Edizione n. 15

INTRODUZIONE Cesare Lanza – Avere o essere. Eterno dilemma

Avere o essere? È l’eterno problema esistenziale, per tutti. Si può anche non esserne consapevoli, ma è intorno a questo circuito che gira e lotta la nostra vita, si divincolano le nostre giornate. Un paio di settimane fa, nella mia Accademia Studio 254, ho discusso di questo argomento con gli iscritti e ho riscontrato ciò che temevo: solo due o tre alla domanda cruciale hanno risposto è meglio essere, per tutti gli altri il traguardo preferibile è indiscutibilmente avere.

Sarei stato felice del risultato contrario, ma non mi sento di condannare i miei giovani (e meno giovani) iscritti per ciò che, sinceramente, hanno risposto. Il sistema della società occidentale spinge verso l’avere, l’illusione del possesso. Non è facile essere. Ma, se ci si riesce, è fatta: è risolto il problema più crudo della vita, abbiamo raggiunto un equilibrio e qualche sicurezza. Mentre inseguire l’avere significa proporsi, schierarsi, iscriversi a una gara che non finirà mai: raggiunto l’oggetto desiderato, c’è sempre qualcosa di più desiderabile da conquistare.

L’uomo moderno che lotta e si tormenta per avere una casa più bella, l’automobile di ultima moda, l’orologio che fa tendenza…, e così via, è un Sisifo che ricomincia sempre da capo. C’è sempre una casa più bella, un’automobile più moderna, un orologio di maggior pregio da conquistare. L’ossessione quotidiana, come chiunque sa, è spinta dalla pubblicità e dai meccanismi produttivi del sistema economico occidentale: bisogna lavorare, acquistare, consumare e acquistare ancora; guai se una rotella si ferma.

Sarà vero, sarà giusto, sarà indispensabile (il male minore). Ma la felicità non si raggiunge seguendo questo percorso. È una strada ingannevole. Conosco (pochi, perché l’impresa non è facile!) uomini sereni e in pace con se stessi e con il mondo perchè “sono”; mentre quelli che “hanno” (e il numero è notevole, nella società del benessere) sempre sono tormentati, anche senza rendersene conto, per aver consegnato le loro vite alle fatiche di Sisifo.

Mi considero fortunato perchè, forse per educazione e forse per carattere, non ho mai desiderato, tranne in qualche sciagurato anno dell’adolescenza e della giovinezza, un orologio, un’auto, un abito firmato, mai o quasi mai niente degli status symbol che la pubblicità ci pone continuamente sotto gli occhi e dovunque come oggetti di desiderio da conquistare e possedere. Ma questo è solo un piccolo percorso, un segmento di vita. Devo dire che ne sono candidamente e forse stupidamente orgoglioso. Mi piacciono le camicie con i polsini e il colletto lisi, gli abiti sdruciti, i maglioni con un buco o qualche macchia incancellabile. A poco a poco ho perso anche il rispetto (ma si tratta di un rispetto o di un formalismo?) che mi induceva a presentarmi in pubblico o a casa d’altri con una giacca, la cravatta (e pure le cravatte mi piacciono o mi piacevano, confesso…) o con le scarpe in ordine. L’altro giorno sono andato a un incontro, il primo incontro, con un ambasciatore importante, vestito come ogni giorno: un lembo delle scarpe a cui sono affezionato era strappato!

Per fortuna si trattava di una persona gentile e intelligente – comunque un diplomatico…– e non ho letto disapprovazione nei suoi occhi.

Ero pronto a dirgli che il sogno della mia vita sarebbe quello di andare in giro come il tenente Colombo. Detto di passaggio, il tenente Colombo, personaggio immaginario, è un simbolo dell’essere: va vestito come uno straccione, ha un’auto impresentabile, però è sicuro di sè, inesorabile, perchè è. Uno scaltro investigatore, che non ha bisogno di una bella automobile o di abiti di lusso per poter affermarsi come tale.

Queste riflessioni porterebbero lontano. È ovvio ad esempio che avere il minimo ti consente, forse, la libertà. Se lotti ogni giorno per conciliare il pranzo con la cena è inevitabile, forse e sottolineo forse, qualche compromesso, la rinuncia alla vocazione che si crede di avere, la lotta per “essere”, senza avere bisogno di granché. Altrettanto ovvio che la rinuncia all’avere porta a poco a poco a spogliarsi di tutto, fino a credere nella vita più umile e francescana che si possa immaginare.

Nella mia vita sono riuscito a rinunciare a un’illusione diffusa, per quanto riguarda l’avere: il desiderio di accumulare ricchezza. Ho guadagnato denaro e l’ho speso. Sono stato obbligato a inseguire il denaro perchè quand’ero giovane, anziché ricchezza, ho accumulato mogli, figli, fidanzate e famiglie e mi sono sentito obbligato, com’era giusto, a badare alla sopravvivenza, dignitosa, di tutti.

Non sono ancora riuscito a convincermi, ma credo di essere vicino al traguardo, della superfluità di ciò che mi è più caro. Ad esempio, i libri. Sono un bibliofilo, acquisto e raccolgo libri, a centinaia, a migliaia. Da qualche tempo li guardo e penso: quanti ne ho letto? Quanti riuscirò a leggerne?

E prima o poi li regalerò a chi mostrerà di apprezzarli.

SIATE IL MEGLIO
Ogni uomo aspira al successo.Ma quanti arrivano a realizzarlo?Oltre alla consueta sequenza di attimi fuggenti,le preziose citazioni che punteggiano la nostra rivista,in questo numero il successodiventa il fil rouge di diversi articoli, attraverso i qualiabbiamo provato ad ipotizzare i tanti modi nuovi in cuiil successo si declina nel nuovo millennio.Se non potete essere un pino sulla vetta di un montesiate un cespuglio nella valle, ma siate il miglior piccolocespuglio sulla sponda del ruscello.Siate un cespuglio se non potete essere un albero.Se non potete essere una via maestra, siate un sentiero.Se non potete essere il sole siate una stella:non con la mole vincete o fallite.Siate il meglio di qualunque cosa siate.Cercate ardentemente di scoprire a cosa siete chiamatie poi mettetevi a farlo appassionatamente.
Martin Luther King(Da “La forza da amare”, 1963)

 

CORRADO CALABRÒ
A targhe alterne
Diafani vetri denudano l’alba.
Lava la pioggia,
intrepida di grandine,
il malumore stantio della notte.
Rallenterò il respiro:
basterebbe un fiato
per appannare la grande vetrata.
Ma quanto cresce di notte la barba!
No, non è colpa tua.
La vita è ingiusta;
come le targhe alterne.

 

AMARCORD Maurizio Costanzo – La mia prima volta a Sanremo

Vivere l’esperienza di camminare sul famoso e prestigioso palcoscenico del teatro Ariston, alla mia tenera età, mi ha procurato uno strano senso di emozione, che mi ha reso contento

Maurizio Costanzo

A “L’Attimo fuggente” vorrei raccontare perché soltanto nel febbraio del 2010 mi sono trovato a varcare la porta del Teatro Ariston di Sanremo. Malgrado nello spettacolo e in televisione in particolare, abbia fatto il fattibile, non mi era mai capitato di essere invitato, comunque di partecipare al Festival di Sanremo.

Quando nel 1987 pensammo di fare una puntata speciale del “Costanzo Show” a Sanremo, trovammo un sostanziale impedimento a varcare la soglia dell’Ariston, per cui prendemmo in affitto la hall di un albergo per farne una serata con quelli che poi sarebbero risultati i vincitori, cioè Ruggeri, Morandi e Tozzi. Poi nei giorni del Festival mi recavo con telecamera e prima colazione a portare la medesima ai cantanti al risveglio. Insomma, marginalità. Vidi perciò Sanremo quell’anno in televisione come gli anni precedenti e quelli a seguire. Chissà, forse qualcuno pensava che noi delle televisioni private, saremmo entrati nel sacrario del Festival come guastatori. Ovviamente così non è stato.

Detto ciò, è con maggiore emozione che nel febbraio del 2010 ho varcato la porta dell’Ariston, ho vissuto la frenesia del retropalco e mi sono immerso nel mondo dei cantanti e della discografia che non frequentavo da tempo, da quando cioè lasciata la domenica pomeriggio in tv, non avevo più a che fare con cantanti e affini. Anche se, a dire il vero, il maggior rapporto con la musica leggera io l’ho avuto al mio esordio radiofonico nel 1970 a “Buon pomeriggio” che era un programma quotidiano di due ore su Radiouno, che allora però si chiamava “Programma nazionale”. In quel programma c’erano spesso cantanti e anche la canzone in generale “tirava” di più.

Ho scritto questa brevissima nota prima di vivere l’esperienza di camminare sul famoso e prestigioso palcoscenico del Teatro Ariston e alla mia tenera età ho provato uno strano senso di emozione, il che mi rende contento. Ho sempre pensato, infatti, che un modo per rimandare l’invecchiamento, è proprio quello di trovare occasioni per emozionarsi e per provare quello che magari è privilegio degli anni verdi.

Probabilmente questo dipende anche dal fascino di Sanremo e dall’essere, malgrado alla 60a edizione, ancora la festa patronale, la gran festa della musica leggera, ma anche del costume e delle tradizioni. Anni fa Ugo Tognazzi mi disse: “Prova una volta a seguire il festival di Sanremo togliendo l’audio e vedrai che è molto divertente”. Provai e, in effetti, si gustavano di più gli atteggiamenti, i comportamenti e tutto quello che era intorno e non legato alla canzone.

Lo slogan “Perché Sanremo è Sanremo” è azzeccato in quanto molti altri spettacoli sono probabilmente meglio del Festival di Sanremo, ma nessuno ha il carisma e la “storia” di questa manifestazione.

D’altra parte Sanremo ha significato molto da quando Nilla Pizzi cantando “Vola colomba” si rivolgeva agli italiani di Trieste per far sapere che presto sarebbero tornati ad essere italiani. O quando furoreggiò “Papaveri e papere”. Nell’Italia ingenua di quegli anni i potenti furono chiamati papaveri rispetto alle papere piccoline che dovevano comunque subirne la presenza. Un’Italia che non so se è da rimpiangere, ma era così.
[/expand] LE “SMEMORIE” DI COSTANZO Maurizio Costanzo - Elogio del bignè e altre (ironiche) dolcezze

È il dolce più affascinante, più arrendevole alla bramosia del goloso. Ha la consapevolezza del proprio fascino e si lascia addentare, mordicchiare, succhiare, assecondando l’estro del momento

Maurizio Costanzo

Abbiamo riletto un bel libro autobiografico del re dello show

– “Smemorie”, pubblicato da Rizzoli nel 1984 –

e per gentile ­concessione dell’autore proponiamo alcuni stralci…

Una memorabile esaltazione del pasticcino preferito da Maurizio,

un irrinunciabile peccato di gola, e una serie di flash sui più diversi,

brillanti e curiosi, piacevoli e amari, ricordi di una vita

e di una carriera straordinarie

 

 

 

Raggiungo livelli di estrema labilità dinanzi ai dolci, in specie dinanzi ai bignè fritti con la crema, altrimenti detti bignè di San Giuseppe.

Un 19 marzo, al ristorante “La Carbonara” di Campo de’ Fiori, insieme a Giovanni Bertolucci, produttore cinematografico e cugino di Bernardo, mangiammo in due 24 bignè. Alle quattro del pomeriggio, allontanandoci dal ristorante, riconoscevamo a stento i familiari. E pensare che nessuno dei due si chiamava Giuseppe.

Un bignè al forno non è uguale a un bignè fritto. Forse in proposito esistono diverse scuole di pensiero, ma mi permetto di insistere: il bignè fritto ha una pasta più morbida, più plasmabile, accoglie con diversa disponibilità l’iniezione di crema. Il bignè al forno ispessisce la pasta quel tanto che condiziona la crema alla sua forma.

La crema, d’altra parte, è l’anima del bignè. Un bignè solo di pasta, sarebbe squallido come un biscotto. Di conseguenza è importante che la crema, entrando con maggiore o minore violenza, questo sta alla mano del pasticcere, esprima a pieno la propria personalità. La crema è figlia, madre, sorella e amante. Dà il sapore a tutto, scioglie e addolcisce l’involucro di pasta, la crema è il carattere. Ho seguito molte volte i pasticceri quando con un cartoccio ricolmo e una parte finale a pompetta, iniettano, in quei corpi morti dei bignè vuoti, la linfa vitale. Ogni spremuta di cartoccio, ecco un bignè che si anima, che prende vita, che assume forme diverse. Nessun bignè è uguale all’altro, in quel momento. È una inseminazione. I bignè, una volta ingravidati, sono disponibili ad essere rimirati su un cabaret, su un vassoio, in una vetrina. Anche il pasticcere, dopo che ha compiuto questa operazione, si lascia andare esausto, per qualche minuto. Quasi a riprendere fiato, a guardare il prodigio compiuto, a sospingere i bignè verso il loro destino definitivo. Soltanto la crema, detta anche crema pasticcera, compie questi miracoli.

Lo zabaione, il cioccolato, la nocciola sono sottospecie: hanno voglia di camuffarsi dietro una spruzzata di zucchero a velo! È come un bell’abito su una donna non avvenente. Al contrario, il bignè fritto alla crema si presenta così com’è, senza inutili orpelli, definitivo e gagliardo nella sua seduzione. È il dolce più affascinante, più arrendevole alla bramosia del goloso. Ha consapevolezza del proprio fascino e si lascia addentare, mordicchiare, succhiare, assecondando l’estro del momento. Non oppone resistenza; si concede.

La leggera membrana si dispiega e consente la fuoriuscita della crema che inonda la bocca e talvolta fugge via, per eccesso di vitalità, andandosi a posare sulla camicia o, meglio, sulle labbra. È piacevole in quel caso richiamarla con la lingua, tornare a possederla.

È odioso il dolce che vuole imporre la propria personalità o quello che già dal nome vuol garantire un’efficacia. Come ad esempio il “tiramisù”. O anche il “saint-honoré”. O infine la sfogliatella che con la sua spirale, si ribella continuamente al possesso: imbratta ogni cosa, si divincola, difende il contenuto di ricotta e canditi, impedisce di gustare l’amalgama. Anche la crema brulée ha i suoi torti, se vogliamo essere onesti. Sarebbe deliziosa, se non fosse protetta da quello strato duro di zucchero caramellato che oltre ad attaccarsi ai denti, rende difficile l’arrivo alla crema medesima. Consiglio in questi casi di operare un’apertura su questo pack zuccherino e da lì estrarre, come una sonda, la crema. Se al posto dello zucchero caramellato mettessero il sottile strato della pasta bignè potrebbe diventare un dolce sopraffino, come un deserto al di sopra del quale scorre un giacimento di greggio.

Al bignè ritengo di poter rimanere fedele per sempre. Non cederò ad altre lusinghe, non addiverrò ad altre passioni.

 

 

MIO PADRE

 

Mio padre, Ugo, era impiegato al ministero dei Trasporti, ufficio concorsi; tranne un periodo dopo la guerra nel quale fu chiamato a dirigere la mensa del ministero. Non ha fatto carriera, un po’ per convinto antifascismo e un po’ per naturale indolenza. Lo divertivano gli amici e le partite a carte. Almeno così lo ricordo. Non abbiamo fatto in tempo a fare conoscenza. È morto a 63 anni quando ne avevo 21. Un problema irrisolto. Se avessimo avuto maggiore frequentazione, oggi sarei più sereno.

Temo che ambedue cercassimo la maniera per sfuggire la soffice normalità nella quale eravamo immersi. Con qualche anno in più a disposizione, saremmo riusciti a comunicarci la reciproca insofferenza. Ma lui è morto, con grande dignità, dopo una seconda operazione per l’asportazione di un tumore.

L’attimo prima che si accenda una telecamera o che io compaia in palcoscenico, gli rivolgo sempre un pensiero. Che non è soltanto abitudine, ma bisogno di incoraggiamento e di conforto.

 

GLI ASCOLTI

 

Si fa questo mestiere per essere visti. Chi fa televisione e afferma di non preoccuparsi dell’ascolto, è un ipocrita. Del successo, della popolarità, del cambiamento di vita che comporta, dell’ebbrezza che procura vi parlerò sempre. È straordinariamente piacevole. L’astinenza da questo tipo di rapporto con il pubblico provoca indicibili rancori e mancamenti. Adesso, poi, che i canali commerciali vivono soltanto di audience, il contare il pubblico che ti segue o non ti segue o ti segue in parte, s’avvicina alla nevrosi.
IL GIORNALISTA

 

Non sono figlio d’arte, ed è un sollievo. Nessuno, tra i miei parenti ha mai fatto il giornalista. Quando, con determinazione, appena presa la maturità classica a diciassette anni (chissà perché ero un anno in anticipo) cercai di fare il giornalista, i parenti tutti si interrogarono sulla disgrazia che stava capitando. Anni di impieghi statali confortanti con un mestiere impreciso, di scarso risultato economico e a quei tempi con frequentazioni notturne. Per i miei parenti di notte giravano solo i ladri e le puttane.

 

LA RADIO

 

La radio è straordinaria perché vive di fantasia. A chi scriveva per sapere com’ero, rispondevo che somigliavo a Mal dei Primitives. La televisione ha rotto l’incantesimo.

 

ANDREOTTI E BERNADETTE

 

La discussione era incentrata su chi doveva accogliere Andreotti all’ingresso di via Teulada e chi all’ingresso dello studio. Non fu una questione facile da risolvere. Venne scelta una soluzione gerarchicamente accettabile. Il direttore del Centro di produzione di via Teulada e Paolo Grassi alla porta dello studio. Altri dignitari in ordine sparso tra il corridoio e lo studio vero e proprio. Andreotti arrivò, si sedette sulla poltrona designata e non si mosse, dico non si mosse fino alla conclusione della registrazione. Ricordo Annamaria Gambineri, l’annunciatrice, che andò a parlargli e rimase inginocchiata a lungo, come Bernadette nella grotta di Lourdes.

 

AMENDOLA IN ASCENSORE

 

Mimmo Scarano, allora direttore della Rete Uno, era venuto in studio per salutare Amendola e insieme, alla fine della trasmissione, si avviarono verso l’uscita. Dovevamo salutarci tutti al cancello di via Teulada. Dopo più di un quarto d’ora né Amendola né Scarano comparivano. Si diffuse un certo nervosismo, ai venticinque minuti apprensione. Poi fu svelato il mistero: erano rimasti bloccati in ascensore. A quell’ora, a quei tempi, in via Teulada qualunque tipo di servizio smontava prima delle mie trasmissioni.

BERLINGUER NON SORRIDE

 

Mi parve più timido, più introverso e più tormentato di quanto appariva nelle sue occasioni pubbliche. Ed io mi compiaccio di raccontare che dopo il colloquio disse ad una persona che me lo riferì che gli ero sembrato meno “cattivo” e più intelligente di come talvolta apparivo. Su questo scambio di opinioni mai detto l’un l’altro, si sono conclusi i miei rapporti con Berlinguer. Ah, sì: gli dissi anche che era opportuno che sorridesse un po’ di più quando compariva in televisione. Rispose che avrebbe fatto ogni sforzo, ma mentre lo diceva le sopracciglia erano a mezza guancia.

 

AL GIRO DEL BELGIO

 

Ho cominciato come volontario al “Paese Sera”. Mi misero allo sport, non ne sapevo niente. Dovevo essere al giornale alle sei del mattino.

Era agosto, tutti in ferie. Le pagine sportive le curava, da solo, Antonio Ghirelli. Il capo servizio era in vacanza. Denunciai la mia inadeguatezza, Ghirelli mi invitò a non preoccuparmi. Aggiunsi solo che sapevo qualcosa di ciclismo. “Perfetto” esclamò “seguirai il giro del Belgio!”. Un tuffo al cuore: mi vidi inviato, al debutto.

Niente affatto: dovevo, con le agenzie, per cinque-sei giorni seguire attraverso i comunicati Ansa la corsa. Ghirelli non solo scrisse “Dal nostro inviato speciale” ma mi battezzò, per l’occasione, Maurice Costance. Una firma che visse una sola estate.
TOTÒ, IL TASSISTA

 

Il più fortunato, se così si può dire, è stato Totò. Ha avuto tali celebrazioni da morto che mai nella vita avrebbe neppure immaginato. Amato dal pubblico, maltrattato dalla critica, sfruttato dai produttori privi di eleganza e di fantasia. Totò non ha mai protestato per un trattamento che riteneva ingiusto. Ho avuto occasione, e ne sono ancora felice, d’averlo conosciuto e frequentato per un certo periodo.

Quando era già malato agli occhi, lavorava meno e Franca Faldini, con dolcissima dedizione, gli leggeva il giornale o conversava con lui per ore, per distrarlo. Mi disse una cosa molto bella durante la lavorazione di Uccellacci uccellinidove Pier Paolo Pasolini lo volle protagonista. Non doveva essere stato facile per lui accettare un regista così diverso da quelli con i quali aveva lavorato sempre e interpretare un personaggio così insolito per la sua pur ampia filmografia. Credo che soltanto a istinto avesse capito storia, personaggio e importanza del film. Gli domandai come si trovasse ad essere diretto da Pasolini e lui parzialmente eluse la domanda rispondendo: “Noi siamo come i tassisti, andiamo dove il cliente vuole”.

 

IL BASSOTTO DI MALAPARTE

 

Gli fui simpatico a Malaparte. Lo rividi molte volte. Ricordo, alla rinfusa, alcune cose: che al cinema Barberini di Roma, essendo lui Malaparte, lo facevano entrare con il bassotto; che il bassotto medesimo veniva nutrito conwurstel, essendo tedesco, che Malaparte comprava in una rosticceria di piazza Barberini; che una volta ad una signora bene incontrata ad una festa e che gli domandava garrula: “Ma lei Malaparte come fa a scrivere cose così belle?”, rispose: “A macchina, signora, con una portatile”.

 

ADDETTO AI FUNERALI

 

A causa di una serie di circostanze sfortunate, per un anno della mia vita fui delegato dai familiari a trattare i trasporti funebri. Il rappresentante della ditta fornitrice dell’occorrente, la terza volta disse: “Ancora lei?”. Allargai le braccia, m’ero fatto un’esperienza nel settore. Non gli feci nemmeno aprire quella specie di volume illustrativo, formulando immediatamente le richieste. Marginalità, anche in questo caso. Altri piangevano accanto ad un letto. Altri ancora venivano consolati. Qualcuno denunciava stordimento e malessere e prossimo svenimento. Io trattavo l’iscrizione sulla lapide.

Mi viene in mente: ero al cimitero, luogo peraltro che ho frequentato e frequento solo in circostanze obbligatorie, quando, tornando indietro da un trasporto, mi vedo abbracciare da un giornalista, un collega che assisteva alla mesta cerimonia della sepoltura del padre. Mi abbracciò stretto e mi disse: “Grazie di essere venuto!”. Mi tenne poi per il resto della cerimonia talmente stretto a sé che non ebbi il coraggio di dirgli che ero lì per un altro funerale. Così non salutai gli altri congiunti e uscii con i nuovi incontrati. Presi poi un taxi con un leggero fastidio. Due funerali in uno, non mi era mai successo.

 

BONTÀ LORO E ACQUARIO

 

Anche la scenografia di Bontà loro era poverissima. Quando, due anni dopo, partì Acquario, che si rappresentava con maggiore pretenziosità, qualcuno mi disse: “Sono quelli di Bontà loro che hanno fatto i soldi”. Sarà per questo che con ostentazione ho difeso i divani rosa del mio talk show teatrale e ho chiesto ed ottenuto che anche nella trasferta americana al Madison Square Garden, davanti a cinquemila persone, ci fossero quei divani. Non so bene se per coerenza o per scaramanzia. E poi: la televisione è sostanza e non forma.

Quando è necessario investire nell’allestimento, cioè nella forma, vuol dire che l’idea, il motore della trasmissione è fragile, richiede supporti.

 

GLI AMORI DI PAOLA BORBONI

 

Divertente ascoltare la straordinaria Paola Borboni quando racconta di come, concedendosi per una notte all’allora presidente dell’Argentina, salvò da un’incresciosa situazione debitoria la compagnia italiana che si era spinta fin lì. Peccato soltanto che la stessa Borboni non racconti mai, o per lo meno non l’ho mai sentito dalla sua voce, di quando Salvo Randone, esasperato dalla non facile relazione con l’estroversa Paola, approfittò, durante un viaggio in treno, di notte, di una fermata in aperta campagna per scendere ed allontanarsi nel buio dicendo soltanto: “Uffa!”. Credo non si siano più rivisti.

 

I CANTANTI? INFELICI

 

I cantanti sono diversi, ne ho conosciuti molti, ne ho amati pochi. Sono monomaniaci: i loro interessi vivono picchettati tra la speranza di entrare in hit parade e quella di affollare il locale dove si esibiranno.

Conoscono la brevità della loro fortuna e la modestia della vocazione. Tra le migliaia di cantanti continuamente immessi sul mercato, soltanto pochi riescono a superare le mode e a mantenersi, anche in età avanzata, in contatto con il pubblico. Gli altri escono dalle classifiche e scivolano dai piedistalli che i discografici edificano di continuo.

Nel fugace momento di applauso e di consenso, offrono il peggio del loro carattere. Non hanno grande spessore, e forse non è richiesto che lo abbiano.

 

MIA MADRE

 

Non riesco ancora a capire e qualche volta (non molte) me lo sono domandato, se è mia madre che non ha parlato con me o sono io che non ho parlato con lei. Probabilmente mi risulterà impossibile nella vita che mi rimane da consumare, riuscire a dare una risposta a questi interrogativi. O si risponde subito, e qualcuno ti fornisce gli strumenti per farlo, o diventa complicato affrontare persino l’argomento.

Probabilmente è tutta una storia di discrezione male interpretata. Discreta, mia madre, nei primi anni della mia vita nel parlarmi, nello sgridarmi, nel trasferirmi le sue esperienze. Discreto o indolente io nel non richiedere questo colloquio, nel non obbligarla a infrangere quella specie di sottilissimo velo che ci separava.

Via via, al di là dell’affetto, le nostre immagini ci sono apparse reciprocamente sfocate, come se gli sguardi non fossero mai alla distanza giusta.

Sulla discrezione, ovvero sulla lunga astinenza di discorsi importanti coperta soltanto da ragionamenti sul quotidiano, da esigenze immediate, da scambio di opinioni superficiali, s’è andata sviluppando questa non conoscenza del profondo, questa non conoscenza. Almeno per me. Sono in ritardo per chiedere a lei conferma o smentita.

 

 


ELEONORA ABBAGNATO
Gli artisti italiani hanno più visibilità e, ancor peggio,devono trasferirsi all’estero per avere successoe poi tornare in Italia.(Da “culturaitalia.it”, 2010)
INTERVISTE - La favola moderna di Rania di Giordania

Donna di grande fascino ed eleganza, è sempre in prima linea in progetti benefici e di solidarietà che hanno come finalità principale l’istruzione dei bambini più disagiati

Nata in Kuwait da genitori palestinesi, ha vissuto come una qualsiasi ragazza, tra studio ed amici: laureatasi in gestione di impresa ha successivamente lavorato prima nel gruppo Citibank poi in quello della Apple computer, fino a quando nel 1993, una sera per caso, incontra Abd Allah II ibn al-Husayn, principe e futuro re della Giordania. Da allora la sua vita ha assunto i contorni di una fiaba1.

 

È la prima volta che intervisto una regina, non so come sia l’etichetta. Devo chiamarla sua Maestà? Come ci si comporta?

“La cosa più importante per me è quando si riesce ad essere se stessi e questo è quello che vorrei chiederle di fare”.

 

Lei è di una bellezza da togliere il fiato! È protagonista di una favola contemporanea, che ha acceso le fantasie di tutto il mondo. Non è nata regina, lo è diventata. Mi può raccontare il primo incontro con il futuro Re?

Ho conosciuto il mio futuro marito a casa della sorella. Lavoravo per un’azienda e una mia collega fu invitata a casa della sorella del re Abdullah, ci andai anche io, quindi mi trovai lì per caso. All’epoca il principe Abdullah era nell’esercito giordano, come ufficiale, aveva terminato un’esercitazione nel deserto che era andata così bene che il padre gli disse di prendersi il fine settimana libero. Lui chiamò la sorella chiedendo cosa facesse la sera. Lei rispose di aver invitato un po’ di persone a cena. Arrivò anche lui. Ci siamo conosciuti così per caso”.

Lui come si è dichiarato? Come si è comportata lei? Avere a che fare con un futuro un Re non è semplice, c’è stato un corteggiamento, un primo regalo?

“Ero molto tesa, sapevo che avrei incontrato il principe, però il re Hussein e tutta la famiglia reale hanno modi molto gentili. Lui si è dichiarato in un modo molto curioso: amava i rally, così mi portò in una zona di montagna dove avrebbe partecipato ad un rally. Salii in auto; incominciò ad accelerare, ero terrorizzata e non sapevo cosa pensare! Avevo paura di finire fuori strada! Arrivati sulla cima della montagna lui mi ha detto; “Guardiamo il panorama” e poi mi ha chiesto di sposarlo: è stato molto abile perché a quel punto ero così sollevata di essere in vita che avrei detto di sì a qualunque richiesta!”.

 

Da noi la prima notte di nozze si usa prendere in braccio la sposa e farle varcare la soglia di casa: si usa anche da voi?

“Sì e anche mio marito mi ha preso in braccio per entrare in casa. Abbiamo invitato al nostro matrimonio i nostri più cari amici, ci siamo divertiti, abbiamo ballato fino a fare le ore piccole: è stata una bellissima festa tra amici”.

 

Sono molto curiosa di sapere cosa fa una regina durante il giorno? Ho letto per esempio che ama cucinare, che sono famosissimi i suoi biscotti al cioccolato. Ci può dare la ricetta?

“È vero amo cucinare e fare i dolci, attività, peraltro, che amo fare con i miei figli. Per loro è divertente, trascorriamo insieme del tempo in cucina ci inventiamo nuove ricette. Dopo sono pronta a rivelare il segreto dei miei biscotti.

Per quanto riguarda le mie giornate sono tutte una diversa dall’altra. Magari la mattina aiuto mia figlia a vestirsi per andare a scuola poi, un minuto dopo, mi trovo ad accogliere un capo di stato o di governo con la guardia d’onore e in quel momento mi dico sempre cosa penserebbero se mi vedessero qualche minuto prima. Trascorro le mattinate in ufficio con i miei collaboratori per prendere visione dei progetti in atto, a volte vado a visitare le scuole.

Cerco di mantenere una certa costanza in quello che faccio: per esempio quando tornano da scuola i miei figli per me è fondamentale poter trascorrere del tempo con loro, mentre fanno il bagno o i compiti, mentre cenano. Sono momenti importanti che danno loro sicurezza. Però passo anche molto tempo mandando email, sono su Twitter, il che mi consente di mantenere i contatti con la mia famiglia. È una vita abbastanza piena, ma tutto sommato non tanto diversa da quella di qualunque donna che lavori!”.

 

Lo scorso anno è stata tra le fondatrici della campagna One Goal. È un’iniziativa molto importante, ce la spiega meglio?

“Permettere ai bambini di studiare è in assoluto la causa sociale a cui tengo di più. Pensiamo a tanti i problemi come terrorismo, povertà, malattie… Tutti questi possono essere affrontati attraverso l’istruzione, la scolarizzazione, che è anche un modo per garantire giustizia! Tutti noi siamo nati in situazioni diverse, alcuni in famiglie ricche, alcuni sono più di bell’aspetto di altri, ma l’istruzione può far superare le differenze dando a tutti la fiducia di poter realizzare i propri sogni.

Però, ancora oggi, nel mondo 72 milioni di bambini non possono andare a scuola, noi abbiamo la possibilità e il denaro di permettere loro di studiare, ciò che manca è la volontà e la consapevolezza politica circa la necessità di agire.

Parlare di One Goal significa promuovere una campagna che possa esercitare una giusta pressione sui nostri leaderpolitici per riuscire a portare tutti questi bambini a scuola. A giugno inizieranno i campionati del mondo in Sudafrica, che verranno seguiti da tanti e vogliamo sperare che tutti i sostenitori del calcio vorranno supportare, con la loro firma, i bambini che non hanno mai potuto tenere in mano una matita, che non sanno scrivere il loro nome. Basta sostenere questa campagna a favore di tutte le generazioni per un mondo migliore.

Quando incontro i bambini in tutto il mondo, mi chiedono una cosa sola, la possibilità di studiare, di andare a scuola e loro sanno benissimo che andando a scuola avendo un’istruzione possono cambiare il loro futuro, avere un’opportunità, un’occasione per sconfiggere la povertà”.

 

È stata soprannominata la tech-regina: infatti, ha un canale su Youtube attraverso il quale cerca di combattere i pregiudizi su arabi e musulmani.

“Sono tanti gli stereotipi completamente sbagliati: per esempio molti, a torto, ritengono che tutti gli arabi sono terroristi, che i musulmani odiano le donne. Queste sono falsità. Innanzitutto ci sono tanti arabi che non sono musulmani, ma cristiani, ebrei, e non tutti i musulmani sono arabi, ce ne sono tanti in Malesia e in Indonesia. L’islam si basa sugli stessi valori del cristianesimo, pace, compassione, perdono, l’amore verso il prossimo; la religione è stata manipolata da estremisti che stanno cercando di sfruttare un messaggio religioso distorto ai loro fini, ma non rappresentano la maggioranza dei musulmani, anzi sono la minoranza.

 

I pregiudizi sono tanti e spesso le ideologie dividono invece di unire.

“Le persone che commettono atrocità non sono musulmani, perché i veri musulmani non farebbero mai cose del genere. Sta a noi combattere questi stereotipi, non è facile farlo, serve il dialogo, ma non si tratta di parlare agli altri pretendendo che ci ascoltino!

Youtube è una piattaforma che permette di stabilire contatti, amicizie e da questo possono nascere conversazioni che consentono di mettere in dubbio alcuni pregiudizi: si parla sempre di tolleranza e comprensione politica ad alto livello. In realtà sono le persone comuni che possono promuovere una comprensione interculturale, quello che conta è il dialogo, non dobbiamo pretendere che siano solo i politici ad affrontare la questione!”.

 

Sono perfettamente d’accordo. È bello poter parlare con lei di temi così importanti, ma anche di cose che riguardano noi donne. Per esempio, diversi sondaggi la indicano – ma non c’è bisogno – come una delle donne più belle del mondo, che tutti gli uomini vorrebbero avere al loro fianco. Suo marito è geloso di lei?

“In realtà abbiamo un rapporto di fiducia reciproca, tra noi c’e un legame molto forte e quando esiste un legame cosi, certo un po’ di gelosia può essere utile, ma non deve mai dominare il rapporto”.

 

Ha quattro figli, il primo dei quali diventerà re. Vorrei chiederle da donna e da madre cosa si prova e quale sentimento di responsabilità si ha nei confronti di un figlio che sarà un Re?

“Devo dire che da madre volevo che lui crescesse come tutti gli altri bambini e si godesse la sua adolescenza. Però avere il titolo di principe ereditario significa poter conoscere i problemi del paese, conoscere gli aspetti protocollari. Dopo aver ricevuto il titolo di principe ereditario ho parlato con mio figlio dicendo che era importante per lui continuare a studiare, a migliorarsi e ricordarsi che quello che conta davvero è il rapporto con le persone che ti amano per quello che sei e non per il tuo titolo”.
1) Le esternazioni sono tratte dall’intervista andata in onda al “Festival della canzone italiana di Sanremo”, programma di Rai Uno condotto da Antonella Clerici nel febbraio 2010.

Barbara Leone - Antonio Ghirelli: Sono il Noè del giornalismo!

Un’amabile chiacchierata con uno dei decani del giornalismo italiano, diventa lo spunto per ripercorrere alcuni momenti fondamentali della sua storia personale: dagli anni partigiani, a quelli accanto a Pertini e Craxi, passando per la direzione di importanti quotidiani nazionali. E sullo sfondo, sempre presente, l’amata moglie Barbara

Barbara Leone*

Il grido delle onde, che fragorose si spezzano sulla riva, lacera il cielo. Acciambellata sugli scogli, Parthenope dissolve lo sguardo verso l’orizzonte limpido e severo. I lunghi capelli nero avorio danzano tra le braccia del dolce libeccio offerto dal mare, che morbidamente trascina a sé il candido peplo. La sabbia, impalpabile e bianca, sembra polvere di lontanissima cometa. I grandi occhi neri scrutano l’indefinibile. Le labbra carnose bisbigliano parole, prontamente rapite dallo stridulo garrito dei gabbiani impazziti. Procace e rigogliosa, la giovine ha ricevuto in dono dagli dei una bellezza paragonabile a quella di Giunone e Minerva, cui rassomiglia: fronte bassa, pelle nivea, perfetto accordo di grazia e salute in un corpo armonioso e marmoreo.

I pensieri si sparpagliano, fino ad avere un volto ed un nome: quello del suo amato Cimone. Così egli le parla, in una pallida notte d’estate: “Parthenope, vuoi tu seguirmi?”. Nessun dubbio lambisce la sua voce, che tenera risponde: “Partiamo, amore”. Così, dalla Grecia i due amanti si affidano ai flutti del mare, che li conduce su di un divino lido al di là del Tirreno, abbracciato da lussureggianti colline fiorite. Al loro arrivo quella terra, che da sempre li attende, sussulta di gioia. Una terra nata per l’amore. E che del loro amore si nutrirà bramosamente sino a divenire quel che è oggi: Napoli, “la città della giovinezza; ricca, ma solitaria, ricca, ma mortale, ricca, ma senza fremiti. Parthenope e Cimone hanno creata Napoli immortale”.

Da questa antica leggenda, magnificamente narrata da Matilde Serao, nasce la civiltà partenopea, “quella dello spirito innamorato; il più grande dei sentimenti, quello dell’arte; la fusione dell’armonia fisica con l’armonia morale, l’amore efficace, fervido, onnipossente” che è “l’ambiente vivificante della nuova città”. Ma al di là del mito, Napoli è – come osservò Domenico Rea in un celebre saggio intitolato “Le due Napoli” – una città composta da due città. La prima è quella che tutto il mondo conosce: bella ma sciatta, sguaiata, tutta pizza e mandolino, Pulcinella e San Gennaro ma con quintali di monnezza per strada. Un cliché inamovibile perché comodo e facile. La città anema e core, povera e scugnizza, che tutti vogliono salvare e che fa notizia sui giornali.

Poi c’è un’altra Napoli: una città nobilissima, generosa, mite e gentile, dove l’aria è fina fina e i sentimenti non si confondono col sentimentalismo di meroliana memoria. Una città dove i profumi sono intensi e vivere è un’armoniosa benedizione del Creato. Quella Napoli che, per dirla con la Serao, è davvero la città dell’amore. Non c’è parentela né contiguità tra questi due mondi popolati da signori e lazzaroni, che pure da secoli vivono sotto lo stesso cielo e abitano nelle stesse case. Della Napoli nobilissima, per animo e non per blasone, la traccia ancor oggi è viva e riluce nei (pochi, a dire il vero) signori rimasti. Ne abbiamo incontrato uno, con la S maiuscola. Dono raro e quanto mai prezioso di questi tempi.

 

Antonio Ghirelli: Lei nasce a Napoli nel 1922.

“Esatto. Il 10 maggio. E mio nipote, che si chiama Parvis, nasce il 10 maggio”.

 

Un nome singolare…

“È il nome di un partigiano iraniano. Mio figlio e mia nuora lavoravano in Algeria. Lui insegnava mass-media all’università e lei insegnava italiano e francese. Ebbero questo bambino e in omaggio ad un loro compagno di esilio – ovviamente non erano in esilio – lo chiamarono con questo nome strano. Adesso è un metro e novantaquattro e ha 32 anni… che per essere piccolo – perché Parvis vuol dire piccolo – è un po’ cresciutello”.

 

Cosa ricorda della sua infanzia e della sua adolescenza napoletana?

“Ho scritto quattro o cinque libri su Napoli, adesso ne esce uno mio che si chiama “Una certa idea di Napoli”, nel quale cerco di spiegare perché Napoli è così. Noi abbiamo una storia di cinquant’anni di anticipo su Roma. Gli esuli greci che l’hanno fondata cinquant’anni prima di Roma… e Napoli è una città profondamente greca. Abbiamo tutti i pregi e tutti i difetti dei Greci”.

 

Quali sono i pregi e quali sono i difetti?

“I pregi sono il senso del bello, della fantasia e dell’ironia. La filosofia insomma. Il brutto è che se tu studi ottomila anni di Grecia, noterai che non hanno mai fatto una guerra come Grecia, ma sempre come città. E noi abbiamo questa mentalità. Per noi lo Stato non esiste, esistono gli uomini. Che inventano la vita. C’è un proverbio napoletano che esprime bene questa fredda e sorridente disperazione: ‘ca chi more fa ‘n affare… tu di che paese sei?”.

 

Io sono nata a Campobasso, da padre molisano e madre siciliana…

“E allora siamo cugini! Campobasso è una città di provincia e la provincia non è così greca. La provincia risente ancora di una vecchia civiltà autoctona, poi ha avuto dei longobardi, ha avuto degli svevi ed è più seria… la provincia è un po’ meno allegra, un po’ meno divertente”.

 

Lei a dieci anni, quando tutti i bambini vogliono fare l’astronauta o il poliziotto, decide che vuole fare il direttore di giornale.

“Sì, a dieci anni ho deciso che volevo fare il direttore di giornale”.

 

Ecco, come nasce in un bambino questa singolare aspirazione?

“Nasce dalla curiosità per la politica, ma non per farla, per capirla. Io conoscevo tutte le divisioni del fascismo. Il fascismo, che nella tradizione è un blocco autoritario, in realtà aveva tante fazioni, tanti modi di interpretare quella tirannide. Ed io li conoscevo tutti”.

 

A dieci anni…

“A dieci anni. Mi piaceva assai! E infondo ho diretto soltanto cinque giornali. Però…”.

 

E così è approdato al suo primo giornale, quello della Guf.

“Sono stato in una scuola molto importante, che tu devi citare perché la scuola di per sé era un ginnasio-liceo, si chiamava Umberto I. Ma abbiamo avuto una fortuna enorme, perché la nostra generazione ha coinciso con un preside e con un vice-preside straordinari, di un rigore assoluto, ma con un amore straordinario per la cultura e per i ragazzi.

Loro hanno escogitato una difesa dal fascismo che è veramente geniale. Ci hanno illustrato la storia partendo dal Risorgimento italiano, che in Campania ha avuto dei punti di riferimento molto importanti, come De Santis e tanti altri. Ci hanno insegnato un amor di Patria che è il contrario del fascismo, non è aggressivo, non è vanitoso ma è assolutamente irriducibile. Il Piemonte nel 1846-1847 era pieno di meridionali di grande valore, e questi meridionali non solo erano indipendentisti, ma erano anche europeisti. Quindi noi abbiamo avuto questa scuola, dalla quale sono usciti Francesco Rosi, Giuseppe Patroni Griffi, Maurizio Barendson e tanti altri. Una generazione di intellettuali abituati all’amore per la cultura”.

 

Che però sono scappati da Napoli…

“Ma a Napoli non c’è lavoro, il problema è questo. Non c’è produzione, non c’è cultura imprenditoriale. Torniamo ai greci. I greci erano dei mercanti, non erano degli industriali. Non avevano l’idea della grande fabbrica, della grande organizzazione. Avevano l’idea della grande trovata, l’idea di conoscere. Marsiglia è greca, Nizza è greca, Genova è greca. Loro viaggiavano, non si fermavano mai”.

 

Torniamo alla Guf: di cosa scriveva?

“Sono partito dalla Guf, dove ero direttore del Teatro Guf, perché mi occupavo molto di cinema e teatro. C’era un giornale che si chiamava “Il 9 Maggio”, che era appunto il giornale della Guf, ed io mi occupavo di critica cinematografica. Sono sempre stato interessato al mondo dello spettacolo”.

 

Infatti, ha anche scritto dei testi per il teatro ed il cinema.

“Uno molto bello lo scrissi con Viviani. L’ho scritto e composto io, ma era tutta roba ideata e messa insieme da Viviani. Fu messo in scena con Achille Millo e la Pagano. La mia è stata solo un’operazione di montaggio. Ho lavorato anche con Eduardo De Filippo, ma il teatro non è la mia vocazione. Ho fatto due sceneggiature. Ma erano film troppo di sinistra. Poi Andreotti offrì invece un bel film da fare ad Eduardo e delle mie sceneggiature non se ne fece nulla. Sono soprattutto un critico. Non sono un creatore”.

 

Come è finito a Milano?

“Mi sono trovato con la guerra ed ho fatto il servizio militare come allievo ufficiale insieme con Raffaele La Capria, mio grande amico. Mi ricordo un episodio molto carino: quando sono arrivato per la prima volta all’Umberto, la mia scuola che all’epoca stava in via Fiorelli a Napoli, il primo giorno di scuola aspettavo di entrare, mi si avvicina una signora che mi dice “tu come ti chiami bambino?”… avevo nove o dieci anni. Allora glielo dico: era la madre di La Capria. E da allora siamo rimasti grandissimi amici. Anche un’ora fa abbiamo parlato insieme.

Quindi con La Capria eravamo allievi ufficiali. Da Caserta, dove facevamo il corso, ci hanno spostato in Puglia… gli Alleati stavano per invaderci. Per dare un’idea di cosa fosse il fascismo e la guerra fascista… Mussolini era un grande giornalista, ma come capo di governo una catastrofe… Noi eravamo antiparacadutisti, ci avvertirono: “Se sparate e non cogliete dovete pagare la cartuccia”. Ti puoi immaginare…

Noi, per reagire a questa condizione che era durissima, abbiamo tradotto “I nutrimenti terrestri” di Gide… abbiamo preso il testo più sofisticato, antimilitare che ci fosse di Gide… un ricchione tremendo, ma uno scrittore straordinario… e ci siamo salvati così. Mio padre, che era diviso da mia madre, dopo che ci hanno bombardato la casa mi ha fatto ottenere l’esonero.

Così sono tornato a Napoli, ho attraversato le linee dopo l’8 settembre… sono passato attraverso la riviera di Amalfi, un posto meraviglioso… però ci stavano i tedeschi sulla montagna. Ho attraversato le linee in un momento molto bello, certamente molto pericoloso, ma divertente. Sono riuscito a salire su Tramonti nel momento in cui combattevano tedeschi ed americani. Se vincevano i tedeschi ero fottuto perché mi acchiappavano. Ero con un ragazzo calabrese. La prima volta ci siamo fermati a Pompei, perché lì finiva la Vesuviana, e questo ragazzo, che come me scappava per fare il partigiano, se ne uscì con una frase meravigliosa: “Signorì, che confusionismo”. Una definizione che è valsa per tutti i cinquanta anni dopo. Era un pompiere calabrese.

Per fortuna vinsero gli americani, io accompagnai un ferito inglese sulle spalle, scesi giù… ho fatto il cameriere in albergo… Non parlavo bene l’inglese, anzi non lo parlavo affatto, però capii che cos’era l’Inghilterra, di cui sono un grande ammiratore, quando fermai una macchina della polizia dicendogli have got time – che secondo me significava che ora è? e invece significava “hai tempo” – e lui rispose serissimo: no time no money… e lì capii che l’Inghilterra avrebbe vinto la guerra. Poi con un capitano italiano ho formato la prima banda partigiana. Sono stato uno dei primissimi partigiani. Non è un merito, è un dovere… È stato prima delle Quattro giornate di Napoli.

Poi siamo arrivati con questa banda… ho sequestrato un ciuccio perché dovevo portare le munizioni e da Positano, per arrivare a Castellammare, ho sequestrato questo ciuccio con una ricevuta firmata dalla regina di Inghilterra… modestamente. Di sera ci siamo fermati… ho visto una luce e per la prima ed ultima volta in vita mia ho sparato. Spero di aver ucciso un tedesco. Spero. Ma forse no. Magari erano semplicemente due ragazzi che facevano l’amore… Ma non ho mai ammazzato nessuno in vita mia. Poi sono andato a Napoli dove abbiamo vissuto giorni molto duri. Io stavo con mia madre. Eravamo molto poveri. Ho caricato cassette di munizioni, ho fatto un po’ il facchino al porto. Poi ho trovato un bel posto nella Marina inglese, mi hanno preso come impiegato… non sapevo l’inglese né sapevo fare i conti. Però siccome ero uno dei pochi napoletani che non si rubavano la pasta e la carne mi hanno promosso e prendevo mille lire in più alla settimana. Mentre stavo lì, passò un mio amico che avevo conosciuto al liceo… io ero all’Università, avevo fatto legge… e questo mio amico mi dice: “Ma che fai?” e mi porta alla Rai, che allora si chiamava Eiar.

L’Eiar l’avevano presa gli angloamericani del Psychological Warfare BranchPwb, che vuol dire settore della guerra psicologica. E sapendo che avevo scritto sul “9 Maggio” e che ero pure iscritto al partito comunista clandestino… ma agli americani questo non interessava… mi hanno preso. E lì ho avuto la gioia di conoscere mia moglie… adesso non ti scandalizzare se mi commuovo, perché mia moglie è morta pochi giorni fa…

Gli americani hanno preso Roma. Loro avevano questa abitudine, quando prendevano una città italiana abbandonavano quella di prima, quindi alla Rai sono tornati i funzionari fascisti… allora io e Tommaso Giglio, giornalista ed anche prestigiatore, abbiamo chiesto al Pwb di prenderci nell’avanzata per fare la radio partigiana, ad Altopascio… La guerra in Italia è stata molto strana. Gli americani non volevano perdite. Era giusto. Con la loro superiorità schiacciante di mezzi… pensa che gli americani facevano cinquemila aerei al mese. Questo Pwb era diretto in Italia da tre ebrei italiani, che erano scappati nel 1938 da Livorno e da Roma. Erano diventati sudditi americani, ma in guerra per tornare in Italia e combattere. Erano molto colti ed intelligenti. Io sono partito con loro. Ma veramente siamo partiti io, Tommaso Giglio e uno di loro.

La guerra, facendola al risparmio, avanzava molto piano… I tedeschi avevano un generale che era un figlio di buona donna, si chiamava Kesserling. Non era crudele. Ma molto intelligente. Era una guerra di intelligenza. C’era la famosa Linea gotica, che è stata per mesi inespugnabile da noi. Io e Tommaso stavamo sotto la Linea gotica, facevamo la propaganda e leggevamo il giornale radio. Avevamo di fronte in Liguria, cioè come radio era vicinissima, l’Armata fascista diretta dal generale Graziani. Quindi noi facevamo una forte propaganda per spaccare questa Armata e farla venire con i partigiani. Ad un certo punto la Linea gotica è crollata. Noi siamo partiti in macchina e siamo arrivati a Bologna. Lì ho lavorato nella radio bolognese, sempre del Pdw… e nel frattempo mi sono sposato.

Avevo conosciuto questa ragazza a Radio Napoli… mi piaceva pazzamente… Mi ricordo che sono tornato un lunedì. Avevo rubato una macchina da scrivere al Pwb. Non avevo i soldi e l’ho venduta per novemila lire. E così mi sono pagato questo viaggio da Altopascio a Napoli. Era estate… Mia moglie stava ai bagni. C’era la mia futura suocera, sono andato a salutarla perché già la conoscevo e le dissi… io da ragazzo ero molto spudorato, quasi come adesso… le dissi: “Sono venuto a sposare sua figlia”. Mia suocera, sorniona disse: “ah sì, vuole sposare mia figlia? Mi fa piacere. E quando?”. Risposi: “Signora oggi è lunedì, la sposo sabato perché domenica devo tornare”. Allora la sorella di mia moglie è andata a chiamare mio suocero, un uomo meraviglioso, capo dipartimento ferroviario di Napoli, un napoletano intelligentissimo e simpaticissimo… disse: “Va bene”.

E così ci siamo sposati in chiesa, per far piacere ai miei suoceri. Ho avuto molta fortuna… Eravamo in chiesa: Barbara, mia moglie, aveva un vestito fatto con la seta dei paracaduti americani.. una seta tutta bianca. Io avevo il vestito di Francesco Rosi, che però era il doppio di me e mi stava largo. Il prete comincia a parlare e dice tante di quelle sciocchezze che noi abbiamo cominciato a ridere a più non posso! Il prete, che era serio però era napoletano, cambiando tono ci disse: “guagliù, se non la finite vi caccio dalla chiesa”. Oh bella, ma noi eravamo ormai marito e moglie… Poi sono tornato al fronte, l’ho fatta venire a Bologna, la guerra era finita. Ed con una lettera del Pci di cui facevo parte mi sono presentato all’“Unità” di Milano, il cui direttore era Giancarlo Pajetta, giornalista bravissimo, ma molto fazioso… e lui mi ha preso… e devo confessare che sono stato il giornalista più fortunato d’Europa: mi hanno preso dopo tre giorni e dopo dieci giorni ero professionista. Quindi sono professionista dall’ottobre del 1945. Ho l’età di Noè! Ho avuto una grande fortuna… però fai parlare solo a me!”.

Quando ha lasciato il Pci?

“Sono uscito dopo il XX Congresso, quando Kruscev denunciò gli errori e gli orrori di Stalin. Sono uscito nel 1956. Quindi dopo i fatti in Ungheria, dove c’era stata una grande rivolta popolare. Nel ’68, invece, i comunisti cecoslovacchi non furono capiti, cercarono di democratizzare il Partito. E lì Kruscev intervenne con tutto il Patto di Varsavia per reprimere i moti rivoluzionari di quella primavera. Noi soti abbiamo preso nel Psi il presidente della televisione di Praga, lo ricevemmo con Bettino, che lo fece poi Europarlamentare. Fu il tentativo di rendere democratico il comunismo. Ma io ero già fuori, avevo lavorato a “Milano sera” e a “Paese Sera”, quindi ero già fuori…

Ma sai chi era un genio? Togliatti. Di lui dicono peste e corna perché venne in accordo con Stalin… E per forza! Sennò sarebbe morto. Ma Stalin capì che in Italia non si poteva instaurare il comunismo, capì che gli americani non lo avrebbero mai permesso. Togliatti arrivò al cinema “Modernissimo” di Napoli e con calma disse a noi giovani trotzkisti: “Dobbiamo collaborare con Badoglio – che per noi era il mostro fascista – per la salvezza dell’Italia… Il Concordato…”. Lui sapeva che il fascismo in venticinque anni aveva dipinto noi comunisti come nemici della Patria e di Dio. Siamo arrivati al 33 per cento.

Ci ho lavorato con Togliatti, era un uomo strepitoso. Era molto pignolo nella grammatica e nella sintassi. Scriveva bene, ma non benissimo, io l’ho amato molto perché era un uomo di un’intelligenza mostruosa. Noi avevano all’“Unità” un compagno che si chiamava Martin, che era il comandante di divisione partigiana. Lo avevano messo a scrivere di sport, poiché era analfabeta. Un giorno entro in ascensore e c’era Togliatti. Il leader del Pci mi chiese: “Ma che ne pensi di Martin?”… ‘n capa a me dico: ma che ne devo pensare… e allora risposi: “È un bravo compagno, compagno Togliatti”. Che ne dovevo pensare? Mi ricordo che una volta mi trovavo a Mosca col compagno Martin ed io scrivevo un pezzo per “Paese sera”. Mentre scrivevo il povero Martin sbatté la macchina da scrivere al muro e col suo accento piemontese mi disse: “Te scrivi troppo in fretta!”. Era un personaggio! Però ne capiva di sport”.

 

Anche lei si è anche occupato molto di sport…

Quando sono uscito dal Partito e dal giornale, anche se loro mi avevano pregato di restare, ero andato a “Paese sera”, dove avevano inventato una formula fantastica. L’“Unità” lo leggeva il compagno più indottrinato… era un giornale scucciante! Noi facemmo il giornale della sera nel quale c’era sì la politica, ma anche la cultura, lo spettacolo, lo sport, il sesso, il pettegolezzo: c’era tutto. E sul piano della tecnica giornalistica bisogna ringraziare due grandi giornalisti. Uno si chiamava Tortorella, che era il fratello intelligente di un gerarca conformista. E l’altro era il grande Gaetano Afeltra, uomo del “Corriere della Sera”.

Io per fortuna feci il cronista, quindi stavo anche in tipografia. Se uno mi telefonava da un bar e mi diceva di un delitto lo scrivevo e lì per lì impaginavo… Quindi quando uscii dal Pci, siccome la nostra moralità di comunisti ci impediva di andare nei giornali borghesi, entrai alla “Gazzetta dello Sport” come impaginatore. Sono un impaginatore formidabile, molto più che giornalista… altro che direttore! Mi presero perché quello prima di me non sapeva niente. Una volta scrisse questo titolo: “Rigore direttore”, perché nel giornalismo quando tu passi un pezzo ed il direttore dice “Questo pezzo deve andare a tutti i costi” si scrive “rigore direttore”. E questo ci ha fatto il titolo d’apertura in prima pagina. L’hanno cacciato ed hanno preso me.

Poi feci un’inchiesta sul Coni per “Tuttosport”, di cui ero collaboratore. Un’inchiesta di tre-quattro puntate. Il proprietario del giornale si innamorò della mia inchiesta. Successe che morirono sia il direttore, Carlin, sia il vice-direttore Bianchi, che era amico mio. Morirono tutti e due. Allora mi convocarono a Piazza Barberini e mi chiesero di fare il direttore. Mi dissero: “Quanto vuoi?”. Ed io spavaldo, come sempre, chiesi settecentomila lire di stipendio al mese. Mi vennero accordate. Così improvvisamente da miserabile che ero diventai un signore… nel 1960. Chiesi questo esoso fisso ed in più 30 centesimi ogni copia in più che avrei venduto. In un mese vendetti il 30 per cento in più. Perché il mio mestiere era quello: il direttore. Perché come scrittore…”.

 

Però Lei ha scritto molti libri…

“Ma la mia bravura era quella di sfornare giornalisti. Quelli a cui sono più legato sono Franco Recanatesi, Cesare Lanza e Mario Pennacchia. Sul “Corriere dello Sport” inventai una pagina, curata proprio da Pennacchia, che si chiamava “Forza ragazzi”. Il “Corriere dello Sport” è un giornale che si vende molto nel Mezzogiorno, dove la scuola non funziona, il lavoro non c’è. Allora feci due pagine settimanali in cui parlavo solo di scuola, di cultura e di lavoro. Non di sport. Introdussi questa cosa che andò molto bene. Prima del “Corriere dello Sport” ero stato due anni a “Tuttosport”.

Però mia moglie non si trovava bene a Torino… pensa che come sono arrivato ho preso in affitto una bella casa. Il proprietario mi disse: “Stia attento ne’, qui è pieno di meridionali”. Perché secondo lui uno che era direttore non poteva essere meridionale… Per di più ricco da potersi permettere quella casa: come minimo doveva essere di Bolzano! Allora gli risposi: “Non si preoccupi, sono meridionale anche io”.

È sbiancato! Pensa, il pregiudizio contro i meridionali era tale che nessuno del giornale, benché io fossi il direttore, ha mai invitato mia moglie né a cena, né a fare una passeggiata con le altre mogli… nulla! Dopo due anni non ne potevamo più e tornammo a Roma, dove ho diretto il “Corriere dello Sport” per nove anni. Poi sono stato direttore del “Globo”, del “Mondo”, dell’“Avanti!”… e poi mi ha chiamato Pertini, che dopo due anni mi ha cacciato… ma lui non c’entrava. Ed ho scritto un libro di elogio su Pertini: “Caro Presidente”, ottantacinquemila copie. Era un grandissimo. Per due anni mi sono fatto un sacco di risate… con questo vecchio incazzosissimo…, ma era buono come il pane… mi sono divertito”.

 

Le fu chiamato da Pertini mentre era a Fiuggi con Alighiero Noschese.

“Sì, io ed Alighiero eravamo soti. Ci pareva un sogno. Pertini nel suo discorso di insediamento al Quirinale, elegantemente, elogiò Leone. Poi forse il povero Leone non c’entrava nulla con lo scandalo di cui fui accusato. Con Pertini fu una rivoluzione: mise due laici al governo, Spadolini e Craxi. E quando Bettino è arrivato da Como, vestito male, lo ha cacciato dicendo che al Quirinale si andava in giacca e cravatta. Era simpaticissimo”.

 

Invece Craxi lo chiamò mentre era dal dentista…

“Ma sai tutto! Sì, ero dal dentista, terrorizzato su quella poltrona. Arriva la segretaria che dice: “Guardi la vogliono al telefono”. E dall’altra parte: “Sono Craxi!”. Avevo scritto “Effetto Craxi”. Avevo preso il titolo da un discorso di Martelli, un uomo molto intelligente, non era un sota secondo me, però era molto intelligente…

Quindi ho fatto questo libro su Craxi, però non sono riuscito ad avere notizie sulla sua adolescenza. E così sono andato a trovarlo. Craxi era dieci volte più incazzoso di Pertini. Ma era un uomo buonissimo. L’andai a trovare e gli proposi cinquanta domande sul suo periodo giovanile. Invece lui mi scrisse venti cartelle.

Scrissi il libro e per un anno e mezzo il silenzio più assoluto da parte di Bettino. Tanto che pensai “non gli sarà piaciuto il libro”. Poi invece mi chiamò, dal dentista, dicendo: “Ci verresti a darmi una mano qui a Palazzo Chigi?”. Ed andai, benché Pertini gli avesse sconsigliato di assumermi. Sandro non amava Craxi poiché lo considerava un sota di destra. Spadolini lo inquietava meno perché era repubblicano. Poi Spadolini era effettivamente un uomo straordinario”.

 

Ma umanamente chi lo ha colpito di più?

“Erano totalmente diversi. Agli antipodi direi. Pertini usciva dalla lotta antifascista ed era vicino al Pci. Craxi usciva dalla scissione socialdemocratica del comunismo. Non si sarebbero mai incontrati. Pertini non era un leader popolare. Pensa che quando presentava una mozione ai Congressi prendeva l’uno per cento. Craxi possedeva un carisma unico. In effetti, è strano che uno come lui si fidasse di Andreotti e Forlani. Per carità, sono amico di Andreotti ma non comprerei un cappello da Andreotti… Sette volte presidente del Consiglio. Due processi. Di cui uno per omicidio. “Quanti anni ha presidente?”. “Sono in proroga”, risponde lui”.

 

Cosa pensa di Berlusconi?

“Berlusconi è un grande industriale che per non essere arrestato è entrato in politica. Ho scritto quattro saggi con la Mondadori, che è organizzata come una grande casa editrice americana. È perfetta. Ti paga la prima volta, ti paga la seconda. Se presenti il libro a Palermo piuttosto che a Trieste sei spesato di tutto con la Mondadori. Ti segue in tutto. Lui ha preso tre televisioni. Ma una era di Mondadori, una di Rizzoli. Sono fallite, lui le ha rivitalizzate. Lui ha inventato Milano due. È un grandissimo imprenditore”.

 

E come politico?

“Non è propriamente il suo mestiere”.

 

Nell’Italia di oggi esistono politici di razza?

“No. Ma non esistono non perché siamo scemi. Non esistono perché tutto è cambiato. Oggi i giornali non vendono più niente. C’è il web, c’è Google. Oggi vai da Parigi a New York in quattro ore. Hai milioni di persone che si spostano.

Noi abbiamo fondato tutto sulla lotta di classe. Non c’è più la lotta di classe. Quelli che votavano per la Cgil oggi votano la Lega. Prendi la Cina: per me comunista, ex comunista per carità, la Cina è l’esempio del paradosso. Il Partito comunista comanda sempre. L’economia è libera, fino a un certo punto. Però sente Google, però traffica, però vanno all’estero. Loro hanno inventato un comunismo adattato al fallimento del comunismo. Ma i comunisti europei non ne hanno mai proprio parlato. Non si è fatto un Congresso per capire.

Tu non sai chi è Deng Xiaoping. Ma Deng Xiaoping è quello che ha inventato questa cosa. È un genio! Ti do un consiglio… siccome vedo che sei molto sveglia, leggiti un libro che ha scritto la figlia di Deng Xiaoping. È facile, seicento pagine. Però è un libro straordinario. Lui era numero due della Lunga Marcia. Mao non lo ha mai potuto distruggere. Lui e Ciu En Lai da giovani erano stati a Parigi, quindi conoscevano quei due mondi. Questo Den Xiaoping a settant’anni viene cacciato dal Partito, ma non arrestato, non processato. Il figlio si uccise, perché gli volevano far dire che il padre era diventato anticomunista. Lui e la moglie a un certo vengono mandati dal compagno Mao a duemila chilometri da Pechino a fare gli operai… a settantadue anni. Lui ci è andato, tranquillamente. Quando è morto Mao, questo Den Xiaoping ha inventato questo adattamento, che ricorda un po’ la grande politica che fece Roosevelt durante la crisi del ‘29, quindi una politica di intervento dello Stato ma a vantaggio del mercato non contro il mercato”.

 

Oggi come stanno reagendo i nostri politici alla crisi economica?

“Non stanno facendo niente. Un po’ non ci sono i mezzi, perché c’è la preoccupazione del debito pubblico. Un po’ loro hanno lasciato che col cambio dell’euro, che tutta l’Europa ha accettato e che in Europa non ha dato nessuno di questi effetti, qui fosse lecito a tutti i commercianti rincarare selvaggiamente. Una tazza di caffè costa duemila lire: è possibile? Se tu cacci un euro, ti danno venti centesimi che tu lasci come mancia e hai speso 1750 lire pe’ nu cafè! In proporzione così è il cibo, così è la casa, così è il treno, così è la benzina. Tutto.

Hanno accettato questo. E qui Prodi e D’Alema hanno la maggiore responsabilità. Prodi l’ha fatta lui l’operazione. Per essere elogiato c’ha inguaiato! E qui non so come se ne esce. Io però ho molta fiducia negli italiani.

Perché è nella difficoltà che gli italiani danno il meglio di sé. I napoletani poi in questo sono maestri!”.

Mai come in questo periodo si parla di articolo 21. Ma è in pericolo la libertà di stampa?

“No, in pericolo no, ma certamente questo impero di Mediaset è pericoloso. E lui poi è strano, un uomo così vitale, così forte ha paura dell’opposizione e di certe trasmissioni. Io sono di sinistra, Santoro lo detesto, è noioso, aggressivo. Chi lo può fregare è Mentana non Santoro, perché è più furbo, lo mette in difficoltà. Se tu lo aggredisci non è giusto, Santoro è troppo estremo. Come la Guzzanti, come Grillo. Sono personaggi scadenti, non sono spiritosi. Qui per fottere a chist’ bisogna essere spiritosi. In questo tipo di società, in cui apparire è più importante che essere, Berlusconi è l’incarnazione di questo ideale: diventare ricco a tutti i costi.

Apparire sempre di buon umore, scopatore di ferro… però questo piace! Il principe Savoia piace. Il calciatore che ti dice come devi studiare. E tutto perché il grande progresso, che è stato enorme nella scienza, ma non ne parla nessuno, ha dato vita ad una comunicazione vuota, priva di contenuti, immediata, fulminante… e poi? Facebook… lui incarna tutto questo. Non è che sia un uomo demoniaco. Ha avuto la fortuna di incarnare questo ideale di vita. Come Garibaldi e Mazzini: ma come fate sempre la guerra? In quel momento bisognava fare sempre la guerra. Se tu Garibaldi lo mettevi in un ginnasio ad insegnare il latino era un cretino. Cioè è la coincidenza dei tempi”.

 

Bisogna anche dire che l’alternativa a Berlusconi è imbarazzante…

“Ti riconduco sempre al vecchio Marx. La sinistra ha perduto la Guerra fredda. Il comunismo ha perduto. Il somo è una mediazione democratica che non affascina, perché è la più ragionevole, la più giusta. Ma la Thatcher ha fatto forse qualcosa di più dell’inglese, come si chiamava… il giovane…”.

 

Tony Blair…

“Blair… anche se Blair ha fatto cose bellissime. Ma la Thatcher e Reagan hanno battuto Lenin e Stalin. Come dire… Maradona e mio nonno. Proprio così! Perché hanno interpretato un’esigenza produttiva. Tu devi produrre, la devi fare mangiare la gente. Tutti gli immigrati con cui parlo evocano il comunismo, perché a scuola non pagavano, all’ospedale non pagavano, il posto era sicuro. La libertà è un lusso che ha la persona colta, la persona che ha la possibilità di scegliere. Prendi Bersani… potrebbe essere ministro delle Poste… Poste e telegrafi anche… è nù buon’omm, una persona molto corretta, però…. Veltroni era patetico. Sono fuori del mondo, la furbizia di D’Alema, non basta. Vedi la figura che ha fatto D’Alema con Niki Vendola, è impressionante!”.

 

Lei è stato direttore del Tg2. Che telegiornali guarda oggi?

“Li guardo tutti perché sono pazzo del giornalismo. Il Tg3 è molto settario, il Tg1 è scandaloso. Forse il Tg2 è il più fesso, ma è quello più sopportabile. Ma Minzolini e Berlinguer… non puoi esagerare così!”.

 

Cosa pensa del finanziamento pubblico ai giornali?

“Lo trovo immorale. Con danni sul sistema finanziario enormi. Non vedo perché. Sono mezzi per addomesticare i giornalisti”.

 

Ma un giornalista può essere oggi un cane sciolto, senza padrone?

“È difficile”.

 

Qual è il giornalismo che proprio non sopporta?

“Diciamo un nome nobile, così nessuno mi può dire che sono un adulatore. Come si chiama quello… m’aggio scurdato ‘o nome… l’insultatore di Napoli…. Vedi come si spegne l’intelligenza di una persona di colpo… parlo della mia…”.

 

Ne vorrei avere la metà della metà… ma chi Giorgio Bocca?

“Eh sì, Bocca! Un oratore, ma non un giornalista. E poi non ho sopportato nemmeno Eugenio Scalfari. Però, devo essere onesto, perché Scalfari è stato il nemico di Craxi. Io sono un grande amico di Craxi. Eugenio è un grande giornalista, ma poco obiettivo. I giornalisti devono avere ironia e senso della misura. Sennò appartieni ad una civiltà pastorale, fatta di insulti. Un giornalista che adoro è quello del “Corriere della Sera”… come si chiama… Giovanni Sartori: un genio. E non ha padroni. Un giornalista per non avere padroni deve essere così bravo, deve avere tanto di quel consenso pubblico che l’editore si rassegna”.

 

Lei ha scoperto anche molte giornaliste donne: Lilli Gruber, Barbara Spinelli, Carmen Lasorella, Maria Concetta Mattei. C’è qualche differenza tra il giornalismo al maschile e quello al femminile?

“Sono femminista perché sono un sota. Dopo tre-quattromila anni di oppressione questo è uno dei pochi risultati della rivoluzione sota: sono finite le colonie e le donne si sono emancipate. Noi abbiamo avuto – nessuno lo dice perché la sinistra è faziosa – una ragazza dell’Alabama come segretaria di Stato con Bush. Che cosa ci vuole perché una ragazza vada al dipartimento di Stato? Nella migliore delle ipotesi guardano le gambe… nella migliore delle ipotesi. La Merkel… quello che sta facendo la Merkel in Germania. Nel giornalismo c’è ancora una tirannide dell’uomo. Io ho chiamato la Gruber… il segretario di redazione era un suo amico. E mi disse: “Direttore, guardi che a Bolzano c’è una ragazza che legge il telegiornale”. “Mandami una cassetta”, gli risposi. Vidi la cassetta e dissi: “Lunedì la ragazza sta qui”. Aveva il tono giusto. Io le ho prese perché erano brave”.

 

Dottor Ghirelli cosa guarda in televisione. Guarda i reality?

“I reality no, mai. Guardo tutto, partite e telegiornali. E poi tanti film. Sono un cultore di Lubitsch e sostengo che Adolfo Hitler è stato un benefattore dell’umanità, perché con la sua persecuzione della razza ebraica ha mandato molti geni ebrei in America”.

 

Lei ha avuto un Maestro di giornalismo?

“Gaetano Afeltra. Noi abbiamo avuto una fortuna. La prima repubblica, ‘43-‘68, è finita quando i ragazzi hanno detto “Vietato vietare”. Mazzini ci ha spiegato che ci sono i diritti e i doveri. Noi abbiamo avuto una meravigliosa opportunità: la ricostruzione. Una destra che era Einaudi, un centro che era La Malfa. Io le ho conosciute queste menti. De Gasperi ha detto di no al Papa, che era Pio XII… era come Stalin, faceva paura. Principe romano, ha fatto licenziare il giardiniere perché lo disturbava nelle sue passeggiate. De Gasperi gli ha mandato il trentenne Andreotti a dirgli: “Noi l’alleanza col Movimento sociale italiano non la faremo mai”. E ha scritto una lettera alla moglie dicendo “è finito forse il mio lavoro, ma io qui rappresento l’Italia non la Chiesa”. Un cristiano di grandissima fede. Noi abbiamo avuto questa gente: Togliatti, Nenni. Perché Marx ci insegna che bisogna sempre guardare la società com’è in un certo momento storico. Abbiamo sofferto troppo, è morta troppa gente. Ci sono state troppe cose per cui noi non fossimo pieni di fede nella ricostruzione, nella pace, nel benessere”.

 

Oggi c’è una sottile guerra psicologia. Alla nostra generazione hanno tolto il futuro…

“Non c’è dubbio. La chiamo la catastrofe antropologica, che colpisce il giovane, colpisce le speranze del giovane. Il precariato è terribile. Abbiamo ancora un modello vecchio di economia. Noi avremo venti milioni di turisti cinesi nei prossimi anni in Europa. Dobbiamo fare quello: l’agricoltura, il turismo, la navigazione. Dobbiamo trovare il modo di produrre e far lavorare la gente. La scienza… uno taglia la scienza, la ricerca: da fucilare. La scuola: oggi una ragazza che insegna inglese guadagna la metà della mia cameriera. Ma come è possibile?”.

 

Io sono davvero incantata… Le dico…

“Ti dico”.

 

Grazie… sapevo della gravissima perdita che ti ha colpito e se è vero che dietro un grande uomo c’è una grande donna tua moglie doveva essere tale.

“Lei era una grande donna dietro un uomo normale”.

 

Un matrimonio lunghissimo. Qual è il segreto?

“Sessantasei anni… il segreto? La grazia, l’intelligenza… non mi ci fare pensare, faccio una brutta figura…”.

 

Anche la capacità di emozionarsi è dei grandi…

“Con lei ho avuto una vita meravigliosa”.
*Dice di sé.
Barbara Leone. Facevo la violinista e mi divertivo pure. Ma mi diverto di più a scrivere. Amo gli autori russi e i poeti maledetti. Il mio compagno di vita e di avventure è un cane nero chiamato Maffino. 

RENZO ARBOREBenedetto sia il successo, sempre.
A che scopo far tanta fatica perchè la gente ti riconosca
per strada e poi girare con gli occhiali scuri?
(Da “Corriere della Sera”, 1995)
MUSICA Andrea Lo Vecchio - Mi piacerebbe parlare di Mina...

Mina ha compiuto 70 anni ed è stata celebrata da tutti. 
“La sua grana di voce, la forza interpretativa, il modo con cui riesce a rendere un testo, le sue doti vocali che contemplano oltre due ottave di estensione, ne fanno una grande artista di calibro internazionale…”. Questo e altro, nel ricordo personale di un grande autore televisivo e di canzoni

Andrea Lo Vecchio*

Scrivere canzoni! Mestiere ingrato: ogni volta è un esame, niente si conquista e non ci sono traguardi, tranne uno: Mina. Avere una canzone cantata da lei è il punto di arrivo di ogni autore che si rispetti, ancora oggi che Mina non è più una grandissima venditrice di dischi.

Puoi essere sulla cresta dell’onda, fare successo in Italia o all’estero, ma se non arrivi a lei non ti senti completo; è come se ti mancasse la laurea, anche se tutti sanno che sei un buon avvocato. Emozione – l’emozione di un incontro importante, il mio primo con lei, tanti anni fa. – Chiudo gli occhi e mi rivedo quella donna così giovane e già così monumento, lì, davanti a me a giudicare un brano che improvvisamente canto malissimo ostentando una sicurezza che non ho…

Trovarmela davanti per la prima volta, quasi trent’anni fa ormai, e sentire subito di volerle un po’ bene, non per quello che rappresentava, ma per quello che era: una donna sola, con una carica di umanità incredibile. Negli anni l’ho vista commuoversi di fronte a un testo che le avevo scritto, alzarsi ed abbracciarmi e subito dopo non sentirsela di cantarlo in prima persona. L’ho vista preoccuparsi della salute di uno dei miei figli, durante la realizzazione di un disco, anche se i nostri incontri non sono mai avvenuti fuori dall’ambito lavorativo. L’ho vista non riuscire a liberarsi da qualche parassita “perché poverino”. L’ho vista avere paura di non farcela a fare un buon disco per il suo pubblico, lei, che secondo me potrebbe cantare anche l’elenco del telefono.

L’ho vista soffrire per la lontananza dei figli che adora. L’ho vista amare senza riserve uomini che approfittavano di quel rapporto per farsene pubblicità e guadagnarne. L’ho vista rifiutare cifre iperboliche pur di non rinunciare alla propria tranquillità. Come non volerle bene? Domandarmi perché non ho fatto nulla per diventare amici; strano rapporto tra due persone che si stimano e non ci provano a stringere dei legami, in questo mondo così privo di relazioni umane vere, disinteressate…

E poi la risposta, improvvisamente, come un lampo a ciel sereno, incredibile nella sua iperbolicità: Mina è timida! Una timidezza estrema, mascherata solo dall’alone del successo, dalla falsa aria di sicurezza e tranquillità che ne emana. Lo vedi da come si comporta, dall’approccio che prende senza portarlo a termine, lanciando frasi a metà, aspettando che sia tu a raccogliere il messaggio. Timido anch’io e tutto diventa come un dialogo tra sordi: la paura di essere frainteso, male interpretato, che ogni timido ha, impedisce di concretizzare un qualcosa che vada oltre la pura e semplice simpatia. Tutto si riduce a quattro chiacchiere durante le incisioni, a un buon bicchiere, a due risate e finisce lì, arrivederci all’anno prossimo, al prossimo disco.

Sensazione di inconcluso, di incompleto: voglia di conoscerla un po’ meglio questa sana ragazza cremonese che ha sempre pagato in prima persona, che non si è mai tirata indietro, assumendosi anche responsabilità non sue, che ha dato sempre tutto ad un prezzo più alto del dovuto. Dal suo sguardo, dalle sue parole, da ciò che fa, traspare una limpidezza, una onestà, un senso di pulito che raramente rimane addosso a chi, nel mondo dello spettacolo, raggiunge una posizione di successo.

“Il più pulito ha la rogna” si suole dire, perché non c’è posto per tutti e non puoi permetterti di non spingere, di non approfittare oggi di una situazione, ché domani sei vecchio, schizzato via da tutti, successo o non successo. Lei no! Mina ha mantenuto intatta la freschezza di quando è partita non ostante i troppi tradimenti, le delusioni, le rinunce, i dolori di una vita privata non certo piena di fortuna. Eppure conserva gli occhi chiari e le mani bianche, esponendosi forse un po’ meno, ma disposta ancora a dare senza chiedere, divertendosi per quanto può, cercando di non calpestare i diritti altrui, perché ognuno abbia il suo.

Un esempio: sala di registrazione – Stiamo rivedendo un testo per alcune parole che non le vengono bene.

“Ma tu non cantavi una volta?”.

“Sì”.

“Allora vieni, facciamo un coretto insieme”.

E via, davanti al microfono con il cuore che batte forte, anche se sono solo due note; lei che incoraggia, aiuta, ti mette a tuo agio, tu così piccolo e lei così grande. Tutto finisce in fretta, sono solo poche misure e lei:

“Guarda che metto il tuo nome in copertina”.

“Ma no, Mina, grazie, non serve”.

“No, io voglio che tutti quelli che hanno lavorato nel disco abbiano la loro parte!”.

“Mi vergogno come un ladro”.

“Se c’è qualche ragione particolare ok, altrimenti metto il tuo nome tra i coristi”.

Ecco, una stupidaggine che lei, per quella pulizia di cui parlavo prima, sente il bisogno di riconoscere al di là del tuo inesistente merito. Con quanta gente ho lavorato in questi quarantacinque anni che invece si è assunta tutti i meriti, anche i miei! Questa è la differenza sostanziale tra lei e gli altri, questo aumenta il piacere di lavorare con lei, oltre il piano strettamente professionale.

E professionalmente Mina è una stupenda macchina; se non avesse paura di volare, di girare, di fare spettacoli, sarebbe un’artista “Top” in tutto il mondo, Stati Uniti compresi! Eh sì, non è una esagerazione, è una constatazione, se volete puramente tecnica, ma reale.

La sua grana di voce, la forza interpretativa, il modo con cui riesce a rendere un testo, purché abbia un minimo di cose da dire o da sottolineare, le sue doti vocali che contemplano oltre due ottave di estensione, ne fanno una grande artista di calibro internazionale, in grado di esibirsi e conquistare ogni platea in ogni parte del mondo. Ma avrà pure dei difetti questa donna che decanti tanto! Mi sembra di sentire nell’orecchio questa domanda del lettore al quale rispondo: ebbene, sì: la pigrizia!

Mina è pigra fino all’inverosimile. Pigrizia e timidezza fanno sì che si chiuda nella sua torre d’avorio e che, per conto suo, agiscano e operino tanti oscuri personaggi che creano barriere, si trovano interessi, vendono informazioni anche sulla sua vita privata, pasto continuo di giornalistuncoli da quattro soldi che si occupano quasi esclusivamente di venire a ficcare il naso nelle tue lenzuola. Mina lo sa, è troppo intelligente per non saperlo o non capirlo, ma lo sopporta come inevitabile obolo alla sua pigrizia, un piccolo tributo che le consente di continuare ad occuparsi tranquillamente del suo uomo, dei suoi figli, delle sue partite a scopa.

E, bene o male, qualche buona canzone arriverà comunque, un buon disco si farà comunque, anche se forse con un pochino più di omogeneità e con un’unica mano a condurre la danza, con qualche apparizione televisiva, con qualche concerto, se ne potrebbero vendere di più; ma perché vendere di più quando quelli che già si vendono bastano e avanzano? Perché incaricare qualcuno di produrti un disco e poi magari doverci discutere, doversi assoggettare a un piano promozionale, ecc… ecc…

No, no, molto meglio così! … E non per mancanza di professionalità, perché la signora è una delle più grandi professioniste che io abbia mai incontrato: se non è soddisfatta non molla, si prepara con attenzione, scrupolosità, puntigliosità; è soltanto “pigrezza”, come dicono a Napoli, quella “pigrezza” così tipicamente mediterranea, calda, latina, simpatica alla quale non puoi non perdonare, anche se ti ci arrabbi un po’, non più di tanto perché anche tu sei mediterraneo, caldo, latino, e tutto finisce con un “peccato” e avanti così.

Ci si chiede spesso se il successo non logori. Mina mi disse un giorno che ogni volta è come ricominciare da capo: più successo hai e più critici alla tua porta, fucile alla mano, pronti a sparare sul primo errore, sul primo sbandamento. Una tua défaillance fa notizia, il pubblico ama vedere l’equilibrista che cade e meglio se non c’è rete; il pubblico va alle corse automobilistiche sperando, in cuor suo, di assistere ad un incidente ed il giornalista è lì per accontentarlo, per sottolineare la tua caduta e per essere il primo a venderne i cocci.

Anche il mondo della canzone non sfugge a queste regole: quanta gente crede di averti inventato solo per aver scritto quattro paroline carine sul tuo conto; poi aspetta, con nella testa “come ti ho creato, così ti distruggo!”, cercando l’occasione buona, quella di un disco sbagliato, di una nota mal fatta, di un amore andato a male (può capitare a tutti).

Mina, come ogni grande che si rispetti, è da sempre nell’occhio del ciclone; sa benissimo che ogni suo disco è una scommessa e che su ogni nuova puntata lascia le vincite precedenti, pronta a perderle in un colpo solo, e nessuno ti fa mai credito per quanto hai vinto prima. Con Roberto Vecchioni, tanti anni fa, scrivemmo una canzone che diceva:

“Pecore foste, ma si sa è la vita

siete leoni sulla mia ferita

e fate a gara per chi mette prima

un mio errore nella sua vetrina.”

Niente di più vero, di più drammatico, di più vissuto nella carriera di un artista, che sia scrittore o musicista, cantante o attore, grande o piccolo. Si pensa spesso alla vita di un artista con mal celata invidia, lo si immagina in un eremo dorato a godersi i frutti di una non troppo sudata mietitura.

Quante volte, specie all’inizio, mi sono trovato nei salotti a discussioni di questo tipo:

“Cosa fa lei nella vita?”.

“Canzoni!”.

“Si, va be’, ma per vivere?”.

“Canzoni!”.

“No, dico, come si guadagna il pane, che lavoro fa?”.

“Canzoni!”.

Perplessità. La leggi negli occhi del tuo interlocutore, che non capisce come non ci sia un cartellino da timbrare o, essendo un libero professionista, tu non abbia una clientela che ti permetta di avere un reddito fisso su cui contare alla fine di ogni mese. E allora ti guardano un po’ stupiti e un po’ disgustati:

“Bella la vita, eh? Non far niente tutto il giorno, dormire fino a tardi, belle donne, begli alberghi, sempre in giro…”.

Pochi sanno quanto lavoro e quanto sudore costi un disco, da parte di tutti, chi scrive, chi suona, chi canta. Pochi sanno che si lavora ininterrottamente per 16, 18 ore al giorno a provare, riprovare, trovare i suoni, le parole giuste, le canzoni giuste. Pochi sanno che la tua giornata diventa balia di orari assurdi: a letto alle cinque del mattino, il primo pasto alle quattro di pomeriggio e poi i viaggi, gli spostamenti, lo stress da paura che quello che stai facendo non piaccia, che sia un lavoro inutile da buttare in un cestino.

Per esempio, pochi sanno che un’artista come Mina comincia a lavorare a febbraio per il long playing che uscirà a fine novembre e che comunque ce la fa a finirlo solo per il rotto della cuffia.

Passione. Solo la passione ti tiene in piedi, permette di continuare a credere che una canzone serva a dare un po’ di serenità, a sottolineare un amore, un’estate, una relazione, a riempire un centesimo di vita di qualcuno che per un attimo ha canticchiato il tuo motivo, dimenticando guai, conti da pagare, problemi!

Ma torniamo a Mina, al di là delle mie divagazioni sull’essere artista e sulla vita che ne comporta. Mina la grande, Mina la misteriosa, Mina la regina. Come ogni re che si rispetti anche lei ha la sua corte, i suoi giullari. Spesso mi sono domandato, vedendo chi gravita intorno ai grandi artisti, come sia possibile che una persona colta, di successo, abbia intorno a sé un corollario di gente assolutamente inutile: cortigiani, buffoni, scrocconi. Non ce n’è uno che si salvi da questa regola, da Celentano a Masini, da Mina a Sting.

Mi chiedevo come mai, come non accorgersi che sono leccapiedi, che a un segno del tuo capo dicono sì, e ad un altro cenno no, senza mai un’idea precisa se non quella di assecondarti e vivere nella tua ombra? La risposta me l’ha data Luciano Tallarini, un art director che si è occupato di buona parte delle copertine di Mina ed è suo intimo amico: “Sono i suoi televisori, lei li accende e li spegne quando vuole, niente di più; sa benissimo chi sono e quanto valgono, ma ci si diverte e tanto basta!”

Alienazione da successo! Dev’essere così drammatico il rapporto umano a quei livelli che senti il bisogno di un isolamento totale; con lei non ne ho mai parlato e sarebbe interessante affrontare l’argomento un giorno o l’altro, ma sono certo che oltre al divertimento, discutibile del resto, del sentirsi declamare: “Sei divina!”, “Che voce stupenda!”, “Come sei bella oggi, cherie”, ecc… ecc…, ci sia la paura di rapporti più profondi, quelli che mettono radici e non sono disponibili all’assenso per l’assenso, quelli che mettono in discussione scelte e modi di vivere, quelli che ti costringono a pensare in termini più duri, reali, concreti, quelli che rendono l’amicizia salata, nuda, spassionata.

Rimettere sul tappeto una scelta che già ti è costata parte del tuo sonno con ansia, paura di sbagliare, non deve essere piacevole e allora ecco i giullari, pronti ad avvallare, ad assentire, a non approfondire, ad incensare. Scelta. È un fatto di scelta, ma questa aumenta inesorabilmente la consapevolezza dell’isolamento, dell’essere i soli a decidere nel bene e nel male, al di là del risultato, al prezzo più alto.

Ricordo quando scrissi per lei “E poi…”, canzone nuova per quei tempi, inusuale per la Mina che la gente era solita ascoltare, ritmico. Entusiasmo. Lei se ne entusiasmò: grosse pacche sulla spalla, sorrisi, quindi, a prodotto ultimato, i dubbi di non essere forse troppo avanti, di non aver fatto un salto troppo lungo e infine la decisione: “Faccio il 45 giri, vada come vada, il pezzo è forte, il resto si vedrà!”. Ed è lì che servono i giullari, a dirti che hai scelto bene, a non instillare dubbi oltre quelli che già hai, a farti sentire nel giusto.

Tutti sappiamo, Mina per prima, che è finto, falso, voluto, ma in quel momento serve che qualcuno sposi incondizionatamente la tua scelta; ti aiuta a non pensarci più, chiudere gli occhi, incrociare le dita ed aspettare il responso, quello vero, del pubblico che sceglie o non sceglie al di là dei nomi, dei miti, delle paranoie; recepisce o non recepisce non stando a badare se ci hai messo tre giorni o tre ore a studiare quella chitarrina fatta a quel modo, quel passaggio di tonalità, quel vocalizzo in quel determinato punto che ne aumenti l’effetto.

Cos’altro dire di Mina? Mi piacerebbe parlare del suo viso e delle sue stupende mani dall’incredibile fedina che ne avvolge il pollice; dei suoi occhi puliti, rapidi, profondi, in un ovale pressoché perfetto: occhi che scavano, analizzano i tuoi da dietro le lenti dei suoi occhiali rotondi e leggermente affumicati; quando ti parla non ti mollano mai, pronti a registrare ogni minima impressione, segno di schiettezza, mai obliqui, sempre dritti, puntati, attenti.

Mi ha sempre colpito il suo sguardo ed affascinato anche, come se lasciasse intravedere un mondo a me proibito, intensissimo, dolce e violento ad un tempo, mite ed autoritario in ugual misura, un mondo pieno di vortici nei quali tuffarsi, pericoloso ma tentatore.

Dunque, le mani, gli occhi… e poi la bocca, quando si allarga in quella risata a trentadue denti, contagiosa, argentina, liberatoria. Credo di non essermi mai soffermato su altro che non fosse il suo viso o le sue mani, anche se Federico Fellini si incantò nella descrizione del suo seno terminando la sua farneticante disquisizione con la frase: “Le tette che hanno allattato mezza Italia!”. Le tette son sempre state un fatto personale di Federico, per me sono le mani: adoro le dita lunghe, avvolgenti, la punta delle unghie rotonda, insomma, le mani che parlano da sole e ti promettono allettanti paradisi.

Ecco, mi piacerebbe parlare anche del whiskey di Mina, quello che inevitabilmente mi offre, creando prima di ogni incisione un’atmosfera casalinga di rilassatezza e tranquillità, quell’atmosfera da pantofola nella quale ognuno si ritrova a suo agio, pronto alla conversazione, disponibile.

Mi piacerebbe parlare della Mina buongustaia, quella che asserisce che il massimo della vita è “alzarsi la mattina con un buon rognoncino trifolato”. Mi piacerebbe parlare dei suoi discorsi dalle e larghe, melodiosi come se cantasse anche se dal linguaggio pratico ed inequivocabile. Mi piacerebbe parlare della donna Annamaria Mazzini al di là del suo essere artista così come tutti la conoscono. Ed invece no, non ne parlerò, perché ritengo che ognuno abbia il diritto a sé stesso; il diritto che nessuno ficchi occhi nelle sue arterie; il diritto di non essere squarciato, in balia dei venti dell’opinione pubblica; il diritto al privato; ecco perché su Mina mi fermo qui.
*Dice di sé.
Andrea Lo Vecchio. È un vecchio bambino che ha sempre voglia di giocare. 

GIANNI MONDUZZILa conquista del successo può costarti la vita: molti personaggi
famosi, per arrivare hanno consumato tutte le energie vitali lungo
il percorso, cosicché al traguardo giunge soltanto il loro cadavere.
Questo spiega la presenza di mummie in tv.
(Da “Il manuale della Playgirl”, 1985)
Vincenzo Scardapane - Gian Carlo Nicotra: Mina? Fusione perfetta di personalità e talento

Il celebre regista televisivo commenta a caldo il buon risultato della trasmissione che Paolo Limiti, su Rai due, ha dedicato alla Tigre di Cremona in occasione del suo celebratissimo compleanno. E non mancano aneddoti particolari sul passato della cantante più amata in Italia

Vincenzo Scardapane*

25 marzo 2010, Mina compie 70 anni. Fiumi di parole in tv, tonnellate di articoli sui giornali hanno preceduto e seguito la celebrazione per il raggiungimento di questa età a cifra tonda. Mina dirà poi su “La Stampa” del 26 marzo 2010 di sentirsi sopravvissuta alla sua autopsia. “La ricorrenza decrepita invitava ad approfittarne – spiega graffiante la “Tigre di Cremona” –.  Una marea di autonominatisi anatomopatologi si sono dilettati a frugare tranquillamente le risposte nell’archeologia della mia psiche, della mia memoria, della mia carnaccia sbranabile, del perché e del percome della vita mia”.

Essere al centro di un can can mediatico di questa entità, sarebbe utile soltanto a rassicurare chi l’aveva cristallizzata in una età indefinita. In queste poche righe si evince tutto lo spirito rock di Mina, il personaggio che ha sempre agito per proprio divertimento, che ha resistito a testa alta agli attacchi ricevuti in occasione della nascita del suo primogenito Massimiliano, avuto con Corrado Pani, un bravo attore che aveva la “colpa” davanti a un’opinione pubblica conformista ed ipocrita di essere già sposato.

È la stessa Mina che ha collezionato successi durante tutta la sua carriera e che ha scritto tante pietre miliari della musica leggera italiana.

Tutti conoscono capolavori assoluti come “Il cielo in una stanza” o “Se telefonando”. E tutti non possono far altro che restare a bocca aperta davanti alle esaltanti esibizioni stilistiche in “Brava”. Il pathos, l’eros, la tensione sono tutti ingredienti presenti in “L’importante è finire” o in “Grande grande grande”. Il divertimento e la leggerezza sono assicurate con altre hit come “Tintarella di luna”, “La banda” e “Le mille bolle blu”.

Per festeggiare i suoi settant’anni, Mina regalerà al suo pubblico un album di inediti (in uscita il 14 maggio) e la Sony pubblicherà in vinile gli album stampati tra il 1994 e il 2007. Saranno così disponibili le incisioni di Mina comprese tra “Canarino Mannaro” del 1994 e l’ultimo album “Facile” dell’ottobre 2009, per un totale di quattordici titoli, di cui due doppi.

Per la prima volta tutti questi album, alcuni dei quali mai pubblicati in vinile in precedenza, saranno nei negozi in versione picture disc con le riproduzioni delle copertine originali. Questi i titoli degli ellepì: Canarino Mannaro (doppio); Pappa di Latte (doppio); Cremona; Napoli; Leggera; Olio; Mina n.0; Sconcerto; Veleno; Napoli 2° estratto; Bula Bula; L’Allieva; Todavia; Facile.

E non finisce qui: una Web radio interamente dedicata a Mina. È il regalo che il Gruppo Finelco (Radio 105, Radio Monte Carlo, Virgin Radio) ha fatto alla più grande voce della musica italiana. “Mina: ieri, oggi e domani”, nata con l’approvazione del figlio della cantante, Massimiliano Pani, è online dal 19 marzo e trasmette tutte le canzoni della Tigre di Cremona dagli esordi ai giorni nostri intervallate dai messaggi di auguri delle grandi interpreti italiane e di alcuni personaggi che con Mina hanno collaborato.

Tanti artisti hanno rilasciato dichiarazioni di stima per Mina e le sue 70 primavere.

Tra gli altri Malgioglio le vorrebbe regalare una canzone scritta con Aldo Busi. Ornella Vanoni le invidia la serenità con cui può continuare a lavorare grazie al suo “esilio”. Mogol le manda un bacio. Loretta Goggi esalta la sua femminilità. Francesco Renga si offre per un duetto. Mario Biondi idem. Manuel Agnelli degli Afterhours che questo onore lo ha avuto già, le fa l’augurio di restare così com’è e vivere felice la propria vita.

Paolo Limiti le dedica una trasmissione intera in prima serata su Rai 2. “Minissima 2010” è il titolo e per questioni legate al palinsesto è andata in onda il 29 marzo. Ha riscosso un ottimo risultato in termini di ascolto. Il materiale di repertorio si mescola a spezzoni inediti e alle testimonianze di numerosi ospiti che hanno avuto l’onore di conoscere e lavorare con Mina.

Non sono mancate alcune incursioni dell’imitatrice Lucia Ocone, chiamata per una sera ad “entrare” nei panni di Mina. Numerosi gli ospiti nel corso della serata. A partire da Francesco Renga, che esegue “L’ultima occasione”, grande successo di Mina scritto da Gianni Meccia, Tony Del Monaco e Jimmy Fontana.

“Minissima 2010” è un programma di Rai Due, scritto da Paolo Limiti, che ha segnato il ritorno di Paolo Limiti in tv e il paroliere di “Bugiardo e incosciente” dichiara in conferenza stampa: “Voglio raccontare in tv l’evoluzione dell’enorme talento che ha”. E poi: “Collaborare con lei è un grande traguardo”. Limiti non ha deluso le aspettative e quella che è andata in onda è stata una godibilissima serata di grande musica e di tv di qualità.

La regia di “Minissima 2010” è stata curata da Gian Carlo Nicotra che nel ‘67 ha iniziato la sua fortunata carriera come regista televisivo. È stato, da prima, assistente di Enzo Trapani nel film “Altissima pressione” e per le prime edizioni di “Senza Rete”.

Nel 1968 collabora con Antonello Falqui, dirigendo gli inserti filmati per l’edizione di “Canzonissima ‘68” al Teatro delle Vittorie che vedeva proprio Mina come protagonista. Ha lavorato sia per la RAI che per Mediaset e la lista delle sue regie è molto lunga e prestigiosa: ricordiamo, fra le tante, i varietà “La sberla” (1978), la prima serie di “Drive In” (1983) da lui ideato, quindi “Grand Hotel” (1985), “I cervelloni” con Paolo Bonolis (1995), “Su le mani” (1996), “Per tutta la vita” (1997), “Fantastico” (1997-98), “Ci vediamo” su RaiUno ancora con Paolo Limiti (2000), “Ma chi erano mai questi Beatles” (2001) e due edizioni di “Domenica in” tra il 2003 e il 2005, “Suonare Stella” nel 2006.

Ha lavorato anche con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia dirigendoli nella loro ultima apparizione televisiva in coppia, “Avanspettacolo” (1992). Ha diretto inoltre anche la sitcom “Nonno Felice” con Gino Bramieri e per il cinema ha firmato la regia di un solo film nel 1976, “Vai col liscio”. Piccola curiosità: da bambino ha doppiato molti film e ha prestato la sua voce a Lee Aaker nella serie di telefilm Rin Tin Tin.

Per raccontare la costruzione di “Minissima 2010” lo abbiamo incontrato.

 

Gian Carlo Nicotra, come è nata l’idea di proporre in prima serata su RaiDue uno speciale intero dedicato a Mina?

“È partito tutto da Massimo Liofredi, direttore di Rai 2, che ha affidato a Paolo Limiti il racconto e la celebrazione dei 70 anni di Mina. Mi hanno chiamato per la regia e Paolo Limiti ha voluto tutto il suo solito gruppo di lavoro per il ritorno davanti alle telecamere”.

 

Quanto è stato importante per la riuscita del programma l’apporto di Paolo Limiti?

“Importantissimo perché “Minissima” era dedicata a Mina, ma il pubblico guarda Paolo Limiti indipendentemente. È stato fondamentale il suo contributo, anche perché ha raccontato molti episodi che lo hanno visto come protagonista, in quanto autore di molte canzoni di Mina. Avremmo potuto quasi chiamarlo Paolo Limiti Show, dal momento che parliamo di un presentatore preciso e professionale che ha voluto fare un omaggio alla bravura di Mina. Non solo al personaggio, ma soprattutto al talento! È stata magistrale la sua scelta dei brani nella scaletta, perché è stata coraggiosa e appropriata. Ha ricevuto vagonate di telefonate da persone che si complimentavano per questo motivo”.

 

“Minissima 2010” ha avuto un ottimo riscontro di pubblico ed ha catturato anche parte della fascia giovane del target di RaiDue. Qual è stato il segreto di questo successo?

“Effettivamente il risultato degli ascolti è stato stupefacente, certamente superiore alle aspettative, soprattutto se consideriamo che eravamo contro la finale di “Amici” su Canale 5! Paolo Limiti ha funzionato alla grande e le sue narrazioni, la sua curiosità hanno catturato l’attenzione di milioni di spettatori. Oltretutto Paolo ha dimostrato coerenza perchè si è portato dietro tutti i suoi amici cantanti in studio, come Nilla Pizzi, Orietta Berti ecc.”.

Lucia Ocone nella sua imitazione di Mina è riuscita a creare dei momenti di stacco tra un racconto e l’altro sulla vita della Tigre di Cremona. È stata importante per un ringiovanimento del linguaggio?

“Non avendo la vera Mina in studio, abbiamo pensato che forse un’imitazione ci stava bene! Ha sicuramente spezzato bene la musica. Le sue incursioni sono state apprezzate anche per la vicinanza al personaggio reale, ad esempio manifestando la propria noia per la trasmissione, così come ha fatto poi la vera Mina che scritto sulla Stampa di essersi annoiata dai fiumi di parole che l’hanno riguardata per la celebrazione di questi 70 anni. Dice di essere “sopravvissuta alla sua autopsia”.

La musica è stata caratterizzante nel corso della trasmissione e le immagini di repertorio che vedevano Mina nelle sue storiche trasmissioni Rai sono state il fulcro del programma. Com’è nata l’idea di dare un colore seppia a questi video in partenza in bianco e nero? È stata una vera e propria scelta stilistica o una necessità per amalgamare il racconto?

“Sicuramente c’era la necessità di amalgamare il colore dello studio al bianco e nero dei filmati di repertorio. Questo rosso strano che colora i filmati storici è piaciuto molto. Colorava tutto in modo diverso dal solito.

È nato un po’ per caso durante il montaggio e ci siamo resi conto che questo effetto tecnico funzionava. Paolo Limiti appena l’ha visto se n’è innamorato e ha voluto che tutti i video fossero così. Nel complesso è stata una trasmissione molto curata e abbiamo studiato tutto molto bene”.

 

Ci vuole parlare dei duetti virtuali che ritraevano anacronisticamente insieme Mina con Orietta Berti e Nilla Pizzi? È stato complesso realizzarli?

“Si è stato complesso in quanto abbiamo dovuto ricostruire virtualmente tutto ciò che era presente nel vecchio filmato e abbiamo anche dato un aiutino a Orietta Berti. Abbiamo ringiovanito il suo aspetto perché si vedeva cantare al fianco di una giovane Mina.

Io sono stato il primo in Rai a fare questa specie di “accrocco tecnico”. Lo feci per Claudio Villa che duettava con la figlia. Quindi ho dimestichezza con questo genere di effetto speciale. Abbiamo anche sostituito Alberto Lupo con Paolo Limiti nella sigla iniziale di “Minissima”.

 

Le uniche immagini recenti di Mina trasmesse nel corso del programma si riferiscono a “Mina in studio”, un backstage dell’incisione di “Oggi sono io” di Alex Britti.

“Questo filmato era bellissimo e funzionava già da solo, è bastato semplicemente mandarlo in onda così com’è. Paolo è stato magico nel raccontare la vicenda che ruota attorno a questa registrazione della canzone di Britti. L’ha presentata in maniera fantastica. Un filmato in piano sequenza fatto dal figlio, Massimiliano Pani. Ha documentato lo strepitoso talento della madre che, da seduta, canta per la prima volta splendidamente una canzone e la incide “buona la prima!”.

Rivedendo questi filmati ho rivisto proprio lei, Mina, la grandissima interprete.

Ogni parola è un successo e mentre canta è piena di tensioni e di sguardi. Ci si immedesima. Ho iniziato a lavorare proprio con Mina. Realizzavo dei brevi filmati in “Canzonissima ‘68”, all’epoca ero molto concentrato sulle questioni tecniche e avevo meno modo di apprezzare le esibizioni che vedevo attorno a me negli studi televisivi.

Oggi con l’esperienza mi diverto di più, mi rendo conto della grande artista che è Mina e noto molte sfumature che all’epoca non avevo colto così fino in fondo”.

 

Dal punto di vista televisivo Mina rappresenta nella memoria collettiva quella televisione alta, presa ad esempio come modello contrastante alla tv di oggi. Quali sono state le trasmissioni più belle, per stile, che ricorda con piacere?

“Canzonissima ’68, in cui come dicevo ho anche lavorato. Bella trasmissione, inquadrature che mi hanno insegnato moltissimo. Ho usato molte di quelle tecniche nella maggior parte delle mie trasmissioni, anche quelle di maggior successo come ad esempio Drive In.

Ricordo, inoltre, con piacere gli altri programmi di Mina Teatro 10, Studio 1 e Mille e una luci, anche se, in quest’ultima, nonostante fosse bravissima e professionale come al solito, lasciava trasparire una certa delusione per il mondo dello spettacolo e probabilmente aveva già maturato la decisione di abbandonare la tv”.

 

Avete mandato in onda per la prima volta i fotogrammi censurati nel video di “Ancora ancora ancora” sigla di “Mille e una luce” e avete dato ad essi il colore rosso. La censura e la Rai, un’accoppiata che si ripete ciclicamente…

“Sì, il colore rosso è servito più che altro per far capire quali fossero i fotogrammi censurati. Mina è stata molto colpita dalla censura, quasi danneggiata.

Oggi di censure ce ne sono altre, di un altro tipo. Certo, non ci sarebbero problemi per mostrare Mina che fa roteare la lingua sulle labbra, tant’è che abbiamo trasmesso queste immagini. In linea teorica non dovrebbe esistere la censura, ma penso che quella attuale non sia colpa della Rai. Ogni periodo è lo specchio della società”.

Tra le canzoni di Mina ce n’è qualcuna legata a qualche episodio della sua vita?

“Il cielo in una stanza”, mi sono innamorato di mia moglie con quella canzone! Adoro Gino Paoli anche come cantante, ma quella canzone interpretata da Mina ha un fascino incredibile! La prima versione quella più recitata con l’orchestra! Grande canzone di tutti i tempi!”.
*Dice di sé.
Vincenzo Scardapane. È nato libero. Quando ha compiuto scelte importanti vagliando tutte le variabili ha toppato. Quando ha preso decisioni con incoscienza e con passione ha avuto ragione. Ha spesso necessità di tornare a guardare il mare di Vasto, sua cittadina d’origine e si sente ben accolto da Roma. Ama il mondo della comunicazione ed un giorno sarà autore televisivo. Intanto scrive sul suo blog e per una rubrica di spettacolo sul sito vastoweb.com . È infinitamente grato ai suoi maestri per aver accolto la sua voglia di imparare. 

 

ROBERTO GERVASOIl successo che più c’invidiano è quello che abbiamo meritato.
(Da “Il grillo parlante”, 1983)
CINEMA Barbara Lay - Ferzan Ozpetek, regista di anime

Gli attori sono creature di un’altra Terra, non si devono capire, bisogna amarli e basta

Il regista turco Ferzan Ozpetek è uno dei cineasti più amati, apprezzati e discussi della nostra epoca. Dopo l’uscita, trionfale al botteghino, di “Mine vaganti”,

proponiamo varie riflessioni su di lui, a tutto campo:

un’intervista della giornalista e scrittrice Laura Delli Colli,

firma di “Panorama”, che lo ha conosciuto molto bene e gli ha dedicato un bel libro; i pareri di molti attori, ma anche scenografi, musicisti e colleghi

che hanno lavorato con lui; le recensioni quasi sempre elogiative di importanti critici, tra gli altri Natalia Aspesi, Lietta Tornabuoni e Tullio Kezich.

Con una feroce stroncatura finale di Pierluigi Magnaschi, direttore di “Italia Oggi”, un giornalista amante del cinema e (non solo per quanto riguarda

il cinema) abituato ad andare controcorrente, senza soggezione di alcun tipo.

 

 

a cura di Barbara Lay*

 

Vedere e ricordare. Conversazione con Ferzan Ozpetek1

 

Laura Delli Colli

 

Cominciamo al buio: la prima volta in una sala cinematografica?

“Avevo più o meno sette anni. Ricordo il film, era Cleopatra, e una grandissima emozione. Il cinema mi ha conquistato lì, da bambino, a Istanbul, in quella sala del quartiere. Appena sono cresciuto un po’, ci andavo due, tre volte alla settimana: mettevo da parte i soldi per il biglietto e intanto sognavo di poter fuggire via per studiare quel mondo, imparare quel mestiere. Sognavo di andare in America, poi ho scelto l’Italia, Roma. Ha vinto il richiamo di un Paese che allora sentivo molto vicino alla mia cultura, al mio modo di essere”.

 

Ferzan Ozpetek, turco, vive in un Paese che lo considera un regista a tutti gli effetti italiano. E ama molto il suo cinema, le sue storie, il suo mondo…

“Un amore perfettamente ricambiato. E un luogo dove le mie storie nascono dalla vita quotidiana: il mio cinema nasce dalle storie che mi passano davanti agli occhi. A volte basta salire su un autobus per scoprire il tuo film. E io, con le mie storie, racconto emozioni, sentimenti, amicizie, amori, giovani e vecchi, uomini e donne”.

 

Molte donne, soprattutto. In una serie di ritratti, che pochi registi hanno regalato alle loro attrici.

“Le mie attrici. Con loro nasce un rapporto intimo, di confidenze e di affetto che, quando il film si avvicina all’ultimo ciak, diventa malinconico. Un po’ come quando si avvicina la fine di un amore. Ma difficilmente ci perdiamo. È il mio modo di vivere gli affetti. Non mi piacciono le separazioni, non voglio addii ma, anzi, vorrei sempre tutti nel cerchio. Un po’ come succede nell’amore: così come non esiste un motivo preciso per cui ti innamori, è difficile a volte capire perché un sentimento cambia. Ma l’importante è che il mistero di quel legame resti, che nessuno si perda. Sul set e nella vita io entro in quel mistero e cerco di restarci il più a lungo possibile”.

 

Le attrici sono anche amiche: Margherita Buy, Isabella Ferrari, Valeria Golino, Serra Yilmaz, Stefania Sandrelli, Milena Vukotich, Ambra Angiolini…

“Sì, vorrei che, dopo ogni film restassero sempre nella mia vita. E un po’ accade. Vorrei dire una parola per tutte: per la bellezza di Valeria, l’ingenuità meravigliosa di Stefania, il carattere unico di Serra, la precisione assoluta di Barbora, la sensualità di Isabella, la freschezza ribelle di Ambra, il fascino e la professionalità di signore come Lisa Gastoni, Milena Vukotich, Lucia Bosé, la naturalezza di Margherita…

Lei la vorrei sempre con me, è grandissima nel suo modo di far diventare vita quotidiana, “normale” anche la pagina più scritta. Ho un debole per le mie attrici”.

Le attrici. E gli attori. È vero che l’incontro con loro passa attraverso il test dell’amicizia, della confidenza, della grande sintonia personale?

“Voglio rispondere con le parole che ho detto quando ho ritirato il David di Donatello per un grande attore e un amico fraterno, che era appena scomparso, come Massimo Girotti, protagonista de “La finestra di fronte”: gli attori sono creature di un’altra Terra, non si devono capire, bisogna amarli e basta. Ed è proprio vero: ci sono, non ci sono, ti amano, spariscono. Ma non lo fanno per convenienza. Hanno piuttosto una loro innocenza, che mi conquista e mi incuriosisce. Massimo Girotti ce l’aveva nello sguardo: trasparente e a volte perduto come la solitudine di certi vecchi del mio quartiere. Liquido e lontano come quello che ho visto negli occhi di mio padre quando la sua memoria è svanita.

Con gli attori ho un rapporto speciale anche dopo il set: sono il mio debole e non escono mai dalla mia vita. Quasi tutti i giorni sento al telefono o scambio un sms con Stefano Accorsi, che ritengo un grande attore italiano. Ho un debole per gli attori, me ne innamoro e mi lascio sedurre e divento pazzo di gioia se mi raccontano che uno o una di loro, alla fine, ha lavorato con qualcun altro ma ha dato il meglio proprio con me.

Mi ha fatto piacere sentirlo dire di Pierfrancesco Favino, dopo Saturno contro e di Valerio Mastandrea, che ho voluto diverso anche fisicamente: per quel ruolo l’ho mandato sei mesi in palestra. Chi vorrei oggi in un mio film? Forse Toni Servillo, tragicomico, un attore di assoluta lievità anche quando recita per tre ore su un palcoscenico teatrale. E, certo, Sergio Castellitto. Che è bravissimo”.

 

La memoria: perché è un valore centrale nel cinema di Ferzan Ozpetek da Hamam alle Fate, da Harem Suaré a La finestra, da Cuore sacro a Saturno contro e Un giorno perfetto…

“Perché il suo valore si è perso. Qualsiasi cosa si voglia sapere, oggi, si cerca su Internet, non nei racconti di un vecchio. Chissà, a volte penso che tutto sia finito con le tecnologie: io che non saprei rinunciare a un sms o a una e-mail sono convinto che proprio la grande rete e la comunicazione globale abbiano smorzato molte emozioni. Per esempio, l’attesa di un incontro, la poesia di una parola scritta con carta e penna, una certa dilatazione del tempo che una volta lasciava più spazio al pensiero, alla riflessione, anche al ricordo.

Memoria, per me, sono per esempio gli oggetti che attraversano i miei film: è un piccolo gioco, un fil rouge che lega tutto… L’anello da fumo che si vede in Hamam riappare in Harem Suaré, il pesciolino rosso nel piccolo globo di vetro che Lorenzo gira tra le mani mentre sta finendo di vestirsi, in camera, prima di raggiungere gli altri per l’ultima serata con gli amici riappare nelle mani del bambino di Emma in Un giorno perfetto. Memoria: una grande lezione l’ho avuta proprio da un uomo elegante e di altri tempi, anche cinematografici, come Massimo Girotti. E quando penso a lui, ancora mi commuovo”.

 

Le emozioni, il pianto, la tenerezza: perché spesso nei film di Ferzan Ozpetek appartengono agli uomini?

“Sono emozione, sincerità, sono quello che abbiamo dentro… E i sentimenti, i turbamenti, il dolore, così come la passione e l’amore non hanno sesso. Io non riesco a girare se non mi emoziono. E non riesco a comunicare un’emozione se non posso condividerla. Quando penso agli attori e al lavoro che un regista fa con loro penso a un ballo, sì, a un tango… Si comincia stando attenti a trovare una sintonia con la musica. Poi non ci si pensa più e ci si abbandona in modo naturale. Emozioni e sentimenti etero o omo? Voglio dirlo sinceramente: io racconto la vita, le persone, le loro storie. Non le storie gay, come qualcuno dice e scrive, piuttosto che quelle etero o bisessuali. Una volta, credo fosse in Turchia, mi hanno chiesto se nel mio nuovo film avrei raccontato ancora personaggi e amori gay. Perché, ho risposto, non mi chiedete se ci saranno eterosessuali? A volte sento molta ipocrisia e conformismo intorno a questi temi. Ed è proprio questo che non sopporto: sì, francamente credo di aver dimostrato, in Saturno contro, di essere assolutamente stufo del cosiddetto “politically correct”.

 

Da Hamam a Un giorno perfetto, un cinema di passioni mai vissute con leggerezza: incontri rubati, il dolore di una separazione inattesa, il lutto, la violenza e l’orrore disperato di una tragedia finale di un uomo, un marito e un padre, che non riesce ad accettare il distacco dopo la separazione. È sempre così, nella vita, quando un amore svanisce?

“Ho letto che esiste un insetto che, per com’è fatto, non potrebbe volare eppure vola perché non sa che non può volare. Ecco, prima, quando ero più giovane io ero così. Oggi, invece, so che non posso volare e quindi devo fare uno sforzo, capire, ragionare e tentare di volare. Magari con una coscienza diversa, con più maturità. Ma cercare di volare comunque. Per esempio anche in amore: finisce il desiderio, non l’amicizia o il sentimento di affetto di un rapporto che ha avuto un senso. Nel mio cinema il tema è, in fondo, sempre questo. E la violenza, il dolore che si respira nelle storie che racconto, non sono altro che la quotidianità che attraversa la nostra vita. Sono il primo a pensare che un po’ di leggerezza farebbe bene. Anche al mio cinema. Ma non solo”.

 

Oltre agli amori infelici e al dolore, un profondo senso etico, perfino religioso. Come mai un turco che si dice laico e racconta storie con un forte senso della cristianità ha in casa una Madonnina e un piccolo Buddha?

“E un candelabro, e tanti altri oggetti di culto che compro e tengo in casa perché ho un forte rispetto del sacro. Sono nato a Fenerbahçe, a Instanbul, dove c’è la chiesa e la moschea, tra gli armeni e i musulmani… In un certo senso, nel mio amore per gli altri mischio tutte le religioni. Penso che ogni cosa abbia un’anima. Un’idea che viene forse dalla mia tata musulmana: quando mangiavo il riso mi tormentava perché non voleva che ne lasciassi neanche un chicco nel piatto. Mi diceva che quelli che non venivano mangiati piangevano. Mi viene da ridere a pensarci, ma ho rispetto anche per loro. Così come ce l’ho da sempre per il sacro e per il credo di ogni religione. Sono contro l’integralismo, la violenza, i nazionalismi religiosi. E tutti i sentimenti di intolleranza del mondo”.

 

Dal credo di Ferzan Ozpetek: “Guardare non basta, bisogna vedere”. Cosa significa?

“Che sapere vedere è quello che conta. Vedere e ricordare. Ma soprattutto sapere leggere negli occhi di chi ti sta intorno. Io voglio vivere con gli occhi aperti. E in piena luce. Ferzan in turco è una parola che indica la prima luce dell’alba e l’ultima prima del tramonto. Mi è tornato alla mente, ora che penso molto in italiano, quando ho letto Le memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar: “Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più…”. Ecco, quella pagina mi commuove ancora e mi fa riflettere. Mi fa dire che voglio vivere sempre con gli occhi aperti, provare tutto. Fermandomi, però, sempre un attimo prima di perdermi”.

Se non avesse fatto il regista, chi sarebbe stato Ferzan Ozpetek?

“Chissà, forse il cuoco o l’artista. Amo molto la sensualità della cucina: amici, sesso, gusto, tavola, buon cibo. A casa come al cinema. Ma avrei potuto fare anche il pittore: mi piacciono Picasso e Magritte, Hopper ma il mio preferito è Bacon. Confesso che il quadro delle Fate ignoranti, che si vede nel film, l’ho dipinto io. Per due anni, da studente, ho vissuto vendendo anche i miei quadri, mentre lavoravo mezza giornata nella bottega di un corniciaio. Dipingevo ritratti e nell’espressione dei miei soggetti cercavo sempre di fare vedere cosa avevano dentro. Poi ho smesso. Ora i miei film nascono intorno alla tavola, da una parola all’altra, da un piatto all’altro ecco nascere l’idea del nuovo film”.

 

A proposito, i film e i registi del cuore?

“Nel cinema italiano almeno tre titoli e tre maestri: “Il segno di Venere” di Dino Risi, “Parigi, o cara” di Vittorio Caprioli e “Matrimonio all’italiana” di Vittorio De Sica. Ma non posso dimenticare certi incontri agli inizi della storia: per esempio con Marcello Mastroianni, che ho seguito alcuni giorni muovendomi felpato intorno al suo fascino e alla sua disarmante naturalezza. O con Elio Petri, già ammalato e un po’ intristito, quando mi invitava da Ruschena, il bar sul Lungotevere vicino a piazza Cavour, e con un gelato passeggiavamo insieme al sole. Anche da quelle chiacchierate ho imparato a conoscere il cinema. E a capire che questa è la mia storia”.

1) Pubblichiamo per gentile concessione dell’editore uno stralcio dal libro “Ad occhi aperti”, di Laura Delli Colli (Mondadori Electa, 2009). Riproduzione riservata.

 

Dicono di lui

 

Ambra Angiolini, conduttrice, cantante e attrice. Ha esordito come enfant prodige presentando la celebre trasmissione “Non è la Rai”, da quel momento si è sperimentata in tutti i campi dello spettacolo. L’incontro con il grande cinema l’ha avuto con Ozpetek nel film “Saturno contro”.

 

“Quello che si ha con Ozpetek è un incontro speciale, sia per chi è stato scoperto da poco che per attori con molta esperienza. È un incontro che ti fa guardare te stesso in modo diverso, è come un passaggio, una porta che si apre e fuori c’è qualcosa di bello, di affascinante. Ozpetek ti da quella sicurezza che fino a quel momento non credevi di avere, riesce a tirare fuori il tuo meglio.

È un incastro strano, forte, che potrebbe anche diventare scontro, è attivo, non certamente una via di mezzo; una persona che ricorderai per sempre, unico (senza voler essere patetica, dico sul serio). Con lui devi solo essere generoso e disposto al confronto con te stesso.

Come con i suoi film, ti siedi e pensi, ed hai la sensazione di essere il protagonista del film. Prima di lavorare con lui sognavo di incontrarlo un giorno professionalmente. Nei suoi film lo spettatore non è raggirato, ma totalmente libero, è una mente contorta, geniale.

Umanamente ti porta ad allontanarti, contrariamente a quanto si possa pensare di me, sono timidissima, non riuscirei mai ad avere un atteggiamento confidenziale con i miei maestri. È lui che decide chi e quando far entrare nella sua vita. E lavorando nei suoi film si crea come una confidenza di anni, tutto è facile, mentre invece nella vita reale non potrebbe succedere.

Dopo il film ho patito il rapporto con lui, mi sono accorta che gli volevo bene davvero, è come quando guardi un film e alla fine senti un senso (ingiustificato) di abbandono; ho pensato anche di essere matta, non riesci più a distinguere la realtà dal cinema, è difficile, ma poi è passato. Sa sempre dirti ciò che vorresti sentirti dire, ha un modo di vedere le persone senza stereotipi, non giudica e in questo modo non dà la possibilità di giudicare in modo negativo gli altri”.

 

Andrea Crisanti storico scenografo, ha iniziato la sua lunghissima carriera alla fine degli anni ’50. Ha lavorato al cinema, in tv e in teatro. Ha firmato per Ozpetek le scenografie di “La finestra di fronte”, “Cuore sacro” e “ Mine vaganti”.

 

“Ho conosciuto Ferzan nel 2001 negli uffici di Tilde Corsi, quando mi proposero per il film “La finestra di fronte”. Avevo visto i suoi film e da tempo ero rimasto affascinato dalla sua cinematografia. Mi erano piaciute certe sue pause nel raccontare dettagli in ambienti realistici e sognanti, in una natura reinventata per dei personaggi che a volte galleggiavano senza peso in quegli spazi ricreati, che a volte affogavano repentinamente in vortici drammatici. Ho amato certe sue inquadrature viste non da un obbiettivo, ma da un occhio attento, lacrimante, commosso: uno sguardo che altera una visione della vita di per sé stessa distorta, ma riconducendola ad una regola umana e d’amore.

Il nostro primo incontro fu affettuosissimo e sincero: come disse in seguito gli piacqui subito per una certa mia eleganza disordinata nel vestire e nel mio portamento disinvolto e disinibito. Mi giudicò per quello, non per le parole che ne seguirono, né per i racconti di film fatti nel passato. Mi diede fiducia, non fu mai assillante nelle sue richieste riguardanti il mio lavoro.

Ho cercato sempre di non tradire questa sua fiducia, senza sforzo né egoismo, perché fu chiaro da subito che qualsiasi intuizione creativa nella faticosa costruzione del nostro lavoro nasceva insieme nello stesso momento nelle nostre menti, senza prolungamenti o spiegazioni per richieste improvvise. Abbiamo avuto sempre una stessa visione del bello, e a lui bastava guardarmi negli occhi per capire la mia contentezza per una scelta artistica.

Negli altri due film fatti insieme “Cuore sacro” e “Mine Vaganti”, ho cercato sempre di mantenere questo equilibrio di affinità creativa, da una parte per ottenere un valido risultato estetico secondo i suoi desideri e dall’altra parte per godere nel mio animo di quella gioia ed emozione professionale, a volte fanciullesca, che in decenni di lavoro cinematografico spesso si perdono”.

 

Andrea Guerra musicista e compositore, ha curato tantissime colonne sonore anche per film internazionali. Ha composto le colonne sonore di “Le fate ignoranti”, “La finestra di fronte”, “Cuore sacro” e “Il giorno perfetto”.

 

“Ozpetek è un regista con cui ho avuto un sodalizio importante. I suoi film che trattano i temi universali e non trame, con la forza delle immagini oltre che quella della parola, sono il palcoscenico ideale per un compositore. La cosa che lo contraddistingue sono i ritratti femminili, sempre il centro delle sue storie con tutte le sfumature possibili. La ricchezza di quelle introspezioni ha reso molto eloquente il mio lavoro per lui. Le sue ambientazioni molto “sociali “ ed “etniche” e fanno sempre sentire lo spettatore vicino al suo modo di raccontare. Per questo, anche quando gira commedie o film più drammatici ci si sente molto coinvolti e si partecipa personalmente alle emozioni”.

 

Massimo Poggio, ritenuto uno degli attori italiani più belli, ha avuto una lunga gavetta in teatro, pubblicità e fiction tv; il suo debutto ufficiale al cinema è stato ne “La finestra di fronte”.

“Ho conosciuto Ozpetek in una pubblicità, era il 2000 e giravamo uno spot per le poste italiane. Da quella collaborazione ho avuto la possibilità di lavorare nei suoi film e da lì è nata la mia conoscenza del vero cinema. “La finestra di fronte” è stato il mio primo lavoro importante a livello cinematografico: avevo un ruolo apparentemente secondario, interpretavo Massimo Girotti da giovane, in realtà è stato molto importante come chiave del film.

Dopo c’è stato anche “Cuore sacro”. In una parola per me Ozpetek è il cinema. Con lui sono entrato in un’altra dimensione professionale. In apparenza Ferzan non ha un metodo nel dirigere gli attori, si affida alla sensibilità di ognuno, pretende molto, come è giusto che sia. Agli attori dice “Se mi emoziono io vuol dire che la scena è emozionante”, questa frase mette contemporaneamente panico ed esaltazione nell’attore. Non ammette compromessi. Ha un approccio intenso con quello che si va a fare: per me, che venivo dal teatro e dalla fiction, è stata una scuola, un insegnamento, un altro linguaggio. Dopo avere lavorato co lui ho fatto un salto di qualità e sento che sono aumentate le mie responsabilità rispetto all’essere attore”.

 

Elena Sofia Ricci attrice, ha interpretato molti film e fiction di successo, vincitrice di un David di Donatello come miglior attrice protagonista nel film di Luciano Odorisio “Ne parliamo lunedì”. È tra i protagonisti di “Mine vaganti”.

 

“Non avevo mai lavorato con Ferzan, ma sognavo di poterlo fare da tempo. Lo stimavo come regista e ora, dopo averci lavorato lo amo. Attraversavo un momento nel quale sentivo la necessità di confrontarmi con un personaggio diverso da quelli che normalmente interpreto e lui mi ha dato questa opportunità. Gli sono grata per due motivi, il primo è avermi chiamata, il secondo è avermi dato una parte (una zia zitella alcolizzata) originale, diversa da me, che nessun regista avrebbe mai pensato di affidarmi.

Ferzan è capace di individuare le caratteristiche recondite di un attore, riesce a scovare le sue particolarità e riesce a far vibrare corde che nessuno ha mai suonato. Mi è piaciuta anche la sfida di accostare attori che normalmente nessuno avrebbe riunito in un film, e il risultato è stato quello di riuscire a tirare fuori il meglio da ciascuno di noi.

Ferzan che è ironico e sarcastico, emozionante e commovente allo stesso tempo”.

 

Michelangelo Tommaso giovane attore, protagonista di fiction tv, ha interpretato il ruolo di un omosessuale in “Saturno contro”.

 

“Ozpetek è come un grande direttore d’orchestra: guida tanti strumenti diversi che, grazie al suo tocco magico, suonano formando un’unica melodia, senza nessuna stonatura. Oltre ad essere un ottimo regista, ha anche la capacità di creare un’atmosfera profondamente accogliente sul suo set, e noi attori ci siamo spesso sentiti avvolti da questa sensazione di familiarità e calore di stampo familiare, rispettando anche le ritualità delle grandi famiglie numerose, come i pranzi e le cene, passati rigorosamente tutti insieme. Devo dire che la dimensione corale che tanto lo contraddistingue nei suoi film si respira anche sul suo set”.

 

 

La critica dice di lui

 

Massimo Benvegnù, critico cinematografico, giornalista, collabora con la biennale di Venezia, lavora anche nell’industria musicale e collabora allo sviluppo di film per una casa di produzione inglese.

 

“Al debutto ci accorgemmo subito di Ferzan Ozpetek, della sua voce autoriale già forte e chiara. Il suo cinema poteva magari continuare a rincorrere tematiche simili, ma raccoglieva successi pur mantenendo un certo rigore formale, il che era già molto. Mi sembra invece che, abbandonato il sodalizio artistico col produttore Gianni Romoli, l’ultimo Ozpetek mainstream sia più preoccupato a correre verso i gusti del pubblico di massa piuttosto che a convertirlo al cinema d’autore, ed è un po’ un peccato, perchè potrebbe sfruttare di più la sua posizione ormai consolidata”.

 

Mauro Conciatori, regista, sceneggiatore e critico cinematografico. Direttore del magazine on-line ZabriskiePoint, direttore artistico de “L’AltroCinema FilmFestival”, organizzatore di “Primo Piano sull’Autore” rassegna del Cinema italiano di Assisi, è stato aiuto regista di Michelangelo Antonioni.

“Ferzan Ozpetek e il cinema della vita im/perfetta. 8 film nell’arco di 13 anni. Dal 1997 ad oggi questa è la produzione dell’autore turco di nascita, ma italiano (e romano, anzi testaccino per la precisione) d’adozione.

Una produzione degna di nota e che regala agli spettatori un film ogni due anni. E in particolare negli anni pari a parte i primi suoi due film del 1997 e del 1999. Dal 2000 in poi con precisione svizzera il bravo Ferzan non perde un colpo. Ma questo sia da un punto di vista di quantità che di qualità. A parte forse il controverso “Saturno contro”.

Un film non del tutto riuscito che partendo da basi solide si attesta, però, su un borderline che naviga un po’ troppo a vista senza chiudere mai il cerchio.

Quel cerchio che in un modo o nell’altro si chiude in tutte le sue storie. Storie che parlano di sentimenti alti, di sentimenti quotidiani, di sentimenti diversi… ma non diversi solo per il fatto che ci mostra il mondo di “amori omosessuali”, diversi perché spaziano in ogni luogo, tempo, anima con uno spessore di rara intensità e di rara potenza assurgendo i protagonisti delle sue storie a veri eroi “dell’anima”.

 

Tullio Kezich, La Finestra di fronte – Corriere della sera, 2003

Per vedere un bel film italiano bisogna che venga a girarlo un turco? Di “La finestra di fronte” Ferzan Ozpetek firma anche il copione con il produttore Gianni Romoli. Ambientato a Roma, il film è intonato a una costante intensità di sentimenti. Il tema alla Hitchcock della finestra che si apre su altre realtà (vengono in mente anche gli sguardi di Marcello e Sophia attraverso il cortile in “Una giornata particolare” di Scola) è svolto con estrema finezza di notazioni.

Gli interpreti sono straordinariamente partecipi, Bova ogni volta più maturo, la Mezzogiorno che all’immagine incantevole accoppia un mordente da vera figlia d’arte. Però la figura per cui “La finestra di fronte” si colloca da subito fra i film che resteranno è quella di Massimo Girotti (scomparso il 5 gennaio scorso), che dopo essere stato l’eroe dell’Italia fra guerra e dopoguerra rinnova ora la memoria di quegli anni. Pochi attori hanno incarnato in modo così completo l’intero palpito della vita di una nazione; e Massimo, sublime di dolcezza e vulnerabilità, esce di scena alla grande facendo l’ultimo dono a un cinema che si era dimenticato di lui.

Natalia Aspesi, Un giorno perfetto – La Repubblica, settembre 2008

Un giorno perfetto è il primo dei quattro film italiani in concorso a Venezia, è diretto da un regista ammirato e fortunato come Ferzan Ozpetek, è stato tratto dal bel romanzo dallo stesso titolo di Melania Mazzucco, riunisce bravi attori italiani, racconta una sconvolgente tragedia familiare di quelle che purtroppo sono diventate frequenti fatti di cronaca: gli applausi sono stati interminabili alla conferenza stampa e alla serata per il pubblico, c’è stato qualche dissenso nella proiezione del pomeriggio; il film è in partenza per il festival di Toronto da dove dovrebbe avere un lancio internazionale.

Allora perché non ha dato a molti spettatori quel senso di compiutezza, di incanto, d’intensità, se non del capolavoro, ormai molto raro, almeno dell’opera perfettamente riuscita? Sono i misteri indecifrabili del cinema, soprattutto quando ci si aspetta che un film emozioni, coinvolga, che ci dica di più e più profondamente di ciò che sappiamo.

 

Lietta Tornabuoni, Saturno Contro, La Stampa, marzo 2006

Il gruppo d’amici protagonisti, quasi tutti appartenenti alla generazione dei trenta-quarantenni, è composto da un bancario, una psicologa, uno scrittore di successo, una traduttrice-interprete, un inoccupato che vive d’una piccola rendita, un pubblicitario, una grafica appassionata d’astrologia, un poliziotto, un laureato in medicina, la proprietaria d’un elegante negozio di fiori. Non hanno in comune alcuna di quelle condizioni che fanno e alimentano l’amicizia, non il quartiere né gli studi o le vocazioni, non le esperienze, le passioni né la classe sociale: questo fa sì che il gruppo appaia alquanto eterogeneo, discorde. Pare che sia comune a tutti soltanto la cucina e la voglia di smettere di fumare.

L’elemento di condensazione è lo scrittore di successo: nella sua bella casa amici e amiche si riuniscono, cucinano, mangiano, chiacchierano: stancamente, perché l’amicizia, come le loro vite, pare in crisi oppure logora, stanca delle abitudini e della ripetizione. Il film imperfetto, trascinato, ha qualche buona battuta. Uno dice, spaventato dal futuro: “Voglio che tutto rimanga com’è”. Ambra si loda: “Io esagero sempre, è il mio unico pregio”. Il padre del ragazzo morto (Luigi Diberti) alla fine vince il pregiudizio, abbraccia lo scrittore: “Sia forte”. “Ma tu di che segno sei?” è la domanda di rigore. Se c’è un merito, sta negli attori, quasi tutti bravi: Accorsi-Buy formano una coppia classica, Ambra Angiolini ha naturalezza e fascino, Isabella Ferrari si vorrebbe vederla più a lungo, Serra Yilmaz è come al solito una macchietta. E la nuca di Pierfrancesco Favino, su cui la macchina da presa indugia, è come il dipinto della malinconia.

 

 

Curiosità

 

È uno dei pochi artisti internazionali a gestire personalmente il suo sito web ferzanozpetek.com

 

All’uscita del film “Cuore Sacro” ha convinto la distribuzione (Medusa) a non fare alcuna festa e ad devolvere quel de­naro per aiutare la comunità Sant’Egidio che aiuta persone bisognose.

 

Sul set di “Mine vaganti” Ozpetek faceva tagliare i capelli ogni giorno a Riccardo Scamarcio, il quale aveva dichiarato che avrebbe lasciato il set se gli fossero stati tagliati ancora i capelli, ma poi non ha lasciato il film.

 

Alessandra Menzani per “Libero”, aprile 2010

La sera di Pasquetta, Cristiano Malgioglio è andato al cinema a vedere il film di Ozpetek “Mine Vaganti”. Ma è rimasto deluso: “Basta, non ne posso più di film sui gay”.

 

 

Aforismi di Ferzan Ozpetek

 

Sono nato nella capitale dell’Impero romano orientale e abito in quella occidentale… come dire: sono fortunatissimo.

 

Nella vita trascino molto i miei rapporti, non posso accettare una separazione tra persone che per dieci anni hanno condiviso il letto. Credo che vi sia un modo per accettare una separazione, per viverla.

 

La politica non mi piace, mi irrita. La solidarietà fra gli esseri umani, il volontariato, credo che abbiano molto più valore.

 

Sul set seguo soprattutto l’istinto e l’emozione, non mi preoccupo più di tanto di ricordare qualcosa o qualcuno.

 

Cresco sempre di più avendo le persone accanto a me: amici che fanno parte della mia famiglia. Sono molto fortificato da queste persone con cui condivido tutto. Non ci sono cattiverie perché ci siamo scelti. Le persone che non mi piacciano non le frequento.

 

Ho sentito molto il film (Cuore Sacro), lo volevo fare assolutamente e volevo che riflettesse le domande che mi accompagnano ultimamente, sul senso della vita, la paura della morte, su cosa succede alle persone che non ci sono più e quali segni lascino nelle nostre esistenze. Non so se sono riuscito a dare delle risposte.
*Dice di sé.
Barbara Lay. Laureata in architettura, da grande farà l’attrice.

 

ANDREA CAMILLERIIo sono stato povero e ho conosciuto il successo in tarda età.
Tutto è arrivato tardi nella mia vita, e questa è una fortuna:
mi sento come di aver vinto alla Sisal.
Il successo fa venire in prima linea l’imbecillità.
(Da “Il Venerdì di Repubblica”, 2002)
Pierluigi Magnaschi - Ma c’è chi la pensa molto diversamente

Pierluigi Magnaschi, direttore di “Italia Oggi”, ha pubblicato sul suo quotidiano la recensione per niente entusiasta di “Mine vaganti” (1) definendolo, in una battuta, una grande marchetta

Pierluigi Magnaschi*

Ozpetek sta finendo la benzina. Fatto dimenticare lo straordinario (ma, ahimè, purtroppo anche lontano) e promettente exploit delle “Fate ignoranti” il regista turco-italiano avanza con difficoltà, ballonzolando senza meta con la sua macchina da presa in mano e riproponendo il suo solito cocktail: omosessualità (maschile e femminile. È un bipartisan, lui, che credete?) e tavole imbandite, un incrocio fra Aldo Busi e Gualtiero Marchesi.

D’altra parte come si fa ad essere delle “mine vaganti” se il protagonista principale è un pesce lesso? Mi riferisco a Riccardo Scamarcio, il belloccio che ha il pregio di riempire le sale di adolescenti adoranti, ma che fa anche deragliare qualsiasi film. Certo, non si può avere tutto, dalla vita. Anche questo è vero. Ma tutto ha un limite. In questo film, la sequenza meglio riuscita a Scamarcio è stata quella di qualche palleggio con il pallone da calcio nel cortile della fabbrica del padre. Come goleador, avrebbe potuto avere, forse, un grande futuro. Purtroppo Scamarcio si è ostinato a fare l’attore.

Il film ci mette quasi due ore per consentire al figlio primogenito (e da lungo tempo maggiorenne) di un’industriale pugliese della pasta, di trovare il coraggio per dire al padre che lui è gay e per venire a capo ai coccoloni del genitore, nonché al disonore che si è abbattuto sulla famiglia.

Ci vuole la morte della nonna (Ilaria Occhini), un’ottantenne antesignana ed aperta a tutto, che seguiva con trepidazione e soffice incoraggiamento, le caute gimcane sessuali delle figlie e quelle più coraggiose dei nipoti, per ricucire, davanti alla bara della signora stessa, la ferita tra figlio e padre che, sembrava insanabile fino a quel punto e che, fortunatamente coincide con la fine del film. Questa è una trama che sarebbe stata rifiutata persino dagli sceneggiatori dei fotoromanzi di “Bolero” che pure non andavano tanto per il sottile.

Questa storia contemporanea e contorta di omosessualità nascosta e consumata con vergogna negli anfratti, è stranamente ambientata a Lecce, la smaliziata città barocca pugliese che si trova nell’area dove è stato eletto, per ben due volte, a suffragio universale, come presidente della Regione, Niki Vendola. La popolazione pugliese è così poco anti-gay da votare, senza fare nemmeno un plisset, un presidente di Regione con l’orecchino, omosessuale dichiarato, felice e in pace con se stesso, angustiato solo dalle trappole che continua a tendergli Massimo D’Alema e non certo dalle sue scelte di carattere sessuale.

La zia, alcolista dichiarata, deve bere duecento bicchierini per riuscire far capire il suo stato. Alla fine, stanco di vederla ingurgitare alcolici, lo spettatore, esausto, si sente un po’ brillo anche lui. Un regista accorto, per descrivere che una persona è alcolizzata, ci avrebbe messo due sequenze senza dover ricorrere nemmeno a un bicchiere.

E che dire delle battute che sarebbero state rifiutate anche da un avanspettacolo? Ad esempio, un tizio (gay) dice all’altro tizio (anche lui gay): “Tu sei un principe del foro anche senza essere avvocato”. E che dire di Ilaria Occhini, ch qui recita la parte della nonna ultraottantenne? È una figurina dipinta e ridipinta da Ozpetek perché si capisce bene che non sa che cosa farsene pur avendola immaginata come il leit motiv del suo film. La Occhini è cosi ripiegata sulla sua faccia deliziosamente incartapecorita che il regista riesce a riprenderla insistentemente davanti a uno specchio triplo in modo che la si può contemporaneamente vedere sia davanti, sia sul lato destro che sul lato sinistro. Una specie di tomografia assiale computerizzata non invasiva, realizzata con la macchina da presa e di cui non si capisce la finalità. La controfigura giovane dell’Occhini poi, lungo una catena infinita di flash back, attraversa, in lacrime e vestita da sposa, l’intero film, disturbando ogni sequenza in un modo cosi devastante che ti verrebbe di chiedere l’abolizione per legge dei flash back, visto l’abuso che se ne sta facendo.

Il film si è avvalso del contributo della Regione Puglia che è stato giustificato come promozione turistica per quest’area per cui Ozpetek, quando abbandonava una delle sue tavole imbandite, assoldava un’autista (che, in questo caso, è una sciamannata anoressica alla guida di un’Alfa Romeo coupé) con lo scopo di scarrozzare Scamarcio lungo le bellissime strade di Lecce o lungo le coste della Puglia. Insomma una grande marchetta.

1) “Mine vaganti” di Ferzan Ozpetek, con Riccardo Scamarcio, Nicole Grimaudo, Ennio Fantastichini, Alessandro Preziosi, Ilaria Occhini.
*Dice di sé.
Pierluigi Magnaschi, piacentino di nascita, milanese di adozione, apolide di testa, è stato costretto dalle circostanze ad organizzare il lavoro degli altri: è stato capo della Finanza ad “Avvenire”, redattore capo di “Tempo illustrato”, direttore de “La Discussione”, condirettore de “il Giorno”, vicedirettore de “La Notte”, direttore della “Domenica del Corriere”, di “Italia Oggi”, di “MF- Milano Finanza” e infine, per sette anni, dell’“Ansa”. Ora è di nuovo direttore del quotidiano “Italia Oggi” oltre che vicepresidente operativo di “Class Editori” e docente al master di Giornalismo della Luiss. Nei ritagli di tempo (che non ha) gli piace vedere film e scrivere di cinema. 

NINA ZILLI

Se il successo finirà, sono laureata,
vorrà dire che mi dedicherò ad altro. Nessun problema.
(Da “lospettacolo.it”, 2009)

LIBRI Antonella Parmentola - La preziosa eredità di Aldo Manuzio

In un Paese in cui si leggono sempre meno libri, proviamo a capire quale sia realmente lo stato di salute della nostra editoria. Ecco le testimonianze di chi lavora ogni giorno in prima linea: in primo luogo il direttore editoriale di Mondadori, il colosso dominante nel settore, e poi i rappresentanti di alcune case editrici che, con diverse identità (Avagliano, Gremese e Ponte alle Grazie) mostrano sul mercato un apprezzabile spirito di iniziativa

Antonella Parmentola*

Chissà se Aldo Manuzio, quando sul finire degli anni ’90 del 1400, spinto dal desiderio di sottrarre all’oblio il grande patrimonio di opere greche e latine, iniziò a dar vita a quello che oggi chiameremmo il suo progetto editoriale, chissà, dicevo, se avrebbe mai immaginato che quel suo progetto avrebbe segnato per i secoli a venire la data a cui facciamo risalire la nascita dell’editoria. Il suo contributo, infatti, sia sotto il profilo della forma sia del contenuto, è stato fondamentale ed ancora oggi moltissime delle innovazioni che Manuzio introdusse sono diventate indispensabili per chi ha fatto della stampa di libri il proprio lavoro.

Ovviamente dopo circa sei secoli di storia la stampa di libri ha fatto passi da gigante, o da gambero – a sentire alcuni –, ma in entrambi i casi si è profondamente trasformata.

Solo nel nostro Paese esistono più di mille e cinquecento case editrici, dalle caratteristiche più diverse, come quelle che, per esempio, pubblicano solo online o quelle specializzate nella pubblicazione di testi sugli insetti. Le librerie, che dell’industria editoriale sono l’anello di congiunzione finale con il lettore, traboccano di libri dai mille titoli ed è talvolta complicato riuscire ad orientarsi.

Per cercare di capire quale sia, allora, lo stato di salute dell’editoria e, di conseguenza, del libro, abbiamo coinvolto nella riflessione i referenti di alcune delle più importanti case editrici italiane, con i quali abbiamo provato a muoverci attraverso un percorso che prendesse in considerazione le seguenti aree tematiche: funzione dell’editore, qualità degli autori, pubblicazioni a pagamento, promozione e fiere, funzione del libro, impatto nuove tecnologie, futuro dell’editoria.

Per ciascuna delle case editrici forniamo qui di seguito un breve profilo, indicando accanto il nominativo e la qualifica dei referenti che in questo percorso ci hanno accompagnato.

 

Mondadori (1): viene fondata nel 1907 ad Ostiglia da Arnoldo Mondadori. La sua missione è, da sempre, favorire la diffusione della cultura e delle idee, con una produzione che tocca ogni genere e raggiunge tutti i lettori, facendo convivere l’amore per la cultura e per la qualità editoriale con le leggi del mercato.

Antonio Riccardi, direttore editoriale Editoria di catalogo.

 

Avagliano Editore (2): casa editrice vecchianuova, da più di vent’anni, cerca di mantenersi in equilibrio fra tradizione e innovazione. Da una parte coltiva collane che includono classici e autori italiani affermati dall’altra sperimenta giovani narratori italiani aprendosi alla letteratura internazionale.

Daniela D’Angelo, responsabile ufficio stampa ed editor free lance.

 

Gremese Editore (3): fondata a Roma nel 1978 pubblica libri e manuali illustrati su cinema, teatro, arte, musica, fotografia, danza, sport, astrologia, moda, erotismo, esoterismo, guide, turismo, salute, cucina e molto altro ancora.

Gianni Gremese, editor.

 

Ponte Alle Grazie (4): fondata a Firenze alla fine degli anni Ottanta, nel 1993 è stata rilevata dal Gruppo Longanesi. Nel gennaio 2006 è entrata a far parte del Gruppo editoriale Mauri Spagnol (GeMS), la nuova holding editoriale nata dall’accordo tra le famiglie Mauri e Spagnol.

Cristina Palomba, editor.

Come o chi oggi scopre nuovi talenti o nuovi libri da pubblicare?

Riccardi: “La modalità è quella tipica, ancorché variegata. Abbiamo, infatti, diversi terminali attivi, che attengono sia alla società letteraria in generale, sia a strutture e persone dedicate, che si occupano specificamente dello scouting. Bisogna poi distinguere tra mercato anglosassone-americano e mercato italiano. Nella prima situazione, a volte, compriamo prima che l’autore abbia un editore nel paese d’origine. Talvolta accade, nel caso della narrativa, che non esista ancora il libro o se c’è sarà molto diverso dal prodotto finale, che terrà conto della specificità dell’editore che se ne occuperà.

Diverso è il caso del mercato italiano: qui gli agenti costituiscono un passaggio assolutamente fondamentale, perché hanno il compito di filtrare un progetto a seconda della prospettiva e delle peculiarità dell’editore”.

 

D’Angelo: “Un editor individua nuovi talenti attraverso uno scouting intelligente e appassionato, mescolando gusto letterario, adesione al progetto editoriale e attenzione al mercato. L’editor è continuamente a caccia del capolavoro, continuamente in attesa di leggere il manoscritto che palesi immediatamente il genio, di quella pagina che gli faccia fare un balzo sulla sedia. E qualche volta accade. Blog e premi letterari sono una possibilità per farsi leggere e farsi conoscere. Dalla prima edizione del Premio Nanà: nuovi scrittori per l’Europa, per esempio, è emerso Il romanzo “Suona per me” di Giusella De Maria pubblicato da Avagliano e sta avendo tantissimo successo tra i giovani”.

 

Gremese: “Non c’è una risposta precisa. Come editor di Gremese, mi occupo personalmente di questo: leggo tutto quello che ci arriva. Mi bastano poche righe o una pagina per valutare la qualità di uno scritto. In linea di massima, per la ricerca di nuovi libri ci si muove per il 50% tra opere che la casa editrice commissiona e per il 50% di opere che vengono proposte alla casa editrice.

È vero anche che quando un autore entra da noi con l’idea di un libro, spesso ne esce con un’altra, perché il nostro compito è anche quello di orientare in base ad una più profonda conoscenza del mercato. Un esempio pratico: se qualcuno vuol scrivere una monografia sulla storia del treno nell’era sabauda, è molto probabile, salvo eccezioni, che noi gli consigliamo di scrivere una più ampia storia del treno in Italia, che potrebbe certamente avere un mercato più ampio”.

Palomba: “La casa editrice è una squadra, e tutti sono importanti nella segnalazione di nuovi possibili libri da pubblicare: ufficio stampa, ufficio diritti, rete di vendita. Dall’esterno le segnalazioni ci arrivano da agenti italiani e stranieri, da giornalisti, dagli scout che lavorano all’estero, dagli amici librai, e in generale da tutti coloro che gravitano attorno al mondo dell’editoria. L’editor ha il compito di selezionare, pensare che cosa può soddisfare il gusto del pubblico.”

 

Quali criteri segue un editor per filtrare tutto quello che arriva?

Riccardi: “La professionalità di un editor è un fattore fondamentale, senza il quale non si va in nessuna direzione. Essenzialmente le sue capacità devono procedere su questi due binari: profonda compenetrazione delle dinamiche del consumo culturale ed un gusto personale di altissima intensità”.

 

Gremese: “Per quanto riguarda la narrativa i criteri sono essenzialmente due: la qualità e il grado di innovazione. Mi capita spesso, infatti, di leggere cose già scritte, storie fragili, déjà vu. Per ciò che attiene la saggistica, invece, sono importanti i livelli di completezza e di organicità”.

 

Palomba: “Il primo criterio è ovviamente il catalogo. Ci sono cose non adatte al nostro catalogo, e che quindi non vengono prese in considerazione. Naturalmente la fonte e il modo in cui la segnalazione di un libro viene fatta sono molto importanti per l’editor.  Ma alla fine penso che la propria sensibilità e il proprio gusto siano gli strumenti più potenti a nostra disposizione”.

 

Tutti scrivono: ci sono persone che hanno scritto più libri di quanti ne abbiano letti. Questo non ha abbassato la qualità media delle pubblicazioni?

Riccardi: “Considerare i libri come un tutt’uno è un errore. Alcuni libri sono prodotti editoriali di altissima qualità, nei quali sono fondamentali l’attività creativa e la ricerca personale dell’autore. Altri non attengono nemmeno lontanamente a questa categoria, ma seguono brand più commerciali come il cinema, la tv, la cucina. Fisicamente sono uguali, perché utilizzano lo stesso supporto, ma sostanzialmente sono differenti, ed hanno anche pubblici ed intendimento differenti. Ed il lettore è consapevole che una cosa è leggere “Canale Mussolini”, di Pennacchi, altra ”Trecento” di Pippo Inzaghi.

Riconosco che talvolta questa biforcazione si assottiglia e certi editori ci giocano, per cui alla cura profusa non corrisponde un contenuto di pari valore”.

 

D’Angelo: “Sì. Chiediamolo agli editori, alle loro politiche”.

 

Gremese: “Indubbiamente per saper scrivere bisogna leggere, e tanto. Ciò che oggi ha abbassato la qualità delle pubblicazioni è in generale il minor grado di cultura della nostra popolazione, anche se si pubblica molto più di ieri. Così, può succedere, che in libreria si dia molto più spazio all’ultimo vippetto che ha avuto tanti passaggi in tv, di quanto se ne dia a veri scrittori”.

 

Palomba: “Non sarei così catastrofica penso che si tratti solo di una battuta. Non mi sembra che la qualità media dei libri si sia abbassata. Il mercato è ampio, democratico, e offre veramente di tutto”.

 

Sappiamo che Italo Svevo pagò per la pubblicazione de “La coscienza di Zeno”. Se non avesse scelto questa strada, potrebbe esistere il rischio che un capolavoro come questo non sarebbe stato mai pubblicato?

Riccardi: “La situazione in questi 100 anni è incomparabilmente cambiata. Sì, certo, può accadere che una casa editrice possa perdersi un capolavoro, ma oggi i recettori stabilizzati dell’editoria sono talmente diffusi e capillari che sarebbe sicuramente più difficile.

Ci sono casi in cui un autore pubblica con contributo, con una piccola casa editrice, poi il passaparola e l’aumentato interesse lo pongono all’attenzione di case editrici più grandi. Un ultimo caso è quello de “La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo”, di Audrey Niffenegger, che ha seguito proprio questo iter e che oggi Mondadori pubblica”.

 

D’Angelo: “Esiste senz’altro, tecnicamente, la possibilità che un libro eccellente venga ignorato dall’editoria. Per qualche grande autore pagare è stata l’opportunità per venire alla luce. Tuttavia… Sono affezionata all’idea romantica del manoscritto che arriva alla pubblicazione senza soldi né padrini”.

 

Gremese: “Moravia ha avuto un’esperienza simile, pubblicando a sue spese “Gli indifferenti”. Ma questo è dovuto, oggi più di ieri, alla estrema difficoltà di vendere le opere di un esordiente. È comprensibile che l’editore esiti a prendersi il rischio d’impresa, anche per un’opera valida, quando già sa che non recupererà l’investimento. Se si trova di fronte a un’opera valida, è comprensibile che possa accettare di pubblicarla se c’è un contributo alle spese da parte dell’autore, che riduca il suo rischio.

Diverso invece è il caso di quegli editori che senza alcun riguardo al valore dell’opera speculano sulla vanità degli autori chiedendo loro di pagare tutte le spese, ma poi di fatto non si occupano minimamente della distribuzione”.

 

Palomba: “Non ho esperienza in tal senso, ma direi che bisogna capire bene cosa si intenda per pubblicazione a pagamento. Se qualcuno non ha trovato un editore che voglia investire sulla propria opera e quindi decide di stamparla a proprie spese, la trovo un’aspirazione più che giusta. Troverei poco corretto, invece, il caso in cui un editore chiedesse ad uno scrittore di pagare per la pubblicazione”.

 

Salone internazionale del libro (Torino), Fiera del libro per ragazzi (Bologna), Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria (Roma). Non sono pochi solo 3 eventi nazionali per la promozione del libro?

Riccardi: “Non sono pochi. A questi bisogna aggiungere i festival letterari che stanno diventando un fenomeno sempre più interessante, in quanto prova di una pulviscolare diffusa fiducia nella letteratura non solo di svago. Certo non bastano, ma sono segali di una strutturata affezione alla lettura”.

 

D’Angelo: “Si tratta di fiere distribuite nell’arco dell’anno. Mancherebbe una grande fiera dell’editoria al Sud… Le fiere mettono in moto una quantità enorme di risorse (giornali, pubblicità, promozioni ecc.); gli scrittori e gli uffici stampa si mobilitano: stand da allestire e disallestire, vendite, spazi mediatici, esposizioni, vetrine, interviste, presentazioni, libri che viaggiano in pacchi attraverso l’Italia…

Dietro ad ogni fiera c’è un grande lavoro di tutti. La promozione dei libri dovrebbe durare sempre, non solo il tempo delle fiere. Si può promuovere la lettura in molti modi, dal bookcrossing a eventi come “Libri Come”, appuntamento intorno al libro ideato da Marino Sinibaldi, passando per presentazioni, convegni, incontri con l’autore e laboratori con scrittori.

Parlando della casa editrice di cui curo l’ufficio stampa, la Avagliano ha promosso “LIM, Libri italiani nel mondo”, l’idea del presidente Antonio Lombardi è quella di donare alcuni titoli del catalogo agli Istituti italiani di cultura e con la collaborazione del ministero degli Esteri ce l’abbiamo fatta. La libreria Opificium Chartae a Roma, con la partecipazione di Antonio Pascale, ha lanciato “Scritture in corso, workshop di scrittura creativa e di lettura ragionata dei testi”, l’idea è quella di accorciare la distanza tra l’oggetto libro e il potenziale lettore. Ecco, tutte le iniziative di promozione del libro dovrebbero andare verso questa direzione: avvicinare il libro alla gente. E consolidare la nicchia preziosa dei lettori forti. Promuovere la lettura è il vero investimento: chi è o diventa lettore non smette mai più di esserlo”.

 

Gremese: “Sono tre manifestazioni molto diverse tra di loro, che si rivolgono a tre target completamente differenti. Ce ne sono molte altre, minori, e in fondo credo non si avverta la necessità di averne altre, anche se ogni forma di pubblicità al libro è sempre ben accetta”.

 

Palomba“Questi sono saloni importanti, che hanno molti visitatori. Tuttavia non credo sia la copertura mediatica di eventi come questi a fare la differenza nel mondo dell’editoria. Bisognerebbe puntare anche su piccole iniziative che consentano, per esempio, una penetrazione più efficace del mercato del libro nelle province, dove talvolta mancano le librerie. Creare piccole reti, potrebbe risultare un’operazione valida”.

 

Letto per informazione, per divertimento o passatempo, il libro rimane lo strumento principe del sapere. Quale il suo stato di salute e quale il suo futuro?

Riccardi: “Difficile dare una risposta. Con il frantumarsi della società le modalità di fruizione del libro sono cambiate. Un tempo il libro era segno di una cultura personale. Oggi non è più così anche se abbiamo ottenuto il vantaggio di desacralizzare la modalità di fruizione del libro. Certo, in Italia rispetto a società analoghe si legge poco, ma la cosa importante è avviare iniziative che permettano la circolazione dei libri”.

 

D’Angelo: “Fino a che esisterà il mondo e la nostra curiosità per il mondo e per le cose degli uomini, esisterà il libro; il futuro del libro va di pari passo con il futuro dell’indagine e della speculazione umana. Fino a quando l’uomo sarà in cerca di risposte, sarà anche in cerca di libri da  scrivere e di libri da leggere. Il futuro del libro è vecchio quanto il mondo”.

Gremese: “Quello di un malato a cui hanno dato 4 mesi di vita, ed è arrivato già al terzo. Per il futuro lo sforzo è quello di prolungare al massimo l’ultimo mese, e pare che nonostante tutto si sia trovato il modo di fermare il tempo”.

 

Palomba: “Lo stato di salute del libro è buono. Sul futuro è difficile fare previsioni”.

 

Ebook e istant book: in cosa si manifesta maggiormente l’impatto delle nuove tecnologie sulla vita e sulla durata di un libro?

Riccardi: “Siamo alla soglia di una grande rivoluzione, che riguarderà in primo luogo il cambio di supporto dell’oggetto libro. Ma sarà interessante verificare quanto questo cambio di supporto cambierà ed inciderà anche sul contenuto. Bisognerà aspettare che si stabilizzi la fruizione secondo le nuove modalità, anche se sono convinto non passeranno tante generazioni”.

 

D’Angelo: “L’ebook in Italia non è ancora decollato, ma accadrà presto e sicuramente segnerà un cambiamento nelle nostre abitudini, nei consumi relativi alla fruizione e nell’approccio fisico alla lettura. Si aprirà un nuovo mercato. Si pone una serie di questioni: i diritti, i nuovi supporti… L’istant book nasce sull’onda di uno stimolo urgente e attuale. Viene pubblicato in pochissimi giorni, ma non è detto che sia brevissima la sua durata sul mercato. Appena saputo del Nobel a Herta Muller la Avagliano è uscita in libreria con un istant book “Herta Muller, un incontro italiano”, si tratta della prima intervista italiana fatta alla scrittrice diciannove anni fa a Roma.

È un libro che vende ancora e che venderà ancora. Il “sistema ebook” prevederà senz’altro un  modo di conservazione dei testi: e in più ricordiamoci che ogni libro vive nella mente delle persone, più che mai adesso che non avrà altro appiglio che la trama e la parola, l’essenza stessa, facendo drammaticamente a meno del supporto materiale che fa di un libro lo splendido oggetto che conosciamo”.

 

Gremese: “Le enciclopedie, per esempio, e molti libri di documentazione e ricerca, hanno molto sofferto. Ma l’impatto delle nuove tecnologie è ancora strisciante, anche le vendite su internet sono lente. Ma indubbiamente il futuro sarà in gran parte loro”.

 

Palomba: “Gli istant book non sono propriamente una novità. Oggi, forse, la tecnologia, ha ulteriormente accorciato i tempi. Per quanto riguarda gli ebook, invece, in Italia non sono ancora sbarcati e quindi è difficile parlarne. È certo che arriveranno, ma è difficile fare previsioni sul come verranno accolti dal pubblico italiano”.

 

Quanto la cura dell’editing influenza sulla scelta di un libro?

Riccardi: “Difficile dirlo, perché ci sono approcci all’editing diversi tra i differenti settori di una medesima casa editrice”.

 

D’Angelo: “L’editing è fondamentale. Può decidere il destino di un libro. Un buon editing su un buon testo ne decreta il successo”.

 

Gremese: “Dipende dal lettore: per un lettore accorto è importante ritrovare in una pubblicazione una bella copertina, un carattere adeguato, un indice dei nomi ben fatto, una bibliografia accurata. Un lettore meno preparato non ci fa caso”.

 

Nel film catastrofico “Codice genesi” (The book of Eli), dopo l’acqua, i libri sono considerati il bene più prezioso, tanto che proprio dalla ristampa dei libri ripartirà la civiltà. È possibile affermare che pubblicare libri ha ancora oggi un valore sociale, o l’editoria è divenuta un commercio come qualsiasi altro?

Riccardi: “Mondadori è talvolta accusata di essere orientata principalmente al commercio. Eppure dalla sua fondazione non ha mai smesso di pubblicare poesie di autori italiani e stranieri e la collana Meridiani opera ad altissimi livelli. Qualche tempo fa, mi è capitato di leggere una lettera che il nostro fondatore Arnoldo Mondadori scrisse ad Ungaretti, pregandolo di pubblicare le sue poesie. Questo è il dna della nostra casa editrice”.

 

D’Angelo: “Benché vada di moda un certo cinismo tra editori a cui piace dire che il libro va venduto come qualsiasi altra merce, l’editore illuminato sa benissimo che pubblicare libri non è un commercio come qualsiasi altro. Per una serie di ragioni. Non esistono tanti saloni, fiere e presentazioni delle lavatrici quanto saloni, fiere e presentazioni di libri: vendere libri è più difficile.

Perché della lavatrice concordiamo che ne abbiamo bisogno, del libro invece alcuni pensano di poterne fare a meno. Riuscire a vendere libri a coloro che pensano di farne a meno è una sfida. In ogni caso, un modello rivoluzionario di lavatrice può innovare nel mercato e un libro può fare lo stesso”.

Gremese: “La produzione, soprattutto per le esigenze delle grandi case editrici, è diventata sempre più commerciale, ha bisogno di grandi numeri e di facili vendite. Le catene librarie, che una volta erano attente a ciò che si pubblicava, oggi sono plasmate sulle esigenze delle grandi case editrici con la conseguenza che ovunque andiamo troviamo tavoli sommersi di libri non sempre di prima qualità. Diverso il discorso per la piccola editoria sulla quale forse possiamo riporre le maggiori speranze di salvezza del libro e della cultura”.

 

Palomba: “L’editoria è un’industria e quindi i libri sono prodotti. Certo, prodotti speciali, che veicolano senso. Se un libro si vende, e molto, diventando un best seller, non vuole assolutamente dire che non abbia più valore sociale e culturale. Il suo valore rimane intatto”.

 

Consapevoli di non poter esaurire le problematiche e perché no le curiosità legate all’argomento, la qualità delle risposte forniteci ci offre sicuramente una molteplicità di spunti che sarebbe interessante approfondire. Certamente la prospettiva dalla quale ciascuno dei nostri referenti ha risposto è vincolata ed influenzata non solo dalla storia specifica della casa editrice di riferimento, ma anche dalla diversità di mission, di target e di mercato che oggi Avagliano, Gremese, Mondadori e Ponte alle Grazie hanno.

Ciò che, a parer nostro, costituisce per tutti un obiettivo importante, sul quale in modalità diverse ciascuna casa editrice orienta il proprio lavoro, è quello di appassionare quante più persone possibili alla lettura, perché un libro, qualsiasi libro, non solo consente al lettore di essere trasportato in altri mondi e in altre realtà, ma attraverso questi mondi e queste realtà può nutrire la sua mente.

Concludo ritornando ad Aldo Manuzio, da colui dal quale tutto è partito: nel 1494 aprì la sua prima tipografia nella contrada di Sant’Agostin, a Venezia. E pubblicando nel 1498 le opere di Poliziano, introdusse nella dedica quello che sarebbe diventato poi il suo motto8 festina lente, cioè affrettati con calma. Uomo del futuro anche in questo.

 

1) Da www.mondadori.it, sez. Mission.
2) 
www.avaglianoeditore.it 
3) Da www.gremese.com, sez. Chi siamo.
4) Da www.ponteallegrazie.it, sez. Casa editrice.
5) Motto attribuito all’Imperatore Augusto dallo scrittore latino Svetonio.

 

*Dice di sé.
Antonella Parmentola. Subisce, dai tempi del liceo, il fascino delle parole, della loro etimologia, del loro senso originale e della successiva evoluzione. È profondamente convinta che in un mondo in cui tutto è stato già scritto e detto, il come scrivere o dire qualcosa possa ancora fare la differenza. 

Giancarlo Livraghi - I magici piaceri della bibliofilia

Vivere con libri è un intenso godimento, una gradevole ricchezza umana. È affascinante scoprire come un libro rinasce nuovo ogni volta che qualcuno lo legge

Giancarlo Livraghi*

Non tutti amano i libri. Non è facile capire perché alcuni li vedano con disagio. Il motivo, credo, è che si sentono costretti. A scuola, ma anche nel resto della vita. Capita di “dover” leggere qualcosa che non ci interessa.

Per lavoro, per studio, per burocrazia, per ogni sorta di “obblighi”.

Ma non è quello il valore più importante. Usciamo dal mondo dei doveri e vediamo perché leggere può essere un intenso piacere.

Sono afflitto da inguaribile bibliofilia. E non ho la minima intenzione di ridurre la mia “dipendenza”. Non so immaginare una vita senza libri. Anche quando non ne sto leggendo uno, sono una compagnia indispensabile.

C’è qualcosa di straordinario nell’avventura di un libro. Ha un numero infinito di vite. Rinasce in modo nuovo ogni volta che qualcuno lo legge. Ciò che più conta non è che cosa ha scritto l’autore, è ciò che il lettore ci mette di suo.

Non si può leggere senza partecipare. Che un libro ci piaccia o no, che susciti in noi consenso o contrasto, piacere o fastidio, impegno o distensione, la lettura non è passiva.

Un libro che nessuno legge è un oggetto inerte (come un quadro che nessuno guarda – o una musica che nessuno ascolta, canta o suona).

Ma nel momento in cui le mani lo aprono comincia un’esperienza inimitabile. Un dialogo con qualcuno che speriamo abbia qualcosa da dirci. Un pensiero che può essere nato migliaia di anni fa e si risveglia oggi, nuovo e diverso, nella nostra mente.

I libri non sono solo di carta. Per secoli e millenni sono stati di coccio, di papiro, di seta, di pergamena. Scritture sulla pietra o nella cera. Incise nel legno, nel marmo o nel metallo. O tramandate per “tradizione orale”.

Oggi si trovano diffusamente anche nelle macchine elettroniche e negli spazi smisurati della rete.

Ma vivono soprattutto nella memoria delle persone. Quanti libri che abbiamo letto sono “dentro di noi”, anche quando non ricordiamo precisamente da dove ci è venuto un pensiero, un dubbio o un’emozione?

Anche per chi lo scrive, un libro “vive di vita propria”. Si comincia con un’idea, un argomento, un progetto. Ma un po’ per volta cambia, si evolve, prende forma.

L’autore diventa strumento, spettatore partecipe, di ciò che il libro vuole essere.

Deve aiutarlo a mettere radici, crescere rami e foglie. Se un libro non ha un’anima, una sua autonoma identità, è difficile che sia un buon libro. Se non è vivo, indipendente, disobbediente, forse non meritava di essere scritto.

Quando è pubblicato (o comunque qualcuno lo legge) si apre anche per l’autore un nuovo percorso.

Quando si ha la fortuna di incontrare un lettore, che ha il tempo, la voglia e la sincerità di spiegarci le sue percezioni, è affascinante constatare come un libro sia diventato, nella sua mente, diverso da come è per qualsiasi altra persona. E così si continua a imparare.

La vita miracolosa di un libro è immateriale (non per questo “astratta”). Ma c’è qualcosa di straordinario anche nel libro come oggetto.

Quello di carta, s’intende (non è in alcun modo “antiquato” pensare e sentire che ancora oggi, e per un non labile futuro, questa è la migliore “incarnazione” di un libro – e anche la più durevole e affidabile).

Può essere un libro prezioso, un’edizione rara o particolarmente elegante. Può essere semplicemente un bel libro, ben curato, impaginato e stampato.

O può avere una veste più modesta. Ma anche quando è apparentemente inerte in uno scaffale è una confortante compagnia – sappiamo che è sempre lì, in qualsiasi momento avessimo la necessità o il desiderio di aprirlo.

Amare i libri è un piacere di cui non ci si può mai stancare.

Che sia rilassante o impegnativo, divertente o stimolante, gradevole o irritante, è un’esperienza che, in un modo o nell’altro, ci arricchisce.

E siamo noi, lettori, a decidere quando e come la vogliamo vivere.
*Dice di sé.
Giancarlo Livraghi. Se avesse mille vite, farebbe mille mestieri. È curioso di tutto, ma al centro della sua attenzione ci sono sempre la comunicazione e la cultura umana. Ha scritto alcuni libri (il suo preferito è “Il potere della stupidità”). Il suo sito online è http://gandalf.it 

LAURA PAUSINI

Non mi sento a mio agio in posti dove la priorità di uomini e
donne è il successo, il denaro e il modo migliore per esibirlo,
altrimenti sei una nullità.
(Da “Il Secolo XIX”, 2004)

 

COSTUME Antonio Marziale - E se tornasse Carosello?

Il presidente dell’Osservatorio sui diritti dei minori ci accompagna in un’approfondita analisi sulle molteplici influenze che la televisione ha e può avere, quotidianamente, su bambini ed adolescenti

Antonio Marziale*

Capita sovente, che qualche criticone mi additi all’opinione pubblica come “bacchettone” e “moralista” in conseguenza alle prese di posizione che, nelle funzioni di presidente dell’Osservatorio sui diritti dei minori, intraprendo a beneficio della tutela dei bambini rispetto all’esposizione impropria davanti alla tv. Davanti a simili critiche mi viene soltanto da ridere, pensando ad esercizi di pura ignoranza in materia o malafede. Di seguito, riporto alcune rilevazioni scientifiche – ripeto, scientifiche, non sofistiche – che la dicono lunga….

Fermo restando che, se ci fosse una genitorialità più accorta, non ci sarebbe alcuna necessità di protocolli o leggi a tutela dei minori rispetto ai mezzi di comunicazione di massa. Ma, così non è, purtroppo! Per quanti volessero approfondire, si consiglia la lettura del libro “L’onnipotenza dei media: sua maestà la tv!” (1)

 

Sviluppo intellettivo del minore e conseguenze all’esposizione alla tv

 

Concetti di base

 

Lo studio sugli effetti ed i condizionamenti della televisione sul pubblico dei minori necessita alcune riflessioni sulle principali fasi evolutive del bambino alle quali corrispondono diverse capacità e modalità percettive.

All’inizio degli anni sessanta la psicologia americana scoprì la teoria di Piaget sullo sviluppo cognitivo e ne subì l’influsso. Piaget si è interessato degli aspetti universali dello sviluppo infantile (piuttosto che delle differenze individuali) e ritenne che lo sviluppo sia il risultato di un’interazione fra i cambiamenti prodotti dalla maturazione e l’esperienza.

Le osservazioni intensive che Piaget fece sui propri figli lo convinsero che i bambini sono organismi attivi che vanno alla ricerca degli stimoli e organizzano la propria esperienza senza istruzioni o programmazioni dirette da parte dell’ambiente che li circonda. Secondo Piaget, lo sviluppo cognitivo passa attraverso una serie di stadi correlati fra loro, nel corso dei quali il bambino conosce il mondo in differenti modi (Mussen, Conger, Kagan e Huston, 1986).

Per sviluppo cognitivo si intende lo sviluppo delle attività intellettive.

Nell’uso psicologico del termine possiamo tuttavia distinguere due indirizzi fondamentali:

un indirizzo statistico, prevalentemente interessato allo studio delle differenze individuali nell’eseguire una serie di compiti e al carattere dimensionale dell’intelligenza (Canestrari, 1984);

un indirizzo qualitativo, che analizza invece i processi intellettivi all’interno dell’individuo, trascurando quindi completamente le differenze individuali.

Ciò non comporta un condizionamento unicamente interiore del processo di maturazione: pone soltanto all’interno del soggetto il meccanismo che alimenta lo sviluppo stesso e che lo orienta.

 

L’ipotesi psicogenetica di Piaget

 

A questo indirizzo di studio appartiene l’ipotesi psicogenetica elaborata dallo psicologo svizzero Jean Piaget (1896-1980). Essa mira a spiegare i processi cognitivi umani, ricostruendo le fasi (stadi) dello sviluppo psichico dell’individuo, in senso evolutivo, dalla fase sensomotoria (legata ad un rapporto statico con la realtà) fino alla formazione delle strutture propriamente logiche, ovvero non contraddittorie (creanti invece un rapporto dinamicocon la realtà).

Ogni stadio è preceduto necessariamente da un altro stadio in cui si attuano operazioni mentali che stanno alla base delle operazioni successive.

Questo sviluppo non avviene sempre in modo lineare, complicato com’è dalle stimolazioni socioculturali e dalle stesse esperienze personali. Dunque, ciò che sembra restare immutato è l’ordine degli stadi, ma non i percorsi e le modalità con le quali essi si organizzano. Questo modello si fonda almeno su quattro parametri caratterizzanti:

1.     La natura attiva, adattiva ed organizzativa fra l’organizzazione e l’ambiente dell’intelligenza dove:

•      l’attività può consistere in vere e proprie azioni fisiche o semplicemente inazioni simboliche, che derivano da quelle fisiche e che sono ricostruite nel pensiero;

•      l’adattamento è un processo innato che si realizza mediante due processi complementari, l’assimilazione e l’accomodamento, la cui condizione ottimale è il reciproco equilibrio;

•      l’assimilazione è il processo per il quale il soggetto struttura il dato esterno secondo l’organizzazione mentale esistente (crea cioè uno schema) e tale strutturazione gli permette di conoscerlo;

•      l’accomodamento è il processo attraverso il quale viene modificato lo schema per renderlo più idoneo alle condizioni esterne ed agli altri schemi che si vanno man mano costituendo;

•      l’organizzazione non è altro che il processo d’adattamento visto dall’interno, che risulta da un’attività innata di coordinamento fra schemi sensomotori o fra strutture simboliche e si svolge in base ad autocorrezioni delle strutture pregresse;

•      la condizione ottimale tra queste tre nature è l’equilibrio tra loro e con l’ambiente fisico e sociale.

2.     La costruzione delle strutture mentali nell’integrazione fra il soggetto e l’ambiente: questo significa che i sistemi cognitivi non sono né semplicemente innati, né tantomeno appresi attraverso un vero esercizio mimetico sulla realtà, bensì sono costruiti dal soggetto nell’interazione dinamica con l’ambiente.

3.     I meccanismi dello sviluppo mentale: l’ipotesi psicogenetica presuppone una progressiva costruzione delle strutture cognitive nell’interazione fra il soggetto e l’ambiente.

4.     Il meccanismo d’equilibrazione mentale agisce attraverso l’autocorrezione degli errori. Per spiegare l’equilibrazione si considera un soggetto che per la soluzione di un certo compito, in base alle proprietà dell’oggetto ed alle strutture cognitive esistenti, seleziona e coordina alcuni attributi secondo una certa struttura. Se il risultato non è esatto, il soggetto procede ad una nuova analisi e coordinazione di attributi, quindi ad un’altra strutturazione. Il meccanismo d’equilibrazione si svolge, pertanto, in base ad autocorrezioni che implicano un certo livello dello sviluppo dei sistemi cognitivi: l’esercizio, le proprietà del materiale e gli apprendimenti socioculturali.

È importante sottolineare come per Piaget la fase dell’equilibrazione sia la base del processo di costruzione delle strutture, in quanto coordina gli effetti della maturazione interna con quelli prodotti dalle stimolazioni esterne fisiche e sociali. Il significato delle interazioni che generano, in modo graduale, una conoscenza sempre più scientificamente adeguata della realtà.

La conoscenza è il risultato di un’attività di costruzione di sistemi cognitivi, che si attua attraverso progressive coordinazioni e autocorrezioni delle strutture pregresse. Poiché tale costruzione È il risultato delle interazioni che coinvolgono il soggetto e la realtà esterna, l’evoluzione cognitiva si realizza attraverso il passaggio da una conoscenza soggettiva ad una conoscenza oggettiva. Il risultato è dato dall’interpretazione non contraddittoria (logica) della realtà esterna, ossia una conoscenza logica della realtà (conoscenza scientifica) (Piaget e Inhelder, 1990).

 

Stadi dello sviluppo cognitivo

 

Come si è già osservato, lo sviluppo intellettivo è visto dal modello psicogenetico come una successione di stadi, ognuno dei quali è caratterizzato dalle strutture di conoscenza che si sono costituite.

Schematizzando abbiamo:

  • intelligenza sensomotoria (primi 18 mesi circa di vita): si fonda sulla realtà solamente attraverso gruppi di azioni fisiche (dell’uso inizialmente unico dei riflessi alle prime coordinazioni visivo-motorie), si struttura prima dell’apparire del linguaggio ed è prelogica. L’intelligenza sensomotoria è caratterizzata, all’inizio, essenzialmente da abitudini rigide, casomai rinforzate, che vengono gradualmente generalizzate ed accomodate alle condizioni ambientali. Di contro, il passaggio dall’abitudine all’intelligenza si verifica in genere tra i due-tre mesi ed è caratterizzato, come detto, dalla coordinazione fra schemi appartenenti a sistemi cognitivi diversi. Ciononostante, l’intelligenzasensomotoria (che trova il suo compimento fra i 18 e i 24 mesi) non fornisce mai una rappresentazione di insieme della realtà, bensì quadri relativamente indipendenti e, quindi, una comprensione frammentaria e spesso contraddittoria;
  • intelligenza preconcettuale ed intuitiva (dai 18 mesi ai 7 anni circa): emerge quando compare la funzione semiotica o – in senso più astratto – simbolica (in particolare, il linguaggio) ed È prelogica, o meglio semilogica, nel senso che il bambino è capace di organizzare il pensiero secondo strutture logiche molto elementari, ma non è capace di strutturare operazioni astratte di tipo propriamente logico-matematiche. Le forme di intelligenza dettepreconcettuali predominano i due e i quattro anni. A questa età, il bambino non possiede ancora la struttura di classificazione, non è in grado di raggruppare facilmente gli oggetti secondo le loro proprietà fisiche (colore, grandezza, ecc.) o la loro classe di appartenenza (animali, piante).

Ogni concetto, ad esempio quello di albero, è necessariamente in rapporto con quello di vegetale, di pino, ecc. Per il bambino, in questa fase, tale sistema di relazione non è ancora costruito. Succede che ogni concetto ha un’esistenza indipendente e viene collegato ad altri da semplici somiglianze, spesso fortuite. In questo modo il ragionamento procede per trasduzione. Sempre in questa fase intellettiva il bambino, non avendo costruito una struttura gerarchica di concetti, confonde tra papà e uomo ed è portato ad affermare che le donne siano mamme.

Dunque, un ragionamento che va dal particolare al particolare con inferenze gratuite o dal particolare al generale con conclusioni errate. Dai quattro anni circa si nota nel bambino uno sviluppo sempre più intenso dell’attività concettuale. I progressi sono rapidi, ma l’intelligenza rimane prelogica. Vale l’esempio del bambino in relazione all’esperienza sulla conservazione della quantità di sostanze. Se si presentano due recipienti di uguale diametro ed altezza e si riempiono d’acqua fino ad uno stesso livello i bambini di quattro-cinque anni diranno che i due recipienti contengono la stessa quantità d’acqua. Ma, se un recipiente viene sostituito con uno più stretto e più lungo e si versa la stessa quantità d’acqua del precedente il bambino affermerà che la quantità d’acqua è cambiata perché è aumentato il livello. Il bambino, in questo caso, non coordina le due trasformazioni (altezza, larghezza) subite con il travaso. Il bambino nell’età fra i quattro e i sei anni elabora, dunque, a livello rappresentativo delle strutture logiche, ma le azioni mentali non sono coordinate fra loro in un sistema dotato di reversibilità che permetta di interpretare gli eventi o gli oggetti secondo relazioni quantitativo-matematiche e causali. Il suo pensiero è solo semilogico o parzialmente logico;

  • intelligenza operativa: è verbale e logica nel senso che organizza secondo strutture

logico-matematiche e si suddivide in:

  • intelligenza operativa concreta (dai sei-sette anni agli undici circa): in questa fase il bambino è capace di eseguire operazioni infralogiche ed operazioni che prescindono dalla posizione degli oggetti nello spazio e nel tempo definite operazioni logiche. Il bambino, insomma, a livello del pensiero operativo riesce a capire che, nel caso di un bicchiere inclinato, la superficie del liquido rimane ugualmente orizzontale. Il bambino è, in questa fase, capace di organizzare una struttura logico-quantitativa e di riferire a tale struttura i dati della realtà. Egli trasforma le operazioni logiche, o anche infralogiche, semplicemente in concetti;
  • intelligenza operativa astratta (dagli undici anni in poi), ovvero pensiero formale o ipotetico-deduttivo: essa dipende dallo sviluppo delle capacità di astrarre dal contesto, concreto o ingenuamente simbolico, le operazioni logiche e di coordinarle in un sistema globale di relazioni. Tale operazione prevede, in sequenza, la formulazione di un’ipotesi, la deduzione delle relative conseguenze sul piano teorico e sperimentale, infine, l’esecuzione dell’esperimento per verificare l’ipotesi suddetta (Canestrari, 1984).

L’insieme dei concetti apportati dalla psicologia genetica di Piaget sono di grande importanza per la comprensione della maturazione delle attività intellettive in ordine alle differenti fasi dello sviluppo cognitivo. Tuttavia, non è possibile pensare ad un andamento analogo in tutti gli individui. Di fatto, la maturazione intellettiva è diversamente condizionata in base all’ambiente sociale, culturale e all’ambiente dei coetanei in cui il soggetto è inserito. Lo dimostrano numerose ricerche, ma anche la nostra esperienza quotidiana.

 

Sviluppo sensoriale del minore e strumento televisivo

 

Per completare lo studio sulla maturazione cognitiva del minore, in rapporto agli affetti e ai condizionamenti legati all’esposizione televisiva, sono interessanti le considerazioni offerte dalla psicologa Anna Oliviero Ferraris sulla relazione fra sviluppo sensoriale del bambino e strumento televisivo a partire da quelle che sono le fondamentali fasi dello sviluppo cognitivo individuate da J. Piaget.

Oliviero Ferraris ripercorre tali tappe:

•      il neonato, definito come un essere incompleto, che per sopravvivere ha bisogno delle cure dei suoi genitori e della qualità dell’ambiente in cui è inserito, è allo stesso tempo sensibile, aperto, ma molto vulnerabile. Al neonato è impossibile sottrarsi da solo agli stimoli che lo disturbano e le uniche difese sono il pianto, il sonno e l’azione protettrice degli adulti. Sono i genitori che ne favoriscono lo sviluppo riservandogli particolari cure. È controproducente lasciarlo da solo, sovrastimarlo o collocarlo di fronte alla televisione.

A tale proposito è importante citare un esempio di come questo concetto è rappresentato ne I Simpson, cartone satirico della vita americana: in una puntata Marge, la madre della famiglia Simpson, prende parte con tutti i membri della famiglia ad un pic-nic nella villa del datore di lavoro del marito Homer. Marge durante la festa viene invitata da un’amica a bere qualcosa al buffet, però avendo la figlia neonata in braccio è un po’ titubante; allora lei e l’amica, anch’essa con una neonata in braccio, si dirigono verso una stanza della villa adibita al gioco dei bambini e qui, però, si accorgono che non c’è nessuno a controllarli, allora Marge dice: “Sarà sicuro lasciarli qui da soli?” e l’amica sicura della sua azione risponde: “Hai ragione, ecco fatto!” e con una mossa molto decisa si avvicina al televisore e lo accende. Il risultato è eclatante, tutti i bambini, compresi i neonati, smettono di giocare tra loro per indirizzare uno sguardo ipnotizzato verso la televisione, che in quel momento trasmetteva un cartone con folletti verdi saltellanti e canterini e la frase pronunciata da Marge sottolinea questa azione risolutiva: “Ben fatto, ora sono tranquilla” e si allontanano dalla stanza;

•      I primi tre anni. In questo periodo si verifica un forte incremento della notorietà e del linguaggio. Nel secondo anno il bambino matura capacità di movimento e di parlare autonomamente. Lo sviluppo linguistico è sicuramente favorito dalla presenza di persone che interagiscono con il bambino stesso. Nel terzo anno il piccolo nomina molte parole, si diverte dai suoni che produce, e dalle risposte ottenute dalle persone che gli sono a fianco. In questo stadio il bambino si trova al centro della propria esperienza, sanzioni e comportamenti; soprattutto quando incomincia a dire io di se stesso, io voglio invece di voglio. I primi tre anni sono importanti anche per quelli successivi. Una grave o cronica deprivazione sensoriale emotiva e fisica provoca l’effetto di ritardare lo sviluppo; al contrario una sovra stimolazione produce nervosismo, scontentezza e agitazione.

L’ambiente in cui il bambino cresce non va sottovalutato, se in questi primi anni della sua vita sarà inserito in un ambiente caotico, o nello squallore fisico e psichico, riterrà normale questo ambiente. In tal modo, se i genitori scelgono di lasciare i loro piccoli al flusso continuo dello strumento televisivo o di farli addormentare dai suoni o dalle luci del video, quando essi sono ancora “tutto organi di senso”, questo creerà facilmente un condizionamento;

•      Dai tre ai sei anni. Questa è l’età in cui aumenta l’indipendenza fisica, la mobilità e la coordinazione dei movimenti. Aumenta l’immaginazione e compaiono nuovi giochi. In questo stadio, il bambino lavora di molta fantasia, così pure le canzoni, ritmi e storie sono veicoli con cui si accede ad una più profonda e coinvolgente relazione con il mondo esterno: terra, pietre, piante, animali, persone. Tutti questi fattori hanno l’effetto di ampliare il vocabolario, fornire il senso del ritmo, del linguaggio e dei numeri. Conversare con gli adulti è allo stesso modo importante.

È necessario che questi siano disponibili alle richieste dei minori, senza volgarità. Spesso le figure genitoriali non dispongono di tempo sufficiente per esaminare tutti i Perché?” dei loro figli. In questa fase il minore avverte il bisogno di essere rassicurato e ascoltato. Anche a questo proposito s’intravede, nell’ora dei pasti, il momento più importante di socializzazione e quindi di comunicazione, sempre che l’attenzione di tutta la famiglia non sia riversa nel teleschermo;

•      Dai sei ai dodici anni. In questa fase di sviluppo sensoriale, i bambini alimentano la loro vita interiore tramite le storie, le favole, le leggende. Essi sono molto attratti dalle immagini che vedono sui libri, nei fumetti, e particolarmente in televisione, come dagli spot pubblicitari. Ciò che stimola maggiormente la capacità creativa del minore è sicuramente il gioco, il racconto di storie, la pittura, la musica, la scultura in terracotta. Così è possibile che il bambino apprenda elementi di vita sociale utili per la preparazione al grande gioco della vita. In questo periodo essi maturano gusti e preferenze e si inoltrano all’esplorazione dei sentimenti. Compare il senso morale. A sei-sette anni, valutano ciò che è giusto e ciò che è sbagliato più attraverso i sentimenti che attraverso la ragione. A undici anni i bambini sono alle soglie di una nuova fase di esperienza definita della pubertà e dell’adolescenza, fase: “magica di insolita grazia, di creatività e di apertura mentale che bisognerebbe valorizzare e non avvilire con massicce esposizioni a spettacoli televisivi stereotipati”.

Tv e minori

 

Aimée Dorr, opportunamente, ricorda che i minori: “Si configurano come pubblico speciale, dotato di un grado incompleto di comprensione del mondo… Essi non sono un gruppo monolitico e indifferenziato, né del tutto diversi dai telespettatori adulti…” (2).

Il fatto che il legame fra televisione e minori sia sempre più rilevante deriva da molteplici motivi incasellati nelle varie fasi dello sviluppo cognitivo e sensoriale.                 L’incidenza di questo legame varia a seconda del temperamento personale, delle singole famiglie, dell’età, dell’intelligenza e della condizione socio-culturale.

Spini sostiene che il minore per natura sia un visivo, quindi facilmente è attratto dalle immagini, in particolare se in movimento e colorate, il tutto è facilitato dal fatto che il bambino di fronte allo schermo ha l’impressione di capire il significato pieno delle immagini, senza apparente fatica, al contrario invece della difficoltà a decodificare un messaggio verbale, soprattutto se è stampato. È lo stesso Spini a dichiarare che una situazione familiare dove: “La mancanza di fratelli o di coetanei, le prolungate assenze dei genitori, la difficoltà a divertirsi all’aperto inducono a trovare nella televisione un surrogato comodo e tutto sommato gratificante…”.

A. Dorr (1990) a proposito della differenziazione delle fasi dell’età evolutiva, sottolinea come la fruizione televisiva cambi con il passare degli anni.

I minori in età pre-scolare ignorano la continuità del contenuto televisivo, ricordano invece gli avvenimenti isolati che considerano interessanti. Raggiunti i sette anni i bambini preferiscono i programmi a trama unica, scartando quelli a puntate o periodici.

Sempre in età pre-scolare essi tendono a considerare il contenuto dei programmi televisivi completamente reale, poiché ogni cosa sembra simile alla vita reale anche se ridotta e limitata entro il piccolo schermo.

Intorno ai sette-otto anni la maggior parte dei bambini capisce che i programmi che presentano, siano essi cartoni o persone autentiche, non sono necessariamente spezzoni della vita reale, capacità che oramai purtroppo sta svanendo poiché a causa dei nuovi programmi, come i reality show, messi in produzione verso la fine degli anni novanta, si crea un miscuglio che, associato alla vecchia programmazione, è difficile da analizzare.

Secondo alcune ricerche, l’immaturità maggiore o minore è rilevabile anche nella comprensione di come i contenuti della televisione siano prodotti e mandati in onda. Alcuni dati rilevano che il 58% dei bambini di cinque-sei anni non capisce che i personaggi televisivi sono interpretati da attori, a otto anni il 29% non lo comprende affatto, il 45% se ne rende pienamente conto e il 26% solo in parte, a undici-dodici anni la piena comprensione sale al 65% (3).

Per la maggior parte dei bambini delle ultime generazioni guardare il piccolo schermo rappresenta una delle normali attività della vita quotidiana, come può essere mangiare o andare a scuola. Si dice che per alcuni bambini, secondo Anna Oliviero Ferraris teledipendenti, le ore della settimana trascorse davanti alla televisione sono di molto superiori a quelle trascorse a scuola. Un’osservazione fatta nella città di Roma mette in rilievo che 89 bambini in età compresa tra i sette e gli undici anni su un campione di 289 bambini vedono in media, nei giorni feriali, tre ore e mezzo di televisione. In termini percentuali: il 14,5% per un tempo che va dai trenta minuti all’ora e mezza, il 37% per due-tre ore, il 24% per tre-quattro ore, il 24,5% per quattro-sei ore e più. Per decifrare correttamente questi dati occorre aggiungere che sovente il bambino, che trascorre molte ore davanti allo strumento televisivo, vive in quartieri privi di spazi all’aperto dove giocare, ecco quindi emergere il fattore che giustificherebbe la propensione della famiglia a lasciare i propri figli davanti alla televisione, piuttosto che indirizzarli verso altre attività (4).

In America i bambini guardano la televisione per ventidue ore circa settimanali. Alcuni dati dimostrano che il maggior consumo avviene ai dodici anni, per poi decrescere leggermente durante l’adolescenza e lasciare lo spazio ad altre passioni giovanili come la radio e la musica. “L’adolescente americano medio prima dei quattordici anni ha già visto la televisione per almeno sedicimila ore…” (5).

Il consumo televisivo in adolescenza è derivato dal portare avanti un’abitudine ampiamente consolidata nei primi anni di vita: non esiste, infatti, un adolescente divoratore di televisione che non lo sia stato anche da bambino. Molte ricerche mettono in risalto che il consumo di televisione in adolescenza, molto o poco che sia, è un vero e proprio stile di vita che rispecchia modelli culturali ed educativi condivisi dal nucleo famigliare di appartenenza. In questo contesto G. Sartori dimostra che quello che egli stesso chiama homo videns sviluppa una struttura e modello di mente legato al vedere più che all’esperienza, che crede e definisce reale ciò che vede e non ciò che fa.

Ancora uno studio evidenzia che vicino ai dieci anni di età quasi la metà dei ragazzi e delle ragazze in Italia possono disporre di un apparecchio televisivo nella propria camera ed amministrarsi un menù televisivo qualitativamente e quantitativamente auto-imposto e mai verificato, guidato e controllato dagli adulti con una funzione educante (6). In questo modo è possibile comprovare quel sempre più diffuso atteggiamento di delega educativa che le figure genitoriali attivano nei confronti della baby sitter elettronica per alcuni studiosi, o maestra di vita per altri, ma sempre parcheggiatrice di minori soli (7).

Volendo ora paragonare il modo di vivere di un bambino di quarant’anni fa con quello di un bambino di oggi è immediato cogliere quanto la scatola magica abbia modificato i ritmi di vita. I bambini, allora, giocavano all’aperto, nei cortili, nelle strade, nelle piazze, o meglio nei parchi pubblici. La cultura dominante dei bambini era quella del gioco, trasmessa fra loro stessi in modo spontaneo. Oggi, per i bambini è sicuramente diventato più difficile trovare i cosiddetti compagni di gioco, ossia bambini liberi da impegni come lezioni di musica, ginnastica o qualche programma televisivo. La loro giornata risulta spesso scandita dal menù televisivo quotidiano e il più delle volte i giochi sono imitazioni di ciò che è stato visto in Tv, o peggio ancora giochi in vendita da case produttrici che sfruttano i modelli dei cartoni più gettonati.

Solo superata la soglia della maggiore età la dieta quotidiana di consumo televisivo muta: inizia un processo di disaffezione di massa dalla maggior parte dei programmi di successo della televisione, ad eccezione di fiction esport (8).

 

Effetti della Tv sullo spettatore in genere e sul minore

 

È necessario riportare integralmente parte delle teorizzazioni di Filippo Petruccelli (2004) sugli effetti di determinate produzioni televisive sugli spettatori: “…Diverse ricerche hanno evidenziato i principali vissuti del telespettatore, suscitati da determinati tipi di programmi, quali, per esempio, quelli di intrattenimento in onda solitamente in prima serata.

I diversi vissuti, sebbene siano presi in considerazione separatamente dalle suddette ricerche, in realtà compaiono ‘mescolati’ tra loro: ogni trasmissione veicola, generalmente, più di un’emozione e le principali sono:

1.     ansia: tale emozione si manifesta, per esempio, quando si assiste a una competizione sportiva, in cui si partecipa empaticamente alla tensione della gara, oppure giochi a quiz, confronti politici. Tutta la tensione accumulata si converte poi in eccitazione gioiosa, scaricata tramite una serie di movimenti, oppure in senso di frustrazione, in cui l’energia viene deflessa verso l’interno facendo si che il soggetto si chiuda in se stesso. Esistono anche dei programmi che generano ansia meno consistente ma più dannosa perché ha poche possibilità di espressione. Si tratta di tutte quelle trasmissioni in cui vengono proposti episodi di violenza, angoscia e disperazione sociale: tutti aspetti di quella che è stata definita tv del dolore, l’obiettivo principe della telecamera costituito dalla sofferenza. Non ha assolutamente importanza il tipo di immagine: fondamentale è che il messaggio susciti un coinvolgimento emotivo in grado di catturare il pubblico;

2.     aggressività e sadismo: stimolano l’aggressività tutti quei contesti, come le pubblicità, i talk show, i serial d’azione, in cui un comportamento aggressivo, sia esso fisico, verbale o espresso in atteggiamenti di arroganza, ostentazione e mancanza di rispetto, viene approvato o non punito. I programmi che stimolano l’istinto sadico, anche se inconsapevolmente, sono quelli volti a mettere in primo piano il malessere, il disagio e la sofferenza altrui. Va sottolineato come sia presente anche una certa dose di piacere nel vedere qualcun altro in difficoltà, innanzitutto perché ciò sancisce la situazione in cui ci troviamo noi, esaltando così il nostro senso di superiorità;

3.     eccitazione sessuale: su di essa si basa buona parte della pubblicità, e sempre più frequentemente svariati programmi, con doppi sensi e vari tipi di allusioni. L’allusione sessuale si può riferire anche al fatto che l’uso del prodotto aumenterà la propria capacità seduttiva, in termini di bellezza, ricchezza o prestigio sociale, e quindi faciliterà la conquista dell’altro sesso. Oppure è il prodotto stesso che funge da attrattore sessuale, così che il suo possesso garantisce un sicuro richiamo. In altri casi il riferimento sessuale si basa invece su uno spostamento, per cui l’uso del prodotto è uguale o, addirittura, più gratificante di un rapporto sessuale. Un altro tipico programma che veicola messaggi sessuali è il varietà, le cui finalità esplicite, quali l’evasione e il divertimento, vengono ricercate nella riproduzione di un clima di festività dove ogni proposta genera reazioni di entusiasmo, nel quale non traspare alcun segno di fatica e di lavoro. Tutto ciò è, ovviamente, aiutato dallo sforzo delle scenografie e dei costumi;

4.     frustrazione e senso di colpa: nel mezzo televisivo la frustrazione può essere suscitata da quei contesti, come ilvarietà o gli spot pubblicitari, che propongono una realtà gioiosa, dominata dall’entusiasmo, dall’armonia e dal benessere. Il potersi identificare con tale realtà crea delle aspettative che vanno a incidere soprattutto nella sfera degli ideali, costruendo modelli di se, di vita, di partner, di lavoro cui aspirare. Spesso, il fatto di confrontarsi con tali modelli genera un senso di frustrazione determinato, proprio dalla consapevolezza del divario esistente tra le reali possibilità e gli ideali proposti. Un senso di frustrazione emerge anche in tutti quei contesti televisivi che documentano le ingiustizie e le sofferenze del mondo. Circa i sensi di colpa suscitati sono gli stessi mass media a fornire gli strumenti di espiazione consentiti negli aiuti economici di vario genere che leniscono le colpe solo di chi si accontenta all’apparenza;

5.     narcisismo e onnipotenza: la realtà televisiva rispecchiando i valori della cultura attuale, di cui È parte attiva, favorisce in gran parte le componenti narcisistiche della personalità. Lo stesso rapporto col mezzo ha una valenza narcisistica in quanto l’individuo non è coinvolto in un reale scambio relazionale, ma è solo con se stesso a sperimentare i vissuti che gli vengono proposti. Egli si può percepire, da un lato, come passivo e impotente, non potendo interferire attivamente nella comunicazione, dall’altro, come onnipotente nel poter scegliere le emozioni che più gli piacciono, nel non doversi confrontare con la diversità e le esigenze dell’altro, ma solo con se stesso;

6.     socialità: la televisione soddisfa anche i bisogni sociali. Un ruolo estremamente importante che consente di vivere il sentimento sociale È svolto dal processo di identificazione che si sviluppa nei confronti dei personaggi e delle situazioni della realtà televisiva. Il senso di partecipazione è sempre presente, ma viene enfatizzato soprattutto da alcuni programmi che tendono a sviluppare un vero e proprio legame affettivo col pubblico. Tutto ciò è particolarmente vero nei confronti delle soap opera, in cui lo spettatore sviluppa una relazione pseudo-amicale con gli interpreti, spesso percependoli persone reali, parlando di loro con amici e parenti;

7.     voyeurismo: la componente voyeuristica può essere in parte soddisfatta dalla fruizione televisiva che si basa principalmente sulla percezione visiva. In tal caso il voyeurismo non ha necessariamente una meta erotica, sebbene il messaggio sessuale sia presente in buona parte della comunicazione televisiva…”(9).

Anche il tema sugli effetti della televisione sui minori è molto complesso e lo è ancora di più se si considera che il parere degli esperti è spesso poco concorde. Ci sono autori e studiosi che demonizzano la televisione, altri che la ritengono positiva, ma prevalgono soprattutto i giudizi negativi sull’uso eccessivo del piccolo schermo.

A seguire alcuni degli effetti negativi attribuiti a questo strumento di comunicazione:

•      induce il minore ad estraniarsi dall’ambiente fisico e sociale, con il rischio di compromettere l’unità familiare. “La televisione rompe le barriere generazionali: i genitori sono degli adulti, quegli adulti di cui i bambini imparano spesso a conoscere non solo la scena, ma anche i retroscena guardando la tv. I genitori non incarnano più una distanza, né sono più depositari di quei segreti degli adulti che in passato li circondavano di un’aura di autorevolezza…” (Dinelli, 1999);

•      rende poco chiari i confini fra la realtà e la produzione fantastica;

•      distoglie il minore dalle esperienze dei giochi, inducendolo ad atteggiamenti passivi. “La televisione è una ladra di tempo: deruba i bambini di ore preziose, essenziali per imparare qualcosa sul mondo e sul posto che ciascuno vi occupa. E questo sarebbe già abbastanza negativo. Ma la Tv non è soltanto ladra: è anche bugiarda. Guardando la televisione i bambini vi scorgono una fonte ragionevole di informazioni sul mondo. Questo non è vero, ma loro non hanno modo di capirlo. Per quel po’ di verità che la televisione comunica, c’è molto di falso e di distorto, sia in maniera di valori sia di fatti reali…” (10).

•      limita lo sviluppo delle capacità di concentrazione, proponendo troppo spesso modelli negativi di comportamento. “A piccole dosi la televisione può rappresentare un arricchimento per la vita dei bambini; a dosi maggiori sottrae tempo alle esperienze culturalmente più rilevanti che altrimenti avrebbero. Quindi, gli effetti del dedicare tempo all’ascolto delle Tv, come quelli del contenuto televisivo, sono meno forti e meno nefasti rispetto al peggio immaginato, meno buoni del meglio immaginato e più evidenti rispetto a quello che sarebbe piaciuto a chi liquida sprezzantemente ogni preoccupazione in materia di televisione…” (11).

•      impoverisce la specificità culturale del bambino, in cambio di compagnia per svariate ore della giornata. “…La televisione sta eliminando la linea divisoria tra infanzia e età adulta in tre modi, tutti e tre in rapporto con la sua indifferenziata accessibilità. Innanzitutto, perché essa non richiede un’istruzione per poterne comprendere la forma; in secondo perché non impone difficili questioni di natura intellettuale o etica; infine, perché non separa gli uni dagli altri i suoi spettatori… La dimensione comunicativa che ne deriva fornisce a tutti simultaneamente le stesse informazioni. In queste condizioni, È impossibile che i mezzi elettrici riescano a nascondere alcun segreto. Ma senza segreti, una dimensione come quella dell’infanzia non può più esistere… (12);

•      anche i genitori contemporanei sono, assieme ai critici, seriamente preoccupati del ruolo della televisione nella vita dei Minori, soprattutto se si considera l’opinione di Dorr che rende note cifre sui bambini americani che guardano dalle venticinque alle trentacinque ore di televisione ogni settimana. Di questo numero di ore di programmazione la maggior parte non viene programmata avendo come principale obbiettivo il benessere del minore: “…Ben poco di ciò che i bambini guardano È veramente edificante, idealista, educativo o informativo…” (13).

La televisione di qualità può, però, avere anche diversi vantaggi sul pubblico dei minori:

•      il primo vantaggio riguarda la comunicazione d’informazione, per meglio dire lo strumento televisivo si rivela molto efficace per insegnare ciò che accade nel pianeta, usi e costumi di altri popoli, storia e geografia, così come certe nozioni di medicina, biologia o antropologia, possono essere comprese rapidamente attraverso filmati ben strutturati;

•      il secondo vantaggio è possibile ottenerlo dai programmi che affrontano argomenti dolorosi, come la morte o il divorzio. Questi possono rivelarsi d’aiuto ai minori per capire i loro sentimenti qualora siano stati toccati da eventi del genere. Anche i genitori possono trarre da tali trasmissioni utili spunti per parlare della sfera sentimentale del Minore. Altri programmi interessanti sotto questo punto di vista sono gli Show, che promuovono valori sociali positivi come l’amicizia, la compassione, la generosità. Questi ultimi possono favorire lo sviluppo morale del bambino;

•      il terzo vantaggio è l’insegnamento alla soluzione dei problemi. Guardando programmi in cui i protagonisti devono impegnarsi in situazioni complesse e fare delle scelte, gli spettatori imparano a considerare la realtà su vari risvolti e a cercare soluzioni originali.

Altri programmi di qualità sono quelli che non schematizzano o stereotipizzano uomini o donne: questi aiutano i più piccoli e gli adolescenti a capire le loro potenzialità e ciò che potrebbero diventare nel futuro (14).

Piuttosto interessante si rivela uno dei primi e più completi rapporti sugli effetti di una eccessiva esposizione allo strumento televisivo condotti nel 1980 dall’Istituto delle comunicazioni Annemberg di Filadelfia. Bruno Lussato che ha tradotto questi studi, mette in risalto l’effetto maquette (modellino) ossia una forma di intossicazione legata a un aggiustamento semplificante e costante dell’informazione: “In televisione non è sufficiente semplificare il mondo, darne un’immagine tronca, riduttiva, censurata o parziale. Occorre che questa immagine sia coerente per soddisfare il grosso pubblico…” .

Succede che il pubblico che guarda la televisione vuole essere informato su tutto, ma non è disposto ad impegnarsi. I problemi complessi vengono respinti, desidera quindi un modellino semplice, facilmente riconoscibile, così come sono i personaggi e le storie dei teleromanzi. Questo è il modellino a cui tutti i produttori televisivi si rifanno in maniera conscia o inconscia. Il risultato è l’imposizione di stereotipi, ossia i personaggi, gli slogan, le ideologie dominanti e di minoranza.

Lussato spiega che per capire l’effetto maquette occorre immaginare una tavola rotonda sulla quale si pone lamaquette stessa. Attorno al tavolo stanno gli spettatori televisivi. Ogni spettatore avrà una differente visione delmodellino, si offre così l’illusione di un pluralismo. Da questo esempio si può capire come in televisione il discorso di un uomo politico, un’ideologia o immagini di un sabotaggio saranno colte in modi differenti a seconda del commentatore o del telespettatore. La maquette non è la realtà ed ignora una gran parte del vissuto, del reale, dando molta importanza a falsi problemi o presentando in modo falso i veri problemi (15).

L’effetto maquette, in altri termini, crea un paradosso, ciò che lo spettatore vede non È la realtà, ma un suo simulacro e poiché la distorsione operata dalla televisione non è visibile il pubblico prova il piacere della libertà di interpretazione.

Il flusso veloce delle immagini, dei colori, dei suoni rende particolarmente affascinante il piccolo schermo, questo accade soprattutto fra i più piccoli. La bellezza delle immagini, le tecniche di ripresa sempre più sofisticate, gli effetti speciali, le colonne sonore, i virtuosismi del montaggio, che contribuiscono alla rapidità del ritmo, costituiscono “Ulteriori fonti di incantamento…” (16).

Occorre riflettere sulla valenza scientifica dei criteri di osservazione degli effetti positivi o negativi che la televisione provoca in relazione allo sviluppo cognitivo e sensoriale del pubblico dei Minori o negli individui in generale. Pellai sostiene che “Non è possibile stabilire con rigore scientifico gli effetti indotti dalla televisione sul comportamento dell’individuo, considerata la complessità dell’interazione fra la proposta televisiva e i suoi fruitori e considerata inoltre la varietà e la differenziazione dei processi con cui avviene l’interpretazione del messaggio…”. In pratica, risulterebbe impossibile la determinazione di un modello esatto di apprendimento della programmazione televisiva.

Anderson e Meyer (1988), piuttosto che studiare gli effetti della fruizione televisiva, hanno cercato di definire i fattori che intervengono a differenziare le singole reazioni di spettatori diversi di fronte allo stimolo televisivo. Questo studio ha portato all’identificazione di un modello interattivo che analizza il tipo di violenza del programma televisivo e la storia personale dello spettatore, che potrebbe essere caratterizzata da esperienze infuse del fattore violenza o aggressività. Diventa così più semplice spiegare come, in relazione a questo modello, gesti violenti o aggressivi siano solamente stimolati dal messaggio televisivo di quello stesso tipo, in particolari individui quasi fossero bombe pronte allo scoppio.

Altri studi che si propongono come alternativi a quelli scientifici sono gli studi naturalistici e gli studi sperimentalianche se di difficile applicazione.

Tuttavia, la prova più certa della capacità di influenza della televisione sta nella costante crescita di richieste di spazi pubblicitari che le aziende di commercio fanno al sistema televisivo sicure di poter incrementare i loro profitti.

 

Effetti della Tv sullo sviluppo cognitivo e sull’apprendimento scolastico

 

Che effetti possono avere i media sullo sviluppo cognitivo dei bambini? Nello specifico, in che misura influenzano l’acquisizione di capacità fondamentali quali la lettura o la scrittura, o lo sviluppo nelle prestazioni che vengono considerate indici del quoziente di intelligenza raggiunto? Alcuni autori ritengono che la relazione sia di tipo positivo, ossia che la televisione possa costituire un fattore che facilita lo sviluppo di tali capacità. Ma, gli effetti positivi prodotti dall’ esposizione al mezzo televisivo sono in relazione con il grado di sviluppo già raggiunto: a parità di età, a beneficiare maggiormente della visione della televisione sarebbero i bambini che già possiedono le maggiori capacità cognitive e le superiori conoscenze. La knowledge-gap hypothesis contempla che i soggetti inizialmente svantaggiati, con l’esposizione alla televisione, vedano accrescere questa loro situazione in quanto in grado di beneficiare in misura minore delle possibilità di sviluppo offerte dal mezzo.

È stato individuato, ad esempio, un maggiore apprendimento in bambini provenienti da famiglie con elevato status socio-economico rispetto a bambini appartenenti a famiglie di un basso status, ed attribuito tale effetto alle differenti capacità di comprensione e ritenzione che caratterizzerebbero i due gruppi e che deriverebbero da differenti esperienze di apprendimento pregresse. Altre ricerche (Roberts e Bachen, 1981) hanno, invece, evidenziato un effetto positivo della visione televisiva nel ridurre il gap tra gruppi con differente status sociale. Soggetti appartenenti a gruppi con un differente background culturale possiedono interessi e motivazioni differenziati; in secondo luogo occorre rilevare il grado in cui lo specifico programma è focalizzato sulle capacità cognitive già possedute dal soggetto: programmi relativamente semplici possono essere di aiuto per bambini svantaggiati e risultano irrilevanti per bambini caratterizzati da uno sviluppo già avanzato. Newman e Prowda (1981) hanno trovato che la correlazione negativa tra visione televisiva e progressi nella lettura diventava viepiù rilevante con il procedere della classe scolastica di appartenenza dei bambini. In quest’ottica, con il crescere dell’età e delle capacità possedute, la visione televisiva produrrebbe crescenti conseguenze negative.

Effetti positivi sull’apprendimento scolastico sono stati riscontrati dopo la visione di programmi appositamente costruiti per tale scopo, quali ad esempio Sesame Street o Mr. Rogers. In tali programmi innanzitutto si cercava di proporre modelli positivi: ad esempio, Kermit, il simpatico ranocchio protagonista di Sesame Street, amava sottolineare i suoi buoni risultati scolastici e il piacere che provava nell’andare a scuola, nonostante una certa avversione per le ore di biologia. In secondo luogo i contenuti erano creati in modo tale da sottoporre ad esercizio le abilità cognitive dei bambini. In particolare, sembra consistente l’impatto dei mezzi di comunicazione nel produrre un arricchimento del repertorio lessicale dei bambini. Ma, la variabile chiave sembra essere la sollecitazione da parte di adulti durante il momento della visione ed in seguito per discutere i contenuti visti. La semplice visione appare, quindi, insufficiente per produrre risultati significativi. La televisione è un mezzo facile, a differenza della lettura. L’assistere ad un programma televisivo non richiede un particolare sforzo cognitivo e quindi l’apprendimento consistente che si può ottenere con la lettura di un libro non si avrebbe con la semplice visione. La presenza e l’intervento di adulti, mentre i bambini guardano il programma, consente di aumentare il grado di attenzione e di impegno rivolto al programma stesso, rendendo di conseguenza più probabile l’acquisizione di conoscenze e lo sviluppo di capacità.

In una ricerca condotta in Giappone (17) è stata valutata l’influenza dei videogames su alcune capacità cognitive di base misurate attraverso la complessità e il grado di astrattezza nel fornire descrizioni di se stessi e di altri e su abilità sociali rilevate attraverso una scala che metteva in luce le capacità empatiche dei soggetti. La frequenza d’uso dei videogames si rivelò, seppure debolmente, correlata negativamente alle capacità socio-cognitive.

Gli effetti dei media, oltre che sulle prestazioni cognitive, possono manifestarsi anche nei confronti delle attività creative ed immaginative. Frequentemente, personaggi e situazioni visti in televisione vengono inclusi dai bambini nei propri giochi (ad esempio: simulare le gesta di un supereroe); le ipotesi che sono state testate riguardano l’impatto dei Media sul livello generale delle attività creative ed immaginative. Queste vengono descritte operativamente come il grado di gioco simbolico basato sul “fare finta che” e come la capacità di produrre soluzioni o usi alternativi ad una medesima storia od oggetto (18).

Harrison e Williams confrontarono le prestazioni in un test di pensiero divergente prodotte da bambini dai 10 ai 13 anni appartenenti a 3 comunità differenti: una in cui la televisione non era stata introdotta, una in grado di ricevere un unico canale e una in cui i canali ricevuti erano invece numerosi. I bambini nella prima comunità ottennero punteggi superiori a quelli ottenuti dai bambini in grado di utilizzare la televisione. Dopo due anni dall’introduzione della televisione in tale comunità le differenze scomparvero e le prestazioni dei bambini in tale test scese fino al livello presente nelle altre due comunità. In parallelo, con i risultati discussi circa il legame tra comportamenti di fruizione dei media e apprendimento scolastico, sembrerebbe che anche gli effetti sulle capacità creative siano ampiamente dipendenti da un lato dalle caratteristiche del prodotto offerto (ad esempio: il tipo di programma televisivo) e dall’altro dalle caratteristiche del bambino che si espone alla comunicazione.

 

Le influenze dell’esposizione televisiva sui sistemi di rappresentazione della realtà

 

Secondo una prospettiva teorica molto consolidata, la funzione principale dei mezzi di comunicazione di massa è quella di agenti di socializzazione in grado di plasmare le percezioni, gli atteggiamenti, i valori ed i comportamenti dei fruitori. Quasi tutti i programmi, secondo gli autori che si rifanno a questo approccio teorico, presentano delle immagini del mondo relativamente uniformi e, con il tempo, queste vengono progressivamente fatte proprie da parte degli spettatori, i quali plasmano a partire da esse le proprie personali immagini del mondo. I mezzi di comunicazione di massa vengono considerati dominatori dell’ambiente simbolico della vita moderna. Questa teoria è stata sottoposta a verifica in due modi. Il primo si basa sulla rilevazione dello scarto che separa le concezioni delle persone che fanno un ampio uso del mezzo televisivo (heavy viewers) dalle concezioni di coloro che al contrario guardano relativamente poco la televisione (light viewers). Si ritiene che questi due gruppi, a parità di altre condizioni, posseggano differenti idee dovute alla dissimile quantità di esposizione e che quanto maggiore è la differenza nelle abitudini di fruizione tanto maggiore sarà lo scarto.

Ad esempio: le persone che più delle altre guardano la televisione reputano il mondo in cui viviamo assai più violento e con maggiori rischi di subire aggressioni e ciò viene ricondotto alla frequente esposizione televisiva ad atti violenti (Arcuri, 1995). Analogamente, emergono curiosi dettagli, ad esempio: chiedendo alle persone di stimare la probabilità che in un conflitto a fuoco la mira di un poliziotto risulti efficace, tutti coloro che rispondono tendono ad esagerare la valutazione, ma questo capita in misura maggiore da parte dei più assidui consumatori televisivi (64% vs. 53% rispettivamente per gli heavy e i light viewers). Insomma, la percezione della realtà in ogni suo aspetto, fin nei più sottili dettagli, viene permeata dalle proposte televisive.

Un altro esempio: una tematica che è stata studiata approfonditamente riguarda l’immagine delle persone anziane presentate in televisione. I dati di ricerca illustrano la disparità da un punto di vista numerico, riscontrata negli Stati Uniti, tra l’età dei personaggi televisivi nei programmi della prima serata e l’età della popolazione. Chiedendo ad un campione di 600 adolescenti a quale età una persona diventi vecchia, i ragazzi appartenenti al gruppo dei light viewers risposero mediamente 57 anni, mentre l’indicazione che emerse dagli heavy viewers fu 51 anni. Non solo il forte consumo televisivo fa sì che le persone vengano considerate diventare anziane con una maggiore rapidità, ma anche che le caratteristiche associate alla cosiddetta terza età siano maggiormente negativi. Una visione assidua consolida, infatti, un’immagine caratterizzata da una scarsa salute, da problemi finanziari, da strani comportamenti, da mancanza di attività sessuale e così via (19).

 

L’influenza della televisione rispetto alla violenza

 

Nel tentativo di rispondere alla domanda sull’influenza della televisione rispetto alla violenza sono state avanzate diverse ipotesi. Tre sono assai prossime alla psicologia sociale e basate su una visione atomizzata del pubblico.

La catarsi: gli spettatori sarebbero resi meno violenti perché lo spettacolo permette loro di vivere la propria aggressività per procura.

La stimolazione: gli spettatori diventerebbero più violenti perché – in un’ottica comportamentista – lo spettacolo della violenza potrebbe generare, quasi per imitazione e automatismo, comportamenti violenti.

L’apprendimento: gli spettatori – in particolare i più giovani – sarebbero allo stesso tempo messi in grado di imparare tecniche di violenza e di prendere come riferimento, come norma, eroi violenti28.

Anche quando i comportamenti violenti sono stati appresi in casa o per strada, la Tv violenta li rafforza in una tragica circolarità, in cui i bambini più a rischio sono proprio quelli più fragili e deprivati. Ne segue che molti soggetti, sottoposti a scene o spettacoli televisivi violenti per ore, giorni, settimane, mesi, anni, sono desensibilizzati e anestetizzati rispetto alla violenza e tendono poi a compiere, soprattutto nell’adolescenza, atti di violenza fisica, atti di aggressione fisica o di bullismo: diventano, così, soggetti che hanno bisogno di mettersi in una situazione di grande violenza per provare un’emozione.

Come dimostrato dallo studio condotto da Jeffrey Johnson su 700 bambini esaminati nella pubertà e nell’adolescenza fino all’età adulta presso la Columbia University, la televisione per oltre un’ora il giorno può rendere gli individui più inclini alla violenza: una volta raggiunta la maggiore età, gli adolescenti si abbandonano, infatti, più facilmente ad atti aggressivi verso altre persone. I dati indicano con forza l’esistenza di un rapporto causale tra la violenza mediatica e il comportamento aggressivo di alcuni individui.

Ma, nonostante il consenso unanime degli esperti, non sembra che la gente percepisca pienamente il pericolo rappresentato dalla tv. Questo continuo rapporto senza filtri con la realtà mediatica fa acquisire al bambino una sorta di assuefazione alla violenza: tutti i giorni, per ore e ore, egli si nutre di guerre, omicidi, rapine, aggressioni, litigi, turpiloqui, situazioni limite che hanno la forma e il linguaggio di telefilm, cartoni, fiction. Una contaminazione del suo cuore e della sua mente che lo destabilizza e gli fa abbassare la soglia di percezione dell’atto ingiusto, criminale e violento.

La distruttività non necessariamente si esprime in azioni contro gli altri. Si può essere distruttivi anche verso se stessi. Lasciare i bambini soli davanti alla tv significa modificare il loro modo di pensare, di comunicare, di immaginare la realtà. È importante sottolineare, quindi, l’importanza della presenza attiva degli adulti per evitare che i piccoli telespettatori siano succubi di questo invadente mezzo di comunicazione.

Per una didattica di prevenzione della violenza televisiva, è fondamentale che i genitori adottino una consapevolezza dei rischi della televisione: devono ridurre e regolare i tempi di fruizione, anche in base all’età dei figli, scegliere loro programmi adatti, guardare alcuni programmi insieme ai figli per spiegare, tranquillizzare e sdrammatizzare.

Si può educare i giovani a muoversi autonomamente nell’universo dei media: è una sfida impegnativa che però educatori consapevoli e preparati possono serenamente raccogliere. Anche la scuola deve, perciò, educare al linguaggio delle immagini, che richiede un’adeguata formazione da parte degli insegnanti. Le attività pedagogiche e di prevenzione alla violenza televisiva che possono essere proposte sono svariate: si può, ad esempio, far smontare un programma, analizzando le scene, la scelta delle immagini e far conoscere i trucchi televisivi. Bisogna far capire ai giovani utenti che la televisione, avendo come fine l’attenzione degli spettatori, usa qualsiasi immagine ad effetto per esercitare un grande potere di suggestione sui telespettatori. Questa ricerca disperata dell’audiencerende gli operatori della Tv del tutto irresponsabili nei confronti del pubblico e diviene ammissibile che immagini di una violenza brutale invadano con una frequenza sempre più elevata lo schermo televisivo, costituendo così un reale pericolo per i bambini.

 

I bambini e la pubblicità televisiva

 

Per ben comprendere il delicato aspetto dell’influenza della Tv sui bambini in tema pubblicitario è importante riportare, quasi integralmente, le attente considerazioni di Valeria Verrastro (2004): “Osservando una pubblicità un bambino può vedere immagini di ogni genere: corpi ingigantiti o rimpiccioliti, o snodabili, scene di violenza familiare, donne e uomini che ammiccano, giganti e folletti, ecc. Si spazia dunque dalla violenza alla sessualità, in tutte le sue manifestazioni, passando per party surreali e macchine supersoniche, mischiando spesso il reale con l’immaginario, arrivando spesso al magico e all’onirico. Questi livelli, che sono chiaramente distinti per un adulto, non lo sono in modo così netto per il bambino.

Inoltre, la presentazione veloce di comunicazioni pubblicitarie, in particolar modo quando espone il bambino al rischio di fraintendere o trasporre alcuni contenuti; possiamo anche osservare che le interruzioni pubblicitarie vengono di solito inserite dopo una scena a particolare contenuto emotivo, in modo da attirare l’attenzione dello spettatore… Al di là di facili demonizzazioni, si è osservato che i bambini iniziano a discriminare la pubblicità dal programma all’interno del quale essa è inserita, attorno ai cinque anni, ma questo non comporta necessariamente la presenza degli elementi necessari ad una corretta elaborazione del testo. Cavazza (1997), individua nei bambini di circa sette-otto anni l’esordio di un senso critico in grado di renderli maggiormente scettici verso il messaggio pubblicitario, che è invece considerato dai più piccoli come “divertente”, in particolar modo quando rappresenta coetanei, animali, o situazioni domestiche. Andando oltre l’effetto immediato di consumo di un dato prodotto, che dipende genericamente dalla mole delle richieste pressanti che il bambino esercita sull’adulto, possiamo osservare che la pubblicità svolge un ruolo più a lungo termine: essa propone modelli di comportamento, una certa immagine del mondo e delle relazioni e propone nuove forme linguistiche…”.

Per Juliet B. Schor (2005) la commercializzazione odierna coincide con importanti cambiamenti nella natura dell’infanzia stessa e spinge Neil Postman a parlare chiaramente di scomparsa dell’infanzia.

Paragonati ai baby boomer, i giovani entrano prima in contatto con il mondo degli adulti e ne sono maggiormente coinvolti. Una delle prove di quanto siano sfumati i confini tra i bambini e gli adulti è il declino dei giochi infantili, quali le biglie o la palla avvelenata, la scomparsa di stili di abbigliamento specifici per bambini, la precoce attività sessuale, l’uso della droga e dell’alcool, la diffusa erotizzazione dei bambini attraverso concorsi di bellezza, annunci pubblicitari e moda.

Oggi la pubblicità, rappresentando un genere televisivo vero e proprio con le sue logiche e caratteristiche, è entrata a far parte integrante del palinsesto televisivo giornaliero e non è più circoscritta all’interno di uno spazio di programmazione definito e limitato come era nel passato (es. Carosello). Ed è proprio per questo motivo che, nell’ambito dell’attenzione che viene posta sul vasto tema del rapporto bambini-televisione, la fruizione della pubblicità da parte dei giovani telespettatori rappresenta un’importante occasione di confronto fra gli esperti del settore.

La velocità delle immagini, l’allegria delle musiche, la presenza di personaggi famosi contribuiscono a far sì che la pubblicità attiri molto i bambini di oggi.

Anna Oliverio Ferraris (1994) sottolinea alcuni elementi che facilitano la memorizzazione degli spot e li rendono gradevoli al pubblico dei più piccoli. Questi sono:

  • L’identificazione: il bambino apprezza il messaggio pubblicitario quando ci si identifica (in molte pubblicità gli attori sono dei bambini); infatti, “quando la rappresentazione concorda con il suo vissuto, lo spettatore si lascerà più facilmente coinvolgere dal messaggio”.
  • Il clima: il clima di felicità, amicizia e successo che si respira negli spot fornisce ai bambini una visione rassicurante del mondo.
  • L’avventura: spesso negli spot ci sono avventure eccitanti o piccoli problemi da risolvere e sappiamo che ai bambini piacciono molto le avventure e le sfide.
  • Il ritmo: gli spot sono brevi e si adattano ai tempi di attenzione dei bambini e sono molto spesso caratterizzati da rime, canzoncine, slogan semplici e accattivanti.
  • La ripetizione: gli spot vengono ripetuti più volte nell’arco di una giornata.

Francesca Romana Puggelli (2002), all’interno di un’attenta analisi sui meccanismi responsabili dell’attrazione degli spot televisivi nei bambini, individua le caratteristiche che facilmente fanno penetrare la pubblicità nel linguaggio e nel modo di pensare dei bambini:

  • Attenzione – Attivazione: la pubblicità richiede continuamente attenzione, attraverso i continui movimenti sullo schermo che evocano una altrettanto continua risposta dello spettatore; il sistema nervoso si attiva, infatti, a ogni cambio di scena, di inquadratura, all’aumento del volume della musica, ecc.
  • La mancanza di effetti di inferenza cognitiva: non c’è alcuna possibilità per i bambini di riflettere su quanto hanno appena visto, in quanto le immagini e i suoni successivi sommergono immediatamente quelli precedenti.
  • La complessità di presentazione plurisensoriale: vista, udito e parola scritta agiscono simultaneamente nel mezzo televisivo, sollecitando il sistema nervoso.
  • L’orientamento visuale della televisione: questo tipo di orientamento minimizza l’attenzione ad altre sorgenti di informazione, impedendo quindi la distrazione durante la visione stessa.
  • Il range emozionale evocato dalla televisione: ogni azione presentata in televisione è molto più forte che in qualsiasi altro medium.

Dunque la pubblicità piace molto ai bambini che la percepiscono come un vero e proprio spettacolo. Ma la pubblicità può anche avere effetti non del tutto positivi sui piccoli spettatori, soprattutto nella misura in cui essa viene fruita solo attraverso i canali emotivi, tralasciando quelli cognitivi.

Gli esperti del settore evidenziano come da una parte gli spot mettano in moto il meccanismo del desiderio invogliando al possesso (e quindi all’acquisto da parte dei genitori) del prodotto reclamizzato, dall’altra propongano modelli di comportamento ritenuti non adatti al pubblico dei minori.

Sempre Oliverio Ferraris (1994) sottolinea come un’eccessiva esposizione dei bambini ai messaggi pubblicitari possa favorire lo sviluppo di:

  • Una visione materialista del mondo e dei rapporti umani.
  • Una visione distorta della realtà: nel mondo degli spot tutto si muove secondo un piano prefissato, in funzione di uno specifico prodotto.
  • Sentimenti di insoddisfazione: nella realtà quotidiana il bambino non ritrova quelle situazioni lineari e accattivanti che vede riprodotte negli spot.

Gli effetti della pubblicità non sono gli stessi in tutti bambini in quanto diverse variabili sono da tenere in considerazione: l’influenza della pubblicità può essere maggiore o minore in funzione del controllo esercitato dai genitori, dal livello di istruzione, dell’età del bambino; al riguardo gli esperti del settore sottolineano come al di sotto dei 6-7 anni i bambini non siano ancora in grado di distinguere la pubblicità di un prodotto rispetto ad un altro e non hanno ancora chiaro il fatto che la pubblicità ha finalità puramente di vendita del prodotto pubblicizzato. A partire dai 7-8 anni, invece, entrano in un’altra fase di sviluppo cognitivo che permette loro di acquisire il concetto di “intenzione persuasiva” degli spot.

Cosa possono fare, dunque, genitori ed insegnanti per limitare gli effetti negativi di un’eccessiva esposizione alla pubblicità?

Con i bambini più piccoli è consigliabile limitare i tempi di esposizione al teleschermo. Con i più grandi si può lavorare cercando di sviluppare in loro le capacità critiche e le competenze di acquirente. Questo tipo di intervento educativo può essere svolto aiutandoli a decodificare le immagini (molto spesso ricche di messaggi subliminali), a capire le intenzioni dei pubblicitari e i trucchi che questi utilizzano per catturare l’attenzione dei potenziali acquirenti.

È inoltre importante spiegare ai più piccoli – sottolinea ancora la Oliverio Ferraris – che gli spot hanno lo scopo di far acquistare dei prodotti e che portano denaro ai canali televisivi che li trasmettono e aiutarli a capire la differenza che passa tra ciò che i vari spot vogliono far comprare e l’effettivo bisogno di quel prodotto. In questo modo sarà più facile far capire che la realtà riportata negli spot è distante dalla realtà quotidiana e che i personaggi delle pubblicità partecipano ad una recita. Adottando questo tipo di interventi educativi si possono aiutare i più giovani a guardare gli spot in un’ottica differente, meno coinvolgente dal punto di vista emotivo, facendo si che essi imparino ad acquistare in modo razionale e consapevole.

 

1) “L’onnipotenza dei media: sua maestà la tv!”10 (Ed. Rubbettino, 2007).
2) Spini, 1990.
3) Cfr. Ibidem.
4) A. O. Ferraris, 1998.
5) Murray, 1980
6) Morcellini, 1999.
7) Pellai, 1999.
8) Pellizzari e Perillo, 1997.
9) Petruccelli, 2004.
10 Popper e Coundry, 1994.
11) Dorr, 1990.
12) Postman, 1982.
13) Dorr, 1990.
14) A. O. Ferraris, 1998.
15) Lussato, 1991.
16 Matilde Calligari Galli, 1999.
17) Sakamoto, 1994.
18) Van der Voort, 1994.
19) Gerbner, Gross, Signorielli e Morgan, 1980.
20) Bourdon, 2001.

*Dice di sé.
Antonio Marziale. Sociologo, giornalista, presidente dell’Osservatorio sui diritti dei minori. Per mantenersi gli studi universitari, ha fatto l’assistente in orfanotrofio. L’incontro con quei bambini ha modificato la visione della sua vita, che ha inteso dedicare interamente alla costruzione di una cultura globale rispettosa delle loro esigenze. È sempre più persuaso a pubblicare un libro autobiografico che gli piacerebbe intitolare “Io, Marziale, bacchettone e moralista”, da dedicare a quanti pensano che un culo e una tetta in tv lo mandino su tutte le furie. All’Università gli è toccato stilare una tesina sull’evoluzione del cinema porno dagli anni ’30 in poi… Ah! Com’è ardua la vita dei critici: non c’azzeccano mai! 

CARLO VERDONE

Forse a rovinare le mie notti è stato anche il successo.
Io che per natura sarei un timido, sono stato gettato di fronte a
migliaia di persone. E il mio sonno, già di per sé debole,
ne ha risentito.
(Da “Ok la salute prima di tutto”, 2010)

SOCIETÀ Domenico Mazzullo - Le eterne leggi del successo

Il destino non è necessariamente segnato e ci può sempre essere un rovesciamento di sorti, un ribaltamento di ruoli, per cui veramente gli ultimi potrebbero diventare i primi e non nell’aldilà, ove tutto è più facile, ma in questa vita che, segnata al negativo dall’inizio, potrebbe anche rivolgersi al positivo, in seguito

Domenico Mazzullo*

“Non è facoltà dei mortali di comandare al successo, ma faremo di meglio, Sempronio; lo meriteremo”.

Joseph Addison

 

“Quaggiù il successo è il solo metro di giudizio di ciò che è buono o cattivo”.

Adolf Hitler

 

“Non eventus imputari debet cuiusque rei, sed consilium”

“Di qualsiasi cosa non si deve biasimare o lodare l’esito, ma l’idea, il principio che han mosso a compierla”.

Seneca

 

“Tutto ciò che serve per avere successo nella vita sono ignoranza e fiducia in se stessi”.

Mark Twain

 

“Non si può avere successo nella vita se non si presta alle piccole cose, la stessa attenzione e la stessa cura che si prestano alle più grandi”.

Charles Dickens

Quando ero poco più che bambino e poco meno che adolescente, figlio unico, in una famiglia piccolo-borghese, che si declinava tra la fine dei modesti anni ’50 e l’inizio degli opulenti ’60, nella mia casa non comparivano di frequente libri o giornali, secondo le migliori abitudini dell’epoca, ma una rivista non mancava mai e rappresentava una mia conquista e un mio piccolo patrimonio, gelosamente conservato e collezionato, dopo esser passata per le mani adulte dei miei genitori: “Selezione dal Reader’s Digest”.

Questo era il suo nome impronunciabile e per me incomprensibile, (lo è tutt’ora), ma che la rendevano, ai miei occhi ingenui, ancora più affascinante, misteriosa e come tale desiderabile. Aveva un formato insolito per una rivista, essendo le altre di dimensioni gigantesche, forse per contrastare e combattere le miserie del dopoguerra, mentre questa era modesta, piccola, maneggevole, anche per le mani di un bambino, avvicinabile ed abbordabile, addirittura più piccola anche, come formato, dei libri e sussidiari delle elementari; un aureo libretto dai contenuti affascinanti e imprevedibili, ogni mese, scritti in aggiunta anche con caratteri grandi e poco parsimoniosi.

Gli articoli erano brevi, modesti, non stancavano ed erano, soprattutto comprensibili, anche per me, scritti in un italiano facile ed accessibile, con un breve periodare ed una punteggiatura che permetteva spesso di tirare il fiato e riposare.

Alcune rubriche erano fisse e si ripetevano ogni mese con pedissequa continuità fornendo anche questa, una rassicurante e familiare consuetudine ai lettori, quasi un appuntamento mensile certo e sicuro, in un mondo che invece cominciava a cambiare e mutare con sempre maggiore, inquietante velocità.

Tra tutte una rubrica però era la mia preferita e, contravvenendo al mio già allora presente ordine mentale, che mi contraddistingue ancora, la ricercavo e la leggevo per prima, unica trasgressione che mi concedevo, alla ferrea legge autoimpostami di approcciarmi agli articoli secondo la successione con cui comparivano nella rivista.

Ma questa rubrica era troppo affascinante, troppo importante, troppo accattivante per essere lasciata in secondo, terzo, quarto piano, in ottemperanza alla successione di comparizione.

Sapevo con certezza ove trovarla, nell’ambito della rivista e la individuavo a colpo sicuro, con una maestria mai più ritrovata e ogni volta mi rallegravo e complimentavo con me stesso per questo piccolo successo infantile, che ancora oggi mi riempie di orgoglio e soddisfazione.

Ho detto successo? Forse sono stato, ancora oggi influenzato dallo stato d’animo di esaltazione nel ricordo e da una strana analogia concettuale.

La rubrica in questione si chiamava, infatti, proprio così: “Le eterne leggi del successo” e a me sembrava già di conseguirlo, un poco, avendone individuato l’ubicazione, al primo colpo, sempre.

Trattavasi, nei contenuti, di storie, di vicende umane, di autentiche biografie di persone, alcune viventi, altre decedute, che avevano conseguito, in vita, successo e fama, nel proprio campo di attività, spesso partendo da posizioni addirittura svantaggiate o francamente perdenti e che mai e poi mai avrebbero lasciato presagire il conseguimento, il raggiungimento di obiettivi impensabili ed inimmaginabili, per gli stessi autori di queste imprese impossibili.

E proprio questa impossibilità presunta, proprio questa inimmaginabilità, rappresentavano per me, bambino, il fascino e la magia di questi articoli, di queste storie vere, di persone vere, che a dispetto di ogni aspettativa, di ogni immaginazione, di ogni presunzione, a dispetto di presunte inferiorità, incapacità, inadeguatezze, deficit di ogni sorta, riuscivano a conquistare i primi posti nella gara della vita, nella corsa ad ostacoli che ciascuno di noi intraprende e continua, dalla nascita alla morte, ineludibilmente ed ineluttabilmente.

Queste persone, queste storie rappresentavano, per me, esempi viventi di un successo, ma soprattutto di un riscatto, di una giustizia sempre trionfante, pur se tardiva, di una vendetta, anche forse un poco, nei confronti degli altri, di quegli altri, più fortunati, che orgogliosamente e stoltamente non avevano creduto in loro.

Ovviamente in questa passione, in questa esaltazione tutta solo mia, per questi eroi, così a me apparivano, c’era un risvolto assolutamente personale e che traeva lo spunto dalla situazione che mi trovavo a vivere ed a patire.

Vittima di una incoercibile ed incontrollabile timidezza, come giustamente si addice ad un figlio unico di genitori anziani, secondo i più accreditati studi e teorie psicoanalitiche, con in più il vantaggio di una madre iperpresente e di un padre virtualmente assente, ero condannato ad una squallida quanto inconsolabile solitudine, essendomi i rapporti umani con gli amici ed i compagni di scuola preclusi da detta soverchiante timidezza.

A questa dovevasi aggiungere un pessimo successo, meglio detto risultato scolastico, che mi permetteva di essere sempre ed incontestabilmente primo nella classifica degli ultimi, sconsolatamente e desolatamente vincitore sempre, nella contesa per essere proclamato ultimo della classe, desolatamente perché ancora non ero stato edotto ed informato del consolante e rassicurante messaggio o promessa che dir si voglia, che “gli ultimi saranno i primi”.

Tant’è che rimanevo ed ero ultimo sempre, senza prospettiva o possibilità cosciente di alcun riscatto.

E questo essere ultimo non era conseguito con sforzo ed applicazione sana e disperata, per esempio oziando tutto il giorno, bighellonando da una parte all’altra, soggiornando al cinema parrocchiale, divertendomi con compagni scellerati e che mi conducessero sulla brutta strada, come Lucignolo fece con il povero Pinocchio, ma anzi al contrario era spontaneo, giungeva naturale e senza sforzo, al termine di pomeriggi, serate e nottate anche talvolta, trascorse sui libri a cercar di far entrare nella mia testa impenetrabile ed impermeabile, concetti astrusi, formule matematiche incomprensibili, declinazioni latine impossibili, dimostrazioni geometriche indimostrabili, vocaboli tedeschi (studiavo questa lingua ) impronunciabili e non memorizzabili, poesie anche esse per me incomprensibili (lo sono tutt’ora), nomi e vicende di una mitologia che mi terrorizzava e che mi era aliena.

Unica materia nella quale me la cavavo era l’educazione fisica, perché ero esonerato dalle lezioni, essendo riuscito a convincere il mio medico, piangendo e disperandomi, a stilarmi certificati di comodo per malattie inesistenti dalle quali non sono guarito mai, fino all’ultimo anno del liceo.

Per la mia timidezza incontrollabile mettermi in pantaloncini corti e divisa da ginnastica davanti a tutti, arrampicandomi sulla pertica, e distaccandomi da terra per non più mai di due millimetri, sarebbe stata una impresa insostenibile ed impraticabile e questo il mio dottore lo aveva compreso benissimo, lasciandosi convincere ad esercitare la sua autorità medica per esonerarmi da tale supplizio e salvaguardarmi dal pubblico ludibrio.

Gli sarò grato per la sua generosità finché vivrò.

Le mattinate a scuola erano interminabili, esposto come ero ad ogni sorta di lazzi da parte dei miei compagni divertiti per la mia inadeguatezza, ma non meno interminabili erano i pomeriggi a casa, quando cercavo di comprendere dai libri, ciò che non avevo compreso in aula dai professori.

Unici momenti di ristoro e di svago erano rappresentati dalle piccole pause che mi concedevo quando, per distrarmi un poco, mi recavo, sempre solo, sul balcone della cucina dal quale mi divertivo a contare, con teutonica precisione e ossessiva pignoleria le antenne della televisione che cominciavano a proliferare e popolare i terrazzi dei palazzi vicini.

Nella rassicurante certezza dei numeri, trovavo le mie modeste sicurezze. Ricordo che quando mi recavo a letto, la sera, mi rallegravo perché mancavano ancora dieci lunghe ore di pace, al ritorno a scuola all’indomani.

I miei genitori, discordi su tutto, concordavano però su un’unica cosa: il ritenermi entrambi, intellettualmente, molto poco dotato e quindi senza alcuna speranza di conquistare un seppur minimo successo nella scuola e conseguentemente nella vita, corroborati in questo dalle sconfortanti valutazioni dei miei insegnanti.

Seppur con dolore non potrei oggi dar loro torto e di queste conclusioni nei miei riguardi non facevano mistero con me, anzi ogni occasione era propizia per farmelo notare, secondo le più moderne regole psicopedagogiche.

Si comprende quindi facilmente, da quanto fin qui detto, come questa rivista di cui sopra e in essa quella specifica rubrica, “Le eterne leggi del successo”, fossero a me particolarmente care, costituendo esse l’unica mia consolazione e l’ultima residua speranza.

Le vite illustri di quei personaggi a me sconosciuti, che mese dopo mese illuminavano le pagine della rivista, rappresentavano per me, eternamente sconfitto, la prova vivente di una possibilità, di una speranza di riscatto, di una pallida fiducia in un futuro che altrimenti si sarebbe prospettato come assolutamente disperato, nel significato più vero e profondo di “senza alcuna speranza”.

Le biografie di quegli uomini, le donne erano escluse da questa galleria – mi accorgo solo ora – mi dimostravano e raccontavano che il destino non è necessariamente segnato, ineluttabilmente, dall’inizio, ma che ci può sempre essere un rovesciamento di sorti, un ribaltamento di ruoli, per cui veramente gli ultimi potrebbero diventare i primi e non nell’aldilà, ove tutto è più facile, ma qui, in questa vita, in questa esistenza, che, segnata al negativo dall’inizio, potrebbe anche rivolgersi al positivo, in seguito.

Uomini cui la sorte non aveva certo arriso, ma anzi aveva riservato loro il suo volto più arcigno e severo, erano riusciti, mercé la volontà e il sacrificio, a risalire la china lentamente, ma inesorabilmente, guadagnando le vette più elevate di una ideale gerarchia degli esseri umani, a dispetto e noncuranti delle posizioni di partenza, estremamente svantaggiate, da cui muovevano.

Questi esempi mi rincuoravano un poco e mi aprivano uno spiraglio alla speranza. Se era stato possibile a loro, forse sarebbe stato possibile anche a me, in un futuro non tanto lontano.

Forse allora non tutto era perduto. Forse non sarebbe stato ineluttabilmente destinato a me un futuro di garzone di fornaio, anelato a causa della bicicletta per le consegne, o di aiuto-barista, o di aiuto-meccanico, ché altre professioni artigianali mi erano precluse anticipatamente a causa di una mia incurabile incapacità manuale, forse avrei potuto ancora dimostrare ai miei genitori che le loro tragiche constatazioni e pessimistiche previsioni riguardo alla mia persona e alle mie capacità intellettive, potevano ancora risultare errate, potevano ancora essere ribaltate, in extremis.

La vita crudele non ci concede un seppur minimo sguardo sul nostro futuro, non ci permette di sbirciare furtivamente, anche per un solo attimo fuggente, nei nostri anni a venire, per invenire in essi un’anticipazione di ciò che saremo e di conseguenza una consolazione per ciò che siamo.

E così, essendomi preclusa ogni rassicurazione autonoma, mi rifugiavo nelle vite degli altri, cercando in queste una speranza, un’ultima dea, una conferma e una dimostrazione tangibile e concreta del fatto che si possa anche partire per ultimi, ma con sforzo e sacrificio, arrivare primi.

Così sembravano asserire le biografie di questi personaggi, alcuni storici e famosi del passato, altri meno famosi, ma altrettanto vincenti, nel presente, che con il loro esempio stavano lì a confermare che, nonostante tutto si può,risalire la china e arrivare in vetta.

Leggevo avidamente queste pagine, più e più volte per comprenderle bene, per imprimerle nella memoria, per ricordarle nei momenti difficili e di sconfitta, quotidiana ed inarrestabile, per ricorrere al loro conforto nei momenti bui delle interrogazioni a scena muta o della consegna dei compiti in classe o peggio ancora delle pagelle trimestrali, che comportavano la firma dei genitori, nonché nelle occasioni ancor più tragiche della esposizione dei quadri annuali con i risultati pubblici degli esami.

Nonostante però ogni sforzo ed ogni analisi approfondita, la lettura di queste pagine mi lasciava sempre un fondo indefinito, amaro di delusione e di sconforto, di malinconica frustrazione, come una sensazione diffusa e spiacevole di promessa non mantenuta, di aspettativa tradita, di patto non rispettato.

Il titolo, infatti, della rubrica, altisonante e gravido di aspettative, lo ricordo bene, recitava così”Le eterne leggi del successo” e nella mia mente ingenua e infantile, fiduciosa e speranzosa, albergava sempre la segreta convinzione che al termine di ogni articolo mensile avrei trovato, in calce la descrizione, l’enumerazione, l’esplicazione di queste famose ed eterne leggi del successo, un decalogo da comprendere, da mandare a memoria, da applicare nella vita con precisione e determinazione, un’istruzione da seguire passo passo, con rigida determinazione, per conseguire, se rispettato e compiuto, il tanto agognato e desiderato successo.

Ma questa ingenua quanto infantile speranza, veniva ogni volta, sistematicamente delusa e disattesa, concludendosi sempre gli articoli con la enumerazione e la glorificante elencazione dei successi conseguiti dal protagonista in questione, senza però nessun accenno esplicito alle modalità atte a conseguirne uno simile, da applicarsi e adattarsi alla nostra vita.

Ho continuato per anni a leggere biografie di uomini illustri senza mai riuscire a cavare da esse una seppur minima indicazione da applicare alla mia vita.

Un giorno mi colse alla sprovvista, inaspettata quanto crudele, la notizia che la rubrica sarebbe stata soppressa. Una piccola nota a piè di pagina annunciava che la storica rubrica terminava lì e sarebbe stata sostituita da un’altra altrettanto interessante e che avrebbe certamente incontrato la benevola accoglienza dei lettori. Fu questo il primo grave lutto che dovetti sopportare nella mia vita. Lasciato solo a dibattermi con i miei insuccessi, considerai la mia esistenza ormai irrimediabilmente segnata e fallita.

Per mia fortuna, qualche anno dopo, inaspettatamente, quando ormai ogni speranza era svanita, incontrai sulla mia strada dei buoni amici, ottimi compagni, che mi presero per mano, mi confortarono, mi accompagnarono e mi illuminarono la via, e lo fanno ancora, oggi che sono divenuto grande, mai stanchi o annoiati, mai sfiduciati o delusi, mai disattenti o poco presenti nei momenti di difficoltà, di dubbio o di sconforto, quando la salita si fa più ripida e scoscesa, quando vien voglia di abbandonare l’impresa, quando le forze vengono meno e si dubita di sé stessi, sempre pronti a rassicurare e confortare, sempre pronti a dire la parola necessaria nel momento del bisogno, quando sembra di aver smarrito la giusta via e di esserci perduti.

Incontrai e conobbi Platone dei “Dialoghi”, Seneca dei “Dialoghi” e delle “Lettere a Lucilio”; Kant del “Cielo stellato sopra di me, la legge morale entro di me” e dello ”Imperativo categorico”, ma soprattutto, primus inter pares, Giuseppe Mazzini, che subito mi affascinò e rapì con il suo “I doveri dell’uomo”.

Fu un incontro, una scoperta affascinante, folgorante, magica nella sua immediatezza e criticità che condizionò e continua a determinare la mia vita. Rimasi colpito e folgorato, impietrito dalla sua frase: “Possiamo legittimamente reclamare i nostri diritti, solo quando siamo certi di aver compiuto il nostro dovere”.

Rappresentò l’inizio di una grande rivoluzione entro di me, silenziosa quanto straordinaria. Compresi allora in un attimo, il significato e il peso di una parola semplice eppure fondamentale, determinante, drammatica nella nostra esistenza: “il dovere”. Compresi, grazie a lui, grazie a loro che non il successo debba esser perseguito, ma il compimento del nostro dovere.

Compimento del nostro dovere che non ci ripaga con il successo, la gloria, la fama, la notorietà, il denaro, il potere, ma solo con la timida, modesta, solitaria, autonoma, ineffabile, misteriosa, incomunicabile, sublime soddisfazione di averlo compiuto.

Da allora, ho abbandonato definitivamente l’idea e la speranza, il desiderio di poter mai conseguire anche io un successo nella vita, analogo, simile o paragonabile a quello degli uomini che avevano popolato i miei sogni infantili e mi sono rassegnato ed adattato ad essere un modesto psichiatra, che cerca, si sforza, raramente riuscendoci, di compiere il proprio dovere.
*Dice di sé.
Domenico Mazzullo. Medico-chirurgo, speta in psichiatria. Psicoterapeuta. Assolutamente laico e quindi profondamente libertario. Romanticamente illuminista. 

Michela Altoviti - Gloria, fama e popolarità rendono davvero felici?

“Ognuno avrà il suo quarto d’ora di celebrità”. L’intuizione profetica di Andy Warhol sembra oggi diventata un imperativo al quale nessuno vuol sottrarsi

Michela Altoviti*

Il successo è raggiungere un traguardo importante

e rendersi conto di essere sempre esattamente la stessa persona (1).

Audrey Hepburn

 

 

Successo è participio passato del verbo succedere, nell’accezione “capitare, avvenire”, gli inglesi lo chiamano happiness da to happen ovvero “ciò che accade”, in latino si rendeva confelicitas ossia “buon esito, riuscita” e volendo dare conto della storia del termine perveniamo al mondo greco dove per avere successo ed essere quindi felici era necessario avere dalla propria parte un buon demone (eu-daimon) e ciò significava corrispondere a questi tre parametri: nascere maschio, essere ricco e libero.

La recente classifica di Forbes sembra confermare la mentalità greca anche per una questione di geni: i più ricchi del mondo sono solo uomini (2) e sicuramente interessante sarebbe analizzare il perchè le donne non rientrino nella prestigiosa graduatoria, ma la domanda che primariamente mi pongo è se a tale livello di ricchezza corrisponda altrettanta felicità.

La nascita della filosofia portò alla separazione tra fortuna e felicità: fino ad allora il successo non era la conseguenza meritata di un’azione umana evidentemente ben calibrata, ma un dono divino; con Platone ed Aristotele e l’introduzione della categoria della virtù la prospettiva cambia: non sono i beni materiali quelli a cui aspirare per essere felici perché essi sono vulnerabili in quanto dipendenti dal Caso (o Fortuna, appunto).

Se Platone delinea la figura del filosofo, uomo virtuoso e felice, come colui che dopo i primi anni vissuti in comunità si stacca e vive e pensa da solo, Aristotele non crede che ci possa essere felicità senza gli altri.

Quindi Platone ritiene che ad un certo punto della vita non ci sia più il bisogno di puntare sulla politica (la vita nellapolis) perché tutto ciò che dipende dagli altri dipende anche dalla Fortuna; la felicità, allora, consiste nella forza interiore e nella capacità di dominare i nostri egoismi e il nostro impulso ad accumulare beni solo apparenti, finalizzati ad una felicità ingannevole per ambire piuttosto ad una serena convivenza con se stessi.

Il mio più grande successo è stato quello di imparare a convivere con me stessa e i miei difetti: sono molto lontana dall’essere umano che vorrei essere ma ho deciso che non sono poi tanto male, dopotutto.

La visione aristotelica di felicità è invece civile: l’uomo è un animale politico, necessita di amici, parenti, di beni non solo materiali ma anche sentimentali.

L’importanza delle relazioni non strumentali è stata riscoperta come dimensione significativa anche all’interno dei mercati dagli economisti; negli ultimi trent’anni, in particolare, sono ricomparse come centrali due tematiche nell’economia: la felicità e i beni relazionali.

Uno psicologo sociale americano, Hadley Cantril, nel 1965 ha compiuto un’azione rivoluzionaria, ovvero quella di tentare la misurazione di due caratteri assolutamente soggettivi, che fino ad allora non si riteneva possibile quantificare: la felicità e la speranza. Si chiese se ci fosse una necessaria correlazione tra le possibilità economiche di una persona e il suo grado di appagamento

Egli rivolse a persone di diversi paesi del mondo, dalla Nigeria al Giappone, una semplice domanda: “Pensa alla peggiore situazione nella quale potresti trovarti: assegnale 0 punti; ora pensa alla situazione migliore in assoluto, e assegnale 10. Ora valuta la tua situazione presente con un voto tra 0 e 10”.

La provocazione di Cantril fu pensare che il “7” di un nigeriano fosse comparabile con il “7” di un americano, sulla base dell’ipotesi che quelle operazioni sono talmente primitive, che non sono alterate significativamente, e su grandi numeri, da elementi culturali. Cantril pervenne ad una conclusione oggi facilmente accettabile: la felicità non dipende dal reddito, ma dalla speranza.

A partire da questi spunti, nel 1974 Richard Easterlin (3), attualmente professore di Economia all’Università dellaSouthern California, riprese tale dibattito ed evidenziò che nel corso della vita la felicità delle persone dipende molto poco dalle variazioni di reddito e di ricchezza: è il paradosso della felicità noto ancor oggi come Easterlin Paradox.

Questo paradosso si può spiegare osservando che quando aumenta il benessere economico, la felicità umana aumenta conseguentemente fino ad un certo punto, poi comincia a diminuire, mostrando una curva ad U. Ciò accade per motivi diversi, individuati da studi seguenti di altri psicologi e sociologi americani. Interessante è il meccanismo dell’adattamento per cui l’essere umano si adatta a situazioni sia positive sia negative e nel caso di beni materiali l’adattamento è pari al 100%: pur possedendo oggettivamente di più, dopo un certo periodo di tempo tale ricchezza non viene più percepita soggettivamente, perciò la felicità che si trae dal possedimento maggiore di beni è proporzionato alla novità del fatto.

Easterlin dimostrò fondamentalmente tre cose: che i Paesi più poveri non risultano significativamente meno felici dei Paesi più ricchi; che all’interno di un singolo Paese non c’è effettiva correlazione tra reddito e felicità; che la percezione della felicità nell’arco della vita di un individuo è indipendente dalle vicende legate al reddito. Va sottolineato che tali ricerche valutavano il grado di ricchezza laddove perdurassero altre condizioni favorevoli come la salute, l’educazione ricevuta, la famiglia di appartenenza.

Il denaro in sé non ha mai fatto la felicità di nessuno, ma a me ha sempre dato un gran senso di sicurezza, ha aumentato la mia capacità di essere felice.

Quasi tutte le ipotesi per spiegare il paradosso rimandano più o meno direttamente alla necessità di inserire nell’analisi della ricchezza un’altra categoria di beni: i beni relazionali declamati da Aristotele e quindi l’ambito affettivo, quello familiare (La miglior cosa a cui aggrapparsi nella vita sono i familiari), l’ambito civile della partecipazione alla vita sociale e politica della propria comunità fino al volontariato.

Era intitolata “Belli e Buoni” la puntata Speciale Unicef Italia de “La Storia siamo noi” andata in onda il 10 marzo scorso. Volti bellissimi (e ricchissimi!) che diventano testimonial di cause umanitarie. La trasmissione di Rai Educational ha ripercorso un’iniziativa che ha radici molto lontane: dalla comicità di Jerry Lewis ed il suo impegno per la distrofia muscolare a Audrey Hepburn tra i bambini dell’Etiopia.

Il glamour che va a braccetto con i diseredati del mondo?

La provocazione era il voler rispondere alla domanda se per tutte queste stelle si tratti di vero impegno oppure se non sia solo l’ultima frontiera di una pubblicità sempre più raffinata che oggi vuole i divi, oltre che belli, sempre più buoni. Forse la risposta, e la loro motivazione, vanno cercate altrove.

 

Ricorda, se hai bisogno di una mano, la troverai alla fine del tuo braccio e mentre diventi più grande, ricorda che hai un’altra mano: la prima serve ad aiutare te stesso, la seconda serve ad aiutare gli altri.

1) Tutte le citazioni in corsivo sono tratte da “Audrey Hepburn – L’intramontabile fascino dell’eleganza”, White Star S.p.A, a cura di Yann-Brice Dherbier (2007).
2) Dalla classifica Forbes 2010 i primi dieci uomini più ricchi del mondo: 1 Carlos Slim 2 William Gates 3 Warren Buffett 4 Mukesh Ambani 5 Lakshmi Mittal 6 Lawrence Ellison 7 Bernard Arnault 8 Eike Batista 9 Amancio Ortega 10 Karl Albrecht.
3) Le indicazioni sugli economisti sono frutto di una ricerca compiuta con particolare riferimento ad un saggio del professor Luigino Bruni “L’ethos del mercato”, Milano, Mondadori (2010).

*Dice di sé.
Michela Altoviti. Vede oltre ciò che guarda e scorge oltre ciò che trova. Scrive perchè ritiene che ogni manifestazione del pensiero sia non tanto un modo per trovare risposte quanto per condividere le domande. Scrive per curare il livello di saturità cui le pare di pervenire per le troppe idee e sensazioni. A volte crede che solo il silenzio dovrebbe essere partorito. 

GIANNI MORANDI

Il successo lo capisci solo nel momento in cui lo perdi,
anche perché difficilmente ritorna più volte nel corso della vita.
Io sono stato fortunato.
(Da “genovatune.net”, 2007)

TELEVISIONE Ivan Villa - Tele Biella, la tv che ha cambiato la tv

L’avventura pioneristica di Peppo Sacchi, nel lontano 1972, pone le fondamenta di quella che chiamata televisione commerciale cambierà non solo il modo di fare tv, ma anche la vita di un’intera città prima e di una nazione dopo

Ivan Villa*

“La Rai, Radio televisione italiana, inizia oggi il suo regolare servizio di trasmissioni televisive…”, ipse dixit! Con queste parole, pronunciate la mattina del 3 gennaio 1954 da Fulvia Colombo, la prima annunciatrice italiana, venne ufficializzato il servizio televisivo regolare e iniziò la storia moderna del nostro paese.

In principio fu il “programma nazionale”, un unico canale, un palinsesto che durava 6 ore e un pionierismo oltremodo avvincente; successivamente, nel 1961 la “signorina buonasera” Aba Cercato inaugurava le trasmissioni della seconda rete, che riportava in sovraimpressione l’orario d’inizio dei programmi dell’altro e viceversa… quello sì che era l’attuazione del principio di non concorrenzialità!

Erano gli anni della tv istituzionale, mai volgare, forse un po’ abbottonata, ma di un indubbio valore artistico; erano gli anni in cui le famiglie si riunivano con amici e parenti nei luoghi pubblici o nelle case di chi possedeva un apparecchio televisivo per trascorrere serate in compagnia di Corrado, Tognazzi, Vianello e vari altri grandi del nostro “star system”; erano gli anni del boom, quello economico e quello culturale, il boom di un paese che scoprì che aveva molte cose da dire via etere. Ed erano gli anni in cui l’esercizio delle trasmissioni radiotelevisive era di totale competenza dello Stato che lo affidava, in concessione, alla Rai, società pubblica e unica titolare dell’emissione di programmi radio e tv del nostro Paese.

Poi… in un giorno apparentemente normale sul finire dei gloriosi anni ‘60, la semplice intuizione di un uomo cambiò la storia della televisione moderna.

Giuseppe Sacchi, detto “Peppo”, all’epoca dei fatti è un giovane regista di Biella che lavora presso la Tv della Svizzera italiana e proprio negli studi di Locarno nota che un apparecchio collegato “via cavo” riceve le immagini della Tv tedesca. Al giovane Peppo, che da quel momento si interessa attivamente a questa nuova forma di trasmissione del segnale audio/video, torna in mente l’art 21 della nostra Costituzione che stabilisce che ogni cittadino ha diritto di esprimere le proprie idee con qualunque mezzo…

Il problema con cui si sarebbe scontrato il nostro pioniere delle tv libere è che in quegli anni, come abbiamo già visto, la trasmissione dei segnali tramite i mezzi di comunicazione di massa, resta di esclusiva competenza della televisione di stato e ai privati è assolutamente vietato l’uso delle frequenze via etere. Questo divieto è stabilito da una norma del Codice Postale, redatto nel 1936, che però presenta una lacuna: la normativa inibisce espressamente l’emittenza televisiva privata “via etere” ma non contempla quella “via cavo”, semplicemente perché all’epoca della redazione del Codice tale sistema di trasmissione non era ancora stato inventato.

Per chiarire il concetto di questo particolare sistema di trasmissione, immaginate di essere nel salotto di casa vostra, con una telecamera che vi inquadra e che tramite un sistema di collegamenti, “via cavo” per l’appunto, la vostra immagine vada in onda sui televisori dei vostri vicini di pianerottolo… estendete questo concetto a tutto il quartiere, chiamate un’ottima squadra di elettricisti e potreste ritrovarvi indietro di qualche anno ad esclamare eureka come fece Peppo Sacchi quando decise che da quella intuizione sarebbe nata la prima televisione privata della storia italiana: Tele Biella. Come si può verosimilmente immaginare, la strada che portò a quel memorabile 6 aprile 1972 giorno di inizio del regolare ciclo di trasmissioni dell’emittente, fu lunga e tortuosa…

Peppo, da sempre sensibile a tutte le nuove forme di tecnologia, tornato a Biella, acquista un apparecchio molto innovativo prodotto in Giappone: si tratta di un videoregistratore da ? di Pollice della Akai. In pratica il sistema consente la registrazione su nastri a bobina di circa 8mm ed è dotato di una telecamera portatile, un monitor separato e un cavo che permette la visione di quanto viene registrato direttamente su un televisore domestico, quasi fantascienza per l’epoca! E Peppo parte proprio da lì. Di giorno va in giro a filmare le attività cittadine, come partite di calcio e comizi politici, la sera collega il videoregistratore al televisore del “bar centrale” e amici e avventori del locale corrono a vedere la loro personale “programmazione”.

La voce, inutile dirlo, si sparge in poco tempo e la gente di Biella fa la fila per vedere le immagini di Peppo condite dalle facce dei negozianti del centro, dalle belle ragazze del quartiere che vanno a messa la domenica mattina, dalle partitelle a pallone al campetto comunale… tutti catturati da un nastro magnetico e immortalati dalla telecamera di Peppo! L’esperimento va avanti per qualche tempo finché una sera nella mente del nostro intraprendente regista matura l’idea che cambia la sua vita e quella di… qualche milione di telespettatori: visto che il problema principale è di far arrivare a più gente possibile le immagini che vengono girate e considerata la legge in vigore che proibisce la trasmissione via etere, lo stratagemma è di portare quelle immagini casa per casa tramite l’utilizzo dell’emissione “via cavo”! L’entusiasmo di Peppo contagia i suoi compaesani e alcuni di loro lo aiutano, anche economicamente, a collegare i televisori di casa… prima 2, poi 5, poi 10 poi un intero quartiere… e tutto nei limiti della legalità.

Il 6 aprile del 1972, quasi vent’anni dopo l’inaugurazione della Tv di Stato, la moglie di Peppo, la signora Ivana Ramella, annuncia l’inizio del ciclo regolare di trasmissioni: Tele Biella, nella sua prima, incredibilmente romantica sede, uno scantinato di via XX Settembre, diventa realtà. Naturalmente i mezzi in dotazione sono pochi e il segnale risulta disturbato, soprattutto nelle case più lontane dalla sede dell’emittente, ma la novità cambia per qualche tempo il volto della città. Per far fronte ai costi che Peppo Sacchi vede lievitare giorno dopo giorno si pensa di ideare una raccolta pubblicitaria: viene stabilita una cifra per realizzare spot promozionali di alcune aziende locali della durata di un paio di minuti ciascuno (vi dice qualcosa la parola “telepromozione”?); inoltre viene stabilita una sorta di “una tantum” per chi richiede l’allacciamento al cavo del segnale, con una cifra che varia, secondo alcune fonti, da 5.000 a 20.000 £, sulla base di quanto sia distante il televisore da collegare.

Un anno dopo l’inizio delle trasmissioni, il centro di Biella è attraversato da circa 3000 metri di cavo che trasportano il segnale ad apparecchi installati nei ristoranti, nei bar, nelle case e nei negozi con le vetrine su strada. Sacchi è lanciato e ambizioso, tale da fissare come obiettivo il collegamento di 5.000 televisori e con la sua voglia di “fare” contagia anche alcuni personaggi dello spettacolo, conosciuti ai tempi del suo lavoro in Rai: Enzo Tortora, Bruno Lauzi e Beppe Recchia, che diverrà in seguito un acclamato regista televisivo, danno un grande aiuto alla realizzazione di un palinsesto che comincia giorno dopo giorno a diventare addirittura competitivo quantomeno nei contenuti.

Nella programmazione di Tele Biella vanno in onda “Campanile in Barca” un gioco a premi tra squadre di quartiere ispirato a “Campanile Sera” popolare programma Rai, un quiz in onda il sabato sera, un programma comico con un giovanissimo Ezio Greggio e dulcis in fundo, alcuni contenitori in cui il cittadino è protagonista nella sua quotidianità, con le sue espressioni da bar e i suoi desideri mal celati, in pratica l’occhio della telecamera puntato su gente comune (vi dice qualcosa la parola “reality”?).

Tele Biella è quindi una rottura, uno strappo positivo al sistema, uno svecchiamento delle idee; per la prima volta il pubblico che interviene nell’unico piccolo studio partecipa attivamente alle trasmissioni, belle ragazze iniziano a sgambettare sulle zeppe in qualità di vallette (vi dice qualcosa la parola “veline” ?): il profumo di novità è ovunque e tutto sembra essere in discesa. Peppo Sacchi e la sua squadra di produzione, circa 20 tra tecnici e autori, possono inoltre contare in quei primi anni su nomi come Memo Remigi, Daniele Piombi, Annamaria Rizzoli, Febo Conti e i già citati Bruno Lauzi e Enzo Tortora… tutti personaggi che per vari motivi sono senza contratto Rai, che in quanto a censura si dà proprio un gran da fare; per contrastare il “benpensantismo” di Mamma Rai, Bruno Lauzi inventa insieme a Peppo e Tortora un programma dal titolo “Le canzoni che non si cantano più in televisione”, in pratica tutta la musica che viene censurata dalla tv di Stato; provate a immaginare il successo che riscuotono quelle sei puntate! E il clamore è tale che Gigi Vesigna, allora direttore di “Tv Sorrisi e Canzoni” pubblica sul suo giornale il palinsesto di Tele Biella sotto quello della Rete Uno.

Qualcosa però va storto: per qualcuno è ora di correre ai ripari e di interrompere un bel gioco fino a quel momento osservato da lontano, ma con sempre crescente preoccupazione. Tele Biella è diventata per certi versi una realtà scomoda ed è sulla bocca di tutti, purtroppo anche su quella dei rappresentanti del governo che insieme ai funzionari della tv di Sato, nel marzo del 1973 emettono un decreto che sostanzialmente unifica tutti i mezzi di comunicazione raggruppando i metodi di trasmissione, inclusa quella via cavo, e ribadisce il divieto di emissione da parte di soggetti privati, rendendo, di fatto, fuorilegge la TV di Peppo Sacchi.

Il 1° giugno 1973, alla presenza della Polizia Postale, un ingegnere delegato dal Governo taglia il cavo che collega la sede dell’emittente alla rete cittadina e Tele Biella è costretta al silenzio. Da questo momento in poi la vicenda si complica: sono inevitabili questioni politiche, basti pensare che da lì a poco sul tema della riforma del sistema televisivo i Repubblicani non daranno la fiducia al Governo Andreotti che sarà costretto a dimettersi. Peppo Sacchi, che si vede crollare il mondo addosso, non demorde e porta il caso di Tele Biella a rilevanze nazionali tanto da diventare un forte argomento di discussione dalle aule di tribunale fino ai cortili della gente comune; il “Corriere della Sera” e molte personalità dell’ambiente della comunicazione si interessano al caso e si aprono dibattiti e convegni.

Inizia così un lungo calvario giudiziario che porta la vicenda di Tele Biella davanti alla Corte Costituzionale, che nel giugno del 1974 emette la storica sentenza n. 226 nella quale si stabilisce che la trasmissione via cavo non è reato ed è compatibile con il monopolio della Tv di Stato, ribadendo comunque che l’assoluta esclusiva alla trasmissione via etere spetta alla Rai. Peppo Sacchi ricomincia le trasmissioni un mese dopo con una laconica quanto emblematica frase: “Qui è ancora la voce di Tele Biella”.

La vicenda giudiziaria però non finisce qui: l’anno dopo un ulteriore sequestro del segnale di Tele Biella accende il tema della necessaria riforma della materia televisiva; Peppo e i suoi avvocati ancora una volta si difendono e il caso culmina nel 1976 con una sentenza della Corte Costituzionale che autorizza la libertà di trasmissione televisiva via etere anche in ambito locale: è la fine del monopolio della televisione di Stato e l’inizio degli anni della cosiddetta “occupazione dell’etere”. Nel 1978 un’emittente che trasmetteva già da qualche tempo via cavo in un quartiere dell’hinterland milanese cambia la modalità di trasmissione passando alle frequenze via etere: il quartiere è Milano 2, la rete prende il nome di Telemilano 58 e la proprietà è acquisita da una società di una importante holding finanziaria: il gruppo Fininvest. Il resto è storia dei nostri giorni.

La sede storica di Tele Biella, un ex convitto nel centro cittadino, oggi è raso al suolo, ma l’emittente locale esiste ancora ed è tuttora diretta dal suo fondatore Peppo Sacchi e gestita da una Onlus insieme alla moglie Ivana Ramella. Nel 1997 è stato scoperto da alcuni abitanti di Biella un cavo coassiale che collegava due palazzi in via Oberdan, un reperto storico del 1973, di quando il principio di libertà si poteva tradurre nella frase: “È consentito tutto ciò che non è espressamente vietato”. Nel 1998 Peppo ha pubblicato il libro autobiografico “Il crepuscolo della Tv” che comincia con una dedica che riporto a conclusione della nostra storia: “A coloro che non possono più leggerci. A coloro che ancora lo possono, perché aiutino a non dimenticare.”
*Dice di sé.
Ivan Villa. Napoletano di nascita e figlio adottivo di “Mamma Roma”, rutila da qualche anno nel mondo dello spettacolo. Fin da età non sospetta ha sempre sognato di “fare la televisione” e nei momenti di dormiveglia, da qualche tempo, immagina di essere il produttore del “Saturday night live”. Quando è del tutto sveglio, più normalmente, è un direttore di produzione free-lance in programmi come “La Talpa” o “Buona Domenica”. Se non avesse fatto questo mestiere, avrebbe quantomeno provato a farlo. 

 

BARAK OBAMA

So che a volte la tv vi dà l’impressione di poter diventare ricchi
e famosi senza dover davvero lavorare, diventando una star del
basket o un rapper, o protagonista di un reality. Ma è poco
probabile, la verità è che il successo è duro da conquistare.
(Da “Discorso di apertura anno scolastico 2009-2010”, 2009)

 

 

ARISA

Il successo ha cambiato gli altri, non me.
(Da “www.leggo.it”, 2009)

SCIENZA Max Damioli - L’arte di respirare

La vita umana è quella porzione di coscienza che va dal primo respiro autonomo, la nascita, all’esalazione dell’ultimo respiro, la nostra morte fisica. In mezzo a questi due punti c’è la vita e come la viviamo. In un lungo e affascinante racconto vengono riportate le esperienze di chi da anni si dedica al respiro come cura e sostegno della vita, dell’umore, della salute (1)

Max Damioli*

Il respiro, cioè l’arte di respirare meglio per portare più energia nel nostro sistema vitale, è la meta-tecnica di evoluzione personale più versatile, efficace e autonoma oggi disponibile in Occidente. Perché una meta-tecnica? Perché viene prima di ogni altra tecnica e la fa funzionare meglio. Saper utilizzare nel modo più efficace il respiro è un fattore strategico se si vuole rendere indipendente il nostro sistema corpo-mente-spirito-emozioni.

In questo libro ho raccolto vent’anni di esperienza e di studio, ricerca e confronto con i più importanti docenti e studiosi internazionali, e direttamente con oltre centomila persone in Italia, Europa e Stati Uniti. Ogni cambiamento dei nostri stati mentali è riflesso prima nel respiro e poi nel corpo. Cambiando gli schemi di respirazione viene alterato anche lo stato emotivo. Sono convinto che le relazioni interpersonali, la comunicazione, la salute, la maturità emotiva sono abilità acquisibili attraverso specifiche tecniche di respirazione. Ecco perché il respiro.

 

Le metafora della vita

 

Per ragioni legali l’ora della nascita non è quella dell’uscita dal ventre materno, ma quella del primo respiro. Anche la morte viene descritta come l’esalazione dell’ultimo respiro. Ne deriva che la vita umana, come la consideriamo noi, è quella porzione di coscienza che va dal primo respiro autonomo, la nascita, all’esalazione dell’ultimo respiro, la nostra morte fisica. In mezzo a questi due punti c’è la nostra vita e come la viviamo.

Questa metafora è profondamente radicata nel nostro inconscio, al punto che esiste un’evidente relazione tra il modo in cui una persona respira e il modo in cui vive. Dalla semplice osservazione del suo modo di respirare, delle aree che tiene chiuse e di quelle lasciate aperte, dalle pause, dal volume, si possono individuare alcune caratteristiche di una persona. La cattiva notizia è che il nostro modo di vivere e di pensare condiziona fortemente il nostro modo di respirare. La buona notizia è invece sintetizzata in queste poche righe di Deepak Chopra: “Ogni cambiamento dei nostri stati mentali è riflesso prima nel respiro e poi nel corpo. Ma tale fenomeno funziona anche all’inverso: cambiando gli schemi della respirazione viene modificato anche lo stato emotivo”33. Questo è l’impatto rivoluzionario del respiro nella vita di una persona.

 

Che cos’è il respiro

 

Ci sono due aspetti del respiro: uno anatomo-fisiologico e uno energetico. L’aspetto anatomo-fisiologico è facilmente reperibile su qualunque libro di fisiologia. Dal punto di vista energetico possiamo invece dare interpretazioni più articolate e lanciarci in ipotesi affascinanti. Potremmo, per esempio, affermare che il respiro è quello strumento che ci consente di creare stati di coscienza sempre più elevati e purificati, in grado di lasciar emergere la nostra naturale tendenza alla salute fisica e mentale, alla gioia e alla felicità. Il respiro non ha bisogno di spiegazioni, ma soltanto di pratica sperimentale.

Una tecnica efficace, efficiente e autonoma di evoluzione del corpo, della mente, dello spirito. Di quel linguaggio che chiamiamo emozioni. Si può stare senza respirare solo tre minuti, poi si rischiano gravi danni cerebrali che portano a un progressivo collasso dei sistemi vitali, fino alla morte. Respirare è ben 19.200 volte più vitale di mangiare; 1.440 volte più vitale del bere; 960 volte più vitale del dormire. Questo è il respiro, secondo madre natura.

Respirare come i bambini

 

Personalmente non ritengo che il respiro abbia bisogno di molta teoria: basta aprire la bocca, fare una decina di respiri profondi, connessi, rilassati e – per incanto – noi diventiamo la “filosofia del respiro”. Diventiamo, cioè, la fonte del sapere che ci riguarda. Per capire come si respira è sufficiente osservare un bambino sano: il respiro parte dal basso (dalla pancia, che nel bambino tende sempre a restare espansa e rilassata), sale nel plesso fino al petto, e viene rilasciato con un sospiro silenzioso e rilassato.

Ci sono due meravigliosi maestri che vale la pena di seguire con attenzione per imparare a respirare: l’orgasmo e i cani.

L’orgasmo – quando naturale e lasciato fluire – dà l’idea precisa di che cosa sia una respirazione circolare, piena e rilassata. Il cane nero, meglio se di grossa taglia, nei mesi estivi può insegnare all’osservatore attento e diligente i vari ritmi del respiro e la gamma possibile da raggiungere impegnando in modo adeguato il diaframma. La particolarità dei cani è di non avere ghiandole sudoripare e di dover quindi dissipare calore attraverso la lingua.

Ecco perché possiamo considerare il cane l’animale più efficiente sulla terra nell’uso del diaframma nel respiro. Sedersi di fianco a un cane accaldato e cominciare a seguirlo mentre respira ansimando può insegnare sull’uso del diaframma nel respiro più di qualsiasi lezione.

 

Il respiro come modo di vivere e come modo di essere

 

Il terreno filosofico nel quale si radica il respiro è la miglior soluzione di partenza per una teologia (laica e raramente clericale) della liberazione e della gioia. In base a essa si identifica una stretta relazione tra corpo-mente-spirito-emozioni (continuum psicosomatico) e si indaga alla ricerca delle relazioni dirette e indirette dei nostri disagi, cercando una risposta logica o analogica, gravida di soluzioni operative. Spesso in una relazione di causa-effetto. Si ritiene che i risultati concreti nella nostra vita siano una pura conseguenza, risultato del continuumpensieri-parole-opere-omissioni (legge karmica).

Potremmo avere in questo tutti gli elementi che servono per vivere felici, liberi dai sensi di colpa e dalle emozioni (specie quelle considerate negative come la rabbia).

Dal punto di vista meramente tecnico, la filosofia del respiro si fonda sulla pratica. Non importa da dove vieni, quale dio preghi, quale entità ti visita ogni giorno, chi è il tuo profeta: basta che ti sdrai e respiri in modo volontario e consapevole, circolare e rilassato: e tutto semplicemente accadrà.

Ritengo che questa sia la parte più rassicurante del respiro; quella che in un lungo racconto dettagliato ho cercato di rivolgere in questo libro a chiunque voglia intraprendere un percorso positivo con il respiro.

 

La filosofia del respiro occidentale

 

La storia del respiro in occidente è molto sfaccettata e densa di episodi e di comunità che si sono formate, divise, misurate. Una storia affascinante. La radice antropologica, culturale e filosofica che caratterizza la mentalità occidentale, in bilico tra l’impegno sociale e l’aspirazione religiosa, mescolata con l’impianto ideologico della New Agee della Next Age, ci porta a costruire un sistema di credenze che, in massima sintesi, potremmo articolare in questo modo:

 

– siamo figli di Dio

– siamo creati a Sua immagine e somiglianza

– meritiamo di essere felici.

 

Questi tre punti sono il fulcro comune di tutto il respiro occidentale, che ci connette a questa triplice verità. Pur nelle sottili differenze, esso resta il cardine filosofico di fondo del respiro occidentale: senza il quale staremmo parlando d’altro.

Il respiro è quindi un modo di ESSERE (connessi al Creatore benevolente e protettivo) che ci permette un nuovo, più rilassato e vitale modo di VIVERE (nella pace, nella gioia e nella condivisione del Paradiso). Paradiso che, come sostiene Borges, è sulla terra, mentre l’inferno è essercene dimenticati.
*Dice di sé.
Max Damioli. È un gigante grosso di cinquant’anni, testa rasata, voce tonda e sonora di chi è abituato alla platea, risata sincera e contagiosa. A sedici anni è diventato istruttore di vela, a diciotto maestro di sci e contemporaneamente regista di eventi pubblicitari e insegnante di public speaking in azienda: si esprime spesso per metafore e considera l’insegnamento la sua missione sulla terra. Laureato in psicologia, un Master in ipnosi Ericksoniana e in PNL, Teacher’s Trainer delle tecniche di Louise Hay e Consuelor della Peiffer Foundation of Positive Thinking, titolare per alcuni anni della cattedra di Personal Improvement alla School of Economics e oggi della cattedra di Comunicazione Ecologica alla LUMSA (Libera Università Maria Ss. Assunta). È fondatore e responsabile della scuola Skills di Respiro (www.Skillsitalia.com). (max@damioli.net). 

 

ROBERTO SAVIANO

Io sono stato condannato perché il libro è stato letto da molti;
è il successo che mi ha condannato a morte.
(Da “El Pais”, 2008)

STUDIO 254 Fabio Marson, Andrea Spadoni, Vanessa Mustari, Cinzia Canafoglia, Placido Cavallaro, Michela Altoviti, Chiara Alivernini - Idee televisive per una location particolare: l’obitorio

Fabio Marson, Andrea Spadoni, Vanessa Mustari, Cinzia Canafoglia, Placido Cavallaro, Michela Altoviti, Chiara Alivernini

L’impianto logistico è quello di una morgue room,

coloro che vi lavorano e che vi transitano i personaggi.

Questi gli spunti per un progetto televisivo a cui hanno lavorato gli allievi di Studio 254. Sono stati, dunque, immaginati gag, situazioni, personaggi,

ipotesi su morti, parenti e personale che vi lavora,

seguendo il filone comico grottesco della commedia all’italiana.

Qui di seguito gli stralci degli scritti più interessanti.

 

 

 

 

Fabio Marson

 

Exit

 

Malgrado l’opinione pubblica ritenga la morte un fenomeno naturale, un soffio che passa e porta via, la realtà dimostra che le cose non stanno proprio così.

Presso il piccolo obitorio dell’ospedale San Camillo de Lellis, oltre al personale di servizio, operano quattro strani personaggi: sono attivi, pieni di vita e sentimenti, ma terrorizzati all’idea di morire. Malgrado siano già morti.

Dopo aver trascorso una vita burrascosa e lontana da ogni concetto di santità, i quattro defunti si sono ritrovati abbandonati all’obitorio, dove nessuno si è mai presentato per avviare le pratiche di sepoltura. Vivono assieme in una stanza che nessuno utilizza, segretissima, in attesa di trovare il coraggio necessario per fare i conti con se stessi, con la vita che hanno condotto e con il grande salto a cui non ci si può sottrarre.

Grazie alle loro paure e insicurezze, però, il medico legale Giampietro Saitta si è reso conto di un lato della morte che non aveva mai considerato: cosa comporta per una persona dover fare i conti all’improvviso con la propria vita? Quanto si può soffrire nel rendersi conto degli errori commessi e non aver più la possibilità di sistemare le cose?

Tutti i neo deceduti devono affrontare queste e altre difficoltà non appena accolti in obitorio. Il tempo a loro disposizione è limitato, perché nel giro di una settimana o poco più, i familiari completano le carte per il funerale. E il corpo, ovviamente, va abbandonato prima della sepoltura. Il dottor Saitta, dunque, si ritrova a dover fare sia il medico legale che lo psicologo funebre. Grazie all’aiuto dei quattro ospiti, Giampietro si prodiga nell’aiutare questi neo deceduti a sistemare i propri problemi prima che avvenga la sepoltura. Forse anche lui ha qualche conto da regolare con se stesso e con altri esseri viventi? Probabile, perché oltre alle situazioni dei defunti, Giampietro si trova quotidianamente in mezzo alle situazioni dei vivi che lo circondano, spesso ben più assurde e complicate di quelle ultraterrene.

 

Giampietro Saitta

Medico Legale

 

È un bell’uomo di mezza età, sportivo, molto in gamba e competente, di buona cultura senza sfoggi. Sembra il ritratto dell’uomo perfetto, ma solo a prima vista. Tre matrimoni alle spalle e almeno cinque figli accertati. E non è riuscito a mantenere in piedi neppure una famiglia. Il problema di fondo, oltre al debole per le donne altrui, è l’egocentrismo. Oltre a ciò, compensa la sua eccezionale capacità professionale con un’insicurezza talmente forte da risultare, a volte, debilitante: se non ha al suo fianco la persona giusta a rassicurarlo nel momento giusto, va in tilt. Saitta è consapevole di questo suo deficit, e per timore di fallire sul lavoro (ormai l’unica cosa che gli resta), è diventato insopportabilmente pignolo. Tutto deve seguire l’ordine corretto delle cose, i tempi devono essere quelli stabiliti e non sono ammessi gli imprevisti.

Cadaveri capricciosi permettendo.

I neo defunti si aggrappano a lui come ultima (disperata) soluzione per risolvere i loro problemi; ciò lo costringe a continui salti mortali (l’Inferno per un pignolo come lui) per evitare guai anche nella sua vita privata, in particolar modo nei confronti dei figli, che non hanno una grande opinione del padre, e nei confronti di Elena, forse l’unica donna giusta per lui.

 

Chantal Lahitte

Anatomopatologa

 

Chantal è la giovane e promettente anatomopatologa dell’obitorio. Ha 26 anni, ha studiato a Milano ma è originaria del Camerun. La sua provenienza da un paese lontano che non vede quasi mai e la sua forza di volontà che l’ha portata a lottare per ottenere le borse di studio le regala un fascino di mistero e voglia di vivere che esalta ogni suo gesto. È felice di essere riuscita nel suo obbiettivo: ha dimostrato alla famiglia e agli amici che è stata in grado di superare le mille difficoltà e raggiungere un posto di lavoro rispettato. Tuttavia, c’è un fondo di amarezza. Per inseguire il sogno della scienza ha dovuto rinunciare a molte delle sue passioni, come la pittura. In Camerun poi è rimasto Philippe, il ragazzo che ha sempre sognato di sposare. Malgrado le tante promesse di sposarsi, lui, una volta che lei è partita, non si è fatto più sentire. Chantal, dopo quest’esperienza dolorosa, ha perso molta fiducia nel proprio futuro sentimentale.

È una ragazza molto preparata e ambiziosa: non vuole passare la sua vita chiusa in quell’obitorio, lei sogna la ricerca universitaria, magari in India, dove i soldi sono di meno ma c’è più bisogno di aiuto. Estremamente curiosa, il suo desiderio di conoscere è così forte in lei da renderla sensibilissima nei confronti di tutto ciò che è esotico o di nicchia. Viventi e defunti compresi. Un tipo di cultura che il più accademico Saitta non riesce proprio a capire né apprezzare.

 

I quattro defunti

 

Rodolfo Martino

Ex barbone

 

Rodolfo era un anziano barbone, meglio conosciuto in città come Euro, perché chiedeva sempre un euro ai passanti. Le leggende intorno alla sua vita sono innumerevoli, e lui le ammette tutte. Dal suo passato in politica ai suoi viaggi a bordo delle navi. Spesso, queste leggende trovano conferme anche al di fuori di lui, il che è strabiliante. Ha certamente avuto una vita incredibile, ha fatto di tutto ovunque, ma non vuole mai raccontarlo. Così come non vuole mai svelare come si sia ridotto a chiedere soldi alla gente e a vivere in un garage abbandonato in periferia. Malgrado il passato pietoso, ha una dignità molto forte: ingenuo per tante cose ma acutissimo per altre, la sua saggezza è stata forgiata sulla strada, e si basa su principi base e universali, spesso leggermente distorti in favore di se stesso. Scorbutico e realista, nasconde dietro al volto vecchio e malandato una sensibilità profonda per chi soffre, che porta direttamente a un sincero altruismo.

 

Tobia Roncella

ex musicista

 

Giovane musicista trentenne, è stato il batterista del famosissimo gruppo Living Lizard, band rivelazione degli ultimi 5 anni. La sua morte, però, è ignota a tutti. Dopo essere morto per un banale incidente domestico, i produttori della band si sono riuniti per decidere. La decisione è stata che la morte non era abbastanza rock per incrementare le vendite, dunque hanno optato per nascondere quanto successo e rimpiazzare il musicista con un sosia. Nessuno sa che sia morto. Il gruppo da lui fondato continua ad avere sempre successo, sfruttando le sue idee.

 

Saverio Trebbi

ex killer

 

Saverio è un uomo sui quarant’anni, serio, con molto fascino. Lavorava per la gente che conta nel campo della criminalità organizzata, era considerato uno dei migliori. Completamente privo del senso dell’umorismo, ragiona con una logica fredda e impeccabile, senza accenni di umanità. Una volta trovatosi all’obitorio, si vede costretto a fare i conti con il proprio passato. Un killer che lavora per i defunti non può fare a meno di re-incontrare molte delle persone che ha fatto fuori. Da vivo conduceva una doppia vita: oltre alla professione di killer, che era la sua principale attività, si è trovato per caso a fare il comico televisivo, raggiungendo una discreta notorietà.

È morto in un agguato organizzato dai suoi stessi superiori. Lo ritenevano un traditore, e ciò gli brucia molto.

Monica Vileanu

ex prostituta

 

Monica aveva ventinove anni quando ha dato alla luce Mathias. Ha partorito da sola, in mezzo al bosco, perché nessuno doveva sapere di quel bambino. Chi è il padre? Monica non vuole dirlo, e sembra che ci siano molte persone in vita a saperlo. È il segreto che l’ha portata in braccio alla morte. Ha partorito il figlio di un uomo che non poteva per nessun motivo avere quel figlio.

Monica è cresciuta in una comitiva di artisti di strada rumeni, e grazie a loro è arrivata in Italia, clandestina. Per l’Italia, quindi, lei non è mai esistita. L’alternativa era tornare ad abitare le fogne di Bucarest assieme a centinaia di altri nullatenenti come loro. In Italia Monica è cresciuta, ha imparato a fare il clown, un mestiere come tanti che poteva darle da vivere. Finché, per una serie di problemi economici e di amicizie sbagliate, è finita a fare la prostituta. Conviveva con Fernando, un uomo spagnolo a metà tra il magnaccia e l’innamorato romantico. Poi ha conosciuto Paolo, un avvocato conosciuto in un bordello, disposto ad aiutarla. Poi il mistero, legato alla sua morte per mano di ignoti in un bosco.

Andrea Spadoni

 

Lo conosco pene

 

Obitorio ospedale San Raffaele – Milano

 

Due bare, una famiglia, una colf, una lettera e il medico legale. Un incredibile intreccio tra dramma e tradimenti che ruota attorno al mistero sull’identità dei morti, irriconoscibili perché hanno i volti sfigurati dall’esplosione di una bombola del gas in una palazzina. La notizia della tragedia sconvolge un quadretto familiare perfetto e fa scoprire un segreto che mai era venuto a galla. All’obitorio, i primi a giungere sono moglie e figlia di un padre di famiglia, impeccabile, serio e puntuale sul lavoro, che in quei momenti si trovava da solo in casa. Tra le macerie, però, spunta un altro corpo. Dalla conta degli inquilini manca solo quel silenzioso uomo, riservato, sconosciuto in zona.

Qual è la bara giusta? Al riconoscimento con il medico legale, accade qualcosa di strabiliante. Moglie e figlia possono scoprire le bare, non sanno scegliere un cadavere. A raccolta arrivano anche gli altri parenti che piangono su entrambe le bare. Poco dopo, prima di procedere alla chiusura, giunge, di tutta fretta, anche la colf di famiglia. Dalla borsa le cade una lettera: “Macho, non ti dimenticherò”. Quelle parole scatenano l’inferno all’obitorio dell’ospedale. La moglie chiede spiegazioni, la colf confessa la sua relazione con il marito di lei, la figlia fugge via. Gli altri parenti quasi prendono a botte quella donna che aveva sempre lavorato nell’ombra e sembrava insospettabile. Nella confusione generale, il medico legale pone una domanda: “Non voglio sapere chi lui amasse, ma chi è di questi due”. Si fa coraggio la colf dello scandalo: alza il velo delle due bare e ha dubbi fino a quando non toglie pantaloni e mutande a entrambi i cadaveri e sicura dice: “È lui il mio Macho”. Come lo ha riconosciuto? Semplice, dalla dimensione del pene.

 

Vanessa Mustari

 

Notti non proprio ordinarie

 

Era un giorno come gli altri all’obitorio. Un ambiente disinfettato, o almeno così si supponeva, pieno di piastrelle color acqua tanto che pareva di stare sotto un fondale. Acqua e acciaio, accoppiata strana. Insolito binomio come quello di due guardiani notturni: Peppe e Rodolfo. Non erano dei veri i propri guardiani, non erano dei veri e propri inservienti, né dei dottori, in pratica la loro occupazione altalenava nel campo dei “non veri e propri”.

Fatto sta che c’erano ogni notte e lì, all’obitorio, accoglievano i nuovi arrivati, per così dire, e controllavano che chi entrava con le proprie gambe non ne uscisse con un altro paio. Eh si! Perché anche questo accadeva, che dei cadaveri che giungevano a pezzi nei sacchetti, certi matti prendessero, che so, una gamba, un piede o una mano. Con un tizio una volta era successo e alla domanda:

“Ma che ci dovevi fare?”

“Non è ovvio? Mi serviva un fermacarte!”

Di questo e di peggio capitava là dentro e non è che quei due angeli custodi fossero talvolta meno spostati di quelli che andavano a prendersi i fermacarte all’obitorio piuttosto che all’Ikea.

Una persona qualunque un obitorio lo immagina silenzioso, tranquillo, freddo, un posto quasi macabro insomma. E chi può dirlo meglio di due sciagurati Death Boys?

Perché Death Boys? Lo si capisce al volo: tre di notte, stanze chiuse, tavolo per le autopsie tirato a lucido e corridoi vuoti…o quasi.

“Guarda che stavolta te spacco.”

“Se se, l’ho già sentita sta storia e n’dovina com’è che finisce sempre?”

“Ma statte zitto và che se non fossi arto tre metri cor cavolo che arrivavi primo!”

“Ma va va. Dai femminè, attacca.”

Rodolfo accende la radiolina e partono i Beach Boys con la loro celebre Surf in Usa. Ed ecco che sfrecciano per il corridoio con delle barelle a mo di surf, tutti e due in piedi.

“Dajeee, daje!”

L’abilità non stava solo nel non cadere e spaccarsi a terra il melone, ma nell’arrivare per primo e passare attraverso la porticina che dava sulla stanza dove le persone riconoscevano i morti ignoti oppure dove i parenti salutavano i cari un’ultima volta. Per tale motivo ai due era sembrato molto appropriato chiamare quella stanza “il punto d’arrivo” perché, come diceva sempre Peppe:

“Quanno te tocca te tocca, tutti lì annamo a finì”.

Cinzia Canafoglia

 

Obitorio di una città di provincia

 

Viene portato all’obitorio un uomo di 50 anni, morto all’improvviso per cause ancora da stabilire tramite autopsia.

L’uomo è un ricco commerciante, molto conosciuto in città e appartenente a una delle famiglie più eleganti e snob.

Man mano che si sparge la notizia della sua morte, conoscenti, parenti e curiosi, cominciano ad arrivare in obitorio. In un clima di persone affrante, che piangono con lo sguardo basso e scuotendo la testa sulla triste disgrazia, ribadendo le grandissime qualità dell’uomo, arriva la vedova del defunto. Vedova, anche se i due si erano lasciati due anni prima, e la loro storia matrimoniale era stata ricca di colpi di scena su cui la gente della città aveva potuto fare bei romanzi.

Lei, donna molto bella e appariscente, giunge con il suo nuovo compagno, insieme al quale ha avuto una bambina. Col marito invece, aveva avuto due figli ormai ventenni.

All’ingresso della donna in obitorio, c’è un momento di gelo a cui segue un fitto chiacchiericcio, si discute sull’opportunità della presenza della vedova. Non è amata in città, è considerata una donna senza scrupoli e opportunista, che ha pubblicamente umiliato il marito con le sue avventure.

La vedova comincia una scena tragicomica, si avvicina a ognuna delle persone presenti, piangendo, simulando svenimenti e dicendo che lei ha amato moltissimo suo marito, che lui è stato il grande amore della sua vita e che questa tragedia non riuscirà mai a superarla. Il nuovo compagno, intanto, la osserva in disparte. I parenti di lei, imbarazzatissimi, tentano invano di trascinarla fuori per porre fine a quella scena pietosa.

In fondo alla stanza, appartato rispetto a tutti gli altri c’è un uomo sulla quarantina, alto, magro con una leggera barba incolta. Sguardo basso, viso senza espressione, sta lì immobile e tutti si chiedono chi sia.

 

Ma una notizia un po’ originale

non ha bisogno di alcun giornale

come una freccia dall’arco scocca

vola veloce di bocca in bocca”.

(Bocca di rosa – F. De Andrè).

 

Una donnina presente, la fedele domestica del defunto, inizia un passaparola che toglierà in pochi minuti la curiosità a tutti: è l’amante segreto di lui, l’uomo che il defunto ha sempre amato e con cui ha vissuto una vita parallela.

“Io sola so quanto si siano amati…” dice l’anziana domestica.

 

Placido Cavallaro

 

Obitorio comunale: forse è l’unico posto andò l’apparenza non conta… qui ve guardano dentro sul serio!

 

Il Servizio mortuario è collocato nello stesso blocco dei servizi territoriali con accesso dal parcheggio pubblico.

Personaggi

 

Personale

Responsabile: Stefano Forti, 55 anni e da 23 anni lavora all’obitorio, divorziato è alla ricerca di una nuova compagna. Ama la buona cucina e la Lazio. A volte porta le sue avventure a lavoro, “signore” sempre molto appariscenti e loquaci.

 

Operatori necrofori: Claudio Buchi, giovane, 28 anni circa, è al suo primo impiego. La crisi economica lo porta all’obitorio. In realtà è un architetto con l’hobby per gli sport estremi: subacquea, paracadutismo, lotta greco-romana. Ama piacere alle donne ma nasconde un disturbo narcisistico. Mente agli amici sul suo vero lavoro.

Giovanni Gorti, 43 anni marito e padre esemplare e figlio d’arte, il padre e il nonno lavoravano all’obitorio: ne va fiero.

Portinaio

Gaspare Martini, romano de Roma vive in borgata ed è romanista (odia i laziali e quindi il responsabile dell‘obitorio). Ha l’hobby dell’orto e spesso intrattiene la gente con i suoi racconti su carciofi e ravanelli. Incurante delle buone maniere a un dottore che si trovava per la prima volta all’obitorio disse: “a dottò se vede che sei novellino, non te toccà che li consumi… da qui ne passano tanti”.

Per arrotondare il magro stipendio va contro la legge e consiglia ai parenti dei deceduti la ditta di onoranze funebri, a suo dire, più qualificata ovvero quella che paga a lui la pubblicità.

 

Salma: Signora Adelaide, 83 anni romana ex salumiera.

 

Parenti della salma: Genero. Flavio, professore di Greco, frustrato per non essere mai riuscito a pubblicare un libro sull’Edipo Re.

Figlia. Amalia, casalinga. Insoddisfatta del marito.

 

Attività

Il servizio mortuario si occupa della gestione della salma dal momento della presa in carico presso il reparto in cui avviene il decesso, fino al momento di partenza del feretro per l’espletamento delle esequie funebri. I tecnici necrofori eseguono tali adempimenti post-mortem nel rispetto della dignità dei defunti e dei familiari.

Fa caldo e gli ospiti vanno a male… si accelerano i tempi delle visite necroscopiche, sennò non si respira!

 

Prima scena

All’obitorio arriva una salma. Il portinaio va dal direttore per avvertirlo, incurante della forma irrompe nello studio del capo che è in dolce compagnia. L’amica del direttore fa in tempo a nascondersi sotto la scrivania.

Portinaio: “A Bill Clinton… vedi che ci sono clienti!”.

 

Michela Altoviti

 

È sempre notte fonda

 

Personaggi fissi:

–      il prete per l’estrema unzione

–      l’addetto delle pompe funebri con una vena filosofica (figura semiseria e riflessiva che lancia spunti fraintesi dal suo collega)

–      addetto2 (figura grottesca e scanzonata che banalizza e sdrammatizza le situazioni, anche involontariamente)

–          la Morte (personificazione della protagonista delle gag comiche)

 

Personaggi variabili:

–      il defunto

–      i familiari e gli amici del defunto

 

L’idea generale, da sviluppare in maniera più dettagliata, è quella di fare anche riferimento a casi famosi riprendendo quindi situazioni note o meno note, come, ad esempio, quella di Richard Yates: quando le figlie dovettero prendere una decisione circa il corpo del padre conservato nella cella frigorifera di un’agenzia di pompe funebri – bocciando l’idea della sepoltura gratuita nel cimitero dei veterani dell’Alabama, convenendo che al padre questa soluzione non sarebbe piaciuta – si accordarono per pagare la cremazione; all’ultimo momento, però, il direttore dell’agenzia di onoranze funebri scoprì che esisteva una terza figlia e si rifiutò di procedere senza la sua firma. Le altre due eredi si dice che scherzarono sul fatto di caricare il corpo del padre nella vecchia Mazda e di spedire tutto a casa, ma di fatto qualche settimana in più della cella frigorifera risultò non comportare alcun sovrapprezzo…

 

Chiara Alivernini

 

Dialogo per una puntata pilota della fiction Stanchi morti

Alfredo (inserviente per le pulizie) sta canticchiando sulle note di Knocking on Heaven’s door mentre pulisce con mocio per terra

 

Alfredo – Mama put this badge on me… I can’t use them any moooore… yeah… (iniziando a scatenarsi) it’s getting dark to dark to see… ye-ye-yeah! Feel like I m knocking on heaven s door… no no… no no no! Kno-kno-knocking on heaven’s door! Baby!

Tim e Paolo, portantini, gli si fanno alle spalle e lo terrorizzano con un applauso corredato da urla alle spalle.

Tim – Bravooo!

Paolo – Hai mai pensato ad un torneo di guitar hero?

Alfredo (in palese accento siculo) – Ancora voi due!

Tim – E chi vuoi che sia, qua ci siamo solo noi!

Paolo – E i morti.

Alfredo – Eh via, non si dicono queste cose qui dentro che porta male! (tocca uno dei suoi cornetti rossi, appesi alla vita assieme a una fila d’aglio)

Paolo – Ma è la pura e semplice verità!

Tim – Amico, qui siamo all’obitoorio! (imitando un tono infernale)

Alfredo (toccandosi) – Già ma noi qui siamo vivi.

Tim e Paolo si guardano poi unisono – Per ora.

Alfredo – Sentite, cip e ciop, io qui devo lavorare, qui dentro ci sono anche persone che sudano, capito? Io sgobbo tutto il giorno, mi faccio il mazzo, non come certa gente che non fa nulla tutto il giorno quindi vaffanc…

 

Frattanto Tim e Paolo si sono scansati e entra il dottore.

 

Dottor G. – Dov’è che dovrei andare, Alfredo?

Alfredo – co… come? N… no, dottore… mi… mi scusi… non intendevo lei…

Tim e Paolo sghignazzano ai lati.

Dottor G. – Ad ogni modo, a lavoro! TUTTI quanti. (alludendo agli altri due)

Tim – Agli ordini signore! (sull’attenti come un soldato)

Paolo – Subito signore!

Tim – Ma prima dottore se la fa raccontare una barzelletta?

Dottor G. (guardando una cartella e firmando dei fogli risponde distrattamente) – Se proprio non puoi farne a meno, Tim.

Tim – Bene! Allora un uomo si sveglia dal coma. Le sue prime parole?

Dottor G. – Non lo so…

Tim – Altri 5 minuti!

Tim e Paolo ridono pazzamente.

Dottor G. – Mi spiace deludervi, ragazzi, ma questa è vecchia.

Paolo – No, QUESTA è vecchia, dottò!

 

Scopre la morta.

 

Alfredo – AHHH! (istintivamente tocca i suoi amuleti)

Dottor G. – Sì, va bene, posatela lì per favore, non state maneggiando un vassoio di pasticcini.

 

Mentre la portano Alfredo si scansa e i due gli fanno i versi dei fantasmi mentre lo superano.

 

Paolo – Uff! Questa nonnina è leggera come una piuma.

Tim – Concordo, fratello, sembra fatta d’aria.

 

Nipote (apparendo, vestito di nero, sembra uno iettatore) – Benché nella vita la cara zia Amalia riuscisse ad essere… moolto pesante…

 

Dottor G. – E lei sarebbe?

Nipote – Adolfo Gervasi. Nipote della vittim… eh, della signora. Scusatemi, sono un fan di Montalbano.

Tim – La capisco, anche io!

Dottor G. – Vi prego, voi due, uscite da questa stanza e tornate ai vostri impieghi. E lei… la prego, Alfredo, torni al suo lavoro. Qui mi sembra tutto pulitissimo. La chiamerò se avrò bisogno di lei.

Alfredo – Come vuole lei, signor dottore. (esce)

Tim e Paolo – Sissignore… (Escono)

Dottor G. – E dunque… ecco… volevo porgerle innanzi tutto le mie più sentite condoglianze.

Nipote – Grazie, anche a lei.

 

Il dottore rimane interdetto ma l’altro sembra serissimo. È davanti alla signora morta e sospira.

 

Dottor G. – Po… posso aiutarla in qualche modo?

Nipote – La ringrazio, dottore. Avete già fatto tanto. (si mette a piangere)

Dottor G. (tra sé) – Oggi cominciamo bene…

 

Compone un numero al telefono

Dottor G. – Michele? Sì, sono io. Sì, volevo chiederti se potresti portarmi uno… (guarda il tipo) due caffè.

Sì, grazie. Sì, zucchero. Ah, e … due bicchieri d’acqua, anche. Grazie. (chiude il telefono) Spero che le possa far piacere ecco… un caffè.

Nipote – Grazie per il pensiero, ma la zia non beve mai caffè.

 

 

Dottor G. – Ehm… no-non per sua zia… intendevo per lei LEI.

Nipote – OH, grazie, sì a me piace il caffè.

Dottor G. – … bene.

Silenzio. Il Dottor G. si schiarisce la gola.

Nipote – Ha la tosse?

Dottor G. – Un leggero pizzicore…

Nipote – Non dovrebbe trascurarla. Al giorno d’oggi si può anche morire di tosse.

 

Il Dottore si gratta.

 

Nipote – Eh… (sospirando) io non la vedo bene…

Dottor G. – Le assicuro che era solo un pizzicore!

Nipote – Non lei, dottore. Intendevo la zia.

Dottor G. – … ah…

Nipote – è così… pallida…

Dottor G. – Beh, ecco, presumo che lo sia perché… è morta…

Nipote – Sì. Probabilmente ha ragione lei.

 

 

Nipote – Ad ogni modo arriverà la truccatrice a rassettarla un poco. Alla zia piace essere in ordine. Sempre. Soprattutto per le occasioni importanti.

Dottor G. – E questa indubbiamente lo è… (a parte fa un gesto come dire: questo è matto)

Michele (il barista – n.b. accento palesemente napoletano) – Allora, due caffè, due acque, più zucchero.

Dottor G. – Grazie, Michele. Posa pure qui sul tavolo. (toglie le carte per fare spazio)

Michele – madonna du Carmine! È una morta quella?

Dottor G. – Sai com’è siamo in un obitorio!

Michele – Ma… ma… com’è successo?

Nipote – La zia è morta piacevolmente nel sonno. (si fa il segno della croce)

Dottor G. – E smettila di fissarla così.

Michele – Mi dispiace dottore… è solo che… così da vicino… io non avevo mai visto una persona morta…

Vanessa (la truccatrice, entrando n.b molto sexy) – Perdonatemi… è qui la signora Gervasi?

Dottor G. – Sì, prego…

Vanessa – Ma… Augusto!

Dottor G. – Vanessa?!

 

Vanessa – Che sorpresa! (lo abbraccia)

Michele si fissa a guardarle il sedere, incantato. Il Dott gli fa segno di smetterla.

Dottor G. – Quanto tempo!

Vanessa – Eh, sì, un mare! Come stai? E così sei un dottore, eh! Ce l’hai fatta!

Dottor G. – Già. E tu volevi fare la cantante…

Vanessa – Già. E invece sono un’estetista. Ma sono felice.

Dottor G. – Beh, è un mestiere rispettabilissimo.

Michele – Dove lavora? Magari potrei venirmi a far bello da lei…

Dottor G. – Non badare a lui… (sotto voce) scherza con tutte ma in realtà è gay.

Vanessa – Capisco. Vieni quando vuoi, tesoro! Anzi, nel frattempo ecco prendi questo, è un campioncino di smalto. Omaggio.

 

Michele resta interdetto.

 

Dottor G. – Michele, ascolta, porteresti alla signorina… cosa vuoi dal bar?

Vanessa – Oh, beh io in realtà…

Dottor G. – Dio, è vero, mi dispiace! Che terribile mancanza di tatto. Tu cercavi la signora… è forse una tua parente o…?

Vanessa – Oh, no. No, no. Ecco, io sono qui per lavoro.

Dottor G. – Lavoro?

Vanessa – Sì. Per truccarla.

Dottor G. – Oh. (dopo una pausa) Beh, in questo caso… posso offrirti qualcosa?

Vanessa – Un cappuccino, grazie.

Michele – Ma le pare… (esce)

Vanessa – Oh Dio ma perché avete fatto venire anche un esorcista?

Il Dottore fa segno di stare zitta col dito.

Vanessa – Oh, mi dispiace … è un … vostro dipendente?

Nipote – Sono il nipote della signora.

Vanessa – Ups… mi dispiace. Ecco… condoglianze…

Nipote – Grazie.

Vanessa – Veramente una bella signora.

Nipote – Già. Era stata miss da giovane.

Vanessa – Capisco. Beh, allora sono fortunata, direi… questa è la prima miss che trucco?

 

Il dottore ride istericamente per darle spago, l’altro resta impassibile.

 

Vanessa (posando la sua valigetta e aprendola) – Di… di che colore preferisce che la trucchi?

Nipote – Aspetti che domando.

 

Mentre il nipote si piega sull’anziana, Vanessa guarda il dottore con aria interrogativa e lui le fa cenno che il tizio è matto.

 

Nipote – Dice che gradirebbe un leggero pesca sulle guance. Che si intona all’abito.

Vanessa – Giusto… e… ehm gli occhi di che colore li preferisce la nonna?

Nipote – Dice che quello lo vorrebbe intonato al colore dei suoi occhi.

Vanessa – Capisco… e… ehm… soltanto che… gli occhi…

Nipote – Sì?

Vanessa – Ecco… sono chiusi…

Nipote – Certo che lo sono. È morta. Ma può aprirli se vuole, faccia pure. Non le darà fastidio.

 

Vanessa riguarda il dottore, preoccupata. Lui le fa cenno di aspettare, sfoglia la cartella clinica, poi le suggerisce a bassa voce…

 

Dottor G. – Blu.

Vanessa (piano) – Grazie.

INDICE DEI NOMI

Aaker, Lee
Abbagnato, Eleonora
Abd Allah II ibn al-Husayn 
Accorsi, Stefano
Addison, Joseph 
Afeltra, Gaetano
Agnelli, Manuel
Albrecht, Karl 
Altoviti, Michela
Ambani, Mukesh 
Amendola, Giorgio 
Anderson 
Andreotti, Giulio
Angiolini, Ambra
Antonioni, Michelangelo 
Arbore, Renzo
Arcuri 
Arisa
Aristotele
Arnault, Bernard 
Aspesi, Natalia
Avagliano Editore
Bachen 
Badoglio, Pietro 
Barendson, Maurizio 
Batista, Eike 
Beatles, The 
Benvegnù, Massimo 
Berlinguer, Enrico
Berlusconi, Silvio , 
Bersani, Pier Luigi 
Berti, Orietta
Bertolucci, Bernardo 
Bertolucci, Giovanni 
Bianchi 
Biondi, Mario 
Blair, Tony 
Bobulova, Barbora 
Bocca, Giorgio 
Bonolis, Paolo 
Borboni, Paola 
Bosè, Lucia 
Bourdon 
Bova, Raul 
Bramieri, Gino 
Britti, Alex 
Bruni, Luigino 
Buffett, Warren 
Busi, Aldo 
Burton Barber, Charles 
Buy, Margherita
Calabrò, Corrado
Calligari Galli, Matilde 
Camilleri, Andrea
Canafoglia, Cinzia
Canestrari, Renzo 
Cantril, Hadley 
Caprioli, Vittorio 
Carlin (Bergoglio, Carlo) 
Castellitto, Sergio 
Cavallaro, Placido
Cavazza 
Celentano, Adriano 
Cercato, Aba 
Chopra, Deepak 
Ciu En Lai 
Colombo, Fulvia 
Conciatori, Mauro 
Conger, John 
Conti, Febo 
Corsi, Tilde 
Costanzo, Maurizio
Costanzo, Ugo 
Coundry, J. 
Craxi, Bettino
Crisanti, Andrea 
D’Alema, Massimo
D’Angelo, Daniela
Damioli, Max
De Filippo, Eduardo 
De Gasperi, Alcide 
De Maria, Giusella 
De Santis, Giuseppe 
De Sica, Vittorio 
Del Monaco, Tony 
Delli Colli, Laura
Dherbier, Yann-Brice 
Diberti, Luigi 
Dickens, Charles 
Dinelli 
Dorr, Aimée 
Easterlin, Richard 
Ellison, Lawrence 
Einaudi, Luigi 
Fabi, Niccolò , IV di copertina
Faldini, Franca 
Falqui, Antonello 
Fantastichini, Ennio 
Favino, Pierfrancesco
Ferrari, Isabella 
Ferraris, Anna Oliviero
Fontana, Jimmy 
Forlani, Arnaldo 
Franchi, Franco 
Gambineri, Annamaria 
Garibaldi, Giuseppe 
Gastoni, Lisa 
Gates, William 
Gerbner 
Gervaso, Roberto
Ghirelli, Antonio
Ghirelli, Barbara
Ghirelli, Parvis 
Giglio, Tommaso 
Girotti, Massimo
Goggi, Loretta 
Golino, Valeria 
Grassi, Paolo 
Graziani, Rodolfo 
Greggio, Ezio 
Gremese Editore
Gremese, Gianni
Grillo, Beppe 
Grimaudo, Nicole 
Gross 
Gruber, Lilli
Guerra, Andrea 
Guzzanti, Sabina 
Harrison 
Hepburn, Audrey
Hitchcock, Alfred 
Hitler, Adolf , 
Huston, Aletha Carol 
Imperatore Augusto 
Ingrassia, Ciccio 
Inhelder, Barbel 
Inzaghi, Pippo 
Johnson, Jeffrey 
Kagan, Jerome 
Kant, Immanuel 
Kesserling, Albert 
Kezich, Tullio
Kruscev, Nikita 
La Capria, Raffaele 
La Malfa, Ugo 
Lanza, Cesare
Lasorella, Carmen 
Lauzi, Bruno 
Lay, Barbara
Lenin, Vladimir 
Leone, Barbara
Leone, Giovanni 
Lewis, Jerry 
Limiti, Paolo
Liofredi, Massimo 
Livraghi, Giancarlo
Lo Vecchio, Andrea
Lombardi, Antonio 
Lubitsch, Ernst 
Lupo, Alberto 
Lussato, Bruno 
Luther King, Martin 
Magnaschi, Pierluigi
Mal (Paul Bradley Couling) 
Malaparte, Curzio 
Malgioglio, Cristiano
Mantoni, Corrado 
Manuzio, Aldo
Mao Tse-tung 
Maradona, Diego Armando 
Marchesi, Gualtiero 
Marson, Fabio
Martelli, Claudio 
Martin 
Marx, Karl
Marziale, Antonio
Masini, Marco 
Mastandrea, Valerio 
Mastroianni, Marcello 
Mattei, Maria Concetta 
Mazzini, Annamaria 
Mazzini, Giuseppe
Mazzucco, Melania 
Mazzullo, Domenico
Meccia, Gianni 
Mentana, Enrico 
Menzani, Alessandra 
Merkel, Angela 
Meyer 
Mezzogiorno, Giovanna 
Millo, Achille 
Mina
Minzolini, Augusto 
Mittal, Lakshmi 
Mogol (Giulio Rapetti) 
Mondadori
Mondadori, Arnoldo 
Monduzzi, Gianni
Morandi, Gianni
Moravia, Alberto 
Morcellini 
Morgan 
Muller, Herta 
Murray 
Mussen, Paul Henry 
Mussolini, Benito
Mustari, Vanessa
Nenni, Pietro 
Newman 
Nicotra, Gian Carlo
Niffenegger, Audrey 
Noschese, Alighiero 
Obama, Barak
Occhini, Ilaria 
Ocone, Lucia 
Ortega, Amancio 
Ozpetek, Ferzan
Pagano, Marina 
Palomba, Cristina
Pani, Corrado 
Pani, Massimiliano 
Paoli, Gino 
Parmentola, Antonella
Pascale, Antonio 
Pasolini, Pier Paolo
Patroni Griffi, Giuseppe 
Pausini, Laura
Pellai, Alberto 
Pellizzari 
Pennacchia, Mario 
Pennacchi, Antonio 
Perillo 
Pertini, Sandro
Petri, Elio 
Petruccelli, Filippo 
Piaget, Jean
Pio XII 
Piombi, Daniele 
Pizzi, Nilla 
Platone 
Poggio, Massimo 
Poliziano (Angelo Ambrogini) 
Ponte Alle Grazie 
Popper, Karl 
Postman, Neil 
Preziosi, Alessandro 
Prodi, Romano 
Prowda 
Puggelli, Francesca Romana 
Ramella, Ivana
Randone, Salvo 
Rania di Giordania
Rea, Domenico 
Reagan, Ronald 
Recanatesi, Franco 
Recchia, Beppe 
Remigi, Memo 
Renga, Francesco
Riccardi, Antonio
Ricci, Elena Sofia 
Rizzoli, Annamaria 
Roberts 
Romoli, Gianni
Roosevelt, Franklin D. 
Rosi, Francesco 
Ruggeri, Enrico 
Sacchi, Peppo
Sakamoto 
Sandrelli, Stefania 
Santoro, Michele 
Sartori, Giovanni 
Sartori, Giuseppe 
Saviano, Roberto 
Scalfari, Eugenio
Scamarcio, Riccardo
Scardapane, Vincenzo
Scarano, Mimmo 
Schor, Juliet B. 
Scola, Ettore 
Seneca
Serao, Matilde 
Servillo, Toni 
Signorielli 
Sinibaldi, Marino
Slim, Carlos 
Spadolini, Giovanni 
Spadoni, Andrea
Spinelli, Barbara 
Spini, Sergio 
Stalin 
Sting 
Svetonio 
Svevo, Italo 
Thatcher, Margaret 
Togliatti, Palmiro 
Tognazzi, Ugo
Tommaso, Michelangelo 
Tornabuoni, Lietta
Tortora, Enzo 
Tortorella 
Totò 
Tozzi, Umberto 
Trapani, Enzo 
Twain, Mark 
Ungaretti, Giuseppe 
Van der Voort 
Vanoni, Ornella 
Vecchioni, Roberto 
Veltroni, Walter 
Vendola, Niki 
Verdone, Carlo
Verrastro, Valeria 
Vesigna, Gigi 
Vianello, Raimondo 
Villa, Claudio 
Villa, Ivan
Viviani, Raffaele 
Vukotich, Milena 
Warhol, Andy 
Williams 
Xiaoping, Deng 
Yates, Richard 
Yilmaz, Serra 
Zilli, Nina

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