutti dentro a prendersi il caffè con la crema e boccali di birra. È così! Il secolo della velocità! Dicono loro. Dove mai? Grandi cambiamenti! Ti raccontano loro. Che roba è? È cambiato niente, in verità. Continuano a stupirsi e basta. E nemmeno questo è nuovo per niente.

(Da “Viaggio al termine della notte”, 1932)

 

Federico Filippo Oriana - Giovani bamboccioni, un decalogo, se volete, per crescere

E la raccomandazione? È il rimedio, parziale e insoddisfacente, per chi non crede in se stesso

Federico Filippo Oriana *

L’infelice espressione del Ministro Padoa Schioppa sui giovani di oggi “bamboccioni” ha avuto l’unico merito di aprire un dibattito sulla condizione giovanile in Italia. Il tema, tanto popolare nel nostro Paese fino agli anni ’70, è scomparso dall’agenda sociopolitica con gli anni ’80, quando i giovani furono invitati a divenire yuppies o a sparire (“sei finito in banca pure tu?” diceva una bellissima canzone di Venditti).

In questo Paese modaiolo (suo difetto principale, vedi mio precedente articolo su “L’Attimo Fuggente”) e, quindi, poco serio, si è passati da un giovanilismo esasperato e fine a se stesso alla cancellazione tout court di una fascia di popolazione che dovrebbe rappresentare l’epicentro delle attenzioni politico-istituzionali, in quanto futuro di una nazione. Si badi bene, non cancellazione di una generazione specifica (come in parte accadde negli anni ’50 con la generazione delle tre M), perché il fenomeno sta andando avanti, da ormai trent’anni, e sta “seppellendo” tutte le generazioni giovanili che si succedono.

Alla sparizione dal dibattito mediatico e, quindi, politico, ha fatto pendant la ben più grave scomparsa dei giovani da tutte le sedi decisionali o anche solo dalle opportunità. Non devo andare molto lontano per trovare conferme a questo stato di cose: io che ho felicemente compiuto 55 anni sono considerato ancora un giovane, fino ad un attimo fa troppo giovane, e faccio sostanzialmente le stesse cose di trent’anni fa perché, per mia fortuna, sono nato abbastanza presto per diventare dirigente a 25 anni e presidente a 30, ossia le età giuste in tutti i Paesi moderni.

Debbo ringraziare i miei genitori che non mi hanno “fatto” dieci anni dopo, perché, in quel caso, la stessa persona, con la stessa preparazione e le medesime qualità sarebbe ancora in attesa di un buon lavoro. Invece, io, gli imprenditori, i finanzieri, gli avvocati, i docenti universitari e i primari ospedalieri della mia età siamo tutti in sella da trent’anni a togliere il futuro a chi ha avuto la sventura di nascere dopo. Ma anche molti di quelli con dieci, quindici, perfino trent’anni più di me sono –dai Presidenti della Repubblica in giù – a godersi ruolo e potere senza concorrenza.

Spero di non farmi dei nemici tra i colleghi affermando che negli anni ’60 dello scorso secolo per andare in cattedra bastava, sostanzialmente, avere una laurea e volerlo, mentre chi ha aperto uno studio professionale di qualsiasi tipo negli anni ’60 (qualcuno addirittura negli anni ’50), con la facilitazione di muoversi, praticamente, nel vuoto, oggi ne è ancora felicemente il capo. Salvo rarissime eccezioni, è così: nessuno con meno di 50 anni è qualcuno in questo Paese. È l’ondata delle “pantere grigie”, in parte legata all’allungamento dell’età della vita, in parte alla complessità dei nuovi saperi per cui non si smette mai di imparare (una volta il figlio di un contadino a 14 anni sapeva già tutto quello che sapeva suo padre ed era quindi “vecchio”) al punto che alla BMW hanno varato un programma per l’assunzione dei pensionati in tutte le funzioni aziendali.

E questo vale per le elite; ma che situazione si presenta per la massa dei giovani che, semplicemente, hanno bisogno di un lavoro qualsiasi? Qui l’analisi è più complessa. Intanto l’Italia ha oggi un tasso di disoccupazione non elevatissimo: questo significa che il lavoro non mancherebbe, in particolare nel centro-nord. Ma la “disoccupazione giovanile percepita” è invece alta: come si spiega?

Mi pare abbastanza facilmente: i lavori disponibili non piacciono ai giovani italiani e vengono presi dagli extracomunitari o neocomunitari (come i romeni); gli italiani, invece, vorrebbero fare tutti, più o meno, le stesse cose e, quindi, non c’è, ovviamente, posto per tutti. Intendo: l’impiegato comunale, l’insegnante di lettere, il giornalista di televisione privata, il tecnico pubblicitario, per non parlare di chi sogna di diventare calciatore professionista o attore (sul versante maschile) e velina o show-girl (sul versante femminile).

Mancano (o sono gravemente carenti), quindi, due elementi presenti nelle società più avanzate:

1) il processo di selezione a livello scolastico-formativo-universitario, per il quale solo i migliori hanno titolo per accedere agli indirizzi di studio e ai lavori più ambiti;

2) l’amore per le materie scientifiche e la conseguente diffusione della cultura scientifica e tecnica.

Un Paese, insomma, di “letterati” (tuttavia affetti, ancora all’università, da frequenti manifestazioni conclamate di analfabetismo, di talché quando un docente universitario di qualsiasi indirizzo esamina uno studente che padroneggia veramente l’italiano prova un moto di intima soddisfazione così forte da dimenticarsi di accertare se il soggetto sia preparato nella specifica materia) e di “comunicatori”, mentre il mondo va verso le aziende legate a Internet, l’ipertecnologia, le comunicazioni nel senso di quelle tecnologiche: come stupirsi, poi, se l’Italia è fuori dall’elettronica avanzata e da quella di largo consumo, non ha una sola grande impresa di livello mondiale né nel software, né nell’hardware e neppure nei telefonini, dove lo spazio pure ci sarebbe, visto che ne siamo i maggiori consumatori al mondo in rapporto alla popolazione!

Ha ragione l’opinionista che ha proposto (ironicamente) una quota di iscrizione allo IULM di Milano (università di recente costituzione e specializzata nelle attività comunicative) pesantissima, per penalizzare una scelta potenzialmente dannosa per la società: così facendo si farebbe il bene di tutti, dello IULM – come centro di eccellenza per i giovani più dotati per i media, il marketing, la pubblicità -, della società che non perderebbe – usando le parole di Maurizio Costanzo – tante braccia utili per l’agricoltura, e, soprattutto, dei diretti interessati che non sprecherebbero tempo e denaro per poi finire solo ad ingrossare le file del precariato. E che, se accettassero di fare, invece, ingegneria avrebbero – con qualche anno di fatica sui libri che non ha mai rovinato nessuno – la certezza di un buon lavoro e subito.

In questo quadro di fondo mi viene chiesto dal Direttore, Cesare Lanza, se il classico “calcio nel sedere” sia sempre indispensabile e quale sia la via d’uscita da questa italica situazione, sempre che ve ne sia una.

Il problema è molto importante per il futuro italiano e l’interrogativo è pertinente. Mi pare di avere, in fondo, già risposto con quanto precedentemente detto: la prima responsabilità è dei giovani che oggi non vogliono sacrificarsi, neanche un po’, e quindi scelgono corsi di laurea non professionalizzanti che costringono alla “raccomandazione” per trovare lavoro. Mentre chi sceglie medicina, economia e commercio, fisica, chimica, biologia, matematica e, soprattutto, ingegneria ha l’imbarazzo della scelta tra le varie opportunità. La “raccomandazione” pur essendo oggi – almeno nella mia esperienza – meno obbligatoria che in passato (almeno nel centro-nord) diviene così il rimedio (parziale e insoddisfacente) di un errore a monte.

Il tema del “bamboccione” è questione ancora diversa: in buona parte dipendente da un ulteriore problema, quello della pratica impossibilità, nelle grandi città, di trovare case in affitto ad un prezzo affrontabile, e lo dico con una certa cognizione di causa, in quanto presidente dell’associazione nazionale delle società immobiliari (Aspesi). In fondo in fondo, tutti i figli (salvo casi da psichiatra) vorrebbero, a una certa età, avere la loro indipendenza, ma se non la ottengono è perché vi sono problemi oggettivi (reddito e casa): quindi se il Ministro dell’Economia cercasse di risolvere di più i problemi economici e, contemporaneamente, di fare meno ironia sarebbe meglio….

Solo su un aspetto vedo i ragazzi in età da lavoro in parte “bamboccioni”: la questione della mobilità sul territorio. Ricordo una trasmissione di Santoro su Italia 1, di molti anni fa, in cui un ragazzo del sud urlava cianotico che lui a Castelfranco Veneto a lavorare non ci sarebbe andato per nessun motivo e che lui aveva diritto al lavoro lì, nel paesino siciliano dove viveva con la sua famiglia.

Certamente, a Castelfranco Veneto, a fare l’operaio il ragazzo non sarebbe diventato ricco, magari avrebbe dovuto mangiare pane e cipolle per un po’. Ma avrebbe imparato un mestiere e alla data odierna, volendo, sarebbe già tornato in Sicilia. Con il know-how acquisito al nord avrebbe trovato un buon lavoro pure lì, oppure messo su un’attività propria: il futuro insomma sarebbe suo, mentre, con i suoi presupposti, non credo sinceramente sia finito molto bene.

Si ha un bel dire: io il lavoro ho diritto di averlo qui, ma è la società moderna – ben lontana dall’essere il paradiso terrestre – che in nessuna parte del mondo funziona così. Io ho due lauree, la prima con lode e pubblicazione della tesi e la seconda presa a Chicago dove se almeno (come Bertoldo in Francia) avessi potuto avere il pane con le cipolle sarei stato un signore (mentre invece mi dovevo accontentare di cibo in scatola); di mattina avevo le lezioni, il pomeriggio studiavo per gli esami e di notte scrivevo la tesi; per acquistare il famoso cibo in scatola (non avevo il tempo di cucinare) disponevo di un’oretta libera (l’unica) domenica pomeriggio; ho perso venti chili, ma ho avuto tre Premi Nobel come professori (Friedman, Stigler e Coase) e la mia vita è cambiata per sempre.

E nonostante questa partenza, nella mia vita professionale sono stato in trasferta a La Spezia, Cosenza e Terni, per più di un anno in ciascuna, e ancora alla mia età vivo a Milano mentre la famiglia (che vedo solo nel weekend) è a Genova, e quasi tutte le settimane mi faccio pure Torino e Roma. Cosa voglio dire? Che forse siamo responsabili anche un po’ noi se i nostri figli, ultratutelati da mamme e papà, non hanno il benché minimo spirito di sacrificio e non fanno mai una scelta per dovere, ma sempre per piacere. Questo è un fenomeno che danneggia loro e la società, il nostro Paese in particolare, diventato con l’estensione del “benessere” il meno dinamico tra tutti quelli dell’Ocse, dopo essere stato al vertice della classifica della produttività ai tempi del “miracolo” economico.

Che suggerimenti dare ai giovani? Io li riassumerei in un decalogo:

  1. se uno ha vocazioni precise, anche molto particolari (come lo studio del comportamento delle anguille), coltivarle a qualsiasi costo: oggi è tempo di speti e non di generalisti;
  2. se le vocazioni mancano, indirizzarsi verso materie scientifiche, sia alle superiori sia all’università;
  3. studiare molto, per quanto da ragazzi costituisca un sacrificio, ricordando sempre che la scuola è l’unico periodo della vita in cui qualcuno ti dà qualcosa, dopo sei tu che dovrai sempre dare: quando vai in classe pensa sempre che sei un/una privilegiato/a perché un poveraccio si agita per insegnarti qualcosa e per di più gratis perché è la società che paga per te;
  4. fare di tutto per imparare l’inglese; se mancano i mezzi andare a fare il cuoco a Londra (come ho fatto io, pur non mancandomi il sostegno della famiglia, ma per orgoglio…) o a Dublino; non ho detto, genericamente, di studiare le lingue, ma proprio di assimilare l’inglese, perché non maneggiarlo costituisce la moderna forma di analfabetismo, visto che tutto (dai voli aerei alla musica a Internet) è in inglese;
  5. evitare di ricorrere/affidarsi alle raccomandazioni e alle spintarelle: oggi, per fortuna, non sono necessarie (se non in circostanze e contesti molto particolari) e, in compenso, sono fonte di problemi e imbarazzi; e su questo problema non dire mai “fanno tutti così”: puntare il dito contro le colpe altrui – vere o presunte – è il peggior alibi per le nostre manchevolezze. La verità è che se le cose non vanno la colpa è solo nostra: il nostro futuro è nelle nostre mani;
  6. stare pure in casa con i genitori (cosa che non ha mai fatto male a nessuno) se fa piacere o è, temporaneamente, necessario, ma non smettere mai di cercare uno sbocco professionale, insomma non adagiarsi;
  7. muoversi sul territorio, accettare le opportunità reali, per quanto disagevoli, e poco convenienti possano presentarsi (non dimenticherò mai una coppia con figli che, a Chicago, ha caricato baracca e burattini in macchina ed è partita per la California – sei giorni di viaggio – perché aveva sentito cheforse là c’era un lavoro); dalle esperienze meno convenienti si impara molto di più che da quelle confortevoli e sono assets concreti per il proprio futuro;
  8. confrontarsi con il mercato reale, non pensare ai diritti, ma solo ai doveri e si finirà, così, per acquisire diritti; pensare che nessun lavoro è disonorevole, è disonorevole solo stare con le mani in mano; ricordarsi sempre che il paradiso terrestre non è stato ancora inventato;
  9. andare anche all’estero, ma non a divertirsi, bensì a lavorare e si finirà in questo modo anche per divertirsi di più perché nulla è più divertente di una nuova esperienza di lavoro in contesti difficili;
  10. non rinunciare mai ai sogni, ma operare con continuità perché diventino realtà: il sogno fine a se stesso diventa l’alibi per non lavorare e sacrificarsi. Mark Twain ha fatto a lungo il marinaio di fiume in un ambiente infernale per poter realizzare il suo sogno di diventare scrittore.* Dice di sé:
    Federico Filippo Oriana. Avvocato immobiliarista, Presidente dell’Aspesi – Associazione Nazionale Società Immobiliari, operatore giuridico-economico nel comparto immobiliare, appassionato di problemi istituzionali, internazionali e della difesa, Presidente del Comitato Regionale Ligure delle Comunicazioni (ente regionale dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni). Non è sportivo e non ha hobby, se non leggere e scrivere (non per “épater le bourgeois”, ma perché è vero…).
LAURENCE STERNEAvvi un’altra classe (…) noi distingueremo questi signori col nome di semplici viaggiatori. Laonde l’universalità de’ viaggiatori può ripartirsi per capi, così: viaggiatori scioperati, curiosi, bugiardi, orgogliosi, vani, ipocondriaci. Seguono i viaggiatori per necessità: il viaggiatore delinquente e il fellone, il viaggiatore disgraziato e l’innocente, il viaggiatore semplice. Ultimo (se vi contentate) il viaggiatore sentimentale. E qui intendo di me.

(Da “Viaggio sentimentale attraverso la Francia e l’Italia”, 1768)

 

INTERVISTE Rachele Zinzocchi - Luigi Sciò: Creiamo una Tv che pensi positivo

I segreti del presidente di Euroscena: filosofia della famiglia,
fede nella Provvidenza, attacco ai mass media e a Internet

Rachele Zinzocchi

LUIGI SCIÒ

Un uomo che si è fatto da solo e dal niente ha realizzato il proprio sogno di bambino: quello che cullava affacciato al balcone davanti agli studi De Paolis, con gli attori della dolce vita che andavano e venivano. Alla base di quel sogno, oggi felice realtà proiettata verso successi sempre maggiori, valori in primo piano come la famiglia, l’amore verso gli altri, la fede nella divina Provvidenza: una filosofia di vita che ha portato e porta idee innovative non solo sull’attuazione tecnica della televisione, ma anche – a sorpresa – sulla tv “fatta” e da fare, sui contenuti e i messaggi che l’informazione e il piccolo schermo in particolare oggi ci trasmettono.

Lui è Luigi Sciò, presidente di Euroscena: il gruppo che di recente ha realizzato tecnicamente la “tv della libertà”, il canale edito dai Circoli della Libertà presieduti da Michela Vittoria Brambilla. Ma il curriculum del gruppo è vastissimo: si va dalla cura di grandi eventi come il Vertice Nato Russia (nel maggio 2002 a Pratica di Mare), la Conferenza Intergovernativa Europea (l’ottobre dell’anno dopo), la Firma della Costituzione Europea (il 29 ottobre 2004 in Campidoglio), alla realizzazione di canali come La7 Sport, il Concerto di Natale in Vaticano trasmesso da Canale 5, la Festa Nazionale dei Carabinieri in onda su RaiUno, per continuare con grandi produzioni tv come “Il senso della vita” o “Fattore C”, condotti da Paolo Bonolis su Canale 5. Poche settimane fa, alla Fiera Internazionale IBC di Amsterdam, oltre tremila operatori del settore provenienti da ogni parte del mondo hanno visitato il Centro di Produzione Mobile HD di Euroscena, con un successo andato oltre ogni aspettativa.

Euroscena nasce oltre 20 anni fa, nel 1985, con l’intento di introdurre sul mercato un nuovo modo di fare servizio per il mondo dei media. Impegno, tenacia e determinazione – insieme con la fede – sono le parole chiave del gruppo, e anzitutto del suo presidente, che ha sempre avuto come obiettivo far sì che anche l’ultimo dei collaboratori si sentisse parte di una grande famiglia.

Incontro il presidente presso la sede della Direzione Generale, nella romana via Gomenizza: una splendida palazzina dove ti senti subito a casa. E la conversazione si sposta presto dal racconto dei suoi traguardi alla rievocazione di una storia di vita e di un pensiero precisi: con messaggi forti e idee chiare sull’aspetto non solo tecnico, bensì informativo e contenutistico che la tv trasmette oggi, e su ciò che invece dovrebbe secondo lui iniziare a trasmettere.

Come ha iniziato la sua attività?

“La mia passione è nata in via dei Durantini. Quando ero piccolo guardavo gli studi De Paolis, dove si giravano film storici e la cinematografia viveva il suo momento migliore. Avevo 13 anni allorché decisi di andare al bar degli studi e chiedere di poter servire io i caffè con i vassoi ad attori e registi: era l’unico modo per entrare nel set e, visto che i miei genitori non potevano permettersi di portarci in vacanza, volevo approfittare dell’estate per questo. Angelo De Paolis mi notò: fu opera della divina Provvidenza”.

La Provvidenza?

“Molti l’avrebbero chiamata fortuna, ma io sono un cristiano cattolico praticante da sempre. Angelo mi sentì che chiedevo di servire, e disse alla cassiera di prendermi. Mi mise in guardia però, facendomi quasi un interrogatorio. L’ambiente del cinema, all’epoca, era un po’ particolare: bisognava fare attenzione. Però mi disse che avrei potuto farcela. Grazie alle linee guida che mi diede, riuscii a formarmi e a fare vera esperienza”.

Le cose andarono bene da subito?

“Non dimenticherò mai il luglio del 1974: solo con le mance che portai a casa per aiutare la mia famiglia, misi insieme, in un mese, più dello stipendio di mio padre. Mamma si preoccupò un po’ per quei soldi: si chiedeva da dove arrivassero. Ma Angelo la rassicurò: ero diventato la mascotte del set. E presto comunque, grazie a lui, iniziarono i primi veri lavori: in particolare la prima collaborazione con la Rai”.

Cosa accadde?

“Angelo mi presentò Ettore Bernabei, uomo integerrimo e all’epoca potentissimo. Mi permise di fare il free lance e iniziai a realizzare i primi servizi come operatore di ripresa. Con la “scimmietta in collo” – la telecamera – cominciai a girare per il Medio Oriente, il Libano, facendo i primi reportage giornalistici. Iniziai finalmente a vedere i primi soldini e da lì, a forza di risparmio, risparmio, e tanto lavoro, misi insieme le basi per creare questa società”.

Tutto da solo?

“Ancora oggi posso dire “ho fatto” questa società: sono l’unico socio di questo gruppo. La riunione del consiglio d’amministrazione la tengo la mattina facendomi la barba e guardandomi allo specchio! Lì prendo le mie decisioni che, ringraziando Dio, sinora sono state oculate e vincenti. Ma devo condividere i meriti di questa grande avventura con la mia famiglia: una moglie straordinaria, che mi segue da trent’anni, che lavora con me occupandosi della parte economica, e i miei figli, anche loro in forza all’azienda. E poi i miei collaboratori: fedelissimi, scelti uno per uno negli anni, che si adoperano con una professionalità e un’abnegazione straordinaria, condividendo con me gioie e dolori.

Un leader con una forte appartenenza al gruppo: una famiglia allargata che lei sostiene e che la sostiene.

“Senza dubbio. La vera forza di questa società sono le risorse umane. È un discorso generale, ma qui lo facciamo valere con particolare convinzione”.

Con questi principi ha tagliato grandi traguardi, e non sembra volersi fermare.

“La nostra missione per i prossimi anni consiste nell’internazionalizzare il marchio sempre di più. Soprattutto negli ultimi sei anni abbiamo avuto un’escalation impressionante specie per i grandi eventi: trenta visite di capi di stato e governo, gestite integralmente, ci hanno attribuito una forte specificità professionale. Abbiamo già collaborazioni con altri Paesi, come la Libia, per farne evolvere la tv, o la Spagna, la Germania. In Italia, di recente, abbiamo fatto “I soliti ignoti” con Fabrizio Frizzi, “Exit” con Ilaria D’Amico, e soprattutto la tv della libertà di Michela Vittoria Brambilla.

Quest’ultima è stata proprio una grande sfida: vinta. Abbiamo creato tutto in un mese; è stato un lavoro massacrante, ma lo voleva direttamente il Presidente Berlusconi, e con lui ormai abbiamo un rapporto straordinario. Sono service storico di Fininvest, mi conosce da 16 anni e mi ritiene l’uomo dei miracoli. Io gliel’ho detto: “Speriamo di non fare la fine di Nostro Signore”. Ma lui sa che uno come me, con i collaboratori e le tecnologie che ha, alla fine riesce sempre a soddisfare le esigenze di questa persona straordinaria, intelligente e meravigliosa, che è Silvio Berlusconi”.

Berlusconi tornerà al Governo secondo lei? E quando?

“Il Presidente sta dando il meglio delle sue energie per riprendere la guida del Paese. La cosa darà i suoi frutti: credo che ormai i tempi siano maturi per un suo ritorno. Io l’ho sempre seguito, anche nella sua esperienza governativa: ha conosciuto le mie qualità di piccolo imprenditore, veloce, rapido… Una specie di mangusta!”.

Che intende?

“Beh, sono un “commando”… Vado, porto a termine la missione, torno a casa e rientro nell’anonimato. Sono uno che lavora: chiacchiera poco, sta con i propri uomini e fa squadra. Non mi interessa la ribalta: il mio lavoro, la mia famiglia sono i beni fondamentali”.

La filosofia della famiglia sembra guidarla in ogni scelta che fa. È così?

“Senza dubbio. Prima di tutto, anche del lavoro, viene la propria famiglia: costi quel che costi. Non bisogna mai dimenticarlo: altrimenti si finirà sempre col pagarne irrimediabilmente le conseguenze. Sarebbe come seminare su un terreno roccioso, senza radici, ove nulla di solido crescerebbe. La famiglia, al contrario, dà radici: se ben vissuta, seguita, consente vere soddisfazioni, come i figli, la propria moglie. E si dà anche il buon esempio a chi vive accanto a noi. Poi, certamente, c’è il lavoro. Ed è fondamentale che sia coltivato con profonda onestà intellettuale, con quel cuore che dà vita a tutto il sistema. In questo caso sì, porta frutti che maturano.

Anche per questo la mia azienda è una “grande famiglia”: ritengo un diritto-dovere di tutti i miei collaboratori che, quando hanno un vero problema, vengano subito a parlarne direttamente con me, saltando ogni anello intermedio. Le difficoltà vanno risolte con il capo: non ci sono alternative. Certo, ogni tanto è difficile, ci vuole un po’ di pazienza: bisogna anche imparare a buttare giù bocconi amari. Ma basta seguire la vita dei grandi santi per capire che una delle doti fondamentali dell’uomo è proprio la pazienza. Imparare a sopportare, quando necessario, dà forza e si trasforma in vita: chi ti è accanto, alla fine, lo capisce e lo apprezza. Così qui, come in una grande famiglia, ci si sopporta sempre a vicenda: ma ciò dà fiducia, forza, crea unione e fa sì che ciò che si costruisce venga edificato non sulla sabbia, ma su un terreno solido. Perciò questa filosofia fa parte del dna dell’azienda, ed è la carta vincente del gruppo”.

Anche un Paese è una grande famiglia?

“Senza dubbio. La filosofia della famiglia va vista in prospettiva generale. In qualsiasi contesto ci si trovi, qualsiasi cosa si realizzi, la si dovrebbe guardare come una grande famiglia. Anche un Paese, dunque, va visto e trattato come una famiglia. Questo è il segreto. Se poi uno poi crede, è avvantaggiato. La fede aiuta molto”.

Che vantaggi porterebbe la fede, magari anche sul lavoro?

“La fede aiuta ad andare avanti, dà forza, e fornisce anche delle grandi risposte. Ad esempio, siamo tutti scontenti? Beh, basterebbe guardarsi intorno per capire, al contrario, che siamo tutti fortunatissimi a prescindere: apparteniamo a quelle poche centinaia di milioni di benestanti del pianeta, mentre tutti gli altri vivono nella guerra, nella violenza. Solo questo dovrebbe renderci felici e soddisfatti – pur con le legittime ambizioni di ciascuno a migliorare sempre la propria posizione. La gente, invece, sembra aver dimenticato tutto questo.

E la fede aiuta a ricordarlo meglio. Pensare a chi sta peggio, aiutare chi soffre, fa sì che ci trasformiamo da potenziali grandi egoisti – chiusi nell’arida e vuota solitudine di una vita spesa per il proprioego e nient’altro – a persone che si danno, si donano agli altri. E sono da sempre certo che ciò che si dà gratuitamente agli altri alla fine “torna indietro”: il bene che si fa è esattamente quello che si riceve, in un circuito virtuoso che crea apertura, reciproco scambio e miglioramento per tutti”.

Mi ricorda la morale calvinista – il successo nel lavoro come segno della grazia di Dio, e viceversa.

“Si tratta semplicemente di valori morali, di correttezza e serietà. Io sono e voglio essere sempre a disposizione dei miei collaboratori: loro sanno che farò qualsiasi cosa, con tutta la mia passione, per aiutarli. Un grande capo deve sempre mantenere ciò che dice, anche a costo di fare il più grande dei sacrifici: su questo non ci sono alternative, altrimenti perde credibilità. Questo mi ha insegnato la vita. Non avendo nessuno dietro le spalle, ti devi formare, devi chiedere lumi alla Provvidenza. E il bene fatto darà i suoi frutti, in ogni campo”.

E chi non crede?

“In primo luogo, per me tutti siamo credenti: qualsiasi cosa in cui io credo, è stata generata da Dio, è una sua manifestazione. Se io ho fede, perché mi è stata trasmessa e sono cresciuto in un certo modo, non ho nessun merito: ma, ugualmente, nessun demerito va a chi la fede non ce l’ha perché magari non gli è stata trasmessa. Dobbiamo cancellare dunque queste divisioni: abbattere certi muri e renderci conto che siamo tutti uguali. Smettiamola di andare a cercare le pagliuzze negli occhi altrui, e guardiamo piuttosto le travi che sono dentro di noi. Se faremo così, di certo questo mondo andrà meglio”.

Di recente la Chiesa è stata messa più volte sotto giudizio, anche dai mass media e sui mass media: inchieste giornalistiche, come quella di “Exit” sull’omosessualità fra i sacerdoti, o testimonianze dirette, come il “prete innamorato” Don Sante Sguotti, hanno fatto emergere un mondo sommerso, di cui peraltro da tempo si parlava.

“Guardi, a proposito del lavoro di “Exit”, io posso anche condividere l’aspetto giornalistico dell’inchiesta, ma non mi è piaciuto il modo in cui si è andati a stigmatizzare e quasi ad enfatizzare quell’aspetto negativo della Chiesa che, indubbiamente, è stato dato da quei quattro preti. Il fatto è che la Chiesa non sono quei quattro preti: io, come padre di famiglia, condanno loro nella maniera più totale, ma la Chiesa è ben altro, è un’altra entità.

La Chiesa è quella che lotta in Brasile, in Africa, adoperandosi nel mondo: è l’ultimo baluardo che ha il male dinanzi. Dopodiché non resta che la distruzione totale del pianeta. Quella puntata di “Exit” mi ha ferito un po’. Va bene aver fatto l’inchiesta. Ma mi piacerebbe se ora Ilaria D’Amico facesse una puntata concedendo lo stesso spazio al racconto di tutte le splendide e straordinarie azioni realizzate dalla Chiesa, ovunque, dalle associazioni caritatevoli, da personaggi come Madre Teresa di Calcutta, Padre Pio, i grandi santi. Peccato che operazioni del genere non accadano mai”.

Perché, secondo lei?

“Per una sorta di perversione mentale ormai invalsa nella nostra società e nei mezzi di comunicazione. È il dramma esistenziale dei paesi più industrializzati: tutto ciò che è negativo fa audience, tutto quel che è bene non lo fa. Questo, più che un errore, è un orrore: si tengono in vita trasmissioni che potrebbero essere di grandissima utilità – e lo sono anche: ma non fanno il loro dovere fino in fondo”.

I mass media sono responsabili di offrire un modello negativo, che incrementa il male già presente nel mondo, in noi stessi?

“Esattamente. Pensiamo anche ai telegiornali che vediamo ogni sera. Non fanno che offrirci immagini di persone che bruciano il padre o uccidono la madre, stuprano ragazzine, si cimentano in ogni forma di violenza… Queste cose, però, sono sempre esistite: con ciò non le giustifico certo, semplicemente dico che fanno parte dell’essere umano. Il male va combattuto: ma, portandolo quotidianamente dinanzi ai nostri figli, lo enfatizziamo, creando un modello che rimane stampato nelle loro teste sin dalla culla, in base al quale davvero rischiano di crescere e di formarsi.

Io adoro i ragazzi: sono la parte più importante della nostra società benché, oggigiorno, sia pure necessario fare attenzione a dire quanto li amiamo. Basta un niente e si rischia di essere presi per orchi assassini che vogliono fare loro del male. E proprio questo è il punto: la società, coi mass media, ci ha educato a questi modelli solo negativi, ad essere sempre guardinghi verso tutti. Non va bene: non ci stiamo godendo questo mondo straordinario che ha creato il Padreterno. Occorre dunque fare di tutto per enfatizzare il bene, ciò che fa bene e fa crescere sani i nostri figli. Del male si accorgeranno da soli, strada facendo. Noi, nel frattempo, dovremmo combatterlo, non dargli voce”.

In che modo la televisione potrebbe fare questo?

“Anzitutto realizzando un’informazione giornalistica seria, mirata non a spettacolarizzare il problema, ma semmai a portarlo di fronte alle autorità competenti, riservatamente, affinché lo risolvano davvero. Si potrebbe andare là dove il problema sussiste, filmarlo con una telecamera e poi sottoporre tutto alle autorità: stimolandole così a fare il loro lavoro, precisando che, in caso non ci si comporti di conseguenza e con responsabilità, allora sì che il filmato o l’intervista saranno mandate in onda. Ma solo poi: solo se le precedenti e importanti vie ufficiali non sono servite. Dall’altra parte, diamo vita ad un altro tipo di televisione. Io sono per natura un uomo positivo in tutto: e una tv del genere vorrei che nascesse”.

Dalla realizzazione tecnica delle tv ai contenuti dei programmi: quale tv creerebbe?

“È vero, ho tante idee e mi piacerebbe portarle anche come possibili contenuti creativi di trasmissioni. Bisognerebbe avere la forza di trovare degli editori che, comprendendo l’importanza della fase che viviamo, implementino un modo di pensare in positivo. Chi farà questo avrà il futuro in mano. Anche perché la tv generalista è destinata a cadere sempre più sotto i colpi di Internet: e se non creiamo un modello di televisione di questo genere, sarebbe la fine. C’è il serio rischio che la gente finisca col rifugiarsi solo nel mondo virtuale di Internet: una realtà capace di far deragliare definitivamente chiunque”.

Condanna radicale anche per Internet?

“Ancora di più. Internet sarebbe uno strumento tecnologico bellissimo se utilizzato per buoni scopi. Ma l’uomo nasce con una piaga dentro, il male: e dentro il web c’è come un moltiplicatore dei vizi, è l’espressione massima delle nostre debolezze. Internet è morbosità, bisogna davvero essere fortissimi per non cedere alla curiosità e lasciarsi tentare dall’andare su certi siti che mostrano cose bruttissime, per l’uomo, per la donna. Perciò è ovvio che prima o poi, in un momento di debolezza o stanchezza, Internet possa far deragliare chiunque, spingendo la persona a rifugiarsi in un meccanismo perverso che conduce all’autodistruzione. Così, meglio tenersene lontani. Si guardi intorno: io qui, nel mio ufficio, non ho proprio computer: non ho niente, così evito ogni tentazione. Quando ho bisogno di una ricerca per lavoro, la faccio fare o da mia moglie o dalle mie collaboratrici. Mi evito questo trappolone e sto bene così”.

Gli strali che ha lanciato, le sue forti critiche contro una certa tv e contro Internet non hanno adombrato però il suo sorriso.

“So di essere una mosca bianca, ma a me piace vivere così. Vado avanti, cerco di lavorare bene e mi fido di quel che mi manda la divina Provvidenza”.

Matteo Lo Presti - Quando Pertini e Saragat erano a Regina Coeli

Tra aneddoti personali e schietti giudizi, Giuliano Vassalli rievoca quasi un secolo della storia d’Italia

Matteo Lo Presti *

“È vero nel 1978 fui candidato alla Presidenza della Repubblica. Fu Craxi a proporre la mia candidatura, ma i comunisti si opposero per il mio atteggiamento possibilista su un gesto da compiere per la liberazione di Aldo Moro, mi tacciarono di essere anticomunista. Craxi aveva tentato anche la candidatura di Antonio Giolitti, ma Cossutta prima e Napolitano poi si opposero all’una come all’altra candidatura.

Ma io sarei scappato piuttosto che fare il Presidente della Repubblica, non ero all’altezza. Però non dimenticherò mai che Berlinguer andava in giro per la Camera dei Deputati con un articolo nel quale compariva una mia intervista che perorava la causa della liberazione di Aldo Moro. Io sono sempre stato un secchione, ho saputo solo studiare nella mia vita ed ho il rimpianto di avere trascurato la famiglia, non certo di non essere stato eletto Presidente della Repubblica”.

Giuliano Vassalli, nato il 25 aprile del 1915, nel suo fastoso studio ricolmo di libri, tutti bene ordinati, (su una sedia impilati, sempre con molto ordine, “quelli che devo leggere nei prossimi giorni”) racconta con toni pacati uno dei tanti episodi che incoronano una vita spesa al servizio della democrazia e di un Paese che non sempre è stato capace di riconoscere la magnanimità dei suoi cittadini migliori.

I giovani conoscono Giuliano Vassalli? Cosa sanno della sua storia intrepida di militante antifascista, sopravvissuto alle torture in via Tasso, nel cuore di Roma, per un caso fortunato del destino? Parlamentare, Ministro delle Giustizia, professore universitario, avvocato penalista di grido, Presidente della Corte Costituzionale, una forte personalità impastata di intelligenza e di grande rigore morale, Giuliano Vassalli, con toni miti e atteggiamento schivo, con precisione sistematica, rievoca la sua vita senza scordare dettagli, con una forza analitica invidiabile e un pizzico di ironia sorniona e divertita. Il racconto non può che partire da lontano.

“Sono stato un alunno precoce, studiavo per la prima classe elementare con mia madre, a Genova, in casa; agli esami per frequentare la seconda ero così ben preparato che mi ammisero alla terza. Il ginnasio inferiore lo frequentai dai Barnabiti. Poi a Roma, sempre seguendo i trasferimenti di mio padre, mi iscrissi al liceo Visconti nella sezione C. Lottavo con la matematica, avevo un professore che si chiamava Golisciani, piccolo piccolo, vestito con divisa militare di colonnello di artiglieria che al primo compito mi diede, come voto, zero spaccato. Mi sembrava di essere meglio orientato verso la storia e la filosofia.

Mio padre docente di diritto mi lasciò libertà di scelta, alla fine decisi di iscrivermi alla facoltà di giurisprudenza. Ero, ovviamente, come tutti i giovani, iscritto al Guf, ma riuscivo sempre a svignarmela. Politicamente, come tutti i giovani, avevo idee variegate: attraversai il periodo in cui mi dichiaravo comunista, perché mi piaceva seguire questo ideale astratto di uguaglianza e di giustizia sociale. Poi durante la guerra d’Etiopia, sventolata con grande clamore, si risvegliò in me un forte sentimento nazionalista. Ricordo che persino Vittorio Emanuele Orlando ebbe a dire “Mi metto a disposizione per puro spirito di servizio”.

Ma la sua formazione sota che itinerario ha seguito?

“Ha influito molto sulle mie idee sote la vicenda drammatica e bella dello zio materno Mario Angeloni, antifascista dichiarato, medaglia di argento della Prima Guerra mondiale, che fu confinato nel 1926 ad Ustica, proprio tra i primi avversari del regime. Scoppiata la guerra civile in Spagna morirà in combattimento il 28 agosto del 1936.

Poi toccò all’Italia essere coinvolta nella guerra. Sotto le armi mi trovai prima imboscato sul fronte francese e poi, a Torino, membro della commissione che doveva controllare l’armistizio con la Francia. Il generale comandante era Pietro Pintor, zio del giovane Giaime, che morì saltando su una mina e di cui si parla molto in questi ultimi anni, per le sue idee e per le sue scelte politiche. Io navigavo già con sicurezza verso le idee sote. Ricordo che Raimondo Craveri, esponente del partito d’azione, mi sfotteva “Ma cosa fate, rifondate il Partito Sota? e direttore dell’Avanti chi proponete Benito Mussolini?”.

Poi con l’8 settembre 1943 la vita di Vassalli prese una direzione drammatica. Il professore ne parla con accenti piani, quasi a sostenere soltanto che quelle scelte avevano il senso giusto di una doverosa normalità.

“Quella data mi vide presente a Roma presso il tribunale militare. Con Mario Zagari, Leo Solari, Giacinto Cardona e Tullio Vecchietti era stato rifondato il PSI con il nome di PSIUP e, nella semiclandestinità, ci adoperammo per fare liberare tutti i confinati”. E il racconto di Vassalli mette in evidenza nobiltà e coraggio di un mondo tragicamente dilaniato.

“Pertini e Saragat erano in carcere a Regina Coeli, Nenni insisteva per liberare Saragat. Organizzammo con Alfredo Monaco, medico sota che lavorava all’interno del carcere, una evasione legalizzata. Con l’aiuto di Massimo Severo Giannini mi impadronii di alcuni moduli con i quali costruimmo falsi ordini di scarcerazione. In modo rocambolesco sette uomini, tra cui appunto Pertini, e Saragat riuscirono a fuggire”.

La storia narra anche che Pertini non volesse uscire se non fossero stati liberati tutti i soti. Al momento dell’evasione, uno del gruppo dei sette da fare fuggire si attardava in fureria perché voleva gli fossero restituiti gli oggetti sequestrati all’ingresso in carcere: Pertini, da dietro, gli diede un calcio negli stinchi e gli bisbigliò: “Non capisci che stiamo evadendo?”.

Vassalli aggiunge sornione “Pertini rimase, in seguito, scherzosamente molto arrabbiato con Nenni perché aveva saputo che Saragat era l’ostaggio preferito da liberare e gli urlava bofonchiando “E già! Io vecchio carcerato potevo pure morire in carcere!”.

Vassalli non vuole raccontare dei due mesi in cui fu rinchiuso nelle stanze di via Tasso. Entrato, sanguinante, per le percosse subite in via del Corso per un tentativo di evasione dalla auto in cui le SS lo avevano sequestrato, dal 3 aprile ’43 al 3 giugno ’43 fu sottoposto a torture indicibili. Si porta solo le mani alla testa per rimuovere ricordi agghiaccianti, ma si è saputo che con i polsi legati dietro la schiena con il filo di ferro, era costretto a mangiare nella gamella buttata sul pavimento “come i cani” dirà in una sua preziosa testimonianza.

“Mio padre era amico di Francesco Pacelli, fratello del papa Pio XII; si erano conosciuti durante i lavori per la firma del Concordato del 1929. La sera del 3 giugno mi venne incontro un sacerdote tedesco, padre Pancrazio Pfeiffer: pensai fosse giunto il momento dell’esecuzione; era invece il sacerdote che aveva ottenuto la mia scarcerazione”.

Docente di procedura penale a Genova, dove aveva anche studiato qualche anno al Vittorino da Feltre, durante un trasferimento del padre nel capoluogo ligure, salito poi in cattedra, in contemporanea vive da protagonista una grande stagione della politica nazionale. Sempre autonomista, è Capo di gabinetto di Pietro Nenni, vice Presidente del Consiglio; hanno un contenzioso sulle strategie del partito: Vassalli vuole dare le dimissioni, Nenni lo prega di rimanere. Partecipa alla scissione di palazzo Barberini, diventa segretario del PSLI (poi PSDI).

Dopo l’unificazione tra i due tronconi storici del somo italiano diventa parlamentare dal ’68 al ’72. È molto impegnato nella riforma dei Codici e nella attuazione della Carta Costituzionale, ma esercita, anche con grandi successi, la professione di avvocato penalista.

“Al famoso processo Montesi difendevo l’imputato Ugo Montagna: fu definito il processo del secolo. Implicato, come si ricorderà, anche Piero Piccioni figlio del ministro DC Attilio Piccioni. Un processo che era una montatura: il mio assistito era completamente innocente, poi difesi, anni dopo, il collega Antonio Lefebvre, incriminato per lo scandalo Lockheed che costò al Presidente della Repubblica Leone le dimissioni e l’arresto in aula di Mario Tanassi, accusato dal suo ex compagno di partito il Presidente della Corte Costituzionale, il socialdemocratico Paolo Rossi. Poi ho difeso al processo Bebawi (1964) il marito accusato dalla moglie di avere ammazzato l’amante libanese della donna :lei accusava lui, lui accusava lei,furono assolti per insufficienza di prove. Processi importanti non ne ho mai persi”.

Vassalli fu anche Palermo, come testimone, a difendere Andreotti per i provvedimenti legislativi che da Presidente del Consiglio aveva preso contro la mafia (la legge per bloccare l’uscita dalle carceri, per scadenza di termini, di circa quaranta capi della mafia già condannati in primo grado). Senatore dall’83 all’87, Ministro delle Giustizia dall’87 al 91. È stato uno stretto collaboratore di Bettino Craxi, del quale dice:

“Avevo un ottimo rapporto con lui, non abbiamo quasi mai litigato, se non sulla valutazione di certi personaggi; non era, come si pensa, un decisionista assoluto, ma, invece, molto riflessivo e, certamente, un autonomista riformista di grande valore. Aveva un pessimo carattere, usava una eccessiva brutalità, trattava male la gente e, soprattutto, trattava male gli avversari. Nessuno nel partito osava fargli rimproveri o critiche. La gestione del partito non andava bene, grandi spese, architetti, effetti scenici, queste esagerazioni non conquistavano i vecchi soti, come me, che non apprezzavano e, io stesso, ero diventato brontolone. Ma riuscimmo a portare in porto la modifica del Codice di Procedura Penale che si trascinava da sei legislature, con l’aiuto del democristiano Martinazzoli e del comunista genovese Raimondo Ricci”.

Domanda inevitabile sullo stato delle giustizia nel nostro paese.

“Troppe sofferenze nel campo della giustizia per tante cause, soprattutto un conflitto permanente tra la politica e i magistrati: vedi il caso Mastella. La Carta Costituzionale vede il Ministro come sostegno dei magistrati, ma i magistrati, sia i giudici sia i pubblici ministeri, sono governati dal Consiglio Superiore della Magistratura e il conflitto tra governo e CSM è facilmente interpretabile: o i ministri si sottomettono, si piegano o si alimenta una conflittualità permanente, con disagi continui. C’è la Corte Costituzionale che da sempre è un organo al di sopra delle parti. Anche il popolo di sinistra si è accorto che riformare il CSM è una cosa spaventosa: i magistrati fanno un uso smodato di personalismi, con scarsa disponibilità a rispondere delle loro azioni. Il Presidente Giorgio Napolitano ha messo, talvolta, il dito nella piaga anche in questi mesi, ma i magistrati fanno sempre finta di niente”.

Sarà mai stato attratto Vassalli dalla professione del magistrato?

“Assolutamente no. Né giudicare, né accusare il prossimo è mestiere che mi si addice”.

Un’ultima riflessione sulla attualità della politica italiana.

“Il partito democratico è una importante novità, ma ricordo che Occhetto rifiutò qualsiasi compromesso con la parola sota. Un errore che la sinistra sta scontando ancora oggi”.

Come Ministro della Giustizia portò a compimento importanti riforme legislative, oltre alla riforma del Codice di Procedura Penale: il patrocinio gratuito dei non abbienti, la riforma della legislazione antimafia, quella della legislazione antidroga. È decorato di medaglia d’argento e di croce di guerra.

Una volta ha scritto “Il contributo morale della Resistenza fu altissimo. Questo consentì all’Italia di collocarsi tra i paesi assertori della libertà e del riscatto dall’orrore del nazismo. Gli ideali da trasmettere ai giovani sono quelli dell’umanità, della giustizia, della libertà e della pace. Ma mai quelli della pace a ogni prezzo, contro la dignità e la libertà degli uomini”.

Herbert Kappler l’esecutore della strage delle Fosse Ardeatine gli gridò mentre si allontanava libero dalla prigione: “Signor Vassalli faccia in modo di non dovermi mai più rivedere”. La storia avrebbe predisposto diversamente: Kappler condannato all’ergastolo e Vassalli testimone dell’ amore per la democrazia e capace di affermare “Sono un veterano, ma anche un apprendista, ogni giorno apprendo sempre un’infinità di cose”.

Il colloquio è finito, il tempo di assaggiare un dolce, offerto con grande generosità e accarezzare la copertina di un libro su Garibaldi appena avuto in omaggio. Roma appare più bella, più tersa, l’aria della libertà ha proprio un buon profumo.

* Dice di sé:
Matteo Lo Presti. Nato a Spilimbergo (Pordenone) il 24 luglio 1944 . I genitori, padre siciliano e madre friulana, si incontrarono per merito dell’8 settembre. Ha studiato a Genova al liceo Colombo. Affascinato, giovanissimo, dalle virtù etiche e politiche di Sandro Pertini, è da più di quaranta anni iscritto al PSI. Docente di storia e filosofia, ha svolto intensa attività giornalistica. Cesare Lanza, personaggio raro nelle sue tante virtù e nei suoi non pochi, ma innocenti, difetti, già direttore del quotidiano sota “Il Lavoro” di Genova, gli ha insegnato il lieto, allegro e duraturo sentimento della autentica fedeltà all’amicizia.

ANTOINE DE SAINT-EXUPERYIl piccolo principe si sedette sul tavolo ansimando un poco. Era in viaggio da tanto tempo. (…) “Che cosa fate qui?”. “Sono un geografo”, disse il vecchio signore. “Che cos’e un geografo?”. “È un sapiente che sa dove si trovano i mari, i fiumi, le città, le montagne e i deserti”. (…) “Le geografie”, disse il geografo, “sono i libri più preziosi fra tutti i libri. Non passano mai di moda. È molto raro che una montagna cambi di posto. È molto raro che un oceano si prosciughi. Noi descriviamo delle cose eterne”.

(Da “Il piccolo principe”, 1943)

 

Francesco Canino - Doppia personalità, con un solo amore: la Sardegna

Cronista precisa e sbeffeggiatrice dei costumi moderni: le complicate facce di Marella Giovanelli

Francesco Canino *

Confesso che il mio doppio mi aiuta molto, mi salva la faccia. In realtà sono un uomo che rispetta le convenienze. Evacuo nella scrittura le fantasie e la follia. Metto nelle parole tutto quello che posso e ritengo così di salvarmi la pelle. Ci tengo a questa chiarezza. Nascondo la faccia e vado avanti, come una statua cieca guidata dall’alto. Di volta in volta tutto ciò mi diverte oppure mi angoscia. Manco alla poesia nella vita quotidiana. Manco di follia.

(“Lo scrivano”, Tahar Ben Jelloun, Einaudi, 1996)

A Punta Lada è arrivato l’autunno. La frenesia dell’estate, il tripudio dei grandi yacht supertecnologici e le magnum di Cristal, che innaffiano le feste dei magnati russi, sono solo ricordi di un passato recente. Le nuvole basse annunciano la pioggia che forse non arriverà prima di sera, il mare freneticamente agitato s’infrange sulla scogliera che si staglia al fondo del grande prato verde di una casa sarda, di quelle che vivono tutto l’anno e non solo nei febbrili mesi estivi. Una puntuta tramontana soffia portando con sé il profumo di mirto e sempreverdi, e scompiglia i ricci biondi e ribelli della padrona di casa, donna dall’involucro appariscente, morbidi seni, languide curve, dal contenuto sobriamente ironico e malinconico.

Sotto il pergolato che durante l’estate ha ospitato pranzi leggeri e cene fatte per tirare fino a tardi con gli amici di una vita, avvolta in una calda coperta rossa ecco Marella Giovannelli: sfida il primo freddo, guardando rapita il mare stranamente rabbioso della sua terra e chiede a quelle increspature ancora un po’ d’ispirazione per i suoi versi. Perché Marella Giovannelli, più conosciuta come giornalista e “regina del gossip” (l’investitura ufficiale è arrivata quest’estate dalle pagine del “Corriere della Sera”, che le ha dedicato un ritratto nella rubrica “Tipi d’estate”), ha per la poesia una passione di quelle che scoppiano immediate e incontenibili.

“Il mare si veste d’inverno/le onde rapite/dalle guglie di pietra/e schiuma di perle/sulle rocce lucide/di sole freddo” scriveva nel 1997, in un libretto dal titolo “Mareamore”. E proprio mentre il mare della sua Sardegna si veste d’inverno la incontriamo per raccontare come “le parti del doppio”, quelle delle nostra personalità, possono convivere senza conflitto. Perché quest’avvenente signora che vent’anni fa ha lasciato una brillante carriera da interprete parlamentare e la spensieratezza della Roma craxiana degli anni ’80 per tornare nella sua terra, è Marella Giovannelli ma è anche Mara Malda: una parte della sua personalità è dominata dalla precisa e seriosa cronista e scrittrice, l’altra dalla impertinente osservatrice/sbeffeggiatrice dei costumi moderni. Nel mezzo la passione quasi primordiale per la sua terra, e la poesia vissuta come fluido che sgorga dall’anima.

“Non avevo scritto, né letto una poesia fino al 1990. Non m’interessava, mi sembrava una cosa immensamente distante da me. Poi c’è stato un evento molto doloroso, un lutto difficile da superare. Un giorno avevo un foglio bianco davanti, ho sentito l’esigenza di prendere in mano una penna e ho iniziato a scrivere versi”.

E così, parola dopo parola, è riuscita a mettere assieme tre raccolte di poesie (“L’estranea”, “Mareamore”, “Equatore celeste”) che si trovano sul suo sito, e a curare, almeno in parte, attraverso la poesia le ferite dell’anima che quel dolore le ha procurato. Ora sta preparando un’antologia con novanta poesie ispirate ai quattro elementi (aria, acqua, terra e fuoco) con un progetto grafico davvero accattivante.

Ma le sue creazioni non sono solo versi malinconici o tetri racconti di un cuore spezzato. Sono un inno alla Sardegna, al suo mare, alla sua gente. Ed è proprio partendo da una delle sue poesie, “Estate nel paradiso perduto”, che si può ragionare su cosa è oggi la Costa Smeralda, se davvero Porto Rotondo è diventato “Morto Rotondo” (copyright di Dagospia) e su come i “personaggi” sono stati scalzati dai “personacci”, come scrive provocatoriamente Mara Malda.

In estate
nel paradiso perduto
della mia terra
geneticamente modificata
ad uso e consumo
del mercato e della stampa
impetuoso scorre
il fiume di neve bianca.
Vizi pubblici
da esibire in branco
nella Corte dei Miracoli
studiati a tavolino.
Sciami di elfi glabri e fatine seminude
guidati da Re Magi in processione
salgono sulla giostra del Pavone Brizzolato.
Nella villa del Pifferaio-Burattinaio
nidificano gli esemplari più belli
da rivendere e mostrare
dietro percentuale.
Alla Fiera della Vanità
sono tutti in posa
mai per qualcuno
sempre per qualcosa.
Compratori e venditori
adulatori e imbonitori
sfoderano sorrisi
da sfingi e mummie.

Mai una risata o un pianto
privi di agenti chimici
l’isteria è ancora meglio
fa più divina creatura
tra storie d’amore confezionate
misteri ingloriosi
e carni esotiche pronta cassa
.

L’ironia si fa palpabilmente amara, perché amaro è il ritratto della Sardegna dei nostri tempi invasa da sciami di personaggi famosi (o convinti di essere tali) che vivono questa terra come trampolino di lancio per carriere destinate a durare tanto quanto un battito di ciglia o forse il tempo di leggere l’articolo che li riguarda su un settimanale patinato. Così non è difficile capire che il “Pavone Brizzolato” è l’astuto Flavio Briatore e che la “villa del Pifferaio-Burattinaio” è quella del reuccio di viale Monza, Lele Mora, o che la “Fiera della Vanità” è quel calderone dentro cui si mescolano gli interessi dei settimanali scandalistici (un business sul quale sarebbe interessante indagare ancora), quelli di agenti senza scrupoli e di pseudo artisti disposti a tutto e, inevitabilmente, quelli di una terra che grazie a loro campa, anche se un certo disprezzo si fa sempre più malcelato.

“Io parlo proprio perché sono stata una delle prime a raccontare cosa succedeva in Costa Smeralda. Ho assistito al mutamento di questi anni, al moltiplicarsi di locali e ristoranti, all’invasione dei turisti che ha indubbiamente fatto molto per l’economia della Regione, non dobbiamo dimenticarcelo. Sono la prima a non provare fastidio nei confronti del cosiddetto gossip, che è una specie di fabbrica dei sogni…”.

Anche perché con lo pseudonimo di Mara Malda ne hai raccontati di pettegolezzi, hai svelato retroscena e amori, ultimo in ordine di tempo quello sul nome dell’accompagnatore estivo di Valeria Marini. Tanto che il “Corsera” ti ha incoronato “regina del gossip”.

“No, ha scritto che ero la regina del gossip”.

Perché hai spiegato attraverso una metafora, che è come se avessi fatto indigestione di ciliegie: hai scritto e detto talmente tanto che ti è venuta “l’orticaria al solo pensiero di scrivere ancora di sagre lelemoriche, briatore, venturiche e certosine”.

“Esatto, continuo a pensarla così, ma voglio chiarire che cosa mi turba. Sono nata ad Olbia, amo la mia terra e in questi anni ho assistito ad un mutamento che ha creato in me, e in molte altre persone, un fastidio quasi epidermico: perché la Sardegna è diventata una vetrina, una piazza mediatica dove chiunque può venire, prendere notorietà e glamour e poi andarsene senza dare niente in cambio. La considero una cosa molto triste e faccio un esempio recente, che ha fatto parlare molto quest’estate.

Quando Zucchero è venuto a cantare al Cala di Volpe è successo un mezzo putiferio perché, come forse qualcuno saprà, ha iniziato prendendosela con una signora che maneggiava un cellulare ed è finito con l’insultare il pubblico perché lì in mezzo c’erano i cosiddetti “ricchi”, direi anche qualche multimiliardario. Insomma, gente che qui ha investito già dagli anni ’60, e lui li ha trattati come colpevoli. Vorrei chiedere a quell’arrogante e villano chi gli ha dato i trecento mila euro per cantare in quell’albergo, che è stato costruito proprio da quelli che lui ha trattato a pesci in faccia”.

Insomma, come ha scritto il Corriere, continui “da vent’anni a non mancare ad un appuntamento mondano, alto o basso che sia”.

“Ovvio perché sono una giornalista e racconto tutto quello che succede da queste parti”.

Poi nel 2001 decidi che Marella Giovannelli continuerà a raccontare la Costa, la cronaca, gli eventi istituzionali e culturali, ma che c’era bisogno di far venire fuori l’altra parte di te, quella più pungente e scanzonata, che raccontasse i retroscena, il “non detto”, gli episodi più indiscreti: nasce così Mara Malda, lo pseudonimo che cela l’identità più frivola.

“Mara Malda è il mio lato ironico e birichino”.

Ma nel tuo caso vale ciò che scriveva Cartesio, e cioè che “ci sono cose create, siano esseri viventi e non viventi, che hanno una natura tale che non possono esistere senza alcune altre?”, in sostanza Marella e Mara possono esistere l’una senza l’altra, oppure sono parti troppo contraddittorie e opposte per “sopportarsi”?

“Credo che abbiano bisogno l’una dell’altra e non penso siano in conflitto. Semplicemente avevo bisogno di una specificazione più netta: quando scrivo di gossip sono Mara, quando scrivo di cose più serie sono Marella”.

Sta di fatto che lei in Costa Smeralda, Mara o Marella, è una delle voci più accreditate, tutti la invitano e tutti sanno di poter contare sulla sua riservatezza.

“Perché non racconto tutto quello che so, ci mancherebbe! Ho grande rispetto per gli altri”.

È lei a decidere se far arrivare al grande pubblico il tale amore piuttosto che la tale litigata, se raccontare o tacere tutti i particolari di una cena: a lei dobbiamo la foto di Berlusconi in versione Tony Manero, completo bianco e camicia aperta sul petto, ma anche quelle del Cavaliere neo trapiantato con bandana in testa in piazzetta a Porto Cervo con Tony Blair.

“Ultimamente mi tocca pure smentire certe notizie. La “bufala Smeralda” di quest’estate era la storia di Berlusconi che alla festa di compleanno della cantante Ana Bettz aveva indossato una collana con una croce di smeraldi: la notizia è rimbalzata su tutti i quotidiani, ma io alla festa c’ero e posso dire che non aveva nessuna croce di smeraldi, tanto che poi la mia foto ha fatto il giro del mondo.

Un episodio di “costume-scostume”, come dico io, nato da un’invitata che è stata contattata nel corso della cena da un fotografo che non era riuscito ad entrare nella villa: e lei ha pensato bene di inventarsi questa storia senza aver nemmeno visto da vicino l’ex Premier”.

Lei invece Silvio Berlusconi l’ha incontrato più di una volta, visto che è la sua “vicina di casa” a Punta Lada, in via della Certosa, e la sua villa confina con il famoso Parco. Pochi giorni fa l’ha sorvolato in elicottero scattando alcune foto che mostrano proprio  le trasformazioni del parco, che fino a pochi anni fa era completamente abbandonato.

“Il giudizio sull’uomo politico lo tengo per me. Posso, però, giudicarlo per cosa ha fatto per questa terra. Al parco ci andavo a correre tanti anni fa e ricordo quanto fosse malmesso e quanto certe aree fossero degradate: ettari di bosco non curati erano diventati una specie di discarica a cielo aperto e il famoso laghetto della sua villa era una pozza di liquami dove chiunque poteva andare e scaricarci di tutto. Lui ha rimesso tutto in sesto, anche grazie all’architetto Gianni Gamondi, che mi ha fatto visitare la tenuta pochi anni fa, e ha aperto la proprietà alle visite private: ad esempio le scuole di Olbia e dei dintorni vengono qua in gita per visitare il maestoso orto botanico”.

Torniamo però alla “vita Smeralda”, quella di ieri e quella di oggi. In primo luogo è cambiato il turismo, che una volta era di èlite e oggi è diventato di massa, con stuoli di persone che armati di macchina fotografica vagano in cerca del “vippetto” di turno.

“C’è un episodio che mi ha molto colpito. Quest’estate ero in piazzetta a Porto Rotondo all’ora dell’aperitivo: ho visto arrivare l’?g? Kh?n con cinque o sei uomini d’affari di livello internazionale. Improvvisamente ho visto un codazzo di gente con macchinette digitali a portata di mano spostarsi verso di lui e ho pensato che se le persone erano interessate a lui forse qualcosa stava cambiando. L’illusione è sparita dopo pochi secondo quando ho visto materializzarsi Lele Mora”.

Eppure hai dichiarato che secondo te “è molto abile e sa fare molto bene il suo mestiere”.

“Lo confermo, è uno che sa anticipare le esigenze del mercato. Ma nelle mie cronache non entrano né lui né Fabrizio Corona, uno che campa grazie alle disavventure giudiziarie. Purtroppo, e ne ho avuto la conferma proprio qui in Sardegna, l’inchiesta “Vallettopoli” non ha cambiato proprio niente: speravo in un’inversione di tendenza, che certi “personacci” scegliessero un profilo basso e invece niente, gli “avanzi di galera” continuano ad avere la meglio. Si continua a riempire con la rissosità e con la cialtroneria la noia e il nulla che avanza”.

Cosa c’è di diverso tra le feste da “bullonaire” dei “morti di fama”, come scrive D’Agostino, e quelle che organizzava Marza Marzotto o il conte Luigi Donà delle Rose?

“C’è un abisso, perché nelle feste che si organizzano oggi, il divertimento è finto, sponsorizzato, e poi c’è sempre un doppio fine che è quello di apparire sui giornali o essere paparazzato. E poi sembrano tutti zombi, con la musica a volumi insostenibili, non si parlano nemmeno. Una volta in casa di Marta Marzotto incontravi Inge Feltrinelli, il poeta Dario Bellezza che ti raccontava di Alberto Moravia, di Elsa Morante o di Pier Paolo Pasolini, e ancora Coveri che ti faceva vedere le sue ultime creazioni. C’erano grandi personalità, artisti e intellettuali veri”.

Di quelli che si possono incontrare ancora oggi, non al Billionaire o al Sottovento, ma nelle ville immerse in sublimi parchi, circoli chiusi dove i “veri” personaggi fanno vita ritirata: così, se chiedete a Marella Giovannelli quali sono gli incontri che l’hanno più colpita quest’estate, non aspettatevi i soliti nomi del jet set internazionale, Woody Allen a parte. Perché lei è stata l’unica giornalista italiana ad incontrarlo a Porto Rotondo, prima che il regista di “Misterioso omicidio a Manhattan” volasse al Festival del cinema di Venezia, grazie alla complicità dell’amica Adriana Chiesa, vedova del direttore della fotografia Carlo Di Palma, per lunghi anni assistente del regista newyorkese.

Ma la sua attenzione è stata interamente rapita da tre sardi famosi nel mondo e cioè Mario Ceroli, Pinuccio Sciola e Salvatore Niffoi. Di quest’ultimo, vincitore dal Premio Campiello nel 2006 con “La vedova scalza”, ha scoperto la poco conosciuta abilità pittorica che si manifesta con una serie di quadri che evocano suggestioni oniriche intense e potenti. È stata la Giovannelli la prima a svelare che Mario Ceroli (fino al 6 gennaio prossimo al Palazzo delle Esposizioni di Roma, riaperto dopo cinque anni di lavori, con un allestimento monografico di Mark Rothko e una mostra su Stanley Kubrick) tornerà a lavorare a Porto Rotondo, lì dove quarant’anni fa ha iniziato la sua carriera di scultore, e dove porterà a termine le cosiddette “incompiute”.

“Ceroli è un uomo di grande carisma, e grazie all’interessamento del conte Donà Delle Rose, si occuperà del portone della Chiesa di San Lorenzo a Porto Rotondo, un monumento nel monumento: è, infatti, composto da mille lastre di vetro che, intersecandosi tra loro, grazie all’effetto della luce – presa sia dall’esterno sia dall’interno – del colore e dello spessore, creano il disegno della croce. Ma si occuperà anche del rosone e soprattutto del campanile in legno, un’opera unica al mondo per materiali e dimensioni. Interverrà poi sull’anfiteatro e su Piazzetta Rudalza”.

Anche Pinuccio Sciola, scultore e pittore di fama internazionale, l’uomo che fa “cantare le pietre” interverrà nel centro storico della città, in via Riccardo Belli (che diventerà una grande opera d’arte a cielo aperto), dove istallerà un tappeto di pietre con dei segni e negli spazi lungo la strada realizzerà dei piccoli salotti monolitici e una serie di sculture sonore.

“L’incontro con Sciola è stato molto emozionante perché è una persona che ha mantenuto un contatto con la sua terra, nonostante il successo mondiale. Ho avuto addirittura il piacere di provare a far suonare le sue sculture, blocchi di pietra sapientemente intagliati e penetrati da profonde lame, che diventano strumenti se si accarezzano più o meno intensamente. Il maestro mi ha spiegato che il calcare non è altro che acqua fossilizzata perciò la memoria della materia è rimasta all’interno della pietra quindi sfiorandola produrrà un rumore che ricorda lo scorrere dell’acqua, mentre se si “suona” il basalto il suono ricorda il divampare del fuoco”.

Sciola, che ha recentemente esposto alla Biennale di Venezia, ha impressionato anche i Frati Francescani della Basilica di Assisi, che hanno scelto di mettere una sua opera accanto alla tomba di San Francesco.

“Tutte le volte che mi chiedono quali sono gli incontri che mi hanno colpito maggiormente rispondo dicendo che sono questi tre grandi sardi. Vorrei davvero che la Sardegna non fosse nell’immaginario collettivo solo la terra della “invasioni” dei “personacci”: per loro è tutto uguale, non notano se una Chiesa torna a risplendere per l’intervento di un grande scultore, non sanno che questa non è solo la terra raccontata dalla cronaca rosa. Intravedo un’inversione di tendenza che mi fa ben sperare, c’è voglia di arte e di cultura. Un buon auspicio? E che il 2008 sia per la Sardegna l’anno della grande rinascita!”.

* Dice di sé:
Francesco Canino. Nato a Torino ventisei anni fa, laureando (per la gioia di mamma) in Scienze Politiche, con una tesi sulla “metamorfosi dell’intervista”. Amerebbe scrivere un libro su Bettino Craxi e sul suo ruolo di innovatore nella comunicazione politica italiana. Pur non credendo nella reincarnazione, nella vita precedente pensa di essere stato un ozioso aristocratico dell’antica Roma morto (continuando a mangiare) durante l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. In quella futura spera di essere la nuova Raffaella Carrà. Collabora con i settimanali della Mondadori “Tu” e “Confidenze”.

HENRY JAMESA Bologna trovai una festa, o per meglio dire due feste, una civile e l’altra religiosa, che si svolgevano in un clima di reciproca diffidenza (…). La lunga prospettiva viaria, tra i portici, era ornata di festoni e di ghirlande scarlatte e cariche d’orpelli; i paramenti, le croci, i baldacchini dei sacerdoti, le nuvole di fumo carico di essenze, i veli candidi delle giovinette (…). A dire il vero fu quella la prima volta che una festa italiana offrì veramente al mio sguardo quel piacevole ardore e quei particolari romantici promessi dalle canzoni e dalla storia.

(Da “Ore italiane”, 1873)

 

PADRI & FIGLI Isabella Rauti - Pino Rauti, dolce mediatore in famiglia, in politica aspro e intransigente

La sua immagine pubblica? Molto diversa da quella privata di padre:
perché, talvolta, il gioco degli stereotipi è il più semplice da praticare

Isabella Rauti *

Il ticchettio dei tasti della vecchia Olivetti risuona in tutta la casa e sono solo le cinque del mattino.

Se chiudo gli occhi, è questa la prima immagine che ricordo di mio padre, Pino Rauti. Avrò avuto cinque anni e lui, all’epoca giornalista de “Il Tempo”, si occupava delle cronache della Provincia. Spesso, per farsi perdonare le prolungate assenze, mi portava una bambola caratteristica di una regione o di un paese straniero che aveva visitato. Finii per averne una collezione. E poi ricordo ancora i giorni spensierati delle vacanze: quelli al mare, trascorsi a Cattolica, dove papà ci raggiungeva, di tanto in tanto, specie nel fine settimana, e quelli in montagna, a Glorenza, luogo che ci ha visti protagonisti di interminabili passeggiate. Io approfittavo di quei momenti per stargli vicino, sempre vicino, tanto che, alla fine, lui mi attribuì il soprannome di “francobollo”, perché gli stavo, letteralmente appiccicata.

I viaggi nei ricordi non sono sempre facili, perché, insieme alla nostalgia, che sembra rendere tutto più dolce e sopportabile, fanno riaffiorare anche la memoria di eventi che ci hanno procurato piccole e grandi ferite: così, in qualche modo, il ricordo riapre quelle ferite, che, forse, non si sono mai rimarginate.

E, a volte, mi chiedo, come potrebbero. Proprio in questi giorni al mio ottantenne papà è stata comunicata la richiesta di rinvio a giudizio per la strage di Brescia, 1974. Sono passati “solo” trentaquattro anni. E pur considerando la totale fiducia che mio padre ha sempre nutrito nei confronti delle istituzioni, non posso non pensare ad un preciso intento persecutorio che si muove dietro queste accuse, prive di elementi probanti.

“Non c’è mai una penna vicina al telefono”, “ma dove vai con quel trabiccolo?”, “non ti sciupare”, “perché non ti compri un capino elegante?”. Queste erano le frasi che, con mia madre e mia sorella Alessandra, gli sentivamo dire più spesso. Nascondono, ancora oggi, un misto di tenerezza ed apprensione per tutte noi e, di sicuro, anche l’estrema cura che aveva per l’ordine: la mancanza di una penna vicina al telefono era, davvero, motivo di vivaci discussioni. Ma un uomo solo, contro tre donne, poteva poco. Era sommerso dall’universo femminile. Subiva le liti tra me e mia sorella, le discussioni tra noi figlie e mia madre. E lui, tutte le volte, provava a mediare, a ricucire, a risolvere piccoli e grandi conflitti. Ecco, a distanza di anni, nonostante la mia famiglia avesse certamente una gestione matriarcale, riconosco a mio padre la capacità di essere stato un grande mediatore familiare.

Aveva autorevolezza, ma non esercitava l’autorità maschile, tipica di quei tempi. Credo che ad essere “atipica”, comunque, fosse la mia famiglia nel suo complesso. La politica militante è stata, infatti, per noi, un tratto tipico, una sorta di collante. I miei genitori si erano conosciuti nella federazione romana del Movimento sociale italiano. Mia madre, all’epoca, era fiduciaria di istituto per il Partito e mio padre un esponente nazionale giovanile. Tutte le loro scelte successive, sia di vita privata sia professionali, sono state influenzate da questo credo profondo. Anche lo stare a casa di mia madre è da intendersi come una scelta di “militanza”: perché mio padre potesse svolgere al meglio la sua attività politica era necessario che la gestione familiare fosse nelle sue mani. Questo non le impediva, tra l’altro, di partecipare attivamente a tutte le attività di partito e di fare la militante come si definisce tutt’ora.

Avevo nove anni quando entrai per la prima volta alla sezione Balduina del Movimento sociale. Mi ci portò mia sorella Alessandra che allora aveva quattordici anni. L’unica cosa che potevo fare, a quell’età erano, le pulizie della Sezione ed arrotolare i manifesti. Ma da allora in poi è stato un impegno ininterrotto ed ovviamente crescente. E mio padre, che ci ha sempre lasciate libere di fare le nostre scelte, ha avuto, da allora, come principale preoccupazione quella della mia formazione politica e culturale. Ancora oggi mi ritaglia articoli di giornale o mi segnala convegni che ritiene possano essermi utili. Un po’ come, quando ero piccola, e la sera mi sedeva accanto e mi raccontava i suoi “fatterelli”: erano storie della guerra e degli anni immediatamente successivi, in cui i tratti storici si intrecciavano a quelli della fantasia. Un giorno, tornando a casa dopo scuola, felice perché, insperatamente, avevo avuto un buon voto al compito di matematica, trovai delle persone che non conoscevo e che, mi disse mia madre, avrebbero portato via papà. Alla mia richiesta di spiegazioni, rispose con educazione uno di quegli uomini, che mi rassicurò dicendomi che papà sarebbe tornato presto. Erano agenti in borghese, venuti per arrestare mio padre; la detenzione durò poco tempo, ma per essere completamento prosciolto dovemmo aspettare molti anni!

E fu così che, qualche giorno dopo, quando la maestra, per un compito in classe, ci chiese di descrivere un evento particolare, io raccontai dell’arresto di mio padre. Di come la casa, da quel giorno si fosse riempita di piccoli animali che fino a quel momento i miei genitori ci avevano impedito di avere, del motorino che mia sorella avrebbe comprato, e di mia madre che ci tranquillizzava, quotidianamente, sul fatto che il papà era innocente e che dovevamo avere fiducia. Conclusi il compito scrivendo che, nonostante tutto quello che era accaduto, se qualcuno mi avesse chiesto quale fosse il mio cognome, avrei risposto sempre più fieramente “Rauti”. Quel tema venne pubblicato, nel 1972, sul “Secolo d’Italia”, con richiamo in prima pagina. Ricordo il mio rammarico per la cornicetta da me disegnata attorno al titolo del compito e che non era per niente carina.

Come dicevo, il ricordo può addolcire certi eventi, ma di certo non cancella il dolore al quale con grande dignità la mia famiglia ha sempre reagito. Le scritte infamanti, che c’erano sempre state, cominciarono ad invadere ogni spazio della nostra vita, dal portone al pianerottolo di casa, ai muri della scuola. Per non dire dei problemi avuti con gli scout, con i genitori di alcune mie amiche, dei freni tagliati al motorino di mia sorella. Episodi che, invece di indebolire hanno rafforzato la mia famiglia, per merito, ne sono convinta, anche di mia madre che, negli anni, è stata nostro riferimento costante.

A partire dalle scuole medie, fui iscritta ad una scuola privata perché la pubblica, allora, con il mio cognome, poteva essere troppo pericolosa. Il tempo della politica sarebbe arrivato dopo. A tredici anni e mezzo, mi iscrissi al Fronte della gioventù. Mio padre, come genitore, era preoccupato per quella mia scelta, ma come politico certamente non poteva impedirmela. La sua unica raccomandazione era di non rinunciare agli impegni ed intrattenimenti  tipici dei ragazzi della mia età. Cercai di seguire il suo consiglio. Ma la politica continuava ad esercitare il suo fascino preferenziale.

Qualche aneddoto familiare e politico? Accompagnavo spessissimo mio padre in giri di Partito; andammo ad un convegno a Civitavecchia (erano i primi anni ’80),e mi ero vestita, completamente, di rosa. Inaspettatamente, mio padre mi chiese se mi ero vestita così per il “bel Tony”, un dirigente di allora. Fui colta totalmente di sorpresa da quella domanda che fu rivelatoria, e dovetti riconoscere che aveva ragione. Mi conosceva meglio di quanto io conoscessi me stessa. La storia con il “bel Tony” cominciò qualche tempo dopo e lui lo venne a sapere da un “pettegolezzo”. In un incontro di partito, papà lo avvicinò dicendogli, più o meno “So che mia figlia ti guarda; ma sappi, è troppo piccola per te, ha un brutto carattere, è polemica, discute su tutto è impegnativa”. Penso che lo abbia scoraggiato.

Quando si trattò del fidanzamento con Gianni (che poi è diventato mio marito), mi impegnai molto a tenere la cosa segreta. Ma come era inevitabile che fosse, lui venne a saperlo. Del resto, la figlia di Rauti fidanzata con  giovane dirigente di spicco, forniva materiale per più di una chiacchiera. Mio padre mi disse che avrebbe preferito saperlo da me, “non per avere la mia approvazione, ma per stare tranquilla con la tua coscienza”. Aggiunse anche che quell’unione poteva essere “perfetta e micidiale”, perché lui non aveva mai conosciuto due persone più pignole e cocciute di noi. Oggi, a distanza di tanti anni, posso affermare che quella frase è stata profetica.

Era il 1995, quando a Fiuggi si celebrava l’ultimo congresso del Movimento Sociale e si apriva il primo di Alleanza Nazionale. Mio padre, come tutti sanno, andò via, con altri, da Fiuggi, per fondare in seguito la Fiamma Tricolore. Quando io decisi di seguirlo, mi raccomandò di scegliere liberamente, di non sentirmi obbligata nei suoi confronti. Mi fece una raccomandazione molto paterna: “Io e tua madre siamo stati sempre insieme”. Laddove quel “sempre” stava ad indicare anche i periodi più bui, quando, forse, per mia madre sarebbe stato più semplice tirare i remi in barca. “Metti la famiglia al primo posto”, continuava a dirmi, ma, ciononostante, non ha mai commentato le mie scelte, né allora né oggi, non ha mai espresso giudizi sulle scelte politiche di mio marito, pur non condividendole, né fatto commenti. Di tutto questo, oggi gliene sono profondamente grata.

Gratitudine che nutro, in particolare, per l’aiuto avuto durante i primi anni di vita di mio figlio, quando approfittando delle sue abitudini mattiniere, affidavo al nonno il piccolo e mi concedevo qualche ora di sonno. Oggi, seppure in modi differenti, nonno e nipote si adorano e vivono una grande complicità, grazie soprattutto al primo che concede al secondo cose impensabili per noi figlie, da piccole. Un esempio per tutti: gli consentiva di sedersi sulla sua scrivania, spostando le carte che c’erano sopra. Conoscendo la sua ossessione per l’ordine, direi che questa è una delle più grandi concessioni che abbia fatto a mio figlio.

In politica sono sempre stata al suo fianco dagli anni Settanta ai primi anni del 2000: questo non significa che con mio padre non ci siano mai state discussioni, anzi. Le nostre querelle erano all’ordine del giorno, in merito all’organizzazione, alla scelta dei collaboratori, alla modalità di affrontare certi problemi e, ovviamente, di risolverli. La differenza generazionale si traduceva, per forza, in una differenza di linguaggi e di visioni, ma non di sentire. Quello ci ha sempre accomunato e ci accomuna ancora.

Anche sul piano professionale ho avuto la fortuna di agire sempre in assoluta libertà. Anche se, talvolta, devo confessarlo, avrei voluto che lui mi avesse preparato, in qualche modo, al mondo del lavoro. Invece non ha mai insegnato a me o a mia sorella “come” si può fare carriera o come si sgomita. Ha sempre creduto in una società meritocratica. “Fai quello che ti piace, quello in cui credi ed il tuo lavoro verrà riconosciuto” erano le sue uniche raccomandazioni.

Di certo, non posso dire che il mio cognome non mi abbia condizionato. Prima del mio arrivo spesso la gente ha già un’idea di me, senza avermi mai vista o conosciuta. Sono come preceduta dal pre-giudizio. E questo, di sicuro, non mi ha mai agevolato. E proprio in virtù di ciò, mio padre mi ha sempre spronato a fare bene, a fare meglio, e se possibile, a lavorare fino all’eccesso.

Una volta con estrema lucidità mi disse “Non capisco perchè una come te non abbia fatto il concorso in magistratura” – “Perché sono laureata in lettere”, risposi. Questo per dire quanto fosse profonda la cifra della sua discrezione nei nostri confronti: nessun condizionamento di sistema. Una cosa alla quale teneva profondamente e che ripeteva spesso era che se avessi deciso di fare politica, non avrei dovuto fare della politica un lavoro. Lui stesso, era stato avvocato prima e giornalista poi.

Dunque dovevo trovarmi un lavoro, così da essere libera di non dipendere dalla politica o da un marito. Così è stato: prima insegnante, poi giornalista, contrattista di ricerca e poi professore a contratto e, l’impegno negli Organismi di pari opportunità ed ora al Ministero del Lavoro come Consigliera nazionale di Parità, che attualmente, assorbe la maggior parte del mio tempo.

E credo che questa pulsione verso la giustizia sociale e la passione per i temi della parità tra i generi siano, in qualche misura, una eredità lasciatemi da mio padre, sfatando, così, anche in questo, un altro pregiudizio semplicistico su di lui: che un uomo del Sud, di destra, per giunta, non potesse avere un’attenzione preferenziale per la condizione sociale del mondo femminile. E invece, il rispetto della donna e la sua indipendenza sono stati valori che mio padre mi ha sempre trasmesso. Anche quando nel 2004 ho aderito ad Alleanza Nazionale, lui non ha commentato in alcun modo questa mia decisione. Non ne era particolarmente entusiasta, ma ha detto che mi capiva. Credo, infatti, che l’unica cosa che, davvero, gli avrebbe procurato un dispiacere sarebbe stato se il mio sentire fosse stato diverso dal suo. E quello, come dicevo prima, non è mai cambiato. Passo diverso, sì, ma medesimo sentire, sempre.

Ci sono giorni in cui vorrei ancora dire di essere il suo francobollo. E sebbene il nostro rapporto sia necessariamente cambiato nel tempo, rimane sempre profondo, quasi viscerale, come quando da piccola mi ammalavo perché, come scoprì dopo molto girovagare, un vecchio pediatra, soffrivo per la lontananza di mio padre. Così, ancora oggi, lui continua a seguire la mia formazione, nonostante qualche acciacco di salute ed io, in cambio, mi offro per piccole commissioni che, però, lui tende sistematicamente a rifiutare. È un padre tenero ed accogliente, senza essere troppo protettivo. Anzi, come ho più volte sottolineato, mi ha lasciata libera, fin troppo, di scegliere e di sbagliare.

La politica per lui è stata ed è ancora una grande passione. Il suo atteggiamento è di quelli che “seanche mi dicessero che morirò domani, stanotte pianterei un albero nel mio giardino”. Si accinge, tra l’altro, ad opere che non vedrà crescere, ma questo non frena in alcun modo  la sua voglia di fare e questo vale per la politica, ma non solo. Mi piace utilizzare una recente affermazione di Marcello Veneziani, che vedrei bene applicata per definire la generazione politica di mio padre, quella dell’ante politica. Una generazione di politici, cioè, che hanno vissuto, coerentemente, l’idea di politica come passione, come bene comune ed interesse nazionale. Forse è anche per questo che oggi più di prima, gli è riconosciuta una certa autorevolezza, anche dagli avversari.

Perché, per lui, la politica è socialità, idealità, prima di essere ideologia e progettualità. E forse oggi la debolezza di una certa politica sta nell’incapacità di trovare risposte adeguate ai problemi nuovi ed ai nuovi bisogni, elaborando.

Pino Rauti è mio padre, ma per molte generazioni della destra italiana è stato un riferimento politico ed intellettuale; invecchiare è uno degli eventi più naturali della vita, ma anche uno di quelli che si riescono ad accettare di meno, e questo vale sia come figlia sia come “militante”. So bene che la sua immagine pubblica, per forza di cose, appaia profondamente diversa da quella vera e privata; del resto, il gioco degli stereotipi è il più semplice da praticare: repubblichino, fascista… sembravano dire tutto, invece riassumevano e non abbastanza, perché con questi schemi molto della sua persona e personalità resta escluso. Ma i pregiudizi, si sa, sono difficili da estirpare: sarebbe come abbandonare delle comode e rassicuranti certezze per impegnarsi nella fatica del conoscere e dell’andare in profondità.

Cosa vorrei dire a mio padre oggi? Molte cose, e gliele dirò! Intanto, per piacere, comprati una macchina nuova!

* Dice di sé:
Isabella Rauti. Laureata in Lettere e in Pedagogia, ha iniziato la sua carriera come insegnante nelle scuole superiori. Giornalista professionista e docente universitario a contratto, non ha mai abbandonato l’attività politica che la vede impegnata in prima fila sin dalla gioventù. Oggi si dedica principalmente ad attività associative ed istituzionali nel campo della parità di genere e delle pari opportunità. Ambito che la vede protagonista come autrice di libri, tra cui “Istituzioni politiche e rappresentanza femminile”, Editoriale Pantheon, 2004 e “La presenza delle donne nelle Istituzioni politiche: un deficit di democrazia”, Nuove Idee, 2005.

JACK KEROUACAdesso considera un po’ questi qua davanti. Hanno preoccupazioni, contano i chilometri, pensano a dove devono dormire stanotte, quanti soldi per la benzina, il tempo, come ci arriveranno… e in tutti i casi ci arriveranno lo stesso, capisci. Però hanno bisogno di preoccuparsi e d’ingannare il tempo con necessità fasulle o d’altro genere, le loro anime puramente ansiose e piagnucolose non saranno in pace finché non riusciranno ad agganciarsi a qualche preoccupazione (…) e una volta che l’avranno trovata assumeranno un’espressione facciale che le si adatti e l’accompagni.

(Da “Sulla strada”, 1957)

 

Federico Filippo Oriana - Otto settembre, appuntamento col destino

Il ricordo di Giuseppe Oriana * e di una giornata particolare che avrebbe cambiato la storia d’Italia

Federico Filippo Oriana 

I miei genitori si erano incontrati nell’agosto del 1943 sulla spiaggia di Pegli, a Genova, non uno dei momenti migliori per conoscersi. Mio Padre, l’allora Tenente di Vascello Giuseppe Oriana, era 2° Direttore di Tiro del Regio Incrociatore Garibaldi in quel momento in banchina a Genova.

L’atmosfera a bordo era in quei giorni surreale: la bellissima unità, vanto della cantieristica italiana, era pronta a muovere e quello che si sapeva e pensava era che la destinazione, l’ultima, sarebbe stata il basso Tirreno per l’estrema battaglia, il supremo sacrificio della Flotta contro un nemico ormai soverchiante che era stato onorevolmente combattuto per oltre tre anni. Tutto l’equipaggio era al corrente della sproporzione di forze, soprattutto aeree, in quella zona dove gli Alleati (ora anche gli americani) stavano concentrando mezzi senza precedenti in vista di uno sbarco: si trattava, quindi, per dirla chiaramente, di un olocausto al quale un equipaggio stupendo di oltre 800 persone, di tutte le provenienze geografiche, sociali e culturali, si stava preparando con uguale serenità e composta consapevolezza.

Non mancarono in quei giorni episodi commoventi, come sottufficiali e marinai di Genova che andavano a terra per portare qualcosa, ma soprattutto l’ultimo saluto,  alle famiglie che pensavano di non rivedere più. Era frequente che il personale prendesse il coraggio di fermare gli ufficiali, soprattutto i più giovani, per domandare che cosa stesse per accadere, ma quei brevi colloqui finivano sempre con la stessa, comune e condivisa conclusione: “Fare il proprio dovere!”. E senza neppure sapere quale fosse.

L’8 settembre arrivò l’ordine di cambiare ormeggio per mettersi in condizione di uscire più rapidamente dal porto: qualcosa, evidentemente, stava per succedere! Mio Padre, che era a casa dei miei nonni materni in visita, fu richiamato e riportato a bordo da un motociclista: non avrebbe rivisto mia Madre per venti mesi. E lì, ormeggiati tra due boe in parallelo alla diga foranea, nel pomeriggio si diffuse come un lampo la notizia dell’armistizio.

Il Comandante, l’allora Capitano di Vascello Giorgio Ghe, cercò subito di comunicare telefonicamente con il Comando Squadra sulla Regia Corazzata Roma a La Spezia e, dopo varie difficoltà, ricevette finalmente l’ordine di salpare insieme a tutta la VIIª Divisione Navale dislocata a Genova e di riunirsi in alto mare alle altre unità delle Forze Navali da Battaglia provenienti da Spezia e dirette alla Maddalena dove vi sarebbe stato il contatto con i comandi alleati.

Era già buio e mio Padre aveva come posto di manovra la poppa: quando arrivò l’ordine di mollare prese il megafono e gridò al rimorchiatore di lasciare la cima, aggiungendo – come da consuetudine -: “Grazie, Comandante”. E quello con il suo megafono rispose: “Buona fortuna, ma noi rimaniamo qui con quelli là!”. Alludeva ai tedeschi: la incredibile lucidità dei semplici!

Gli uomini si erano comportati perfettamente, nonostante la stanchezza di quaranta mesi di guerra combattuta in stato di perenne inferiorità tecnica e di mezzi. Ma il disorientamento era visibile, sottufficiali e marinai, molti dei quali avevano le famiglie in Liguria, si chiedevano che senso avesse salpare e per andare dove? La guerra era finita… perché non andare a casa? Mio Padre era stato contattato da molti uomini e sempre con gli stessi interrogativi che agitavano gli animi e turbavano le menti.

Quando ebbe la possibilità di salire in plancia chiese al Comandante cosa stesse davvero succedendo. Il Comandante Ghe gli rispose: “il Governo del Re mi ha ordinato di andare alla Maddalena, io ho giurato fedeltà al Re e questo è il mio Dovere. E lei Oriana cosa pensa di fare?” “Il mio Dovere, Comandante!”.

Il Dovere! Incredibile che una sola parola fosse bastata a muovere un’intera e immensa Squadra Navale. Era l’atmosfera dominante la Marina del tempo e in tanti anni di carriera dopo la guerra, come Comandante (anche delle due Scuole più importanti, l’Accademia Navale e il Morosini), come Ammiraglio, persino come Parlamentare mio Padre non si è stancato di ripetere ai giovani il valore di quella parola che da sola aveva salvato – caso unico nella storia – la flotta intera e unita di una Potenza sconfitta, flotta sulla quale – come aveva profetizzato subito l’Ammiraglio Carlo Bergamini, il Comandante in Capo delle Forze Navali da Battaglia, nel suo famoso ordine del giorno della sera dell’ 8 settembre – la Nazione avrebbe in un breve volgere di tempo riedificato le proprie fortune.

Dopo il ricongiungimento nella notte con il resto della Squadra, intorno alle 15 del 9 settembre, a ovest della Sardegna, si affacciarono in cielo gli aerei tedeschi. Il Garibaldi seguiva di poppa il Roma e si videro in aria delle strisce rosse. Mio Padre aveva sentito parlare, da un ufficiale, di collegamento tedesco di missili teleguidati che i tedeschi stavano sperimentando per colpire le navi dagli aerei. Così quando le vedette gridarono “Segnala!”, mio Padre dall’aletta di plancia di sinistra urlò invece, immediatamente, “Razzi!”.

Il Comandante Ghe – che da un precedente brutto incontro con un sommergibile nemico davanti a Punta Mesco aveva imparato a fidarsi di mio Padre, che in anni di guerra in Egeo ne aveva viste di tutti i colori – ordinò, con pari prontezza, un’immediata accostata a dritta e il razzo, pur teleguidato, a quella velocità non fece in tempo a correggere e finì in mare cinquanta metri di prora alla nave sulla sinistra.

Fu così che il Garibaldi si salvò dal primo attacco missilistico della storia navale, mentre analoga fortuna non ebbe il Roma che fu centrato da un razzo successivo. Mio Padre vide attonito la prora della nave Ammiraglia quasi gonfiarsi per l’esplosione e in un attimo perdersi le vite del suo Comandante in Capo, l’Ammiraglio Carlo Bergamini, e di più di 1.200 persone tra le quali molti suoi amici e perfino compagni di corso.

La notizia dell’immane tragedia arrivò subito a terra e mia Mamma – si può immaginare con quale stato d’animo – pensò che mio Padre potesse essere tra gli scomparsi. Per molti mesi, con un’Italia divisa in due, non ebbe notizie, sino a quando, con l’aiuto della Chiesa (unica organizzazione ancora capace di collegare il Sud e il Nord dell’Italia, più forte delle varie linee Sigfrido e Gotica) riuscì a sapere che mio Padre era sano e salvo e stava partecipando alla guerra di Liberazione. Ne attese il ritorno e nel 1945 si sposarono con un felice matrimonio durato quasi sessant’anni fino alla morte di mia Mamma nel dicembre 2003 e del mio Papà l’8 settembre – il suo giorno del destino – 2007.

* Dicono di lui:
Giuseppe Oriana. Ammiraglio di Squadra (c.a.). Onorevole e Senatore. Medaglia di Bronzo al Valor Militare “sul campo”, tre Croci di Guerra al V.M., tre Croci al Merito di  Guerra, Medaglia Mauriziana al merito di dieci lustri di servizio militare, Medaglia d’Oro per Lunga Navigazione nella Marina Militare, Stella d’Oro per Lungo Comando Navale, Cavaliere di Gran Croce al Merito della Repubblica Italiana;          53 anni di servizio allo Stato (1934- 1987): al momento del suo ritiro era il più lungo in assoluto in Italia (anche rispetto ai parlamentari che erano stati membri della Costituente); Primo Comandante della prima nave lanciamissili di costruzione italiana, il CT Impavido, (di cui aveva curato personalmente l’allestimento come Direttore di Marinalles Genova); Comandante del Collegio Navale F. Morosini di Venezia dal 1964 al 1967; Comandante l’Accademia Navale di Livorno dal 1967 al 1969; Comandante in Capo dell’Alto Tirreno dal 1974 al 1978; Senatore della Repubblica nell’8^ e nella 9^ legislatura per il collegio di La Spezia (primo ed unico Ammiraglio di Squadra ad essere stato eletto Senatore nella storia della Repubblica Italiana); Membro della Commissione Difesa del Senato nell’8^e nella 9^ legislatura (promotore e relatore di  importanti leggi a favore del personale militare e della gente di mare) (con l’attività in Commissione Difesa ha realizzato  un servizio alle F.F.A.A. lungo 53 anni che costituisce un primato nella storia italiana almeno dopo  l’ultima guerra); Premio Marinaro “Il Leudo di Riva Trigoso” nel 1986  (per una vita dedicata al mare); Cavaliere di Gran Croce – Distintivo Blanco al merito della Repubblica del Perù; Presidente Onorario dell’Associazione Scuola Navale Militare F. Morosini  (della quale e’stato fondatore) ininterrottamente dal 1982 al 2007.

MARCO POLOSignori imperadori, re e duci e tutte altre genti che volete sapere le diverse generazioni delle genti e le diversità delle regioni del mondo, leggete questo libro dove le troverrete tutte le grandissime maraviglie e gran diversitadi delle genti d’Erminia, di Persia e di Tarteria, d’India e di molte altre province. E questo vi conterà il libro ordinatamente siccome messere Marco Polo, savio e nobile cittadino di Vinegia, le conta in questo libro e egli medesimo le vide.

(Da “Il Milione”, 1298-1299)

JULES VERNESi precipitò sul foglio di carta e con occhi scintillanti e voce commossa lesse interamente il documento, risalendo dalle ultime lettere alle prime. Ecco che cosa c’era scritto. “Discendi nel cratere di Yocul dello Sneffelsche, l’ombra dello Scartaris viene a lambire prima delle calende di luglio, viaggiatore ardito, e perverrai al centro della terra. E questo ho fatto io. Arne Saknussem”.

(Da “Viaggio al centro della terra”, 1864)

 

AMARCORD Fiammetta Jori - Dario ho posato, come sai una rossa rosa...

Lettera in rosso a Dario Bellezza. Per Pasolini il miglior poeta della sua generazione

Fiammetta Jori *

A Dario

– ancora –

Dario

ho posato, come sai

una rossa rosa

sul tuo petto, accanto

ad un fragile piccolo ramo

di palma.

– È solo tua questa Domenica delle Palme-

Nell’umida dissolvenza

del mio pianto

vedo la palmetta striminzita

e la rosa in boccio

sul tuo cuore che riposa.

L’allegoria

che il destino ha voluto

è già poesia.

Quella palma di fede,

dell’eterno mistero e

questa rosa

dell’effimero splendore

della vita

sono insieme,

per sempre e non casuali,

a scrivere per te

sul candore del panno

che ti avvolge,

come messaggio di una pagina estrema,

l’universale verità

dell’anima.

Ma non potrà la mia rosa

Appassire,

sul rosso mai esangue del ricordo

del tuo, nel mio,

cuore vivo.

Fiammetta Jori

31 marzo 1996

“L’amore, sì: un mucchietto di cenere. Ma per chi possiede, ed è una maledizione, il ben dell’intelletto, è difficile farsi capire. L’intelligenza è la prima forma della solitudine, della perfidia, della separazione, dell’esclusione: e sono contento di aver trovato te almeno per non essere frainteso, se tutto questo è un gioco che non prevede nessuna immortalità. Addio”.

(Da “Lettere da Sodoma”, Dario Bellezza, Garzanti, 1977)

Ho dimenticato, Dario, che siamo carne ed ossa, leggendo tutto d’un fiato questo piccolo bel libro che Massimo, tuo amico antico e presente, ha voluto dedicarti con affetto travolgente.

Le lunari coincidenze, che imprigionano le nostre vite, hanno voluto che lo stesso editore me ne desse una copia, (invitandomi alla presentazione del volume anche quale “testimone” di giornate passate con te e mai dimenticate), proprio in occasione di un incontro promosso dall’Istituto tecnico superiore Garrone di Albano ed al quale mi era stato chiesto di intervenire, e ne fui onorata, essendo il tema inscindibile da ciò che sono “Pier Paolo Pasolini – 30 anni senza”.

Ancora e sempre Pasolini, tuo Mentore ed estimatore che, per primo, ti incoronò quale “miglior poeta della nuova generazione”.

È tuo quel lauro e mai poeta fu più “regale” nel portarlo!

Ma voglio tornare a raccontarti la piccola, minima cronaca di quanto accaduto: leggendo, sono rimasta immobile per circa due ore, forse più, tenendo il libro ed il cuore spalancato. Era una posizione innaturale, girata su un fianco, ma senza inerzia, a nervi tesi, le braccia allungate verso la piccola veilleuse; protesa la mente a captare impercettibili lacerti di memoria. Senza muovere altro, se non le pagine. Allontanavo il mobile braccio dell’abat-jour, che un artista ha realizzato per le mie letture notturne, poiché non volevo che il cono di luce disturbasse Hassan che mi dormiva accanto. Ancorché lui sia “arreso” ormai alle mie inquietudini, e tu lo sai.

Era poco dopo l’alba.

Quel libro di Massimo (spesso insieme andavamo da lui, un po’ fuori Roma; lui diceva di volermi bene – l’unica donna ammessa dall’OMPO – ; si ricorda ancora di me?) mi ha riportato indietro negli anni, ad amici “storici” che con te ho condiviso, a cose che di te sapevo bene perché ti piaceva raccontarmele.

Nelle tue affabulazioni, telefoniche e non, mi facevi “parte” della tua vita. Lontani giorni, quando ci univano delle prospettive poetiche e qualche disperata speranza.

Così, non mi sono mossa di un millimetro, senza rendermene conto… leggevo, ricordavo, ti rivedevo, gioioso e d’improvviso cupo, nel caleidoscopico mutare del tuo umorale carattere. Ho anche, credo, sorriso a qualche passaggio colorito sugli appassionati “complici del sodomizio”, il rivoluzionario sodalizio gay che accelerava negli anni ’70, i battiti del cuore di Roma… la rosa dei nomi di persone che ho sfiorato (per limiti anagrafici), frequentato, amato – Sandro Penna, Luce D’Eramo, Enzo Siciliano, Beppe Costa, Franco Cordelli, Antonio Veneziani, Amelia Rosselli… -.

So che ti piaceva il mio passarti a prendere nella mitica Via dei Pettinari, e a bordo della mia Flavia coupé Bluette, tu mi guidavi, perfetto chaperon, per raggiungere le variegate “mete” che abbiamo condiviso. Ti divertiva definirmi, con affetto, una vera “etera blasée”; mi ostentavi, talora, forse per i miei capelli rossi da “allumeuse” consumata, ma poi facevi scenate (qualcuna epica, come quella all’uscita da un party a casa di Ricky Tognazzi!) ai vari corteggiatori di turno. Arrivavo e ripartivo con te; una “coppia” improbabile e deliziosamente sfrontata (qualcuno dei tuoi ragazzi mi avrà odiato per questo, pur tra le lusinghe e le suadenti parole). Ma i Giuda, si sa, hanno il loro fascino! Ricordi Giuseppe Berto e il suo “Vangelo”? Entrambi l’abbiamo amato… Entrambi: che bella parola!!

Al capitolo dedicato, con teneri eufemismi, al male che ti ha condotto “au but de la nuit”, ho riprovato lo stesso orrore di quando ti accompagnai, per l’ultima, vana, volta a sottoporti agli impulsi elettro-magnetici di un astruso macchinario ai cui “benefici” fingevi di credere, rifiutando la prassi terapeutica della medicina ufficiale. Rosario malinconico, i tuoi ultimi giorni…

Quel terribile pomeriggio Anna Maria, tua amica e vicina di casa, non ce la faceva più ad accudirti e, appena mi vide, quasi scappò via, lasciandomi le chiavi di casa e la raccomandazione di condurti alla seduta settimanale della tua “cura”, che forse somigliava più ad una pratica “sciamanica” che scientifica. Avrei voluto fuggire, era insopportabile vederti così e, come un automa, ti alzai dal letto, ti vestii abbracciandoti, per non farti cadere. È un ricordo sfumato, confuso anche dalla stessa emozione del ricordo in sé. Non mi pesava il tuo corpo, mi pesa di più oggi rivedere quel fotogramma.

Poi il lungo pianerottolo, l’ascensore, un percorso che mi parve infinito e saliti in macchina fu un tormento. Guidavo in trance e tu mi indicavi il percorso da seguire, che io non conoscevo; stavo attenta a non frenare, perché ogni tanto ti vedevo reclinare la testa in avanti, come se le forze ti abbandonassero.

Ci perdemmo nella campagna romana, oltre Vitinia (dove arrivammo molto più tardi, miracolosamente, poiché lì abitava il tuo “guaritore”); non ti sei mai sbagliato con le strade e quella, certo, la conoscevi bene. Sono sicura, oggi più di allora, che la tua amnesia fu un “lapsus” benedetto e bellissimo; ricordo che sorridesti quando, palesemente, ci scoprimmo fuori strada. Azzardo: per un instante, in quella terra di nessuno, fosti felice. O almeno mi illudo che così sia stato.

Volevi concederti l’arbitrio di un “disorientamento”; altri approdi, altre linee di confine. Volevi non ritrovare la strada, “quella strada”, ed io, lo sai, le avrei percorse tutte, anche i più impervi sentieri; e viottoli sterrati, dimenticati tratturi, salite senza fine, per salvarti davvero.

– Chiuso il libro – alzandomi dal letto, spossata, ho avuto un dolore lancinante alla spalla ed al braccio sinistro; una scossa violenta, imprevista come un terremoto fisico. Il (mio?) braccio non lo muovevo più, in un crampo infinito. E solo allora ho capito che, per non so quanto tempo, non mi ero mossa di uno scarto. Avevo letto, marmorea, il piccolo libro grigio, muovendo unicamente la mia mano – stavo per dire anima – che voltava le pagine, leggere.

Noi siamo carne ed ossa. L’avevo dimenticato!

Siamo sangue ed il mio, nelle vene del braccio, non scorreva più, fermo, come tutta me stessa, nel coagulo del ricordo, nell’estasi della nostalgia, nella tenera visione del passato.

Così, paralizzata dalla lettura, avevo, non metaforicamente, trascurato il mio corpo che, offeso, mi puniva. È forse questo il dolore?

Il sintomo, la prova “viva” che abbiamo sbagliato qualcosa o che, comunque, abbiamo tradito, infranto, rotto, disatteso, tralasciato un quid misterioso… Tutto può essere vero, se tale ci sembra e tutto, allo stesso modo, può sembrarci falso, fino ad esserlo; veramente.

Ma è “verità” la carne e verità sono le ossa, il sangue, la pelle, e allora l’anima, la nostra “anima”, tanto permalosa, tradita, e trascurata troppo a lungo, se ne va. Fuori da noi, fuori dal mondo cui abbiamo creduto di “appartenere”. E tu l’hai “seguita” la tua anima, Dario, Darietto, e ti invidio, credimi, per quel poco che la viltà terrena mi concede. Stupido questo povero braccio dolente, questa spalla malefica (che Hassan, amorosamente, mi ha massaggiato appena sveglio, senza commentare, ma ripetendomi la familiare nenia araba, che da sempre porto nel cuore: “Maktub habibti” – Tutto è scritto, amore mio -) e questi insulsi nervi, tendini, legamenti o altro “cordame” che ci portiamo addosso… li odio, perché ci impediscono i movimenti, gli atteggiamenti della libertà. Il volo!

“La carne vuole sangue”, il grido di Pier Paolo che avevi fatto tuo… è questa “carne”, davvero, la nostra prigione?

Finalmente, come un balsamo o una esaudita preghiera, si è attutito il dolore, quando mi è parso di udire, in un’eco lontana, la morbida inflessione della tua voce cara: “Adesso sono libero, chérie…”.

Ed io voglio crederlo. Dario, mi ascolti? Resterà nel tuo nome la “bellezza” che ora mi manca.

Tua

Fiammetta

P.S. Ti ho scritto in rosso, perché il nero del nastro della mia Olivetti è ormai sbiadito. Non riesco a trovarne uno nuovo, ma il computer non mi avrà! Lo detesto. Però, in rosso, è stato più bello scriverti. È vero?

* Dice di sé:
Fiammetta Jori. Chi volesse risponderle sappia che iniziando con www.fj.it, per lei sarà come leggere tre volte “evviva”!

FRANCESCO PETRARCADi pensier in pensier, di monte in monte
mi guida amor, ch’ogni segnato calle
provo contrario a la tranquilla vita.
Se ‘n solitaria piaggia, rivo o fonte,
se ‘nfra duo poggi siede ombrosa valle,
ivi s’acqueta l’alma sbigottita .(Da “Canzoniere”, 1501)
MELANIA MAZZUCCOLa scrittura, per me, è il più libero e avventuroso dei viaggi, il viaggio che sta all’inizio e alla fine di ogni spostamento fisico. Anche perché comprende in sé l’unico luogo nel quale davvero sento di dover abitare: la lingua, la mia. Che è il mio vestito, la mia ricchezza, l’unica eredità che porto sempre con me.

 

SCIENZE Tiziana Stallone - Camillo Golgi versus Santiago Cajal. Storia di un odio, accademico, tra due Nobel

Al centro, complesse ed estenuanti ricerche su come funziona il nostro cervello

Tiziana Stallone *

Si è appena all’inizio della conoscenza dei misteri della vita e bisogna lasciarla.

(Camillo Golgi, 1843-1926)

Fintanto che il cervello resterà un mistero, resterà un arcano anche l’universo che ne riflette la struttura.

(Santiago Ramòn y Cajal, 1852-1934)

Questa è una storia di scoperte scientifiche e di misteri svelati in uno dei campi che, ancora oggi, è tra i più lacunosi per la medicina, il sistema nervoso ed il relativo funzionamento della intricata rete di neuroni che lo compongono, ma è anche una storia di uomini, scienziati di professione, ma comunque persone, con le proprie debolezze, i propri difetti, con le zone d’ombra caratteriali, geni capaci di bassezze, studiosi appassionati ed incontenibili disseminatori di veleni.

È la storia di un maestro troppo giovane ed un allievo brillante ed ambizioso, che dopo essersi osservati e lisciati per decenni, sono divenuti agguerriti rivali fino a che, come l’esimio prof. G.C. Requier dichiarò all’epoca, una crudele ironia della sorte aveva accoppiato i due grandi emuli a guisa di fratelli siamesi uniti per la schiena”. Destino beffardo, infatti, quello che ha voluto l’italiano Camillo Golgi e lo spagnolo Santiago Ramòn y Cajal spartirsi nel 1906, per gli ineguagliabili studi che avevano, autonomamente, condotto sulla struttura del cervello, il premio Nobel per la medicina, il Nobel dell’odio, come venne soprannominato dai cronisti dell’epoca, lo stesso anno del Nobel per la letteratura a Giosuè Carducci.

Le invenzioni e le scoperte negli anni diventano conoscenza oggettiva, scandita da date, eventi, pubblicazioni ed onorificenze, ma l’aspetto umano dei protagonisti della storia, purtroppo, si perde e, assieme ad esso, si affievolisce anche la curiosità per il passato. È per questo che la scienza e le rigide regole della umana natura, se estrapolate dai sentimenti più o meno nobili, rischiano di sembrare sterili, noiose e troppo fredde per chi a queste si accosta per la prima volta. Ed è anche per questo che la scienza può restare indigesta e talvolta divenire nemica, ma questo è un altro discorso che mi sta nel cuore e che ora ci porterebbe lontano.

Da persona curiosa, che si è mossa per qualche anno tra i banconi di laboratorio, mi ha sempre colpito, più che la tecnica ed il risultato, colui che compiva l’esperimento, come si muoveva con i superiori ed i sottoposti. Ricordo abili ricercatori accudire caramente i propri campioni sperimentali e mostrarsi glaciali con i colleghi, o menti d’eccezione, capaci di compiere clamorosi scivoloni morali. Mi sono sempre chiesta come si potesse sperimentare, intuire, rielaborare, estrapolare, pur essendo privi della minima intelligenza empatica o, ancora, come si potesse insegnare senza esser capaci di godere generosamente dei successi dei propri allievi.

Questo dualismo, tuttavia, è già insito nel sistema nervoso, dove le aree cognitive sono anatomicamente separate da quelle istintuali. Nel nostro cervello, infatti, una scorza razionale – la corteccia encefalica – avvolge e, purtroppo, talvolta soffoca un cuore emotivo – il sistema limbico – o, al contrario, quest’ultimo è in grado di prorompere e sopraffare la ragione. Da questo dualismo, quindi, non sono immuni nemmeno le menti straordinarie, vittime anch’esse del defatigante equilibrio tra ragione e sentimento. In queste stesse menti, la ragione ipertrofica può anche convivere con una sensibilità rudimentale.

Quella che sto per raccontarvi è, quindi, una storia di grandi scoperte, ma anche di umani limiti.

Due personalità completamente diverse quelle di Camillo Golgi e di Santiago Ramòn y Cajal. Il primo italiano, di Córteno, un piccolo paese della provincia di Brescia, nato nel 1843, il secondo, spagnolo di Petilla, città della regione di Aragona, di nove anni più giovane, nato nel 1852. Secondo la descrizione di un allievo, il prof. Medea, sulla Rivista d’Italia nel 1918. “La caratteristica di Golgi è la grande modestia, l’estrema riservatezza; nessuna di quelle arie di grand’uomo che spesso si danno quelli che lo sono e quelli che vorrebbero esserlo; così, la sua riservatezza confina talvolta con una specie di timidezza per la quale, dopo tanti anni di insegnamento, egli era ancora esitante nella voce all’inizio della sua lezione”.

Seppur volessimo considerare autentica questa descrizione, tuttavia non possiamo sottovalutare il fatto che essa sia opera di un allievo desideroso di omaggiare il Maestro, già premio Nobel, e per giunta ancora in vita. Golgi era sicuramente uno studioso meticoloso e solitario, un perfezionista nel lavoro, più un tecnico che un ideatore.

Caratterialmente era introverso, razionale, riflessivo, calcolatore, un accademico calzato, formale, distaccato, competitivo, permaloso, un uomo potente tanto da ricoprire il ruolo, nell’anno 1900, di senatore del Regno Italico. Che il suo distacco derivasse da un’intrinseca timidezza, suona più una giustificazione dal sapore psicanalitico. Sicuramente egli era un insicuro, come si evince dalla fitta corrispondenza con i colleghi a lui più vicini, al punto che la lettura magistrale tenuta a Stoccolma per la cerimonia del Nobel, l’aveva gettato in uno stato di angoscia più totale, tanto da confidare agli amici: “il maggior desiderio sarebbe quello di tenermi nascosto”.

Cajal, invece, era un temperamentale, estroverso, spocchioso, impulsivo, sincero, entusiasta, egocentrico, che mal sopportava le critiche, fino a divenire aggressivo, un provocatore. A differenza di Golgi, la cui produzione letteraria fu prevalentemente di carattere scientifico, Cajal ha lasciato, oltre ai lavori tecnici, una colorita ed ironica biografia “Recuerdos de mi vida”, in cui palesa i suoi difetti ed elenca i requisiti imprescindibili che dovrebbe avere uno scienziato di successo, tra i quali una moglie ricca (cosa che per altro non fece, nel suo matrimonio d’amore con Silveria Garcìa, una donna di ceto sociale modesto, dalla quale ebbe sette figli, di cui due morti nell’infanzia).

Gli studi di Golgi furono variegati, dalle malattie infettive – memorabile è il suo contributo sul ciclo di infezione della malaria – alla pellagra, alla còrea, fino alla descrizione della struttura di cellule e tessuti, primo tra tutti il sistema nervoso. La scoperta sicuramente più grande di Camillo Golgi (che gli valse il Nobel) fu la reazione nera, ovvero una tecnica di colorazione rivoluzionaria per visualizzare il sistema nervoso, messa a punto nel 1873, detta anche colorazione cromo-argentica o metodo di Golgi, che ancora oggi, a più di un secolo di distanza dal suo primo utilizzo, è una metodologia di elezione per localizzare i neuroni.

Osservare al microscopio ottico, un preparato di tessuto nervoso colorato con il metodo di Golgi, è come inforcare un paio di lenti dopo anni di miopia: le fini diramazioni del citoplasma della cellula nervosa, divengono improvvisamente visibili come un groviglio di fili arboriformi e convoluti, in uno spettacolo di suggestiva bellezza.

Cajal nutriva per la microanatomia del sistema nervoso la stessa autentica passione di Golgi, che egli però perseguiva con una dedizione totale. La sua produzione scientifica è, infatti, monotematica. Per Cajal osservare al microscopio era una naturale via di incontro tra la volontà paterna di continuare la tradizione medica familiare e la sua spiccata attitudine artistica. Cajal passava giornate intere ad osservare sezioni di tessuto ed a riprodurle in tavole anatomiche di rara bellezza, le stesse insostituibili tavole che, ancora oggi, gli studenti delle facoltà biomediche ritrovano sui loro libri di testo. Era un acuto osservatore e un disegnatore compulsivo.

Nell’anno 1887, quando era ancora un giovane ricercatore, egli ebbe modo di conoscere per la prima volta, grazie allo psichiatra Luis Simarro Lacabra, i preparati di tessuto nervoso con colorazione cromo-argentica dell’allora già noto istologo italiano Golgi, e ne rimase folgorato. Da allora, Cajal beneficiò della tecnica di Golgi per i suoi studi, che divennero sempre più importanti e numerosi, introducendone anche delle valide varianti.

Da che conobbe gli studi di Golgi, Cajal si lanciò in entusiastici tentativi di collaborazione e non mancava occasione per esternare in pubblico la sua stima per il noto scienziato italiano: “Io ammiro i lavori di Golgi e professo per la sua personalità scientifica il più grande rispetto e la più alta considerazione”. Cajal sfrontato ed ambizioso, non temeva e non teneva conto delle rigide regole accademiche, che si basavano – e ancora oggi si basano – sulle gerarchie e che tracciano dei precisi confini invalicabili, per i quali un professore ed un giovane ricercatore non interloquiscono mai allo stesso livello.

Ricordo che, quando ero una assistente universitaria di anatomia, prima della mia attuale professione, un tecnico, il quale era solito instradare i ricercatori volenterosi con estenuanti paternali, per altro non richieste, mi istruì subito sul fatto che all’università esistono delle regole precise, che non sono scritte da nessuna parte, per le quali un superiore va sempre assecondato.

Ancora stride nella mia memoria e sulla mia dignità, quel suo consiglio di non nominare mai il monosillabo “no” di fronte ad una richiesta di un professore. Forse erano proprio queste regole che Cajal ignorava – regole che, tra l’altro, negli atenei italiani sono particolarmente radicate -, perciò egli era solito inviare a Golgi le sue pubblicazioni più valide e richiedeva insistentemente di incontrarlo, per esternargli la sua stima, stringere una collaborazione con lui e confrontarsi sulle reciproche posizioni scientifiche; tentativi che, però, Golgi ricambiò sempre con un glaciale silenzio.

All’indomani del congresso di anatomia che si tenne a Berlino nel 1889, Cajal annunciò, per iscritto, a Golgi che sarebbe passato per Pavia, ma egli non si fece trovare, evento al quale seguì il seguente amaro commento: “Il suo grande merito non lo dispensa dal riconoscere i meriti modesti acquisiti da coloro che confermano i meriti del Maestro, si onorano di portare il titolo di suoi allievi e continuatori”.

Non credo che Golgi ignorasse l’abilità del suo allievo, acquisito contro la sua volontà, poiché i meriti di Cajal sulla conoscenza del sistema nervoso, ottenuti proprio grazie alla tecnica di colorazione del Golgi, iniziarono a circolare nei consessi scientifici, come per altro iniziarono a diffondersi anche i pettegolezzi di una presunta invidia del professore italiano. Tra l’altro le opinioni dei due scienziati, in merito alla struttura del sistema nervoso, iniziarono a farsi antitetiche.

Ignorare l’emergente ricercatore spagnolo divenne, dunque, impossibile, per cui ritroviamo, ad esempio, in una comunicazione di Golgi del 1890 affermazioni diplomatiche come questa: “Ho di questo giovane ricercatore la massima considerazione e come ho ammirato la sua grande attività ed iniziativa, così apprezzo l’importanza delle originali sue osservazioni. Le poche divergenze tra le conclusioni sue e mie non hanno, né potrebbero aver riflesso di sorta su questi miei sentimenti, essendo io, anzi, profondamente convinto, che siffatte divergenze, collo spingere alle indagini, riescono sempre proficue alla scienza”.

Intuizioni, come quella che Cajal ebbe nella sua carriera di ricercatore, sono rare ed identificano i fuoriclasse. Egli fu il primo a fornire prove dell’esistenza dei neuroni, le cellule del sistema nervoso, che per lo scienziato dovevano possedere un’individualità anatomica, genetica e funzionale. Alla fine dell’ottocento, le idee sul sistema nervoso erano confuse e in tal senso Golgi, influenzato dal medico tedesco Joseph Gerlach, aveva maturato la convinzione dell’esistenza nel tessuto nervoso di reti sinciziali, cioè di tubuli fusi tra di loro. Egli credeva che, a differenza degli altri tessuti, quello nervoso non fosse formato da cellule, ma da reti filamentose (teoria della rete nervosa diffusa).

All’interno di questa rete di fibre nervose, l’impulso nervoso era delocalizzato. Teoria difficile da spiegare, poiché artificiosa e fatua, oltre che errata, come però si poté dimostrare solo anni dopo. Ben più concreta e lucida la teoria di Cajal che, partendo dall’interpretazione dei disegni ricavati dalle sue osservazioni, individuò, anatomicamente, i neuroni, la loro distribuzione e le interconnessioni – le sinapsi – e propose un’ipotesi di propagazione dell’impulso nervoso in maniera direzionale (e non diffusa) dai dendriti all’assone (entrambi componenti del neurone), teoria che ricalca, esattamente, quanto scoperto, grazie alla fisiologia, anni dopo.

Lo scienziato italiano aveva seminato e lo spagnolo aveva raccolto i frutti e, mentre tra una generazione di istologi infervorava la disputa tra reticolasti (con Golgi) e cellularisti (con Cajal), i due scienziati si scontravano civilmente e si contendevano la priorità su alcuni studi. La polemica continuò per diversi anni, pendendo sempre più a favore del ricercatore spagnolo.

La mattina del 26 ottobre del 1906, un telegramma indirizzato al senatore Camillo Golgi e a Santiago Ramòn y Cajal, rese noto che, per quell’anno, il premio Nobel, di lire 200.000, era stato assegnato ai due scienziati in comune. Golgi fu presentato come pioniere nella neuroanatomia, e Cajal come colui che aveva fatto assumere a questi studi una connotazione più moderna.

Golgi arrivò nella stazione di Stoccolma la sera dell’8 dicembre e lì, oltre a parecchi professori a lui vicini ed alla moglie, trovò Cajal ad attenderlo a sorpresa. Non ci sarebbe potuta essere occasione di riappacificazione migliore, come ci si sarebbe naturalmente aspettati da uno scienziato più maturo verso il suo allievo, ma la resa non avvenne né allora e né mai. Al contrario, il professor Golgi si esibì durante la cerimonia in un’aspra critica contro il suo collega, con una relazione volta a smontare, punto per punto, la teoria del neurone, parole che suonarono come un inelegante gesto anche verso l’Accademia, che aveva deciso l’assegnazione del Nobel, e che accelerarono il passaggio dello scienziato italiano dalla notorietà all’oblio, come ben raccontato in una recente biografia di Camillo Golgi “Il premio Nobel dimenticato”, di Paolo Mazzarello.

A sorpresa, lo scienziato spagnolo, amareggiato e stanco della superbia e della sussiegosità del Maestro, condusse una relazione più distaccata, anche se nella sostanza antitetica all’avversario, ma per nulla volta a combatterlo e nella quale non mancò di lodare il maestro italiano.

Questa storia termina così, con l’amaro in bocca. Da allora, a memoria, tra i due scienziati non vi furono più occasioni d’incontro e di scontro.

* Dice di sé:
Tiziana Stallone. Biologo e dottore di ricerca in anatomia umana, svolge la libera professione di nutrizionista clinico. Le sue passioni: lavoro, musica, cinema, viaggi, alberi e cimiteri. tiziana.stallone@virgilio.it.

MICHEL DE MONTAIGNE

A chi mi domanda la ragione dei miei viaggi, solitamente, rispondo che so bene quello che fuggo, ma non quello che cerco.

(Da “Diario del viaggio in Italia attraverso la Svizzera e la Germania” 1774)

 

LETTURE Federico Pacifici - Pensavo di essere bravo, invece ero bello

Appunti per la sezione “all’ammerica” del capitolo dedicato ai produttori cinematografici per il volume di memorie (che chissà se mai completerò), anche romanzate

Federico Pacifici *

Parte prima

Le cose accadono. credo.

ora accade che ritirato per 2 forse tre giorni in montagna, ho portato con me solo un libro ed il computer. il libro desidero leggerlo.

il computer, per scrivere il contratto di cessione dell’anima.

(New York è sullo stesso parallelo di Roma, il 42esimo circa. L’Ammerica è almeno 50 volte più grande dell’Ittalia ed è una federazione di stati. 50. gli abitanti in Ammerica sono almeno 5 volte gli ittaliani. Lo stato di NY è da solo grande come l’Ittalia. Lo stato federale in Ammerica è moderno. il Federalismo in Ittalia è poco più avanti del medioevo, almeno secondo me).

Lo smilzo Cesare mi ha assicurato di non operare alcuna censura. Dunque (è la prima volta nella mia vita che uso questa parola: dunque) dunque libero.

le parole hanno ancora un senso? che significa produttore cinematografico?

se onorevole è uno che strilla e sbraita in televisione che mente spudoratamente, se bacia i mafiosi, se è eletto perché la lista è chiusa e scelta dal capo che cosa c’è di onorevole in questo e altro? è solo un esempio.

produttore cinematografico è colui il quale presenta una domanda al ministero e poi amministra i soldi pubblici che riceve come fossero i suoi talvolta male tal’altra malissimo?

Il libro.

ci ho messo 3 quarti d’ora per leggere le 4 pagine introduttive. il quadro d’ambiente. un quarto d’ora solo per le dediche che ho letto e riletto e ancora non capisco, ma invidio. New York East Village.

Io tutte quelle cose non le ho viste ad Astor Place. Saint Marks place non mi è mai piaciuto mi è sempre sembrato solo un gran bazar all’aperto. tompikins square l’ho chiamata per anni pumpkins square. pensavo di sapere l’inglese, l’avevo studiato a scuola ma l’ho dovuto raccogliere per strada attimo per attimo, sforzarmi di pensare in inglese e non di tradurre dall’ittaliano. neanche il cubo che gira ho visto, e che se gli fai fare un giro completo ed esprimi un desiderio, questo si avvera, ma ora che ci penso forse qualcuno me lo ha indicato, non ho avuto il coraggio di girarlo. forse per questo non si è avverato quel desiderio o forse si è avverato ed io non me ne sono accorto. Quale sogno. Sopravvivere a New York. Forse sono morto e non lo so.

“pensavo di essere bravo invece ero bello”. Attore. giovane.

Questo il titolo del contratto con il quale mi vendo l’anima.

scrivevo già. sceneggiature. scrivo ancora, ma giustamente nessuno mi pubblica e nessuno realizza i miei film anche quando ci sono i soldi perché i produttori sono “non troppo onesti”. Produttori, ma che significa? “nontropponesti” è più chiaro. Non tutti certo. quelli che ho incontrato io.

I produttori si dividono in due grosse schiere:

– quelli che trovano i soldi e poi ci guadagnano quel che vogliono, ma i soldi li hanno trovati loro.

tutto cominciò con uno di questi.

fu la paura di ucciderlo, magari mettendolo sotto con la mia vespa 125 rossa datami in prestito perenne che lo avrei ucciso, è per evitare di ucciderlo che me ne andai all’ammerica.

– quelli che fanno domanda al ministero e poi pur vietato dalla legge si tengono il 10 il 20 il 30 il 40 il 50 % del budget qualcuno di più, ne conosco solo uno che ci ha rimesso dei soldi suoi veri, gli altri mentono. Molti. forse.

ma ce ne saranno sicuramente degli altri che hanno tentato di essere onesti e sono morti o hanno cambiato partito. non si può vivere di stenti tutta la vita. se capita l’occasione la si deve prendere al volo.

le cose accadono.

– ce ne è anche una terza schiera, e sono quelli che “spartiscono”, come la riga spartisce i capelli e per qualcuno la testa spartisce le ‘recchie.

le cose accadono.

questa è l’occasione di pubblicare. per me che tuono, si fa per dire, contro quelli che ti chiedono di lavorare gratis et amore dei (minuscolo pare una preposizione articolata e si capisce che l’amore è “dei” soldi di chi ti chiede di lavorare gratis et amore dei) soldi loro.

Ma io un compenso questa volta ce l’ho. pubblicato. sarò pubblicato. Ogni volta che qualcuno è pubblicato io lo vedo uscire da una enorme macchina tipografica, tutto schiacciato e sciattato, strizzato dai rulli come un cartone non più animato. Da una rotativa. Una rotativa mondiale. World Wide Web. vuvuvu.

sarò schiacciato. sì, sicuramente sì.

una parte della mia piccola ammerica. Non riesco ad essere serio e a chiamarla con il suo nome impero, paese, semplicemente America. ho bisogno di ironizzare stupidamente sul nome perché anch’io ancora non ci credo che sono stato all’ammerica per tre anni e mezzo. e che cosa ci ho fatto, lì per tre anni e mezzo?

ho cercato di non scordare l’ittaliano. ho fatto il clandestino. ho un poco imbrogliato lo stato che mi ospitava. posso dire la verità, o almeno quella che a me appare come la mia verità, o almeno posso dire quel che ho fatto o credo di aver fatto all’ammerica? dieci anni e più già trascorsi dal ritorno dall’ammerica valgono una prescrizione? che reati ho commesso in all’ammerica? ho lasciato scadere il biglietto di ritorno, la garanzia per l’ufficio immigrazione che me ne sarei andato. ho rischiato di non saper come tornare all’ittalia. ci ho pensato, forse a nuoto.

così infatti Alex il mio personaggio che non è passato per le rotative torna all’europa, da North Fork Long Island Green Port lo vediamo allontanarsi camminando sull’acqua, tenendo una bambina nera con le treccine i fiocchetti e la gonna a fiori per la mano. lo ritroveremo sulle sponde del tago un po’ affaticato, forse morto.

devo mettere le cose in ordine.

Il libro in montagna è davvero bellissimo. salito quassù per scrivere un piccolo articolo sulla mia all’ammerica la prima cosa che leggo mettendoci tre quarti d’ora è la descrizione colta ed informata della zona dove sbarcai.

13th Street. non riuscivo nemmeno a pronunciarla, i tassisti Sikh (sic, tristi), sad è tristi Sikh è una religione. la religione è triste, non la Sikh, la mia. quanti pochi cristiani in mezzo a questa moltitudine di cattolici che si sono dimenticati di essere cristiani. i tassisti Sikh mi portavano sempre alla trentesima. ho pensato di cambiare casa o di andare a piedi. per i primi tempi ho preferito andare a piedi.

Andare a piedi. Sole. Non quello in cielo, quella che traversa la strada davanti a me è la materializzazione della donna nera che mi piace, nome bizzarro, ma lo scoprirò dopo, capelli a caschetto gonna corta gambe pazzesche, sfacciata e dura come imparerò sono le ragazze di NY. ma stava andando sotto una macchina in retromarcia. non avevo ancora parlato credo con nessuno a NY era forse il primo giorno, ma dove l’ho trovato il coraggio di gettarmi sul cofano posteriore di quella macchina e sbattere la mia mano destra con una forza ed un’arroganza che non mi conoscevo e gridare in perfetto niuorkese whoch aut (watch out credo).

Un sorriso di soddisfazione dalla Sole che poi cominciò a sedurmi e subito a chiedermi dei soldi perché potesse raggiungere la nonna in florida. i soldi me li chiese come bisogno e le credetti almeno fino a quando non aprì il suo borsellino mostrando molto di più di quel che io avevo a disposizione per tutta la mia esistenza niuorkese. da allora essendoci del denaro di mezzo mai mi sognai di proporle sesso. lo propose lei però, semplicemente togliendosi la tuta che a momenti svenivo e mai più volli, accettai, nemmeno discussi le sue proposte.

Soldi. pochi pochi. avevo venduto due macchine cioè una allo sfascio ed una a tre milioni, la mia 500 appena restaurata, pagati un paio di affitti. non pagato dall’esimio produttore cinematografico Angelo Rizzoli per un lavoro che ci disse siccome aveva già pagato due sceneggiatori che gli avevano dato brutte sceneggiature disse, non poteva pagare noi e infatti non lo fece, andai all’ammerica con 250.000 lire.

Erano poche anche allora. la sua casa rossa delfina me la diede per 30 dollari al mese, potevo sopravvivere per almeno sei mesi. e mangiare? un dollaro al giorno nella città più cara del mondo se sai dove spenderlo può anche bastare e se fai uno strappo con 5 dollari ti rimpizzi. al giardino d’oriente, vero nome Palmira, 2° ave. verso l’ottava St. il cortile di un condominio, il cortile della finestra sul. mi sembrava di stare a roma negli anni 60, grida, voci, silenzio, televisioni accese, guardavo nelle finestre di chi si mostrava, cercavo e trovavo sempre almeno una bella ragazza che si spogliava. ma gli americani non lo sanno che ci siamo anche noi ittaliani in all’ammerica e che noi nelle finestre ci guardiamo eccome. Ho una casistica di ragazze nude della finestra di fronte che ancora mi turbo.

avevo però anche la carta di debito che finì circa 4 o 5 mesi dopo, con il suo unico atto clamoroso e vincente. 500 dollari per il procession fee (assolutamente vietato in all’ammerica) per la mia casa bellissima in Chelsea con il bagno dentro e la vasca separata dalla cucina.

“PENSAVO DI ESSERE BRAVO, INVECE ERO BELLO” © ® ©©© ®®® (tanti cerchietti C e R  per depositarlo come mio copyright). un romanzo di formazione che racconti la mia vita sformata, a dire il vero quasi meravigliosa fino al giorno in cui decisi di scrivere per il cinema. non è la decisione di scrivere ad aver cambiato la mia vita, ma l’incontro con gente, i produttori di cinema che più vergognosa non ce ne è. Quelli che ho incontrato io. “Sottrattori” di vita e di speranze. le mie.

del libro so per certo che sarà (se sarà) composto dal racconto del ricordo delle cose più divertenti della mia vita di attore ed autore. I provini, i registi, le recite, le sbornie, le donne, i froci, i fallimenti tanti tanti. i successi? boh. le sceneggiature, le versioni di sceneggiature. lo sceneggiatore e quando dico così intendo solo uno, claudio, lo scrittore, l’attore, il rivoluzionario, la vittima, il suo mugugno genovese, il suo genio. Morto.

tutto quel che mi ricordo e come me lo ricordo, ma visto da dentro con gli occhi spaventati di chi si prende la responsabilità di andare davanti al pubblico o di impressionare una pellicola. che paura, che piacere, altro che second life. l’attore è l’unico vero avatar, di sé e di tutti.

In questo racconto, un capitolo vasto e strabordante è quello sui produttori incastonato in quello sulla mia piccola all’ammerica.

Sono riandato all’ammerica con quattro pagine perfette di quel libro di una signora ittaliana che vive alla sua ammerica.

Smoke smoke Mushroom mushroom smoke smoke mushroom? come? what did you say? smoke smoke mushroom. ah non non, grazie ai du not smoc. ancora mi nazzicava l’inglese.

queste le prime parole scambiate ai margini di alphabet city sulla 2° ave.

ma perché sei andato all’ammerica.

per non uccidere magari mettendolo sotto con la mia vespa rossa 125 in prestito perenne il sig. gianni minervini. Sì, alcuni nomi sono e saranno veri altri meno. quel che racconto è romanzato e solo in parte vero perché non costituisca prova per una condanna per diffamazione. nomi veri fatti veri nomi falsi fatti falsi nomi veri fatti falsi, nomi falsi fatti veri e così via in ogni possibile combinazione.

mi aveva sottratto il mio lavoro. nel bisogno poi si vedono anche gli amici ed anche di questi almeno di 2 dirò i nomi veri, tra poco. forse.

Mettiamo ordine.

mettiamo chi?

animo sdoppiato e poco ricongiunto.

Faccio i bagagli.

la valigia per all’ammerica:

una sportiva con doppiofondo sfondato perché ci entri il classic, il mio primo mac, è da tavolo, ma ci entra comodamente e anche la grande tastiera e anche la stampante.

Una valigia non so più quale, forse un sacco con dentro qualche maglietta, lo smoking che lì si chiama tuxedo, in affitto da Peruzzi, 2 paia di pantaloni taglia 46, la mia. 2 saxons la destra e la sinistra. una giacca di pelle detta chiodo così bella che anche a NY me la invidiavano. un pullover di cachemire grigio antracite lavorato a shetland che entra in un pugno, ma non è pasmina che quella non si deve comprare e che al tempo in cui ancora credevo e mi facevano credere di essere bravo (invece ero bello) e quindi lavoravo, comprai a firenze dagli eredi chiarini ed ancora è il più bel golf che abbia mai avuto, ma adesso ce l’ha matilde con le toppe gialle e che pagai nel 1987 500.000 lire una tombola, ma quanto mi ha tenuto caldo è impagabile. stop. questo il bagaglio per niente culturale. stop.

Cosa fare a NY? si vedrà. cosa faccio a NY è una cosa da vedere subito.

1) smettere di mangiare. è un’attività? sì. non è facile non mangiare. già verso la metà di luglio la taglia si era ridotta a 42, poi sono finiti i buchi della cinta e ho cominciato a mettere il golf o la maglietta dentro i pantaloni o ad annodare la cinta dopo la fibbia.

2) ancora all’aeroporto di roma, guardo la città, non so se da lì si veda, ma io la vedevo benissimo, il tevere il cupolone il mio centro storico, tutto.

addio. ultima chiamata ultimo passeggero a salire.

ehi ciao federico dove te ne vai. a NY, sai vivo lì (non ero ancora nemmeno partito!) e tu. io a Mosca. ah, bello vai a vedere zagorska è la città della religione ortodossa, vai qui e vai lì. conosci mosca. sì ci sono stato in tournée e la conosco, anche lì ho viaggiato da clandestino quando mi hanno negato il visto per San Pietroburgo Petrograd Leningrado San Pietroburgo, sembrano 4 città ma sono solo 4 epoche. l’estonia. ho viaggiato clandestino in treno in macchina in autobus a piedi in taxi. ah, e ora vivi a NY? sì. parli bene inglese. beh certo ci vivo, non ero ancora partito. no perché il mese prossimo devo far fare un documentario a NY e magari mi serve una persona lì che parli bene inglese e che conosca la città. Io, ci vivo.

bene ti chiamo. Lo chiamai io, ma la cosa si fece, guadagnai 400 dollari. ancora mi chiedo come abbia fatto. non sapevo una parola di inglese e non conoscevo la città. era il 1993 non so se il 16 o il 6 o il 17 giugno. In via dei Georgofili qualche giorno prima avevano fatto scoppiare una bomba ed anche un mio appuntamento con un’atleta di rara bellezza. partii senza più sentirla. atleta, fiorentina e bellissima, lei si definiva un diesel, si accendeva lentamente ma poi non la fermavi più. all’epoca una donna così non mi faceva paura. ma non l’accesi mai. Uno dei danni collaterali delle bombe della mafia.

L’ultima persona che incontrai all’aeroporto di roma era un produttore. partivo per non ucciderne uno e la prima possibilità di guadagno in all’ammerica me la dava un altro produttore che anni dopo scoprii essere stato il maestro di una “*****” che quella l’ammazzerei ancora, ma lui fu più volte veramente preciso e gentile con me. non tutti i produttori vengono per rubare. è la morale dell’inizio.

Lo smoking spiegazzato ha giaciuto per un anno in fondo alla valigia, poi lo restituii.

In attesa del documentario del produttore ittaliano bisognava pur trovare qualcosa da fare che mi desse da vivere. l’operaio. sfasciare un ufficio. duro, ma divertente.

il momento della paga.

hai il SS (Social Security Number, una specie di codice fiscale in cui c’è tutto) number?

no evidentemente no, sono appena arrivato ho un visto turistico, non posso lavorare. e allora come pagarmi? per la prima volta nella mia vita che neanche in ittalia l’avevo mai fatto e ci avevo pure perso il lavoro per il rigore morale di non accettare soldi neri, timidamente proposi, mi paga di meno toglie quel che non può scaricare dalle tasse, toglie la percentuale di tasse, insomma, mi dà la metà e tutti contenti, no? No.

si sono pure offesi. in all’ammerica le tasse si pagano, perché puoi denunciare tutto il vero che spendi e scaricare tutto il vero che spendi. Non mi sembra difficile. perché non si può fare qui da noi? boh, non lo so. Così pagai le tasse sul conto di un altro che però così risultò aver guadagnato di più e avendo paura di superare lo scaglione di non tax(able) income mi chiese di pagargli la differenza. Bene, però guadagnai, mi divertii e sfasciai un ufficio. e cominciai anche ad andare in vacanza con la proprietaria di quell’ufficio che non era più tanto offesa con me, anzi. ma non ci fu mai sesso, era molto bella dicevano tutti, ma a me non piaceva e poi c’aveva due gatti che non gli si staccava la cacca dal culo e ci viveva insieme e sarà che ho visto i gatti in lei e anche lei non mi piacque mai.

Ma allora sesso con chi lo facevo. la metà delle storie niuorkesi non si possono dire, l’ho giurato tra me e me e mi terrò fede. le altre a poco a poco le dico tutte. forse. o almeno qualcuna. forse.

La negra (come si dice in ittalia),

la nera, come si dice tra persone quasi civili,

Una graziosa ragazza.

la Sole. Nome bizzarro, diurno direi. Sole nero. Sole nera. sto scrivendo e mi rompe anche un po’ i coglioni che mi sia venuta a trovare, ha appena fatto una sfilata, sì è bella molto bella, ma direi più adatta alle foto che alle sfilate, in persona non è altissima, anche se con i tacchi quando usciamo mi sopravanza di almeno 20 cm che se fossero inches sarebbero veramente troppi. comunque mi dice che ha caldo e se si può aprire la tuta, non da ginnastica, ma da operaio, tipo benzinaio ittaliano, dico sì certo fai pure tanto scrivo, ma sotto non ho niente, come sarebbe dico io non è igienico, sai alle sfilate non possiamo tenere sotto niente si perderebbe tempo nel cambiare abito, guarda! e cala la zip.

Sai sono stata infibulata sai al mio paese si usa, vuoi vedere.

eh, sì, se proprio vuoi farmi vedere fai pure.

sarà che io non ci ho capito niente, sarà che una fica è diversa dall’altra, ma a me quello mi sembrava un clitoride magari piccolo ma quello c’era e lei godeva da pazzi. ma si gode o no se si è infibulati? Lei sì.

Quella fu l’unica occasione, non volli mai più, per via dei soldi. non mi piaceva l’idea che diventasse che io le regalavo i soldi di cui mi diceva di aver sempre bisogno e lei mi proponeva sesso che io avrei anche assai desiderato. Certo non metteva le cose in relazione, ma il tentativo appariva evidente. Brutta relazione. quando la cosa si mercificò interruppi. Però glielo chiesi, ma senza clitoride come mai ti piace così tanto che uno te lo tocchi? sono stata fortunata e non me lo hanno tolto tutto. Boh.

cosa faccio a NY?

caldo, mi difendo dal caldo.

mangio, non mangio.

operaio construction worker, destruction worker.

operaio in una ditta di design, faccio scatole apro scatole, chiudo scatole, imballo le cose da metterci, faccio le cose da metterci,

costruisco stand,

imparo l’inglese.

vado al cinema.

vado al teatro.

agente niuorkese di un produttore ittaliano per le location ed i contatti, spedisco fax che Francesca L. mi corregge, bella bellissima e affascinante, seppi anni dopo che un mio caro amico d’infanzia aveva perduto la testa per lei e si vedevano a parigi. ma quando se stava a NY? boh.

il cameriere,

il giornalista (non si offenda la categoria, scrivevo per un giornale),

l’insegnante di ittaliano,

il conferenziere,

l’assistente creativo di un architetto megagalattico.

l’attore,

lo scrittore,

lo studente

il cuoco,

l’amministratore,

il bricoler a pagamento.

il piastrellista,

l’inventore di soluzioni azzardate a poco prezzo,

l’amante,

scrivo, filmo, sogno, mi ammalo, rido di cuore e piango di cuore.

il realizzatore e progettista di presepi per ittaliani dell’ottocento (gli ittaliani non i presepi).

l’accompagnatore di Monica R. che non ho mai capito se le piacessi oppure no, è stata una delle pochissime donne che mi ha fatto arrossire, in libreria, con una sua frase troppo intima.

lo spettatore di teatro e di cinema.

l’amante,

sognavo facevo progettavo e facevo. correvo.

costruivo un futuro?

Qualcosa imparavo e…

* Dice di sé:
Federico Pacifici. Lavoratore dello spettacolo (definizione ENPALS) (mannaggia agli acronimi).

EDWARD MORGAN FORSTER

Con l’eccezione delle grotte Marabar (…) la città di Chandrapore non offre nulla di straordinario. Più rasentata che bagnata dal Gange, si trascina per circa due miglia lungo la riva e a stento la si riconosce dai detriti che il fiume deposita con tanta abbondanza. Sul lungofiume non ci sono gradini per i bagni, perché caso vuole che qui il Gange non sia sacro; in realtà non c’è lungofiume, e i bazar precludono l’ampia e mutevole vista della corrente.

(Da “Passaggio in India”, 1924)

 

Mauro della Porta Raffo - Niente di speciale. Una giornata di scommesse sui cavalli (dalla disfatta ad una prodigiosa rivincita)

Nel bel mezzo dei mitici anni Settanta

“Senti, Flora, oggi ho bisogno della macchina. Lo so, dovevi pagare l’affitto dello studio, ma, se sei d’accordo, lo faccio io prima di andare a Milano e stasera, quando torno, ti porto la ricevuta”.

Cerco di essere del tutto indifferente e di controllare il tono della voce e, intanto mi chiedo se la devo guardare in faccia o no. Come sarei più credibile?

Comunque sia, le parole devono essere quelle giuste perché Flora dice subito di sì e si alza da tavola per andare a prendere le chiavi della macchina ed i soldi che ha accantonato in qualche suo rifugio segreto.

“Guarda, però, che oggi è l’ultimo giorno. Da domani sarei in mora e certe figure non mi piacciono, lo sai”, mi dice porgendomi il tutto.

Ogni cosa secondo i piani… magnifico!

Aspetto ancora un quarto d’ora e, poi, alle due precise, esco di casa per “andare al lavoro”, dopo aver salutato. Mi accorgo che sto scendendo le scale fischiettando e sorrido di me stesso.

“Calma, non farti sentire così allegro, si può insospettire…”. Due minuti e sono al volante. Ingrano la marcia e via, verso la sala corse di Gallarate. Fantastico… so già cosa farò con tutta la grana che mi appresto a vincere. Nessun pentimento, perbacco. Dopo tutto è come se i soldi di Flora li andassi a depositare in banca. Che fortuna quella mattina incontrare Giovanni mentre me ne gironzolavo sotto i portici del centro non sapendo bene che fare.

Erano almeno due anni che non lo vedevo e lui, incredibilmente, come se ci fossimo lasciati solo la sera prima, aveva cominciato a parlarmi senza che neppure gli passasse per la mente di dirmi dove era stato per tutto quel tempo. Macché! Anzi, mi disse: “Ti stavo cercando. Ce li hai un paio di milioncini. Ci sarebbe un affare sicuro oggi pomeriggio, per uno veloce. Un impiego fruttifero” e mi aveva preso sotto braccio parlando con quella sua aria complice che ben conoscevo.

“Di che si tratta”, gli chiesi, “due testoni sono sempre una bella somma e non li tengo sotto il materasso. Spiegati meglio”. E così era venuta fuori la storia della “soffiata”. Quello stesso pomeriggio, all’ippodromo di Torino-Trotto, nell’ultima corsa correva una cavallo che “non poteva perdere”. Garantito da un suo amico che lavorava nelle scuderie e che, naturalmente, doveva avere una fetta del guadagno “Diciamo un dieci per cento”, concluse Giovanni.

“Beh”, gli risposi, “scusami, sai, ma se “deve” vincere pagherà ben poco. Chissà quanti lo sanno oltre a noi e se tutti lo “caricano” il totalizzatore non ci darà niente o quasi. Si rischia per nulla”. “Sarà anche vero, ma una soluzione c’è. Basta trovare una sala corse che funzioni anche da bookmaker. Tu lo giochi a quota fissa e sai già cosa vinci. Mi dicono che a Gallarate è possibile, quindi, …” e lasciò in sospeso la frase. Mentre parlava, mi stavo lambiccando il cervello. Dove diavolo li trovavo due milioni e, poi, perché proprio quella cifra. Non si poteva giocare di meno?

Ora che ci pensavo Flora aveva da parte almeno un milione e mezzo per l’affitto del suo studio. Dovevo trovare il modo di farmeli dare quei quattrini. Poi, magari, potevo anche non giocarli, ma, intanto, almeno averli in mano. In un attimo ero arrivato alla soluzione. Tutto così semplice.

“Senti, Giovanni, io lo so come vanno a finire queste cose. Il cavallo “rompe” o succede qualcos’altro e addio soldi. Niente da fare per me. Ti faccio i migliori auguri di trovare un altro finanziatore. In bocca al lupo”. Ci rimase decisamente male: “Ma come? Sei cambiato così tanto? Guarda che almeno metà della giocata te la garantisco io. Sarebbe la mia quota. Adesso sono un po’ a secco, ma, se dovessimo perdere (e non succederà di certo), te li ridò appena posso”. Avevo proprio capito tutto: Giovanni era senza una lira e cercava di giocare con i miei soldi. Così, alla fine, se si vinceva entrava in grana e se si perdeva tanti saluti e arrivederci.

“Ascolta”, gli dissi, allora, “ecco la verità. Sono in crisi nera anch’io e non saprei proprio dove prendere centomila lire, figurati due milioni. Ciao, eh, stammi bene” e me ne andai decisamente. Fatti duecento metri ed accertatomi che non mi avesse seguito, mi infilai nella prima cabina telefonica che trovai libera. Il numero lo sapevo a memoria.

“Pronto. Sì, pronto. Mi può passare Sergio… Grazie aspetto all’apparecchio”. La strada giusta da seguire per fare il colpo da solo! “Ciao Sergio, come va? Senti, ho una soffiata per oggi a Torino. Mi dicono che nell’ultima c’è un cavallo che vince di sicuro, ma non ne conosco il nome. Tu, con le tue amicizie, magari…”.

Sergio era uno che capiva al volo: “Dimmi dove sei, dammi un recapito telefonico al quale rispondi solo tu e aspetta un’oretta. Va bene?” e mise giù dopo che gli avevo dettato il numero dell’apparecchio pubblico nel quale mi trovavo. Tanto per passare il tempo, comprai un giornale all’edicola all’angolo e mi sedetti, in attesa, su una panchina che si trovava nei pressi. Che sofferenza! Leggevo e rileggevo le stesse parole senza capirne il significato.

Friggevo proprio e speravo bene. Meno di tre quarti d’ora ed il telefono squillò. “Pronto”, era Sergio, “guarda che devi aver capito male. La corsa truccata è la seconda e non l’ottava di Torino ed il cavallo è Torquemada, proprio come il grande Inquisitore. Capito? Per il resto fa’ un po’ quel che ti pare. Ciao.” e mise giù. Torquemada alla seconda? Strano, ma se lo dice Sergio… lui sa queste cose, se vuole.

E così, eccomi qui davanti all’agenzia ippica di Gallarate con un milione e mezzo in tasca. Anzi, in mano. Li ho appena ricontati quei bei biglietti da centomila.

Pronto all’azione?

Entro in sala mani in tasca, con aria indifferente e, lentamente, mi avvicino al tabellone che riporta le corse di Torino. Bene, bene, a fianco dei partenti ci sono le quote che il direttore accetta. Alla seconda, dieci partenti, Torquemada numero quattro, quota fissa otto contro uno. Proprio niente male. Adesso si tratta di decidere quanto giocare. Ho circa venti minuti prima della chiusura delle scommesse e così mi siedo in un angolo a pensare.

Che faccio? Mollo o me ne vado? Gioco centomila così, tanto per essere in corsa? Un milione e mi metto a posto per un bel po’? O tutto o non se ne parli più? E se perdo, chi glielo dice a Flora stasera? Finisce che non ci torno più a casa… I pensieri si accavallano nella mia mente. All’ora giusta, mi avvicino al cassiere.

“Senta” gli dico, “me lo può dare a dieci Torquemada vincente?”. “Dipende da quanto gioca”, mi risponde, indifferente. “Un milione e mezzo”, mi sento dire. Le parole sono uscite da sole. “Aspetti”, mi fa quello, più interessato, “non posso decidere da solo. Vado a sentire il capo” e si allontana dal suo posto dandomi un ultimo sguardo. Pochi istanti soltanto ed eccolo che riappare accompagnato da un tale che conosco di vista.

“Ah, è lei? Bene, mi hanno riferito la sua richiesta. Accettiamo la giocata: dieci contro uno” e mi porge lo scontrino sul quale sta scrivendo mentre mi parla ed io gli passo i soldi. Oramai è fatta! Resta solo da vedere come va a finire. Metto il biglietto in tasca e me ne torno lentamente al mio posto.  Inutile rimuginarci sopra: come va, va e buonanotte.

Mancano sì e no due minuti alla partenza della corsa quando vedo entrare in sala Giovanni con un tipo alto e dall’aria decisamente arrabbiata. Nascondermi non posso ed allora mi faccio avanti io.

“Ciao, sei proprio la mia rovina. Sono anni che non giocavo e, invece, dopo il nostro incontro di stamattina… mi è venuta una voglia…”. “Hai fatto il furbo?”, mi fa, ma sorride nel dirlo. “Ma che ti prende? Guarda che non me l’hai neanche detto il nome del tuo vincente e quindi… Anzi, tu giochi all’ottava ed io ho giocato alla seconda. Torquemada, mi piaceva il nome. Ventimila, così, per vedere come va” e mi allontano verso il televisore per seguire la corsa.

Giovanni mi si mette di lato con quel tale (dev’essere il suo nuovo finanziatore a quel che ho capito). Gara tranquilla. Allo stacco della macchina dello starter, Torquemada subito al comando. Bella trottata in testa senza problemi fino alla piegata finale quando, dalle retrovie, come un fulmine comincia a progredire il numero dieci. Che Dio lo stramaledica! I due cavalli in lotta fino sul palo. Fotografia per il primo posto, ma so già d’aver perso. Il cavallo in rimonta vince novantanove volte su cento. Giovanni mi batte una mano sulla spalla come per confortarmi. “Mi sa che è andata male, peccato” e si allontana.

Tengo stretto in mano il biglietto della giocata e spero che succeda qualcosa: che squalifichino il dieci, che mi sia sbagliato io, che si sia sbagliato il bookmaker a scrivere il numero del cavallo. Niente da fare. Ho perso “per una narice” un milione e mezzo anzi, che dico, sedici milioni e mezzo! Sono solo le tre e un quarto e già devo cominciare a pensare a come potrò tornare a casa alle otto. Lo so, lo so, per prima cosa bisogna restare calmi, come non fosse accaduto nulla e così faccio, malgrado tutto.

Dopo una decina di minuti, decido di fare un puntatina al bar, lì all’angolo della strada. Un tè non può che farmi bene. È la cosa che bevo più volentieri e, mentre lo sorseggio, ho il tempo di pensare. Appena entrato, mi trovo davanti quel tale, l’amico di Giovanni. “Che ne dici”, mi fa, “di due tiri al biliardo tanto per passare il tempo. Noi aspettiamo l’ultima di Torino e ci vogliono più di tre ore…”. “Va bene, ma guarda che ho ben poco da perdere”, gli rispondo sincero. “Ventimila a partita, poi si vede come va”, replica lui.

Ho giusto i soldi per pagare la prima e, quindi, devo proprio vincere se voglio avere una qualche speranza di alzare un po’ di lira. La sala biliardo, sul retro, è appartata e tranquilla: un’oasi.

“All’italiana?”, gli chiedo, cominciando a disporre i cinque birilli al centro del panno verde. “Va bene”, mi fa lui, mentre ingessa la punta di una stecca, “giochiamoci la partenza”, e via. Questo dannato gioca proprio sul serio e davo darmi da fare per stargli dietro. Poi, verso la fine, quando praticamente ha in mano la partita, sbaglia clamorosamente e mi regala punti e palla in mano. “Bene, bene”, mi dico mentre incasso le ventimila, “vuoi vedere che questo è uno che se la fa sotto nei momenti decisivi. Speriamo”.

“Che ne dici, facciamo il doppio o continuiamo così?”, gli chiedo allora. “Il doppio è ok per me”, mi risponde. “Figurati per me”, penso alla fine della seconda partita che vinco molto più facilmente. “Adesso smette e addio”, penso nell’infilare i soldi in tasca.

Macché, questo tipo mi è proprio stato mandato dal cielo! Perde con bella regolarità, urla, bestemmia, ma continua a giocare e, cosa più importante ancora, a pagare. Però, per quanto vinca, prima di arrivare a recuperare le mie perdite… Trascorrono così un bel paio d’ore durante le quali faccio in modo di fargli vincere anche una o due partite, così, per dargli l’idea che anche lui ha qualche possibilità e per invogliarlo a continuare.

Per tutto il tempo non si affaccia nessuno nella saletta del biliardo. Anzi, no, ecco che, in silenzio, entra Beatrice – la puttana del bar – che si siede in fondo e ci sta a guardare per un po’. Ha l’aria rassegnata. Lo sa che con chi gioca non si riesce a battere chiodo. Troppo l’impegno per pensare anche alle donne! Dopo un mezz’ora, se ne va salutandoci con un cenno di mano e non ha neppure fiatato. Una vera professionista!

Poi arriva Giovanni. “Che fate? Due tiri tra amici?” ed ha l’aria preoccupata. “È quasi ora d’andare”, dice rivolto al socio. “Bene, finiamo e lo lascio tutto a te”, gli rispondo mentre studio il tiro. Giacomo (si chiama così, dopo tutto, il mio avversario) lo guarda in silenzio, segue il giro delle mie palle, tira il suo colpo, beve ed appoggia con rabbia la stecca al bordo del biliardo.

“Non se ne parla per niente. Sono sotto di un bel po’ e voglio continuare. Dei cavalli non me ne può importare di meno”. Deciso, sicuro, incazzato. Non c’è niente da dire. Giovanni prende atto e se ne va. Lo sento mormorare, come parlando a se stesso: “Oggi non me ne va bene una”. “Senti”, mi fa Giacomo, sempre più tirato in viso, “prima di continuare sarà bene che mi faccia un po’ di conti, no?” e tira fuori di tasca il rotolo di bigliettoni che mi aveva così ingolosito quando lo avevo visto la prima volta.

Riprende dopo pochi secondi “perdo già quattrocentomila. Ti faccio una proposta: ci giochiamo tutto nella prossima partita al centocinquantuno. Per te il doppio o niente. Che ne dici?”. In un altro momento non avrei certo accettato di mettere a rischio il “lavoro” di due ore in dieci minuti, ma adesso… “Certo”, penso tra me e me, “se mi va bene ho gia recuperato più di metà della perdita”.

Magari vado dal proprietario dello studio di Flora, gli racconto quattro storie, gli do le ottocento e gli dico che domani o dopo gli porto il resto. Si può fare con più del cinquanta per cento. Perché mi dovrebbe dire di no? E, poi, non stiamo neanche in mora, il termine scade oggi…”.

“D’accordo”, gli faccio, “però è proprio l’ultima perché se vinci siamo pari, ma se dovessi perdere tu la cifra comincerebbe a diventare impegnativa e non mi va di portarti via troppo, sono fatto così” e gli sorrido. Bella tattica, spero lo ammorbidisca perché non si sa mai e, poi, chi lo conosce questo? È vero, finora ha pagato come un santo, sia pure tra sospiri e lamenti, ma dopo, chi lo sa? Un’ultima partita che non finisce mai.

Sono impegnato al massimo e ce la faccio per un pelo. Butto la stecca sul panno verde e mi volto verso Giacomo che, buio in volto ed ancor più arrabbiato, se possibile, sta tirando fuori di nuovo il rotolo. Sembra incredibile tutto quel che mi sta accadendo, ma questo paga. Smania, ma paga. Mi pare quasi di volare. “Senti”, gli faccio, “permettimi almeno di offrirti qualcosa al bar”. Macché, non ne vuol sentire parlare e va fuori deciso. Lo seguo e vedo che salta in macchina e parte con una sgommata da lasciarci le ruote.

Ottocentomila lire! Le ho infilate nel portafoglio. Non le devo più neanche toccare. Come se non le avessi. Sono pieno di buoni propositi e spero proprio di cavarmela con Flora. Rientro nel bar e, calmo, ordino un altro tè al latte. Sorseggio e, intanto, penso a questo strano pomeriggio. Fortunato o sfortunato? Chi può dirlo? E, poi, non è ancora finito. Chissà cosa può succedere. Lo so, mi conosco, sto già pensando che le corse non devono essere finite e la sala è lì, a dieci metri, che mi aspetta. Una breve lotta con me stesso e, dopo, eccomi in agenzia. Per il momento (ho deciso) mi guardo intorno, vedo le gare ancora aperte e se qualche cavallo mi ispira. Non sono certo obbligato a giocare.

“Vedi”, mi sono appena detto, “tutto sta a capire se questa è una “gobba” o no perché se lo è bisogna insistere. È vero, se parto dall’inizio a contare, sto perdendo, ma dopo la trottata di Torquemada tutto è cambiato e sono proprio in un buon momento. Se è una “gobba” va sfruttata fino in fondo”. Da almeno vent’anni, chiamo “gobba” la serie favorevole e “sfiga” quella contraria. Le riunioni di galoppo di Livorno e Roma-Capannelle sono già finite e di Torino-Trotto non voglio neanche più sentir parlare.

Però, ad Aversa, ippodromo Cirigliano, sono in grave ritardo: mancano addirittura due corse e già si sono accese le luci artificiali sul campo (lo vedo bene nel televisore). Cirigliano… quel nome mi fa subito venire in mente il vecchio Ciro. È di quelle parti lui. Gran giocatore! E cosa fa quando non sa più a che santo votarsi? Quando le “dritte” avute si rivelano sbagliate? Quando gli rimangono pochi quattrini in tasca? Si affida alla cabala: gioca l’accoppiata uno-otto senza neanche guardare chi corre.

Va bene, ho deciso. Calmo, mi avvicino al banco e gioco due accoppiate, una per ciascuna corsa mancante, da cinquantamila lire l’una. “Uno-otto alla settima e all’ottava di Aversa”, dico sicuro e, intascati i biglietti, me ne torno al bar. Non voglio sentire le cronache. Meglio non soffrire in diretta. Rientrerò in sala fra un tre quarti d’ora, mi avvicinerò al tabellone e poi sarà  quel che deve essere. Basterà un attimo di fortuna, che la mia “gobba” tenga ancora per qualche minuto.

Non ci voglio pensare più! Nel bar c’è un televisore e così cerco di seguire quel che succede su quello schermo e di dimenticare che, intanto, su quelli dell’agenzia…

Sono quasi le sette. È ora di andare a vedere. Nel fare i pochi passi occorrenti cerco di analizzare i miei pensieri: un tumulto indecifrabile. Entro e mi avvio al tabellone di Aversa. Bene, vedo da lontano che il risultato della settima corsa è già scritto.

“Fa’ che l’accoppiata sia uno-otto”, dico tra me rivolto non so bene a chi. Come in un sogno… un magnifico sogno! Là, sul foglio bianco c’è scritto, bello grande: primo classificato numero otto, secondo numero uno. Poi, più sotto, la quota che mi interessa: accoppiata seicentodieci. Il massimo! Il massimo! Ho vinto tre milioni e cinquantamila lire. “La  “gobba tiene” e quasi mi metto a urlare di gioia. Mi precipito all’incasso seguito dai pochi giocatori rimasti e dai loro commenti assai pepati.

“Bel colpo, eh?” Mi dice il cassiere contandomi i biglietti da cento. “Perbacco”, rispondo e non so dire di più. Dopo, più calmo, messi i soldi nel portafoglio, mi siedo nel solito angolo e aspetto. Sono certo che vincerò anche all’ottava. È così; quando si vince, si vince. È come un’onda che riesci a cavalcare; finché ci stai su e l’onda tiene…

Il televisore comincia a trasmettere la cronaca dell’ottava di Aversa, ma neppure lo guardo. Tanto, l’accoppiata è uno-otto.

Non lo guardo, ma sento la cronaca e, come è giusto e sacrosanto, tutto fila liscio. Sono arrivati. Mi alzo, mi sistemo davanti alla cassa e passo al cassiere la giocata. “Scommette che sono altri tremilioni?”, gli dico sbruffoneggiando. Sorride (tanto i soldi non sono suoi). Aspettiamo le quote del totalizzatore che tardano un poco. Già qualcuno dei presenti s’è fatto avanti. “Senti sono rimasto a secco, dammi almeno un deca per mangiare”. “Ehi, tu, se m’allunghi un venti ti dò un cavallo sicuro per domani”. “Devo tornare a casa e non ho neanche i soldi per il treno”.

E così via come capita sempre a quei pochi che fanno davvero un grosso colpo in sala corse. “Va bene, va bene” e distribuisco quelli che a me, adesso, sembrano solo spiccioli. È come fare un’assicurazione. Mi sembra doveroso verso me stesso e penso che se un giorno, mi capiterà di trovarmi al posto di uno dei questuanti qualcuno sarà generoso con me. Lo stesso ragionamento che faccio quando dò l’elemosina.

“Ha proprio indovinato”, mi fa, all’improvviso, il cassiere “seicentodieci massimo di quota e tre milioni cinquantamila lire la sua vincita” e comincia di nuovo a contare. Esco quasi di corsa e mi rifugio in macchina. Avvio e faccio d’un fiato tutta la strada fino al casello d’imbocco dell’autostrada. Qui giunto, mi fermo di lato, tiro fuori il denaro e conto. Ho nel portafoglio sei milioni e mezzo più un bel po’ di biglietti da dieci che mi infilo in tasca, senza stare a vedere quant’è. Che gioia! Che delizia!

Riparto, giro a destra verso il passaggio riservato al Viacard e là, proprio al casello, ecco Giovanni. Sta cercando un passaggio: fa l’autostop. Mi fermo, mi riconosce, lo carico e via. Tutto in silenzio. Non so che dirgli. Anzi non so se dirgli qualcosa e, quindi, taccio. Lui guarda fisso davanti e si vede che soffre del mio atteggiamento. Poi, passati cinque minuti, non ce la fa più.

“Bell’amico che sei. Prima mi dici no alla giocata, poi mi peli il socio a biliardo e lo fai incazzare tanto che mi ha praticamente mandato a quel paese e, adesso, non mi parli neppure. Lo so che hai vinto, ti si legge in faccia. Hai avuto una fortuna sfacciata ed è merito mio. Se non mi incontravi stamattina, qui nemmeno ci venivi”.

“Beh”, penso, “ha ragione” e mi infilo nell’area di servizio prima dell’ingresso in città. “Vieni, ti offro qualcosa”, gli dico, “e quel tuo cavallo che doveva vincere?”, gli chiedo entrando nel grill. “L’hanno ritirato, tu pensa”, mi fa di rimando, “si vede che si era sparsa la voce e così nisba”. Un caffè per lui e un bicchiere d’acqua per me e torniamo verso la macchina. Mi fermo, appena vicino alla portiera, tiro fuori il denaro, conto veloce dieci biglietti da cento ed, entrando in auto, glieli metto in mano.

Mi guarda stupito ma, intanto, intasca.

“È la tua quota”, gli dico, “e non mi devi niente. Ho avuto una “gobba” e tu, in fondo, sei stato il vero motore di tutto. È merito tuo e adesso siamo pari. Andiamo a casa”. “Andare a casa?”, mi fa Giovanni, tutto infervorato, “ma sei matto? Se è una “gobba” non devi mollare. Andiamo a Campione, a Saint Vincent o in qualsiasi altro casinò che tu voglia. Non perdere il momento magico”. “Ci ho già pensato da solo, figurati. Ma non ne faccio niente”, gli dico mentre entriamo in città. “Mi sta bene così. E poi sento che la “gobba” è finita”.

Sono circa le otto quando suono la porta di casa. Mi aprono ed entro tranquillamente. “Ciao Flora. Eccoti qua la ricevuta dell’affitto dello studio. Ce l’ho fatta per un pelo (e lei non saprà mai quanto questo sia vero in tutti i sensi). Ci sono andato dieci minuti fa”. “Bene, meno male”, fa lei, tranquilla, riponendo la quietanza nel cassetto, “e come è andata la giornata? Il lavoro?”.

“Così, così, cara. Niente di speciale” ed affondo il cucchiaio nella minestra.

* Dice di sé:
Mauro della Porta Raffo. Narratore e saggista, classe 1944, svolti più o meno svogliatamente mille diversi mestieri, ha cominciato a scrivere nel 1996 su sollecitazione di Giuliano Ferrara, che lo ha ribattezzato “il Gran Pignolo” per la sua curiosità onnivora, per la propensione alla cultura erudita e la precisione dimostrata. Per lo stile asciutto al servizio di un’informazione che di una notizia premia l’originalità e l’inedito, della Porta Raffo è collaboratore passato e presente di tutte le principali testate nazionali (“Corriere della Sera”, “Il Sole 24 Ore”, “La Stampa”, “Il Giornale”, “Il Foglio”, “Panorama”, “Oggi”, “Gente”, “Capital”, “La Gazzetta dello Sport”, “Vanity Fair”, “Il Giorno”, “Il Tempo”, “La Provincia”, “La Prealpina”). Ha partecipato su Rai 3 alla trasmissione “È la stampa, bellezza!” ed è stato consulente al “Quiz Show” e a “Ritorno al presente” di Rai 1. Tra le sue pubblicazioni si ricordano: “Sale, Tabacchi e…” (1999), “Tato fuma” (2001), “Vecchi barbieri, antiche barberie” (2003), “Dodici giorni in un’altra città” (2005), “Piero Chiara” (2005), “Eminenti varesini” (2006), la raccolta di racconti “Prendere la vita di petto e guadagnarci in salute” (2002) e i saggi “Obiettivo Casa Bianca, come si elegge un presidente” (2002), “I Signori della Casa Bianca” in due edizioni (2004 e 2005) e “Dieci anni di Pignolerie” (2006). Ha almeno un altro milione di storie da raccontare e tutte maledettamente buone!

EMILIO SALGARI

Il vascello, che poco prima non si poteva ben discernere per la profonda oscurità, non si trovava allora che a mezza gomena dal piccolo canotto. Era uno di quei legni da corsa che adoperavano i filibustieri della Tortue per dare la caccia ai grossi galeoni spagnoli, recanti in Europa i tesori dell’America centrale. Buoni velieri, muniti d’alta alberatura per potere approfittare delle brezze più leggere, colla carena stretta, la prora e la poppa soprattutto altissime come si usavano in quell’epoca, e formidabilmente armati.

(Da “Il Corsaro Nero”, 1898)

VOLTAIRE

Il maestro del villaggio, sorridendo, gettò per terra le gemme, guardò un momento la figura di Candido con stupore e continuò il suo cammino. I viaggiatori non lasciarono di raccorre l’oro, i rubini e gli smeraldi. “Dove siamo noi?” grida Candido “bisogna che i figli del re di questo paese sieno bene educati, perché s’insegna loro a sprezzar l’oro e le gemme”.

(Da “Candido”, 1759)

 

PROVOCAZIONI Barbara Leone - Donne in Tv? O per tessera o per passera

Una carrellata di presenze femminili, prestigiose o futili, nel piccolo schermo

Barbara Leone *

La Tv è femmina ed esprime valori femminei.

Pare dunque giusto e naturale che le donne (nude se è il caso) occupino il piccolo schermo. Non esiste televisione senza le donne come, oggi, non esiste donna giovane e carina che non pensi a sé stessa nella finestra dei 24 pollici. “Voglio fare la velina” non è un’aberrazione come sentenziano i soloni moralisti, che parlano dalle cattedre delle Terze pagine dei grandi giornali, ma una sana, onesta, rispettabile ambizione.

Le veline fanno vacanze di sogno su yacht di lusso, flirtano con calciatori miliardari, sono inseguite e corteggiate dai fotografi, godono dell’amicizia di Briatore, danzano al “Billionaire”, esprimono pareri motivati di diritto civile, matrimoniale e politico. E allora dov’è il peccato, dov’è la vergogna se, furiosamente o languidamente, seducono. Che altro può fare una bella donna? Ah le donne che cinguettano garrule o seriose dalle 20 alle 20 e trenta o nella mezz’ora successiva. Le donne che esibiscono generose grazie negli show estivi o negli impegnativi salotti invernali. Tutto vogliamo sapere di loro, anche i particolari più dementi e prendiamo per buone le loro incantevoli bugie, ci inteneriamo per le loro pose maliarde, specie se – come facevano alcune fanciulle Old Style – ci parlano da una dormeuse. Le donne della Tv sono tutte belle, sono tutte sirene glassate, agghindate, patinate e a volte persino conturbanti, ma, ahimè, raramente affascinanti.

La loro esistenza s’inizia col “buona sera”, si chiude con un cenno, un sorriso che pare un invito, una strizzatina dell’occhio destro che vale una promessa. Sono le ragazze che le donne invidiano, gli uomini sognano e desiderano, ma con le quali non stabilirebbero mai una convivenza perché – si sa – la routine uccide.

Sono le ragazze fichissime del piccolo schermo, scicchissime e sempre in ordine, sono le ragazze fashion. Sono le ragazze di oggi. C’è la verginella, la figlia del deserto, la casta Susanna, quella che ha studiato dalle Orsoline, la contadinotta ripulita, la “mamma Ciccio mi tocca”, l’ossuta fremente, quella che non la dà a nessuno, la sposa intemerata e quella che se, non ti stai attento, te la rifila a schermo spento. Non manca, ovviamente, la stronzona e, che ne parliamo fare, l’intellettuale superimpegnata.

Ce n’è per tutti i gusti, alla faccia delle racchie universali e degli inglesi del “Financial Times” che ci rimproverano di mettere in mostra belle donne e per giunta discinte. Orrore, raccapriccio, disgusto, grande sconfitta per i movimenti di liberazione femministi (ma quando mai!), trionfo del maschilismo dirompente senza contare la mercificazione pallosa e polverosa del corpo femminile. Ma lo vogliamo dire che è tutta invidia?

Quelli, dalle loro parti, con le donzelle butirrose che si ritrovano, una come la Canalis se la sognano. Fanciulle in fiore. Una volta, le ragazze della generazione di mia mamma, volevano fare le hostess. Mestiere nuovo, affascinante avventuroso. Roba di classe diceva chi (maschio) ne rimorchiava una su un volo transcontinentale. In realtà, poverine, facevano le domestiche di bordo, avevano il ciclo mestruale sballato e non vedevano l’ora di essere assegnate (con raccomandazione) ai sevizi a terra per godersi il fidanzato e un orario sanamente routinier.

La televisione dunque è delle donne. Ma – e non sembri una contraddizione – più le donne sono complicate (e lo sa Iddio se lo sono), più la televisione per essere efficace e comprensibile, dev’essere semplice, anzi elementare. Non so se Berlusconi abbia meriti politici, ma sono certa che il suo criterio d’impianto della tv commerciale partì dalle donne, dall’esibizione in video delle tette e dei glutei femminili, in quella discutibile trasmissione che si chiamava “Drive In” ideata, se non mi sbaglio, da Antonio Ricci e che ora è un “cult” e un punto di riferimento in qualsiasi manuale del settore e per chiunque voglio allestire un show per il piccolo schermo. Tette generosamente esposte, culi sapientemente levigati, un po’ di musica, qualche battuta da caserma e il gioco fu fatto.

Rispetto a questo guizzo d’ingegno, la Rai della Riforma era ferma ai “vicari” (manco si trattasse di dire Messa), ai nuclei ideativi e produttivi, alle seghe mentali e agli arzigogoli degli intellettuali della Sinistra di allora, come al solito lenti (se non inadatti) a capire la realtà in cui la tv opera. Berlusconi fu geniale. Fece una tv stracciona, imbecille e volgare, una tv moderna e adatta ai tempi e non ci poterono – contro di lui – manco i pretori d’assalto.

La Rai annaspava, rispondeva con le inchieste, gli approfondimenti, le squisitezze e i compassati annunciatori (maschi) che venivano tutti dal Giornale radio, parlavano col “birignao”, avevano una dizione perfetta e risultavano francamente noiosi e privi di appeal. Ci volle quel rude e intelligente carrarmato irpino di Biagio Agnes, che giustamente De Mita volle al posto di Direttore generale, per capire che bisognava inseguire Berlusconi giù per la discesa, lungo la china del peggio.

Agnes Biagio da Serino (Av) aveva un fratello, Mario, che con una sorella monaca-laica, viveva in Vaticano e dirigeva l’Osservatore Romano. Le cronache dell’epoca narrano che don Biagio dicesse di sé “Mario con gli studi, io col naso”. E il naso lo portò lontano. Via gli annunciatori in gessato e cravatta, avanti i giornalisti e anche un po’ di femmine, (con juicio, sempre Dc siamo), via gl’intellettuali raffinati e “segaioli”, via le mutandone che avevano afflitto le Kessler, via i programmi del perbenismo nazionale, avanti con la scempiaggine diffusa perché – e questa fu la grande intuizione – la tv è la fabbrica della cretineria nazionale, deve parlare scemo, deve soprattutto interessare le donne, toccare i loro problemi con il gusto, la ciabattoneria, la cultura, i tic di una casalinga qualunque, abiti essa a Capo Passero o sulle Dolomiti, non ha alcuna importanza.

Fu il primo passo. Le annunciatrici (chi non ricorda la mitica Nicoletta Orsomando) furono dotate di sala trucco e relativa indennità per ombretti e belletti e comparvero aggiustate come per la festa da ballo. Che alcune di loro non conoscessero perfettamente la lingua italiana perse d’importanza. Ci fu una ragazza dalle fulve chiome che in video invece di dire Naja per indicare il servizio militare, disse Nacha alla spagnola, ma fu perdonata perché “arraposa” e guai a toglierla del video.

Passò dalle cronache alla storia del piccolo schermo quella bionda e ammiccante annunciatrice, che si chiamava Mariolina Cannuli che, con aria complice e gattona, diceva: “ e…. al termine…. il telegiornale della notte”. I rotocalchi dell’epoca si gettarono su questa invitante ghiottoneria e stabilirono che quello della signora era un’audace ammiccamento se non un esplicito invito per una notte da sogno, ovviamente da trascorrere insieme con lei. C’è da osservare che i nostri padri si contentavano con poco.

Il secondo passo, quello che sancì l’appropriazione del piccolo schermo da parte delle donne, lo compì quell’estroso napoletano che risponde al nome di Antonio Ghirelli, che posto da Craxi alla Direzione del TG2 non capiva un acca della tecnica televisiva, ma aveva intelligenza sufficiente per comprendere che i valori in uso per la carta stampata non avevano corso davanti alla telecamera. Ghirelli intuì immediatamente che la tv è innanzi tutto spettacolo, che il tenore e la qualità delle notizie fornite hanno relativa importanza e che la bella scrittura, il periodare rotondo, l’arguzia e la cultura, doti indispensabili per il giornale scritto, in tv sono soltanto un impaccio e un gravoso fardello.

Da vecchio e sperimentato annusatore di femmine, Ghirelli stava chiotto chiotto, come il gatto col sorcio in bocca quando gli si presentò una vispa e intraprendente giovinotta bolzanina con una pila di cassette da esaminare (non userò mai il termine visionare, orribile). Il Direttore considerò la modesta statura dell’aspirante, valutò la verve della fanciulla e non si diede manco il tempo di riflettere. “Ma questa qui è un barattolo di pepe. Mettetela in video”.

E fu una rivoluzione. Assunta la postura di sguincio, mentre di solito il cameraman si poneva piattamente di fronte al lettore, la signorina Dietlinde Gruber, detta Lilli, offrì alla platea degli spettatori del TG2 delle ore 13.00 il suo capino biondo e riccioluto a ornamento di un visetto aggraziato e birichino. Era saltato il Vallo Atlantico, ora le donne potevano passare e occupare il video perché, era chiaro che rendevano più degli uomini, i quali, a loro confronto, sembravano marionette impagliate, rigidi e lugubremente austeri come sacerdoti di una remota e triste divinità orientale.

Ma come dice il Tao cinese “le donne tendono a straripare e hanno bisogno di argini”. Certo, ma chi mai poteva permettersi di imporre regole di contenimento alla signorina Gruber che intanto era passata al TG2 delle 20.30 e aveva personalizzato il Tg facendolo diventare il palcoscenico della sua personale bravura? A questo punto chi poteva impedirle di ambire alla “conduzione” del Telegiornale maggiore della rete ammiraglia. Gloriosa e trionfante la ragazza Gruber passò al TG1 dove esordiva enfaticamente “E… buona sera, buona sera” e chiudeva in questo modo: “Io mi fermo qui. Noi ci vediamo domani”. Alcuni colleghi (maschi), certamente rosi dall’invidia, fecero osservare al Direttore che quello non era modo. Innanzi tutto lei non si fermava, ma il telegiornale terminava e poi quel “noi” tendeva a stabilire un rapporto privilegiato, assolutamente inammissibile, tra lo speaker e i fruitori del sevizio pubblico.

Il Direttore fece spallucce, la giornalista fu dichiarata inamovibile sia per la vasta e meritata notorietà conquistata sia perché nessuno poteva dimenticare che la medesima, insieme con Carmen Lasorella e il fido Badaloni avevano capeggiato il movimento “democratico” “abbonato fatti sentire” e s’erano pure scomodati (con ampio visone di scorta) ad aprire un banchetto per le firme a Porta Portese, il Mercato delle Pulci di Roma.

Dietro la Gruber venne dapprima lo sciame delle gruberine, sghembe davanti alla telecamera, ma nessuna col fascino e la personalità della capostipite la quale, dal canto suo, capì perfettamente che conquistare il potere è il meno, difenderlo è arduo specie se le concorrenti sono donne o quando si incorre in qualche piccola distrazione che gli avversari imputano a scorrettezza, ma che può essere giustificato comelapsus linguae o momentaneo obnubilamento da stress emotivo.

Accadde infatti, una sera, che la Gruber nel “lanciare” il servizio di una importante collega incespicasse con la lingua e invece di dire correttamente “sentiamo Daniela Tagliafico” dicesse, forse maliziosamente, “Daniela Tagliafica. Oh, scusate Tagliafico”. Peggio, “el tacon del buso” come dicono i veneziani. La smentita è una notizia data due volte. La Tagliafico (e non Tagliafica), una sicula rovente, chiese giustizia e non l’ottenne e la sospettata, invece, ormai salda in arcione, scavalcò un traguardo dopo l’altro e tra libri, rischiose missioni di guerra con tanto di paschmina al seguito, conferenze, consulenze e quant’altro approdò gloriosamente al Parlamento europeo dove ora, operosamente, lavora, al contrario del sodale Santoro Michele (da Furore-Sa) che non ha saputo resistere alla calamita del video e ha preferito un discusso ritorno in Rai al prestigio dello scranno europeo.

Il video è una malattia incurabile e senza rimedi o palliativi. Giornalisti seri, onesti padri di famiglia, professionisti intemerati si sono visti genuflettere davanti alle scrivanie dei capi per ottenere improbabili riammissioni e sono caduti nella fossa delle depressioni più buie quando il loro destino è apparso segnato. La televisione dà autorevolezza e prestigio, alle donne, poi, certificazione di potere acquisito. La scatoletta quadrata è un filtro magico capace di trasformare una banale ragazotta in una diva del varietà di collaudata memoria.

“Ho scelto un nome eccentrico Ninì Tirabusciò”. E dunque non deve sorprendere che sulla scia della Gruber, le gruberine si siano moltiplicate tanto da ridurre la capostipite a una pallida controfigura. Reggerebbe il confronto la rossa ragazza di Bolzano con il fascino esotico e la sofisticata avvenenza della signorina Jebreal (quella tipa un po’ abbronzata disse di lei il leghista Calderoli) che pur esibendosi da una tv di nicchia è ora diventata, certo con merito, una “conduttrice di prestigio e di successo?”.

Ma gli uomini? Le nuove dive del piccolo schermo li hanno surclassati e ammazzati. La tv si addice alle donne, è tagliata sulle loro enormi possibilità emotive ed espressive. Gli uomini, per quanto possano essere femminilizzati (e lo sono, oggi) non hanno strumenti di seduzione adatti, sono impagliati, rigidi, non sanno porgere, non sanno emozionare, coinvolgere, ammiccare con battito di ciglia, un sorriso, un gesto della manina su per l’aria.

Il nuovo direttore del TG1 Gianni Riotta l’ha capito e nei dibattiti ha tolto ai giornalisti la giacca, ha imposto la camicia bianca con cravatta scura alla maniera americana, ma più che un rimedio è l’ammissione di una sconfitta. Volete mettere una generosa scollatura o una maliziosa minigonna che accompagni un accavallamento di gambe durante un acceso dibattito con le maniche di camicia di un qualsiasi giornalista con gli occhiali?

Oddio a volte la grazia può essere connaturata e spontanea come in Daria Bignardi, la ormai celebre moderatrice del talk show “Le invasioni barbariche”. La signora Bignardi è naturalmente elegante, un tantino snob (che non guasta) e fornita di sapiente ironia quanto basta. Ma rispetto a vecchie ciabatte del mestiere come Mentana, Vespa e compagnia bella la signora è una pivella che sta all’abbecedario del mestiere, eppure i giornali la considerano, la lodano, la glorificano e perché? Ma perché è una donna, ha il sorriso soave e al fascino femminile è difficile sottrarsi; lo chic culturale non si improvvisa e qualche donna lo ha di suo, indipendentemente dalla scienza e dalla sapienza professionale. A un uomo non sarebbe stato riservato lo stesso trattamento?

Quando lasciai il violino per questo mestiere mi dissero “ricordati che è sempre il giornale che fa il giornalista mai viceversa. Se stai al Corriere sei un grande giornalista, ma se stai all’Eco di Peretola sei una schiappa”. Non è vero, ora lo posso dire. Se stai sullo sgabello e sei di coscia lunga l’avvenire televisivo è tuo e andrai lontano. Se stai a Baghdad, vai sulla terrazza dell’albergo e ti mostri in pashmina i giornali parleranno di te, farai moda e tendenza e non importa se avrai scoperto chi sono gli aggressori e chi gli aggrediti o se era giusto o meno esportare la Democrazia (con la d maiuscola) nel Vicino Oriente. I valori tradizionali di questo mestiere (perché è un mestiere il nostro e non una professione) sono stati sovvertiti dalla tv e il primo a capirlo – perché non dargliene atto – fu il vecchio Maurizio Costanzo che ai beati tempi di “Bontà Loro” compiva gesti apparentemente futili e insensati come aprire e chiudere una finestra o spostare una sedia, ma che i giornali e gli esegeti di scienze televisive riempirono di significati profondi.

Che vorrà dire l’ottimo Maurizio con il ritornello “Cosa c’è dietro l’angolo?” Il papà del talk show all’amatriciana la sapeva più lunga degli eccelsi Barbini, Virgilio Lilli, Buzzati, Piovene e Montanelli messi insieme. Capì innanzi tempo che la tv è regno delle femmine e inventò la Maria De Filippi che gli snob detestano, ma che accorti critici come Aldo Grasso stimano per i modelli nazional-popolare che propone.

Non caschiamo nell’errore di considerare un personaggio Costantino e gli altri “tronisti”. I personaggi della De Filippi sono le donne che si avvicendano davanti al trono e il successo di opere mediocri e noiose come “Sex and City” lo dimostra senza equivoci. I problemi, le ansie, i sospiri, le ciarle delle donne hanno conquistato la tv e hanno persino messo in fuga gli uomini asserragliati nell’ultima trincea di loro spettanza, lo sport.

“Perché perché – cantava Rita Pavone gli anni Cinquanta – la domenica mi lasci sempre sola, per andare a vedere la partita di pallone”. Il pallone era degli uomini, fuit come dicevano i Romani antichi, ora è solo delle donne. Corrono col “gelato” in mano, intervistano, blaterano, commentano (dal campo, da studio) e se sono presentabili, una bella scollatura e un paio di braghette attillate non fa mai male anche se si tratta di leggere solo le tabelline dei risultati della domenica pallonara.

Ah le donne al volante. “Donne al volante sepoltura aperta”. Ma quando mai. Forse le nostre mamme. Ora le donne regnano in Formula Uno, strillazzano tra rombi di motori, sudori, caschi integrali, puzza di benzina, pioggia e sole cocente e sono in grado stabilire se Massa è meglio di Raikkonenn o se Alonso merita la Pole o è stato scorretto nei confronti del compagno di scuderia.

Invidia la mia ? Forse, ma io le colleghe col fucile a tracolla non le amo e non mi piacciono le “guerrigliere” del TG3, detesto le “tenebrose” che si affacciano dalla finestrella del telegiornale con l’occhio torbido, la ciocca pendula e il sorriso ambiguo, non prediligo le “pasionarie” – come la Gabanelli, la signora di “Report” – che sembra vogliano redimere il mondo e raddrizzare i torti e non perché gli argomenti siano banali, ma è il tono che è insopportabile.

“Ogni eccesso è difetto” diceva Totò. “Le donne non hanno il senso della misura” sostenevano i vecchi maschilisti, ma è vero fino a un certo punto. È certamente vero quando ci s’imbatte in personaggi come la signora Barbara D’Urso, carina, per carità, aggraziata, nessuno lo nega, ma anche esagerata nelle sue pretese. All’età di 48 anni suonati (ora ne avrà 49) la gentile dama disse che certo voleva un uomo, ma bello, ricco, intelligente, appassionato, colto e premuroso.

Nient’altro?, commentarono i maligni. Certo la facile popolarità ubriaca le donne, ma non tutte. Le giornaliste che “conducono” il TG2 sono infatti un esempio di civiltà e correttezza professionale. Non si propongono mai come “star”, come personaggi, mai eccentriche o eccessive non deviano sulla loro persona l’attenzione dello spettatore, vanno lodate in blocco sia che, come la Vergara, parlino dal Quirinale sia che – in piedi e composte – leggano il telegiornale.

Ma provate ad andare a Saxa Rubra, palazzina A, secondo piano… redazione TG1, per intenderci. Lì la Gruber ha fatto scuola e le sue epigoni e imitatrici le potete vedere ogni sera. C’è chi parla a mitraglia e scuote la bionda chioma, quella che s’è rifatti gli zigomi, l’altra che esibisce i denti appena limati e tutte hanno un “riferimento” e tutti, maschi e femmine, fanno la fila davanti alle porte dei Capi per una comparsata in video. I nomi? Ma no, in Rai, per maschi e femmine, non ci sono nomi senza padrinato, è la legge dell’azienda.

A volte basta una parola, un tono fuori posto e sei fritto. Ma anche se nessuno ha il coraggio di ammetterlo, è a tutti (o quasi) cosa nota. In Rai si entra e si fa carriera in due soli modi: o per tessera o per passera, altra via non c’è. E a Mediaset? Elementare: dalla Domenica del villaggio a Palazzo Chigi il passo è breve. Basta saperci fare. In fondo… le vie del Cavaliere sono infinite!

* Dice di sé:
Barbara Leone. Facevo la violinista e mi divertivo pure. Ma mi diverto di più a scrivere. Amo gli autori russi e i poeti maledetti. Il mio compagno di vita e di avventure è un cane nero chiamato Maffino.

Nancy Cacchiarelli - Più della morte, ho paura della bellezza

Sfidare la natura e il decadimento fisico mostra la totale utopia degli attuali canoni estetici

Nancy Cacchiarelli *

Ci sono tanti tipi di bellezza, tanti quanti sono i modi di cercare la felicità.

Charles Baudelaire

Chissà se esiste un sentiero da percorrere o se abita da qualche parte un dirupo da superare per conquistare la felicità, chissà dove vive, se nelle promesse di vita nei giuramenti di amore eterno, nella ricerca del bello sublime o dell’assoluto.

Cerchiamo la felicità più importante, quella più profonda, quella che rimane per sempre, dimenticando che mentre la cerchiamo, sul nostro sentiero, il sole è meno luminoso, qualche nuvola sta avvolgendo la sommità delle montagne e tutto ciò che ci sembrava reale e raggiungibile con il passare del tempo diventa impervio e apparente.

Sfidare la natura, il decadimento fisico e la mortalità, sembra essere diventata la “promessa di felicità”, quasi ossessione, della società occidentale contemporanea, abitata da corpi perfettibili e imperituri, da associazioni cosmetologiche fugaci e “atelier per corpi” da tagliando conservativo, che confortano utilizzi esasperati facendo leva sul comune senso di inadeguatezza.

L’idea di bellezza, come il raggiungimento dell’estasi, si è negli ultimi anni evoluta e le radici, ma soprattutto le logiche di tale falsificazione, sono il punto mediano su cui ruotano le aspirazioni del cosmo. Se il punto di partenza è analizzare i principi di grazia, il punto di arrivo sono le stelle, le star irraggiungibili divine e anche la febbrile necessità di rivolgersi ai “numi” pur di arrivare alla bellezza.

Nel suo senso più profondo, la bellezza dà alla luce due realtà percepibili nell’animo del mondo naturale: la bellezza “celeste” e quella “terrestre”. La prima, ultraterrena, che genera fascino e suggestioni positive verso l’universo nella sua astrazione, nella sua spontaneità e naturalezza, come lo splendore nell’eruzione di un vulcano, nelle montagne o nelle maree, nelle preghiere o nello spazio.

La seconda, la bellezza degli esseri viventi, è la bellezza “terrestre” che solleva gli occhi e i pensieri di ognuno. L’incanto caduco che oltrepassa lo spirito e aleggia lieve su fisici messi in rilievo dal leggero cesello dei muscoli con la tinta degli occhi e il lampo biondo o bruno che aureola la testa. Quei corpi statuari che la perfezione connota di sensualità, quella perfezione innata scevra da sovrastrutture, senza false mimetizzazioni.

Per vocazione il concetto di bellezza di ognuno è coniugato, in grazia, al concetto e al gusto che porta in sé, ma non nella nostra cultura estetica, dove lo splendore riferito alla prorompenza fisica, si salda a dei canoni prettamente utopistici, e sulla base di un archetipo di bellezza pubblicizzato per anni come accordo di felicità. Canoni di bellezza e princìpi di armonia che si rincorrono disperatamente dietro una esilità struggente, visi turgidi che contornano labbra carnose, molto spesso ricercati e non posseduti, ovviamente.

Lettini di chirurghi, pericoli ambulanti che, nel raggiungimento dell’inarrivabile, attuano stratagemmi di bellezza mendace, una bellezza abbagliante raggiunta ad ogni costo e sulla base della richiesta di un mercato che crea delle alleanze di successo sotto mentite spoglie con la bramosia di piacere comunque in cambio di potere economico e successo.

“Ho paura della bellezza, la temo più della morte, poiché beltà fa rima con felicità. Ho paura della bellezza, che rischia sul filo del rasoio…”, come cantava Bob Dylan in “Shelter from the storm”, un giorno la farò mia e sulle note di questo brano si consuma la tragedia della vita: molti ammirano la bellezza da lontano, osando sul filo, ed altri la contemplano, se ne vogliono impadronire, e molto spesso impugnano quella lama del rasoio per sfigurarne i tratti. La paura che alla fine non sia la saetta del bello a condurci alla verità, ma che la bugia sia la vera realtà.

Nessuno ha più angoscia per la bellezza di coloro che hanno lo scellerato bisogno di sentirsi tali, e si sottomettono ad essa che tutto placa. Io penso che la vita sia come un viaggio, non un‘esplorazione qualsiasi, ma un cammino straordinario in cui, ad ogni passo, dobbiamo scoprire qual’è il nostro destino, in cui ad ogni passo dobbiamo scegliere quello per cui vale la pena vivere, amare, soffrire. La rarità di questo viaggio è che inizia tutti i giorni, ogni volta che si alza il sole all’orizzonte, e che l’alba accompagna i nostri sogni, questo viaggio inizia come d’incanto.

Come possiamo intervallare il nostro straordinario tragitto con soste a bivi inutili, dove rallentiamo la conquista della serenità solo per aver barattato la felicità con una ricerca di bellezza virtuale intesa come sinonimo di malattia e sofferenza? Questo viaggio si apre per strade che non avremo mai voluto solcare, per sentieri che era meglio non scoprire.

Se bellezza, giovinezza e magrezza sembrano essere diventati l’unico salvacondotto per l’indorato mondo dello star system, dall’altra parte l’icona della conseguenza, che questo messaggio ha generato, è meglio rappresentata dalle foto di Oliviero Toscani della modella Carla, che ricorda il dramma delle morti per anoressia, che ci conduce per mano per una via interiore, la via del superamento di sé, quando la bellezza deturpante diventa emblema di un’altra ricerca: la fame, senz’altro di qualcos’altro che non sia la bellezza terrestre.

Un giorno, lontano nel tempo, e così prossimo da essere ancora atteso, la dolce fanciulla si rivolse al vecchio saggio chiedendo con la sua flebile voce: “Ma dimmi, buon saggio, io tanto ho cercato risposte a una domanda che ogni giorno mi sovviene alla mente e a cui non trovo risposta, sai dirmi tu qual’è? Io cerco la felicità e tanti mi assicurano cosa sono tenuta a fare, come devo comportarmi, tanti sostengono che se vorrò essere felice dovrò raggiungere il sublime, l’assoluto, se vorrò essere felice dovrò essere “bella”, ricca ed avere potere, e per avere tutto questo dovrò sottomettermi, ma io non capisco cosa c’entrino tutte queste cose con la felicità. Sai dirmi tu, cosa devo fare per essere felice?”. Il vecchio saggio, che aveva ascoltato le parole della giovane, alzò il capo al cielo, e dopo aver profondamente sospirato, iniziò.

“Vedi mia bambina, troppo spesso i grandi confondono la felicità con ciò che non ne è neppure una parvenza e la scambiano con l’essere soddisfatto di qualcosa. La bellezza è la dissimulazione di questa ricerca e troppo spesso diventa rappresentazione del mondo di felicità; ma solo la bellezza dell’animo può riflettere il mondo. La vera felicità nasce dallo scorgere nuove possibilità che contrastano con crepe e abissi che abbiamo creato, che ci alimentano e contaminano il nostro cammino. Soltanto in questa maniera, mentre molliamo la presa per quell’errato fardello, ci accorgiamo d’essere diversi, come se separarsi da qualcosa, dalle convinzioni sbagliate fosse una liberazione; dove la vita diventa più leggera la felicità cresce perché non è una prigione dorata in cui ci siamo messi”.

Nicolas Kabasilas, un mistico del quattordicesimo secolo, riferendosi alla bellezza afferma: “Uomini che hanno in sé un desiderio così possente che supera la loro natura, ed essi bramano e desiderano più di quanto all’uomo è consono aspirare. Una consapevolezza della bellezza che abbia a che fare con il dolore, un labirinto che non fa uscire gli uomini da sé per aprirli nell’estasi, ma li imprigiona totalmente in se stessi”.

Alla bellezza ci si aggioga di buona lena, crediamo di aver bisogno di creme, di labbra rigonfie, di seni alti e sodi, abbiamo creduto e ci siamo persuasi ancora che la taglia 38 sia il numero vincente per camminare su anguste passerelle e cavalcare una felicità invisibile Se sei garante dell’imperturbata bellezza hai strade aperte nel lavoro, il sorriso di una realtà priva di valori e virtù dove per convivere è richiesta grazia e armonia esasperata, diventate ormai una liturgia che fino allo stremo ci costringe alla sua espugnazione.

La bellezza che non è una promessa, sembra invece un inganno. È una promessa di felicità, una parola non mantenuta, assicura ciò che non può garantire, nutrendosi voracemente di continue dimostrazioni concrete e assolute con statuti e modelli irraggiungibili, che anelano alla giovinezza e alla gracilità intramontabile.

Penso a Dostoevskij “la bellezza ci salverà”, ma chi salverà la bellezza?

* Dice di sé:
Nancy Cacchiarelli. È la giusta simmetria di un equilibrio che razzola in un cielo azzurro, è l’irrazionalità che naviga in un mare in tempesta. È l’immediatezza e la sensibilità nell’unico paradiso perduto della scrittura che è raggiungibile a tutti.

 

LUCHINO VISCONTI

Per un tardo pomeriggio di novembre, sotto un cielo chiuso e carico di neve, una carrozzella se ne viene al trotto senza affrettarsi nell’ora deserta, saltellando e scartando con balzi secchi giù per la strada larga e mal lastricata di un borgo. Di tanto in tanto cala giù fra le case una ventata invernale che scompiglia per un momento la prima nebbia ferma a livello dei tetti e il fumo nero che, dai camini, fila diritto e lento come lunghe sciarpe di lutto.

(Da “Angelo”, 1933)

 

Augusto Bassi - Vespa, quel ragazzo che tutte le mamme vorrebbero
per le loro madri

Colpi Bassi: aforismi del terzo millennio, tra fiele ed anche un po’ di miele

Augusto Bassi *

Giuliano Amato

Topo ligio.

 

Massimo D’Alema

Il baffetto a sonagli.

 

Carlo Rossella

Piace alla gente che si piace.

 

Nanni Moretti

Ninna Nanni.

 

Enrico Boselli

Chi?

 

Ragazza della Porta a Porta accanto

“Le piacerebbe fare la velina?’’ – domanda un curioso Bruno Vespa a Silvia Battisti, neo Miss Italia, dandole del Lei.

“No… guarda… non farei mai la velina… non voglio essere giudicata solo dall’aspetto fisico” – puntualizza Silvia, dandogli del Tu.

“E allora cosa vorrebbe fare?” – incalza Vespa.

“La modella”.

 

Giannino

Oscar per i costumi.

 

Franco Grillini

Family Gay.

 

Ayman al-Zaw?hir?

Se avesse una faccia, avrebbe quella che ha.

 

La Gosa

Un giornalista romano al cellulare: “Ciao bbello… spiegame nà gosa… che è sta gosa che v’ha spiegado… goso… come gazzo se chiama?”

 

Filippo Facci

Impossibile leggerlo senza pensare a com’è pettinato.

 

In viaggio con Padoa Schioppa

E il tassametro corre…

 

Klaus Davi

Arbiter inelegantiae.

 

Deduzioni

Si può dedurre dalle tasse che abbiamo sempre meno soldi da spendere.

 

Bruno Vespa

Il ragazzo che tutte le mamme vorrebbero per le loro madri.

 

Ossimori contemporanei

Minorenni maggiorate.

 

Renato Mannheimer

È interessante notare come ben il 92% degli intervistati, vittime di molestie, rapine, abusi sessuali, violenze da parte di immigrati clandestini, si dichiari favorevole ad un rimpatrio immediato degli aggressori.

 

Ezio Mauro

Seconda Repubblica.

 

Rocco Siffredi

Fatti, non pugnette!

 

Inquinamento mafioso

Dove sono gli ambientalisti quando c’è bisogno di loro?

 

Gianfranco Fini, dal palco del Colosseo come sui manifesti

…Saluta Romano.

 

Intellighèntsija progressista

Radical shit.

 

Occupazione

In un paese civile, gli studenti che ne mostrano l’inclinazione dovrebbero avere il diritto di essere mandati a lavorare.

 

Parco docenti

Jurassic Park.

 

Generazione x

Scambio di sms fra un mio cuginetto e un suo amichetto:

C 6 x pzza?

No xrké nn ho $. T kiamo x 7 prox ok?

Ok. A 7 prox.

 

Mario Giordano

Il Giornalignolo.

 

Matriosca

Sarebbe troppo facile fare dell’umorismo sul cognome “Capezzone”, però, di fatto, inizia con “Ca” e finisce con “zzone”.

 

Partiti

Per non andare lontano.

 

Harry d’Inghilterra

Principe dei sommelier.

 

Diritto di replica

Polemiche per l’uso decorativo delle ragazze in tv; non parlano, non hanno la possibilità di esprimersi, sono lì solo per mostrare le natiche, si dice.

Dissente Laura Barriales, la valletta spagnola della trasmissione sportiva “Controcampo – diritto di replica”: io ho un decolté che parla, canta, e legge la schedina del totocalcio.

La stanza del buco

Chi si fa, l’aspetti.

 

I radical chic

Si lavano poco per i troppi pensieri.

 

Calzacorta

Quando Renzo Barbieri scrisse “Il Calzacorta”, certamente non pensava a Francesco Rutelli. Tuttavia, i calzini stramazzanti del Ministro per i Beni e le Attività Culturali davanti alle telecamere di Porta a Porta, capaci di strizzare l’occhio con disinvoltura allo stile Margheritoni, sono ormai una raffinata consuetudine del salotto di Rai Uno: flosci ma con fermezza, piegati a svelare un po’ di nuda carne sull’agile gamba dell’onorevole, ci ricordano che, soprattutto in politica, la forza di grevità vince sempre.

 

Tifo contro

Le ragioni per cui tifiamo a favore di una squadra sono sempre più friabili dei motivi per cui gufiamo le altre.

 

Identità

Il popolo è un soggetto politico inconoscibile e sconosciuto a se stesso.

 

Soluzioni

L’antiamericanismo è un uovo di Colombo.

 

Sindacato sfortunato

Uil il coyote.

 

Achille Occhetto

Relitto perfetto.

 

Dan Peterson

 

Roberto Cavalli

Coatti al galoppo.

 

Paris Hilton

Andrà mai in pensione?

 

Roberto Calderoni

Fervido sostenitore dell’irredentismo terrone.

 

Incontro nazionale dei giovani 2007

Continuavano a chiamarlo Trinità.

* Dice di sé:
Augusto Bassi. 26 anni, piacentino, è laureato in scienze politiche all’Università statale di Milano. Ha fatto un master post universitario di political science negli Stati Uniti. Su questa esperienza ha scritto un libro divertente sulle avventure di un italiano nei campus a stelle e strisce che è rimasto nel cassetto: “Ma non si sa mai” dice. Di lui, Pierluigi Magnaschi rivela che è “un Ennio Flaiano di 26 anni che vive nel Terzo millennio. La sua penna è intinta nel curaro simpatico”.

Eleonora Brigliadori - La terza via dell'evoluzione. Ecco il credo della signora Brigliadori

Le grandi dispute teologiche e scientifiche cadono spesso nell’errore di fermarsi al numero due, senza accorgersi del tre

Eleonora Brigliadori *

Il Principio

I cabalisti vedono nel tre, la via alla creazione del mondo materiale. Gli induisti riconoscono nella Trimurti, composta dalle tre forze Shiva, Brahma e Vishnu, rispettivamente le energie distruttrici, creatrici e conservatrici che consentono l’equilibrio del mondo. Nella nostra tradizione sopravvive il concetto di trinità come riflesso della necessità di una tripartizione della visione umana, rispetto al sapere che sovrasta l’uomo, ma nella realtà, nella fretta di decidere, nell’ansia di attribuire un colore o una posizione a questo o a quel fenomeno, ricadiamo troppo spesso nel semplicistico bipolarismo, che sempre omette verità fondanti.

Quando partendo dal mondo materiale si tenta di indagare il mondo spirituale e le forze universali che regolano il Cosmo, dobbiamo sempre rifarci ad un’immagine di tripartizione. Lo vediamo anche affacciandoci alla fisica subatomica dove le forze che tengono insieme il mondo materiale, sono tre e prendono il nome scientifico di protoni, neutroni ed elettroni. Oppure  possiamo rifarci alla sfera umana, alla nostra misera politica, intrisa di contraddizioni e sincretismi, dove ancora tale verità si conferma inalterata: di fatto tocca sempre alla terza forza, quella apparentemente “occulta” del centro, che sta una volta di qua e una volta di là, il compito di decidere dei destini del nostro paese….

Al contrario, nelle grandi dispute teologiche come in quelle scientifiche si ricade spesso nello stesso errore. Si guarda il due, senza accorgersi del tre. Materialisti da un lato, credenti dall’altro. Il Bene e il Male,tout court. Evoluzionisti contro Creazionisti, e pochi si ricordano che esiste sempre la terza via, che non dovrebbe essere quella del compromesso, ma dell’integrazione dei due principi nel senso della polarità, poiché è proprio in virtù della terza forza che è possibile una trasformazione, ovvero un’evoluzione.

Anche il Taoismo, che appare, come l’estremizzazione del concetto di bipolarismo nel suo emblematico simbolo del Tao, (raffigurato come un cerchio suddiviso da una sinusoide in due metà, una bianca e una nera, con due punti di colori opposti) in realtà è, per chi non si fermi al concetto apparente, anch’esso un simbolo trino, in quanto figura dinamica tendente all’integrazione dei due principi, oscuro e luminoso, attraverso la terza via, quella dell’equilibrio, la vera via da seguire. La Via, la Verità, la Vita.

Per affrontare correttamente il tema dello scontro tra scienza e religione in merito all’evoluzione, credo non sia tanto importante elencare date o cenni biografici di questo o quello studioso, ma cominciare valutando quanto la stessa scienza o il pensiero positivista, che oggi si dichiara ateo, siano andati attingendo via via le loro basi dagli imprimatur della religione stessa e quanto certi fondamenti dogmatici scorretti pesino, tuttora inavvertiti, nella coscienza e nella mente dei più, come base di tanti equivoci irrisolti del nostro tempo.

Lo stato di “coscienza sopita” nel quale i popoli sono stati guidati e continuano ed esserlo da millenni, grazie a infinite strategie di potere, manovrate da pochi consapevoli e rese possibili dal monopolio del cosiddetto “sapere”, ha in ogni tempo permesso facili e costanti alterazioni della verità, impedendo cambiamenti radicali.

Laddove, in mancanza di un corretto radicamento spirituale, e di una giusta comprensione dell’evoluzione cosmica, l’azione dell’uomo si esprime arbitrariamente con fini solo puramente materialistici, laddove l’uomo riconosca nel mondo solo il raggiungimento di scopi personali, in virtù di una sempre maggiore frammentazione e parcellizzazione delle sfere di azione dei singoli, si impedisce di fatto lo sviluppo dei veri strumenti di conoscenza dell’umanità tutta.

Solo quando l’umanità avrà raggiunto l’autocoscienza necessaria a riconoscere individualmente in che modo la verità e la conoscenza siano, di fatto, delle forze, e le menzogne e le illusioni che vi si oppongono, ostacoli all’evoluzione, sarà possibile fondare una “scienza futura dell’evoluzione”, che riuscirà ad armonizzare le risorse planetarie in congiunzione con le potenzialità creative spirituali dell’intera umanità. Nel presente e nel passato, l’evoluzione terrestre si è svolta secondo il principio che lo sviluppo di una parte delle sue creature avveniva a prezzo del sacrificio di un’altra parte che rimaneva indietro in uno stadio evolutivo inferiore.

L’evoluzione spirituale rilancia questo concetto in una visione più vasta nella quale anche i vari regni, da quelli minerale, e vegetale a quello animale, sono collegati tra loro, non direttamente attraverso gli stadi evolutivi terrestri, bensì attraverso passaggi formativi avvenuti in epoche pre-geologiche, durante una complessa evoluzione planetaria, all’interno del nostro sistema solare, di cui i vari pianeti sono oggi solo tracce “sedimentarie emblematiche” di passati sconvolgimenti necessari all’evoluzione.

In questo senso la Scienza dello Spirito promuove una visione integrata dell’evoluzione della vita sul nostro pianeta, parallelamente all’evoluzione del sistema planetario Solare, visto però, non come una parte isolata dell’universo, bensì come una parte di un Cosmo più vasto e articolato in un’infinità di sistemi stellari paralleli governati da principi tra essi assimilabili.

È singolare osservare che, se all’inizio del novecento, quando queste conoscenze cominciavano ad essere divulgate all’interno della prima scuola antroposofica, esse potevano apparire lontanissime dalla percezione newtoniana del mondo (e ancora poco si sapeva o si teorizzava sulle cosmogonie puramente scientifiche), a tutt’oggi, col proseguire delle scoperte e con l’ampliamento concettuale promosso a livello gnoseologico epistemologico all’interno della fisica teorica delle particelle, il divario tra spirito e scienza sembra assottigliarsi sempre più, in favore di una comprensione scientifico spirituale dei fenomeni, che, da tempo, tale corrente di pensiero aspettava fosse accettata anche dal mondo scientifico più conservatore.

Ma in che modo si perviene alle conoscenze che insegnano l’antroposofia? Per rispondere a questa domanda di fondamentale importanza per valutare gli strumenti evolutivi in possesso dell’uomo moderno, e di quello antico, bisogna prima fare un passo indietro.

Tentativi di cosmogonie in parte simili, anche se meno dettagliate in riferimento alla genesi dell’uomo, si ritrovano in alcune antiche tradizioni spirituali del passato, in quei casi però, i riferimenti appaiono simbolici, mitologici, e non vengono mai proposti e argomentati in maniera diretta, né con un approccio di impronta scientifica. Le antiche tradizioni si esprimono con un linguaggio sognante, distaccato dal mondo reale, ma comunque viene spontaneo chiederci come potessero gli antichi santi Risci avvicinarsi concettualmente alla comprensione dei legami tra l’uomo e l’intero universo?

In che modo arrivavano a possedere tali conoscenze nell’isolamento, senza tecnologie né aiuti esterni, o come riuscissero dei semplici maestri Yoga, che non possedevano in origine nemmeno la scrittura, formulare, migliaia di anni prima di Christo, conoscenze tanto complesse riguardo al funzionamento del corpo umano e dei relativi organi spirituali? Non si tratta di approssimazione.

È sorprendente, ad esempio, scoprire quanto lo Yoga conoscesse già sulle ghiandole endocrine e sul loro funzionamento, quando le problematiche analoghe lasciano ancora nello sconforto i moderni endocrinologi. Non si tratta dunque di casi isolati, ma di fenomeni effettivi che erano possibili nell’antichità in quanto l’uomo conservava ancora attive in sé, determinate funzioni spirituali che lo mettevano in diretta connessione con le forze soprasensibili che lo circondavano, in quanto letteralmente le “vedeva”, le percepiva come la realtà di un colore.

La convinzione riguardo alla certezza di una reincarnazione non era, ad esempio, per l’uomo antico, un fenomeno dogmatico che veniva inculcato per tradizione, ma conseguenza di un ordine naturale superiore delle cose, che penetrava nell’uomo in virtù del suo sguardo spirituale al mondo.

Se questa condizione fosse continuata immutata l’uomo, però, non avrebbe potuto continuare il suo percorso di evoluzione, sarebbe rimasto ancora in quello stato semisognante, non avrebbe potuto sviluppare una piena coscienza del suo io spirituale.

Per farlo, l’uomo doveva uscire dalla sfera di influenza diretta che il mondo spirituale esercitava su di lui, indipendentemente dalla sua volontà, e riacquistare autonomia per via volitiva. La conoscenza spirituale doveva essere riacquisita come strumento spirituale interiore autonomo, rintracciabile non più fuori di sé per “dono”, ma nella propria consapevolezza. Tale cambiamento fondamentale della storia spirituale dell’uomo è da mettere in connessione con l’evento del Golgota: la venuta del Christo ha modificato di fatto gli strumenti animici dell’umanità.

Ciò che prima, in un certo senso, arrivava spiritualmente all’uomo da “sopra”, dopo Christo verrà all’uomo da “dentro”. Il regresso della conoscenza soprasensibile, rintracciabile storicamente fino al tredicesimo secolo, e la sua diversa e graduale rinascita da quel tempo in poi, coincidono con l’intervento del Christo nell’evoluzione dell’umanità.

La possibilità che questa evoluzione si svolga a favore dell’uomo dipende però da una grande quantità di fattori, attraverso i quali si esprime il libero arbitrio e si dimostra come il grado di conoscenza e responsabilità di ogni singolo possa influire sull’evoluzione dell’umanità tutta.

Purtroppo esistono interessi particolari che rallentano l’evoluzione e che si esprimono non solo nella scienza, ma anche nella religione. Ogni qualvolta l’uomo si muova spinto da scopo egoico, nel suo modo di vedere e percepire, penetrano forze opposte all’evoluzione che deformano i risultati ottenuti. Si generano così le più diverse visioni, sia teologiche che scientifiche, impregnate di elementi estranei che oscurano il pensiero e impediscono una retta comprensione della realtà.

A conferma di ciò, durante l’ottavo Concilio Ecumenico di Costantinopoli, nell’anno 869 avviene un fatto cruciale, sebbene spesso ignorato nella sua portata dai libri di storia, che sarà destinato ad avere un profondo influsso su tutta la nostra cultura. In quel concilio, viene elevato a dogma la credenza che l’entità umana sia binaria, composta cioè unicamente di corpo e anima. La cosiddetta tricotomia, ovvero l’articolazione dell’uomo in corpo anima e spirito, che dai tempi antichi era sopravvissuta fino al Medio Evo attraverso i Misteri, e che tuttora sopravvive inalterata in religioni meno dogmatiche, viene dichiarata improvvisamente eretica.

Allora teologi e filosofi si trovano di fronte ad un grande dilemma, chi non si sente di abiurare e riconoscere per interesse la nuova visione, viene osteggiato apertamente dalla Chiesa e viene considerato eretico, mentre chi tenta di mediare per sopravvivere, rimanendo all’interno del nuovo dogma, genera in realtà una grande confusione della quale ancora paghiamo le conseguenze.

La terminologia sacra e spirituale perde una connessione diretta con la struttura spirituale dell’uomo, e spirito e anima diventano per molti una sorta di sinonimi assimilabili, così come oggi capita di sentir parlare nell’ambito del Cristiamesimo, di Gesù e di Christo allo stesso modo, o ancora di Dio e di Cristo senza più la capacità di discernere l’origine concettuale e spirituale dei termini.

Nella nostra tradizione spirituale Cristiana, si inserisce parimenti un altro fenomeno determinante di contaminazione che darà il via, nel tempo, al potere temporale della chiesa e, con esso, a tutte le aberrazioni conseguenti alla ricerca di un potere politico che prende il sopravvento sulle forze spirituali e ne determina il decadimento. Quando le verità conosciute dai padri della chiesa riguardo alla reincarnazione vengono messe fuori gioco da un nuovo dogma, ecco che si pongono arbitrariamente le basi di un materialismo religioso che è ancora insuperato e che impedisce al semplice credente, che non possegga strumenti autonomi di conoscenza, di emergere dalle pastoie di una visione fideistica e dogmatica della realtà spirituale che non risponde più ad una verità sperimentabile anche nelle leggi della vita terrena dell’uomo.

Tale fatto innesca da un lato il fenomeno della “mano morta” e l’idea che certi benefici spirituali si possano acquisire col denaro, dall’altro, in mancanza di una comprensione spirituale delle leggi del Karma, naturale completamento del senso della reincarnazione, l’uomo non riesce più ad intravedere, nel percorso umano, la propria missione e il significato dell’evoluzione. Sottratta una vera possibilità di comprendere il legame tra vita e morte, tutti i fenomeni dolorosi del mondo sembrano acquisire solo le fattezze irreali di un Dio crudele e sanguinario da cui è facile allontanarsi.

Dalla posizione in cui siamo oggi, la semplice omissione di questi due singoli principi, rende la posizione creazionista riguardo all’evoluzione un arrampicarsi sugli specchi…

Ma lasciamo adesso la prima via all’evoluzione in sospeso per considerare i problemi della seconda via, quella puramente scientifica. Preciso che iniziai la mia via universitaria di studio e conoscenza proprio rivolgendo alla scienza le grandi domande che emergono spontanee da ogni anima inquieta, frequentando la facoltà di Fisica e Matematica. Mi accorsi ben presto però, che anche in questo campo, nella cui apparente struttura formale la scienza tenta di immettere l’assoluta oggettività del fenomeno, esisteva, al contrario, un assoluto dogmatismo concettuale e procedurale, che ometteva in sostanza di considerare lo sperimentatore dei fenomeni che si volevano studiare, quasi che non fosse più dotato di corpo e di sensi, ma fosse un’entità astratta, riassunta paradossalmente per la sua ideale sussistenza concettuale, in un’entità che solo Dio stesso, nella sua posizione Teocentrica e obiqua allo stesso tempo, avrebbe potuto vantare.

Quando, una volta lasciati gli studi accademici per proseguire sulla via di una comprensione spirituale del mondo, ebbi l’occasione di fronteggiarmi con le ultime teorie della fisica subatomica, in special modo con la teoria dell’indeterminazione suggerita da Heisenberg, ebbi un moto di speranza e mi dissi: alla luce di questa impossibilità di afferrare il fenomeno, il mondo scientifico dovrà finalmente integrarsi con le conoscenze spirituali, capire che se il creato si manifesta dal mondo del “silenzio”, per usare un termine squisitamente laico e provocatoriamente ascientifico, non si può parlare di silenzio senza “romperlo”…

Aspettai per anni che tale scoperta potesse penetrare negli animi a produrre il loro cambiamento, ma senza lo Spirito questo cambiamento era impossibile: gli scienziati non conoscono la differenza tra queste parole, come i dottori, non sanno cosa sia la Vita se non quando sfugge loro di mano.

Ecco allora che arrivati a questo punto singolare dell’evoluzione umana, dove la fede travisata diventa, nell’ignoranza della realtà spirituale, strumento politico per sobillare i popoli l’uno contro l’altro, e la scienza ormai preda della pura tecnologia, (da cui dipende in toto), la via dell’allontanamento forzato dalla originaria matrice spirituale dell’uomo, urge acquisire e far penetrare nel mondo fisico materiale, una nuova struttura concettuale della realtà, capace di accogliere entrambi gli aneliti fondamentali dell’uomo, rivolgendoli alla vera conoscenza spirituale e ad una conoscenza scientifica capace di integrare i propri principi in una visione unitaria dove l’uomo spirituale non debba essere necessariamente omesso.

La fisica si addentra sempre più nelle teorizzazioni prive di basi sperimentali, ma indagando parallelamente sul piano spirituale, ci possiamo stupire di scoprire che taluni dei suoi concetti, oggi largamente accettati dal mondo scientifico, anche se documentati solo da basi teoriche, e quindi non sperimentali, siano in verità la traduzione arida e numerica di realtà già descritte dagli illuminati di molte tradizioni spirituali che le hanno anticipate e previste anzi tempo, in alcuni casi con secoli o millenni di margine.

Senza bisogno di risalire ai codici Veda e a tradizioni precristiane per dimostrare che esiste un tipo di indagine soprasensibile che andrebbe riconosciuta e rispettata al pari dei postulati matematici anche nel mondo soprasensibile, voglio finalmente citare il contemporaneo che di questa metodica di indagine ha fatto una scienza vera e propria, da lui definita appunto “Scienza dello Spirito”: Rudolf Steiner.

Rivolgo ai neofiti dell’argomento, desiderosi forse di approfondire quanto andrò a motivare, un quesito spontaneo che deriva dal conoscere la straordinaria capacità dell’antroposofia, (scienza dedicata alla conoscenza dell’uomo e dei suoi legami cosmici, attraverso gli strumenti spirituali) di anticipare i tempi. Come poteva Steiner descrivere, in termini spirituali, un fenomeno misterioso e complesso come ad esempio quello dei “buchi neri”, prima di altri scienziati, già nelle sue conferenze sulla cosmogonia nel 1909 a Düsseldorf, se non avesse attinto a strumenti reali, ma ancora invisibili per la stragrande maggioranza del mondo accademico scientifico?

Come avrebbe potuto prevedere la crisi evolutiva che stiamo ora attraversando arrivando a dettagli di incredibile precisione come il fenomeno della mucca pazza… se non esistessero connessioni visibili agli organi spirituali, che possono rendere il mondo decifrabile secondo altri più complessi e più coerenti criteri di valutazione?

Anche la teoria stessa della relatività, base del più moderno pensiero scientifico, attraverso il concetto di velocità come entità reale, in relazione a concetti apparenti come quelli di spazio e tempo, sono stati temi affrontati da Steiner già all’inizio del secolo all’interno delle sue conferenze.

Questi brevi cenni servono come introduzione al tema degli strumenti di indagine, senza i quali la scienza non avrebbe potuto compiere i grandi passi che ha in realtà compiuto nel senso della misurazione della realtà e nel senso di una sua ipotetica quantificazione dei fenomeni, rispetto ai quali il passo successivo diventa di ordine qualitativo e concettuale.

È a questo punto che il confine apparentemente abissale tra scienza e spirito, di fatto scompare e ci accorgiamo che, così come per vedere le onde luminose al di là dello spettro visibile, l’evoluzione scientifica ha dovuto attendere l’evoluzione tecnologica, che consentisse alle macchine di provare ciò che i sensi non potevano più percepire, ora siamo giunti alla svolta evolutiva nella quale i ricercatori devono affinare, oltre agli strumenti speculativi esterni, anche quelli interiori spirituali e personali, gli unici appropriati e indispensabili per congiungere l’indagine nel mondo fisico con quella operante dal piano soprasensibile.

Tali strumenti sono gli organi spirituali che giacciono purtroppo ancora inavvertiti e atrofizzati, nella stragrande maggioranza degli esseri umani, in quanto, a dispetto della tesi scientifica dell’oggettività assoluta del fenomeno, nell’uomo non educato spiritualmente, si manifesta al contrario il regno della più perfetta soggettività della percezione, fintanto almeno che, grazie a pratiche costanti, l’essere non riesca ad entrare in contatto con la vera dimensione ideale del suo io spirituale.

Questo processo di evoluzione, potrebbe essere rappresentato in termini materiali come la creazione di un laboratorio dove l’osservatore (l’ego), non influenzi più il fenomeno stesso in quanto il suo pensare liberato è ora il fenomeno stesso senza più osservatori ad esso esterni (raggiungimento dell’io superiore). Per dirla con Heisenberg l’osservatore cesserebbe a questo punto di deformare il fenomeno. Tale genere di osservatore può dunque essere solo un osservatore spirituale. È ovvio che avvicinandoci al nucleo di una tale ricerca, le parole diventano strumenti inadeguati per la comprensione della realtà, ma sono comunque traccia residua di un’ulteriore percorso di ascesi necessario, qui accennato solo nel suo incipit.

In linea esemplificativa la ricerca scientifica attuale, che costruisce acceleratori di particelle giganteschi, che scava buchi nelle viscere della terra o che manda in orbita esseri viventi per sperimentare le sue tesi in assenza teorica di osservatori che deformino il fenomeno stesso, potrebbe ottimizzare invece le risorse planetarie in altre direzioni più squisitamente materiali, come la fame nel mondo, e concentrare il proprio pensiero all’interno dei singoli ricercatori che sono il vero microcosmo all’interno del quale, l’uomo può, per via “sperimentale” e spirituale, ricongiungersi con l’intero universo.

Nel tempo presente dobbiamo e possiamo nell’avvicinarci ad ogni genere di indagine, porre l’attenzione sulla necessità di accogliere nuove strutture di pensiero che, ampliando le vecchie categorie cognitive, comincino a creare nell’uomo quello stato di latenza e di indeterminazione, all’interno del quale nuove visioni possano farsi strada. La questione della triarticolazione è una delle basi fondamentali attraverso le quali l’umanità dovrebbe cercare di ricostruire una “antroposofia concettuale dei fenomeni”, che sia in grado di afferrare le corrispondenze tra macro e microcosmo ed incanalarle al fine di permettere un nuovo approccio alla metodica scientifica della ricerca.

Quando lo scienziato arriva alla comprensione che la forma ha la sua radice in un terreno che evade dal piano sensibile e che il tentativo di afferrarne anche limitatamente un aspetto, significa perderne definitivamente altri, come la teoria di indeterminazione ci segnala, ecco che si deve aprire una terza via cognitiva.

Dal punto di vista della Scienza dello Spirito che rappresenta le due sfere di limitazione e di alterazione delle attività dell’uomo come gli ambiti di influenza di Lucifero e di Arimane, il punto di equilibrio è rappresentato dalla presenza del Cristo nell’evoluzione spirituale della terra. Per l’uomo contemporaneo è diventato irrinunciabile trovare il passaggio tra l’osservazione dell’evoluzione dell’uomo e l’osservazione dell’evoluzione del mondo. Il crocevia di tale ricongiunzione è comprensibile solo riposizionando il Mistero del Golgota come un evento cosmico centrale all’evoluzione terrestre dell’Umanità.

Sul piano dell’evoluzione indagata storicamente da Darwin manca ancora la presenza concreta della terza forza in grado di compenetrare e integrare le carenze prospettiche della visione puramente scientifico materialista, così come in quella puramente fideista teologica, si limita la possibilità di indagine del mondo soprasensibile per via sperimentale.

Grazie alla sperimentazione diretta dei contenuti universali, che non si manifestano più, in ottemperanza ai principi di Scienza dello Spirito, come esperienze soggettive, bensì verità immutabili sebbene nel loro costante divenire; la scienza può colmare l’abisso che la sta portando in una direzione avversa all’uomo, perché in essa l’uomo, nella sua essenza Divina, è stato dimenticato, pur essendo questa essenza stessa, l’artefice invisibile di ogni sua scoperta.

Quando Copernico disse: quello che voi vedete è maya, è illusione, dovete affidarvi a ciò che non potete vedere. Proprio allora nacque ciò che oggi si riconosce come scienza. Si potrebbe quindi replicare ai rappresentanti della scienza odierna: la stessa vostra scienza divenne tale solo quando decise di non fidarsi più dei sensi…”. (R.S.O.O.n.15)

L’uomo può capire attraverso la Scienza dello Spirito di non discendere affatto dalla scimmia, ma che alcune sottorazze umane sono rimaste indietro per consentire ad altre di procedere, può vedere come gli anelli mancanti tra i vari regni animali, vegetali e minerali non possano essere rintracciati più sulla terra essendo appartenuti a mondi ormai trasformati, di cui non esiste traccia se non sul piano spirituale.

“Tutto ciò che appartiene al mondo sensibile esteriore è sottoposto all’azione del tempo e il tempo distrugge tutto ciò che nel tempo ha origine”. (O.O.11)

Se dunque la storia o le scienze esteriori come l’antropologia o la paleontologia si basano solo su quello che il tempo ha conservato, chi e su quali basi può affermare che in esse sia conservato necessariamente l’essenziale, indispensabile alla ricostruzione della verità…?

In una corretta ricostruzione della genesi dell’uomo non basta solo includere il corpo fisico, bisogna parlare anche di corpo eterico, di corpo astrale e di io. L’origine di tali acquisizioni umane alla base della odierna capacità di pensiero, non hanno avuto origine sulla Terra, ma nelle precedenti evoluzioni cosmiche planetarie.

L’uomo discende dalle entità spirituali che lo hanno accompagnato nella sua formazione. La tradizione chiama queste forze con i nove nomi delle gerarchie angeliche, nella Scienza dello Spirito impariamo a scoprire che forse, queste, nelle loro funzioni differenziate, sono le stesse forze che gli scienziati tentano di rintracciare nei loro mastodontici laboratori e a cui conferiscono nomi sempre più astratti, nel tentativo di ricomporle poi in formule fisiche… per vincere magari il prossimo Nobel, credendo di aver scoperto oggi, le leggi del “Campo Unificato”.

Il ricercatore è spesso solo, ma l’uomo che riconosca lo spirito che vive in lui, non lo è più. In noi vive qualcosa che può darci prova costante della possibilità di elevarci sopra noi stessi, verso orizzonti futuri che già oggi presentiamo intuitivamente come desiderio di trascendenza. Questo è un sentimento fondante nell’uomo, destinato ad ampliarsi e perfezionarsi di vita in vita. Ogni volta che rivolgiamo verso questo pensiero il nostro spirito, la nostra anima prova uno straordinario senso di pace ed elevazione, nutrito di umiltà e modestia.

Padroneggiando nel cuore questo equilibrio possiamo riprendere a indagare nuovamente tutte le scienze, come fanciulli che sentono preponderante in sé l’azione della sfera spirituale superiore, riuscendo così ancora a meravigliarsi di ciò che uno sguardo adulto non sa più “vedere”…

* Dice di sé:
Eleonora Brigliadori . Ciò per cui le persone la conoscono ha poco a che fare con la sua vera natura. Lo spettacolo è solo uno dei tanti mondi che ha indagato, convinta che non fosse un fine, bensì un mezzo, per collaborare come essere consapevole alla trasformazione del mondo. Attrice, presentatrice, pittrice, autrice di numerosi scritti tra romanzi, saggi, fiabe e sceneggiature, che hanno in comune una visione spirituale. Ha creato una scuola per nuove forme di spettacolo: Amazione arte ad interazione di pubblico; ha definito un nuovo metodo pedagogico destinato ai “Bambini Indaco”. Ha ricevuto una laurea Honoris Causa in Scienze della Comunicazione per il suo impegno etico civile da sempre teso ad una emancipazione del pubblico verso la formazione di una coscienza spirituale.

CHIOSE / MA NON C’E NULLA DI SCIENTIFICO

È inevitabile, per chi ha un passato di ricerca scientifica, contestare nella sostanza le assunzioni dell’articolo della signora Brigliadori. Al di là di spiritualità, chakra, reincarnazione e karma, quello che maggiormente allontana da questo tipo di letture è l’assoluta certezza con la quale si parla di tematiche, che di sicuro e certo non hanno nulla. Mai un dubbio, una punta di ironia, una sfumatura possibilistica, una nota di autocritica.

Si parla di scienza dello spirito e di terza dimensione dell’anima come di meccanica quantistica ed equazioni di primo grado. Con la differenza, da non sottovalutare, che sapere ad esempio di fisica e matematica, costa impegno, studio e sacrificio. Il rischio maggiore di dar voce a queste millantate certezze è di equipararle e di dare loro la stessa credibilità che alla scienza, quella vera.

Tiziana Stallone

(Biologo nutrizionista e dottore di ricerca in anatomia)

BEPPE SEVERGNINI

Noi italiani non facciamo niente in maniera normale… Facciamo tutto da italiani, e questo non è necessariamente un difetto. Anche quando prendiamo una valigia e partiamo, ci portiamo dietro le nostre qualità e le nostre squisite leggerezze.

(Da “Italiani con valigia”, 1993)

 

CINEMA Federica Cresci - Un lucertolone che si aggira nel peccato

Ritratto di Lucio Fulci, un complesso cineasta che sapeva come spaventare e terrorizzare il pubblico

Federica Cresci *

Nel 1994 in un locale della mia città, Cremona, proiettarono, per pochi estimatori, due film di Lucio Fulci, “Quella villa accanto al cimitero” e “L’aldilà”. Fu per me una sorta di folgorazione. Da estimatrice del genere horror, non trovavo degno di nota nessuno dei film girati nei primi anni novanta. Tematiche sfruttate, colpi di scena scontati ed efferatezze “splatter” erano l’unica base su cui si fondavano i nuovi horror, seguiti per lo più da platee di adolescenti.

Dopo il boom negli anni settanta-ottanta, il genere continuava a sopravvivere grazie al settore dell’home video, alle proiezioni estive, ad una programmazione tv di tarda serata. Anch’io stavo perdendo interesse, quando la visione di quei film di Fulci risvegliò in me l’antica passione. Nei quattro anni successivi mi procurai in videocassetta parte dei suoi film, alcuni dei quali versavano in condizioni pietose (versioni monche, doppiaggi che modificavano radicalmente il senso delle frasi) e cominciai a studiare il suo cinema. Allora non c’erano le nuove edizioni in dvd, né erano ancora usciti i dettagliati libri, italiani e stranieri, a Fulci, in seguito, dedicati.

Proprio in quel periodo si avviava, però, il processo di rivalutazione di Fulci (attraverso siti Internet, fanzine, tesi di laurea, retrospettive), anche grazie ad acclamati registi e autori internazionali che non perdevano occasione per citarlo tra i loro maestri (Quentin Tarantino, John Carpenter, Wes Craven, Clive Barker). Insomma, il regista romano sembrava seguire le sorti di un altro suo omologo rivalutato post mortem, Mario Bava, le cui opere suscitarono, in origine, l’ammirazione di una ridotta schiera di amanti dell’horror e che oggi è insignito del titolo di maestro del genere.

Quella rivalutazione, ancora in corso, Fulci la meritava tutta.

Egli, infatti, ha svolto un ruolo importante nell’avventurosa storia del cinema italiano. Non ha fatto parte delle vicende alte e celebrate del cinema d’autore, ma si è collocato piuttosto in quella zona autarchica, fantasiosa e spregiudicata che è stata rappresentata dal cosiddetto “cinema di consumo”. E si è inserito in quel cono d’ombra consapevolmente, con smaliziato senso umoristico.

Non è mai stato un pedissequo imitatore o uno squallido epigono. Nella video intervista curata da Antonietta De Lillo e Marcello Garofalo “La notte americana del dottor Lucio Fulci” (1994), si definiva un “terrorista dei generi” (e un recente volume dedicato a Fulci, di Paolo Albiero e Giacomo Cacciatore, si intitola proprio così, “Il terrorista dei generi”). Il suo cinema, infatti, si può definire oltranzista: un cinema che va oltre i generi, un cinema visionario, destabilizzante, sconveniente, non omologabile. Non era un semplice mestierante che seguiva la moda e un sicuro guadagno, ma un regista abile e coerente, con una precisa poetica, rintracciabile in tutti i suoi lavori.

Il primo Fulci era molto diverso dall’autore che diventerà oggetto di culto: era stato sceneggiatore e aiuto regista per alcuni film di Steno o con protagonista Totò, autore di canzoni di Adriano Celentano (“Ventiquattromila baci”, “Il tuo bacio è come un rock”), regista di film musicali, con protagonisti i più noti cantanti italiani degli anni sessanta, da Fred Buscaglione a Celentano (“Urlatori alla sbarra”, “I ragazzi del juke box”, “Uno strano tipo”), regista di numerosi film comico-demenziali con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia.

Anche quando non aveva ancora sconfinato nel cinema dell’orrore, però, era già scomodo, estremo e ribelle. Ad esempio in “Beatrice Cenci”, film storico datato 1969, descrive una Roma sordida, dominata dallo strapotere del papa, dove un fattaccio di cronaca diviene specchio della società. Il film fu definito maledetto, satanico (conteneva tra l’altro delle realistiche e sanguinose scene di tortura), e in Italia non ebbe alcun successo. Anche un film popolare, “All’onorevole piacciono le donne” (1970) con Lando Buzzanca, denota una grande volontà di ribellione.

Fu sequestrato per oscenità e impietosamente tagliato, ma non per le scene di nudo bensì per il contenuto polemicamente politico… “Zanna bianca” (1973) e “Il ritorno di Zanna bianca” (1974) sono due film disneyani, ma con in più un elemento tipico del cinema di Fulci: la crudeltà. Zanna Bianca è un animale antropomorfo, che soffre le pene dell’uomo, un perdente che lotta contro le cattiverie degli uomini. E avevano il tipico segno estremo anche i suoi western, girati in piena crisi del genere, come “I 4 dell’Apocalisse” e “Le colt cantarono la morte e fu tempo di massacro”. Il primo fu vietato ai minori per le scene di eccessiva violenza, il secondo nascondeva dietro la cornice western una storia psicanalitico-artaudiana.

Nei thriller, altro genere in cui Fulci si è distinto, merita di essere citato “Non si sevizia un paperino” (1972), giallo all’italiana innovativo per l’ambientazione (il profondo Sud) e le tematiche: l’ignoranza popolare, le tarantolate, la magia e la religione, il prete assassino; la storia narra di feroci delitti compiuti su dei fanciulli ad opera di un giovane prete, reso folle dall’ossessione del peccato che avrebbe presto contaminato la loro purezza.

Ma sarà l’horror il genere dove Fulci avrà il destino di primeggiare, con 14 pellicole che lo renderanno un maestro, da “Zombi 2” (1979) a “Le porte del silenzio” (1992), una serie di film improntati ad una visione del mondo sadica, violenta e perversa, a suo modo coerente, ove è riuscito a imporre uno stile personale e riconoscibile. Egli si è così pienamente rivelato come un autore singolare ed eccessivo, che ama mostrare l’orrore in tutta la sua terribile forza, accomunandosi a registi del fantastico d’oltreoceano come Tobe Hooper, Wes Craven e George Romero.

Scene spinte all’eccesso visivo, come quelle dei film di Fulci, sono state una vera rivoluzione. Il suo cinema horror è senza protezioni, una delirante rassegna di affascinanti e ripugnanti immagini di sofferenza e morte che la macchina da presa analizza in tutta la loro mostruosità. La sua esaltata regia inventa mondi violenti (come in “Paura nella città dei morti viventi”, 1980, e “L’aldilà”, 1981) dove dominano le perversioni più nascoste, la solitudine, il terrore della morte. Le capacità di Fulci si segnalano nelle sequenze oniriche e in certe ossessioni morbose, che compongono un mosaico di orrori di forte impatto visivo, sequenze shock folgoranti alternate ad altre assai elaborate, in una partitura complessa e allucinatoria fondata sul raccapriccio.

Lucio Fulci ha ricavato un’idea di narrazione proprio dalla coazione a ripetere scene efferate, dall’ostentazione del disgustoso e dalle variazioni sul tema dei delitti atroci. In questo senso “Lo squartatore di New York” (1981) rappresenta l’apoteosi e la sintesi del suo cinema, dove si riscontrano tutte le caratteristiche dell’autore: manipolazione della suspense, gusto per il particolare raccapricciante, ossessioni misogine, poesia del macabro, brillante orchestrazione delle immagini e atroce pessimismo di fondo. Ma i gore (genere horror) fulciani degli anni ottanta, al di là delle atrocità e dei linguaggi gotici, sono anche estremamente ironici: la presenza di alcune aberrazioni trasformano il parossismo dell’orrore quasi in ridicolo.

Le sue opere forniscono un quadro ampio di quello che era il suo pensiero: dai contenuti ricorrenti dei suoi film si può dedurre l’opinione che aveva su temi come il peccato o la psicanalisi. Quelli di Fulci, del resto, sono essenzialmente film proprio sul peccato, come dimostra tra i tanti il giallo onirico “Una lucertola con la pelle di donna” (1971). E molte sue pellicole sono pervase da un impeto iconoclasta. Diffidava del potere ecclesiastico e metteva spesso in scena una religiosità corrotta: suore peccaminose, preti succubi di una lettura deformata delle sacre scritture, oppure posseduti dal demonio.

Per la psicanalisi dimostrava una sorta di avversione, denunciata in “Un gatto nel cervello” (1990), ironico e pungente ritratto della follia che può impossessarsi anche di chi si assume il compito di guarire la mente altrui. E per “Quella villa accanto al cimitero” (1981) inventò il personaggio del dottor Freudstein, testimone di quanto la mente e il pensiero possano creare mostri. Non è un caso che gli occhi, specchio dell’anima, abbiano tanta importanza nei film di Fulci. I primissimi piani di occhi sono ricorrenti e quasi ossessivi, gli scambi di sguardi sono carichi di mistero, quasi che da soli potessero sostituire azioni e dialoghi. Ed ecco giustificata la continua estirpazione di bulbi oculari o la presenza di personaggi ciechi dotati di misteriosi poteri.

Un cineasta complesso, dunque: sapeva spaventare, sapeva come terrorizzare il pubblico, ma è stato anche un uomo con personalissime ossessioni visive, paure da esorcizzare e una morale ben delineata. La rivalutazione di Lucio Fulci è andata avanti, da quel lontano 1994. Ma sono ancora tanti i lati da scoprire del suo cinema.

* Dice di sé:
Federica Cresci. Nata a Cremona nel 1974, laureata in Storia del cinema al Dams di Bologna. Coltiva diverse passioni: al primo posto il cinema, di cui è bulimica, a seguire gli animali, la lettura, il mezzopunto e il sudoku.

Luisa Ricchi - Domani è un altro giorno. Sarà vero?

Breve antologia di bloopers in alcuni celebri film, da Alta società a Jurassic Park

Luisa Ricchi *

Davanti ad uno schermo cinematografico, ci facciamo trascinare da una trama coinvolgente, tifiamo per i buoni o per i cattivi, rimaniamo a bocca aperta alla vista del nostro attore preferito e sogniamo. Sogniamo tanto. Difficile che si notino certi particolari che potrebbero rovinarci la visione del film, facendoci scendere dalla nuvoletta magica che ci sorregge dall’inizio fino al fatidico “The end”.

Pensando ai costi astronomici sostenuti dalle case di produzione, riesce incomprensibile come errori, anche molto evidenti, i bloopers cinematografici, siano sfuggiti ai supervisors, molti dei quali, viste le “sviste”, probabilmente di super hanno solo gli emolumenti!

E le sviste si possono dividere in categorie.

Che la musica sia magica è scontato, però…

In “Alta società”, film del 1956, la piccola Caroline suona il piano per due giornalisti, ma il movimento dei tasti non corrisponde al sonoro. Nello stesso film, Bing Crosby suona la fisarmonica, ma senza premere i tasti, limitandosi solo a comprimerla ed espanderla.

Anche degli strumenti senza corde riescono a suonare! Infatti, in “La maledizione della prima luna” del 2003, un violoncello suona completamente senza corde!

Nel film “About a boy”, film del 2002, il protagonista impersonato da Hugh Grant, durante un concerto rock, irrompe sul palco con una chitarra elettrica che suona nonostante venga collegata all’amplificatore solo nell’inquadratura finale. Nello stesso film, il presentatore annuncia che un ragazzo verrà accompagnato da uno studente con un registratore. Il termine inglese “recorder” vuol dire sì registratore, ma anche “flauto dolce”, ed è appunto con questo strumento che si vede il ragazzino che si rifiuta di accompagnare l’amico, nella sua ultima inquadratura.

In “A qualcuno piace caldo” del 1959 con Marilyn Monroe, Tony Curtis e Jack Lemmon, un sassofonista effettua delle prove su un treno. Le sue dita, però o sono ferme o non si muovono a tempo con la canzone.

Oltre alle sviste abbastanza evidenti, ci sono anche quelle che sono delle vere sottigliezze. Per esempio in “C’era una volta in America”, David “Noodles” Aaronson, e Deborah sono al ristorante sul mare. Viene inquadrata un’orchestra d’archi che sta suonando Amapola che si sente in sottofondo. Però in quel pezzo della canzone c’è un vibrato e nessuno degli archi sta eseguendo un vibrato.

Con un po’ di confusione circa lo scorrere del tempo

In “Erin Brockovich”, un anacronismo salta facilmente all’occhio. In una scena del secondo tempo del film si vede un manifesto pubblicitario che cita un sito Internet. Il film si svolge negli anni ‘80, quando Internet esisteva già, ma, non essendo diffuso come oggi, nessuno si sarebbe sognato di fare una pubblicità tramite un mezzo così poco comune.

In una scena del film “A spasso con Daisy”, un poliziotto beve un tè da una tazzina usa e getta in plastica, materiale non usato all’epoca in cui si svolge il film.

In “Agente 007 – Al servizio di Sua Maestà”, del 1969, si sente che degli elicotteri della Croce Rossa Internazionale sono diretti in Veneto, a Rovigo, per soccorrere le vittime dell’alluvione. Ma l’unica alluvione che si ricordi è quella del 1951.

Ancora nel film “La maledizione della prima luna”, uscito nel 2003, parecchi pirati di colore sfoggiano pettinature di moda ai nostri giorni (rasta).

L’acqua bagna. Ma proprio sempre?

In una scena di “Accadde una notte”, del 1934, Ellie, interpretata da Claudette Colbert, si protegge da un acquazzone con un impermeabile, ma non appena entra in una stanza, come per magia, l’indumento che fino a quel momento era totalmente fradicio, si rivela solo lievemente schizzato da qualche goccia d’acqua.

“Il Padrino” (1972). Durante una lunga doccia, si può osservare il marito di Costanza Corleone (Connie) con i capelli completamente bagnati. Ma quando esce, sono appena appena umidi!

Anche in “Alice nel paese delle meraviglie”, film uscito nel 1951, la protagonista nuota a lungo in mezzo al mare, ma quando esce il suo vestito è perfettamente asciutto.

Stessa sorte per Jack, impersonato da Johnny Depp, che in una scena del film “La maledizione della prima luna”, (2003) si butta in acqua. Riemerge sul ponte di una nave con i  capelli perfettamente asciutti!

Magia uguale in “La gatta sul tetto che scotta”, del 1958. Maggie e Brick (Liz Taylor e Paul Newman) si trovano all’aperto. Diluvia, infatti, entrambi presentano abiti e capelli fradici, ma pochi minuti dopo Maggie compare con la pettinatura che la fa sembrare appena uscita dal parrucchiere.

Anche nella scena del funerale di Cosimo, nel film “I soliti ignoti” (1958), si capisce che sta piovendo poiché molti si riparano sotto gli ombrelloni e sul terreno bagnato si riflettono lampioni e biciclette. Solo i protagonisti, pur non essendo al riparo, rimangono asciutti e ben pettinati.

Alternanza di bagnato e asciutto in “What Women Want” (Quello che le donne vogliono), del 2001. Durante un acquazzone, Nick, il protagonista interpretato da Mel Gibson, va a trovare la ragazza con gli occhiali. Il suo cappotto è naturalmente bagnato dall’acquazzone, ma, una volta inquadrato di spalle di fronte a lei seduta sul letto, il cappotto sembra quasi asciutto. Nella scena successiva, quando lui si volta a guardare la ragazza, ha il cappotto di nuovo zuppo.

Cambia lievemente quello che capita al mitico James Dean che interpreta Jett, il protagonista del film “Il gigante”, del 1956. Quando accompagna Leslie a passeggio nel villaggio messicano, per rinfrescarsi, dopo aver bevuto, si bagna completamente la testa immergendola sotto il getto di un tubo. Ne esce con i capelli bagnati dietro, ma con lo storico ciuffo perfettamente pettinato.

Colori che… virano all’improvviso

In una scena del film “La grande abbuffata”, del 1973, si vede un’automobile con a bordo i protagonisti che svolta verso la villa. Mentre curva, si nota una macchina rossa parcheggiata sulla sinistra. Nell’inquadratura frontale successiva, l’automobile è diventata bianca.

Nel film “Ace Ventura: l’acchiappanimali”  del 1994, alcune persone sistemano un delfino nel furgone che ha lo sportello posteriore rosso. Quando il mezzo si allontana, lo sportello è bianco.

In “Acqua e sapone”, del 1983, Rolando (Carlo Verdone) disfa una valigia che contiene indumenti bianchi. In una successiva inquadratura a campo largo, gli indumenti sono diventati neri.

Anche il dorso delle carte usate in un tavolo da gioco nel film “Agente 007 al servizio segreto di Sua Maestà” (1969) da bianco diventa improvvisamente rosso.

Le bandiere di Pinco Panco e di Panco Pinco, personaggi di “Alice nel paese delle meraviglie”, del 1951, nella prima inquadratura sono viola. Poi, invece, per tutto il resto del film le vediamo gialle.

In “C’era una volta in America”, la bimba che interpreta Deborah è bionda con gli occhi azzurri, mentre l’attrice che le dà il volto da adulta è mora con gli occhi castani!

Il fischietto usato da Gigi Proietti quando nel film “Febbre da cavallo” (1976)  spacciandosi per vigile urbano, ferma un automobilista, da metallo cromato diventa nero!

Colori che sbiadiscono in “Borotalco” (1982). All’inizio del film, Nadia, interpretata da Eleonora Giorgi, indossa un paio di calze decisamente blu. Appena esce di casa, sono diventate molto più trasparenti!

Quelle che un tempo chiamavamo “americanate”!

In “C’era una volta in America”, Max e Noodles vengono presi a pugni da Bugsy, che sulla mano ha un tirapugni. La faccia di Max, che sarebbe dovuta uscirne devastata, alla fine della scazzottata presenta soltanto qualche graffio.

“Per un pugno di dollari”, film uscito nel 1964, in quanto a “americanate”, non offre che l’imbarazzo della scelta: nella prima sparatoria, l’uomo senza nome colpisce ed uccide tre avversari distanti tra loro, con l’arma puntata solo su uno. Quando Ramon spara ai Baxter in fuga dall’incendio, non carica mai la pistola. Anche con la mitragliatrice Ramon fa strage di soldati a cavallo, ma… solo di soldati, perché tutti i cavalli restano illesi.  E, proprio per i pignoli: quando Joe spara sei colpi per uccidere i cinque avversari, ne aggiunge uno diretto alla corda che teneva appeso l’amico per liberarlo. Ma in una colt i colpi non sono solo sei?

Un mix

Ci sono poi capi di abbigliamento che appaiono e scompaiono; nudità che sono coperte con mutande color carne, anche queste usate un po’ sì ed un po’ no; soldati di uno stato americano che portano stemmi di un altro stato; rumori che si sentono prima dell’azione che dovrebbe provocarli; orecchini e sigarette che passano da un orecchio all’altro e da una mano all’altra; bottiglie di whisky che diventano bottigliette di birra, per poi tornare alla forma ed al contenuto iniziale; foulard e cravatte che vanno e vengono da un’inquadratura all’altra; barbe e capelli che crescono da un giorno all’altro in modo esagerato; improbabili partite di poker con sei giocatori e disposti in modo che uno veda le carte dell’altro; telefoni cellulari che cambiano marca da un istante all’altro.

Tanti particolari sfuggono quasi a tutti. Ma anche se notati, o se fatti notare da altri, dovrebbero essere presi come un puro divertissement e niente più.

* Dice di sé:
Luisa Ricchi. Curiosa, con una gran voglia di approfondire un’infinità di argomenti. Ha parecchie passioni. Quella che la accompagna da sempre è la fotografia, che l’aiuta a fissare e condividere sensazioni ed emozioni.

OMERO

Questo viaggio di Saturno il figlio
mal mio grado mi diè.
Chi vorrìa mai varcar tante onde salse, infinite onde,
dove città non sorge, e sacrifici non v’ha chi ci offra, ed ecatombe illustri?
Ma il precetto di Giove a un altro nume né violar, né obliar lice.
“Teco”, disse l’Egidarmato, “i giorni mena l’uom più gramo tra quanti alla cittade
di Priamo innanzi combattean nove anni,
finché il decimo alfin, Troia combusta, spiegaro in mar le ritornanti vele.

(Da “Odissea”, Libro I)

 

INDICE DEI NOMI

Adnkronos

Agnelli, Gianni

Agnes, Biagio

Agnes, Mario

Albiero, Paolo

Aldrovandi, Wando

Alemanno, Gianni

Allen, Woody

Alonso, Fernando

Al-Zaw?hir?, Ayman

Amato, Giuliano

Andreotti, Giulio

Anemone Purpurea

Angeloni, Mario

Apollinaire, Guillame

Armenia Gruppo Editoriale

Avagliano Editore

Bacchelli, Riccardo

Badaloni, Piero

Barbieri, Enzo

Barbini, Luigi

Barker, Clive

Barriales, Laura

Battisti, Silvia

Baudelaire, Charles

Bava, Mario

Bebawi Claire

Bebawi Youssef

Bellezza, Dario

Berlinguer, Enrico

Berlusconi, Silvio

Bernabei, Ettore

Berto, Giuseppe

Bettelheim, Bruno

Bettz, Ana (Anna Bettozzi)

Bignardi, Daria

Blair, Tony

Bonolis, Paolo

Boraschi, Andrea

Boselli, Enrico

Brambilla, Michela Vittoria

Brancati, Vitaliano

Briatore, Flavio

Bufalino, Gesualdo

Buscaglione, Fred

Bush, George W.

Buzzanca, Lando

Buzzati, Dino

Cacciatore, Giacomo

Calderoli, Roberto

Canalis, Elisabetta

Cannuli, Mariolina

Capezzone, Daniele

Cardona, Giacinto

Carducci, Giosuè

Carpenter, John

Carrà, Raffaella

Cartesio, Renato

Caruso, Bruno

Catania, Enzo

Catone, Marco Porcio

Cavalli, Roberto

Cazzaniga, Giancarlo

Celentano, Adriano

Celine, LouisFerdinand

Cenci, Beatrice

Ceroli, Mario

Chiesa, Adriana

Ciampi, Carlo Azeglio

Coase, Ronald Howard

Colbert, Plaudette

Collura, Matteo

Conrad, Joseph

Consolo, Vincenzo

Consoli, Massimo

Conti, Carlo

Cordero di Montezemolo, Luca

Cordelli, Franco

Corona, Fabrizio

Cossutta, Armando

Costa, Beppe

Costanzo, Maurizio

Cottini, Luciano

Coveri, Enrico

Curtis, Tony

Craven, Wes

Craveri, Raimondo

Craxi, Bettino

Crosby, Bing

D’Alema, Massimo

Dagospia

D’Agostino, Roberto

D’Amico, Ilaria

Davi, Klaus

Dean, James

Debenedetti, Franco

Depp, Johnny

De Filippi, Maria

De Lillo, Antonietta

De Mita, Ciriaco

De Paolis, Angelo

D’Eramo, Luce
de Saint-Exupéry, Antoine

de Staël, Anne Louise (Madame)

Di Palma, Carlo

Donà delle Rose, Luigi

Dostoevskij, Fëdor Michajlovi?

Dos Passos, John

D’Urso, Barbara

Dylan, Bob

Editori Laterza

Edizioni di Comunità

Edup

Einaudi

Elèuthera editrice

Facci, Filippo

Fede, Emilio

Feltrinelli, Inge

Fini, Gianfranco

Flaiano, Ennio

Foglia, Serena

Forster, Edward Morgan

Franchi, Franco

Franzoni, Giovanni

Friedman, Milton

Frizzi, Fabrizio

Fulci, Lucio

Gabanelli, Milena

Galliani, Adriano

Gamondi, Gianni

Garcìa, Silveria

Garibaldi, Giuseppe

Garofalo, Marcello

Garzanti

Gasparri, Maurizio

Gentiloni, Paolo

Gerlach, Joseph

Gesù di Nazaret

Ghirelli, Antonio

Giannini, Massimo Severo

Giannino, Oscar

Gibson, Mel

Giolitti, Antonio

Giorni, Eleonora

Giovannelli, Marella (Mara Malda)

Giordano, Mario

Goethe, Johann Wolfgang von

Golgi, Camillo

Grillini, Franco

Grant, Hugh

Grasso, Aldo

Gruber, Dietlinde

Guerricchio, Luigi

Guzzanti, Sabina

Hilton, Paris

Hooper, Tobe

Hume, David

Humphry, Derek

Il Melangolo

Il Mulino

Ingrassia, Ciccio

Ippocrate

James, Henry

Jebreal, Rula

Jelloun, Tahar Ben

Kabasilas, Nicolas

Kappler, Herbert

Kerouac, Jack

Kessler, Alice

Kessler, Ellen

Kubrick, Stanley

Kung, Hans

La Cava, Mario

Lamb, David

Lanza, Cesare

Lasorella, Carmen

Lefebvre, Antonio

Lemmon, Jack

Leone, Giovanni

Leopardi, Giacomo

Lilli, Virgilio

Lockheed Corporation

Longanesi

Lucilio, Caio

Luisè Editore

Magnaschi, Pierluigi

Majorana, Ettore

Manconi, Luigi

Mannheimer, Renato

Manusé, Gaetano

Manzoni, Alessandro

Marini, Valeria

Marra, Giuseppe

Marsilio

Martinazzoli, Mino

Marzotto, Marta

Massa, Felipe

Mastella, Clemente

Mazzarello, Paolo

Mazzucco, Melania

Mauro, Ezio

Medea, Eugenio

Mentana, Enrico

Minervini, Gianni

Monaco, Alfredo

Mondadori

Monroe, Marilyn

Montagna, Ugo

Montanelli, Indro

Montesi, Wilma

Mora, Lele

Morante, Elsa

Moravia, Alberto

Moretti, Nanni

Moro, Aldo

Mosca, Paolo

Mussolini, Benito

Napolitano, Giorgio

Nenni, Pietro

Neri, Demetrio

Newman, Paul

Nietzsche, Friedrich

Niffoi, Salvatore

Occhetto, Achille

Omero

Oriana, Federico Filippo

Orlando, Vittorio Emanuele

Orsomando, Nicoletta

Ortega y Gasset, José

Pacelli, Francesco

Padoa Schioppa, Tommaso

Pasolini, Pier Paolo

Pavone, Rita

Penna, Sandro

Pertini, Sandro

Peterson, Dan

Petrarca, Francesco

Petri, Elio

Pfeiffer, Pancrazio

Piacesi, Walter

Piccioni, Attilio

Piccioni, Piero

Pintor, Giaime

Pintor, Pietro

Pio XII

Piovene, Guido

Pirandello, Luigi

Pollastrini, Barbara

Polo, Marco

Prezzolino, Giuseppe

Prodi, Romano

Proietti, Gigi

Quintini, Roberto

Rachels, James

Ramón y Cajal, Santiago

Rauti, Alessandra

Rauti, Pino

Reichlin, Massimo

Requier, G.C.

Ricci, Raimondo

Riotta, Gianni

Rizzoli

Romero, Gorge

Romiti, Cesare

Rosi, Francesco

Rossella, Carlo

Rosselli, Amelia

Rossi, Paolo

Rothko, Mark

Rubbettino Editore

Ruini, Camillo

Rutelli, Francesco

Saddam Hussein
Salgari, Emilio
Santoro, Michele
Saragat, Giuseppe
Scianna, Ferdinando
Sciardelli, Franco
Sciascia, Leonardo
Sciola, Pinuccio
Scipione, Publio Cornelio
Seneca, Lucio Anneo
Severgnini, Beppe
Settis, Salvatore
Sharon, Ariel
Siciliano, Enzo
Siffredi, Rocco
Simarro Lacabra, Luis
Solari, Leo
Sonda Edizioni
Sonnino, Sidney Costantino
Stendhal (Henry Beyle)
Steno (Stefano Vanzina)
Sterne, Laurence
Stigler, George Joseph
Tagliafico, Daniela
Tanassi, Mario
Tarantino, Quentin
Taylor, Elizabeth
Togliatti, Palmiro
Tognazzi, Ricky
Tortora, Enzo
Toscani, Oliviero
Totò (Antonio De Curtis)
Tronchetti Provera, Marco
Twain, Mark (Samuel L. Clemens)
Vázquez Montalbán, Manuel
Vecchietti, Tullio
Venditti, Antonello
Veneziani, Antonio
Veneziani, Marcello
Verdone, Carlo
Verne, Jules
Vergara, Daniela
Vespa, Bruno
Viganone, Antonietta
Vigevano, Alberto
Visconti, Luchino
Vitagliano, Costantino
Voltaire (François-Marie Arouet)
Welby, Piergiorgio
Windsor, Henry Charles (Principe Harry)
Zagari, Mario
Zavattini, Cesare
Zeno-Zencovich, Vincenzo
Zerawi, Hassan
Zucchero (Adelmo Fornaciari)

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