Edizione n. 5

INTRODUZIONE Cesare Lanza - La nostra Italietta, tra elezioni, olimpiadi della monnezza e il ricordo di un grande liberale, Mario Pannunzio

Lunedì 11 febbraio, stiamo per mandare le bozze di questa rivista in tipografia. Confesso: non ho idee, né stimoli intellettuali per scrivere (qualsiasi giornalista, e non parlo per pudore degli scrittori, può capirmi). Il mio pessimismo aumenta di giorno in giorno, nonostante una tenace lotta – vi assicuro – per incrinarlo, aggredirlo, demolirlo. Ad esempio, non mi lasciano indifferente piccoli gesti, come quello della mia bravissima Antonella Parmentola, coordinatrice dell’Attimo, un messaggio che vi trascrivo pari pari, anche perché è utile come introduzione a questo quinto numero della nostra rivista.
“…Dunque, caro il mio dir: in allegato ti ho mandato una supersintesi degli articoli. C’è come un fondo di nostalgia che scorre un po’ ovunque (politica, televisione, giornalismo), e allo stesso tempo la convinzione che milioni di persone per bene sono il vero motore, non solo culturale, del nostro Paese. Non dico che ci siano motivi per stare allegri, ma dobbiamo anche reagire a questo modo di piangerci addosso che ultimamente sembra aver preso il sopravvento. Siamo migliori di quello che vogliono farci credere…”. Non mi sono mai pianto addosso in vita mia, cara Antonella: il mio vero disagio, il disagio cruciale, è la convinzione netta che lasciamo a te, e ai nostri figli, un’Italietta miserabile e volgare, povera, priva di credibili, positive prospettive.

Siamo all’inizio di una nuova campagna elettorale, il 13 e il 14 aprile si voterà (io, a meno di novità davvero coinvolgenti, non voterò: mi astengo dal 1992) ed è convinzione di pochi che qualcosa possa cambiare. L’Attimo, il primo numero del 2008, uscirà quando comincerà ad arroventarsi lo scontro parolaio tra partiti e candidati: nella migliore ipotesi, avvertiremo indifferenza, forse nausea, sensazioni precise di aver già visto e detestato tutto. Nell’ipotesi migliore, ripeto, perché in passato abbiamo subìto anche di peggio. Facciamo così: dedico questa introduzione alla lettura delle prime pagine dei giornali, con qualche breve commento, e ditemi pure se, a vostro avviso, ci siano elementi per cominciare una giornata in allegria, dando uno sguardo al mondo (non solo all’Italia, se questa è una consolazione).

La Repubblica “spinge” Veltroni. E questo è il titolone di apertura. “Veltroni: meno tasse, su i salari. Cambiamo insieme l’Italia, basta con il muro contro muro.” Evviva: basta crederci. Poi: “Le primarie in America. Obama trionfa in altri quattro Stati, ora Hillary ha davvero paura.” Un commentino? Ma davvero si può essere convinti che il rinnovamento in America sarà deciso dal fatto che ci sarà per la prima volta un presidente di colore nero o sempre per la prima volta un presidente di sesso femminile?!? Ancora: “Joanne Rowling: io, Harry Potter e la solitudine dello scrittore.” E chissenefrega di Harry Potter? Non era questo lo stato d’animo di abulìa a cui alludevo, qualche riga qui sopra. Ancora: “Chiambretti: il mio Sanremo vi stupirà”. Quello di Pippo Baudo, temo, proprio no.

Ancora: “L’accusa delle badanti straniere: abbandonate gli anziani, critiche ai genitori italiani”. Perfettamente d’accordo. Infine: “Censurati gli atleti di Sua Maestà: guai a criticare la Cina. Costretti a firmare un contratto, chi rifiuta non va alle Olimpiadi”. In questo caso, mostruoso per noi liberali assoluti, riporto anche le prime righe del quotidiano diretto da Ezio Mauro: “I Giochi di Pechino 2008 devono essere davvero speciali, se costringono a calpestare la libertà di espressione perfino nella liberale Inghilterra. Per il comitato olimpico della Gran Bretagna la ragion di Stato e la realpolitik impongono una autocensura preventiva.”

Il Corriere ha titoli analoghi su Obama versus Hillary e sulla Cina. Le note liete sono affidate alle lezioni di amore di Penelope Cruz al festival di Berlino. Il Messaggero ripete lo stesso titolo della Repubblica sullo slogan di Veltroni. Idem su Obama e sulla Cina. E così La Stampa, la nota lieve in questo caso è riservata a un’intervista ad Afef del grande Claudio Sabelli Fioretti: “Io, Marco, l’amore e il Pd. Dico no al topless perché coprirsi è molto più sexy.” Concordo. Fantastico. Poi è annunciato un articolo su 150 anni di miracoli a Lourdes, l’ho sempre detto io che chi ha il dono della fede parte e arriva avvantaggiato, e un altro articolo sui farmaci che fanno ammalare: interessante, sono super allergico, ecco una lettura che mi predisporrà al miglior lunedì possibile.

L’Unità nel titolone rilancia un altro slogan di Veltroni: “Noi siamo il futuro, loro il passato”. Potrei dire che se lo slogan fosse di Berlusconi sarebbe ugualmente attendibile. E a Berlusconi, al suo programma dei cento giorni, è affidato il titolone del Giornale (ma va’!): “Appena al governo, tolleranza zero con i criminali e aiuti a giovani e famiglie.” Può darsi che tra cento giorni, a partire da metà aprile, sarò più allegro. Ne riparliamo a fine estate? Ma un vero brivido, sul Giornale, arriva dalle novità sulla munnezza, ve la ricordate la munnezza, no? Ecco il titolo, imprevedibile: “Ora fanno le Olimpiadi della munnezza. Su Internet i video del nuovo sport dei ragazzi napoletani: salto in lungo sui rifiuti”. L’articolo è di Vittorio Sgarbi. Fantastici napoletani, con ironia e spirito di adattamento illimitati. Notizia lieve: “La Bruni canterà al tavolo della Regina”. Sì, una botta di buon umore arriva da questa notizia da prima pagina, la signora Sarkozy si esibirà per i reali d’Inghilterra, chissà come saranno contenti quei giovani furibondi che ho visto qualche giorno fa ad “Anno zero”, il programma di Michele Santoro, i giovani vittime di essere obbligati a vivere nei palazzi d’amianto e ad arrangiarsi a vivere con compensi da cinquecento euro al mese.

Allora: che ne dite, o miei lettori, di questa tranquilla giornata di noia e grigiore? Non accusatemi di disfattismo totale: qualcosa di buono si trova sempre. Sul Giornale, a un colonnino striminzito, ma pur sempre in prima pagina, un grande articolo da leggere c’è. È dedicato a Mario Pannunzio, “un vero liberale”, con la pubblicazione della lectio magistralis tenuta a Torino da Marcello Pera, ex presidentedel Senato, in occasione del quarantesimo anniversario dalla morte di questo grande personaggio. Riprendo la lectio al volo sull’Attimo, con deferenza verso Pannunzio e anche Pera.

Ps. In questo numero troverete un’intervista a Elda Lanza. Non è una mia parente (purtroppo). È una grande amica, omonima. Per i più giovani, ricordo che fu la prima ad animare i programmi della Rai, con dedizione e capacità memorabili.
Chapeau!


Cesare Lanza 

Corrado Calabrò - Chiamata non risposta COPERTINA Stefania Craxi - Otto anni dopo, Bettino nel ricordo di Stefania

Solo ora capisco che mi ha voluto bene, nel modo migliore in cui un padre può voler bene, senza smancerie, ma con fermezza
e l’esempio di una vita dedicata ad alti ideali

Stefania Craxi

Il rapporto con mio padre? Io ne sono ancora innamorata e gli anni trascorsi e il lavoro che svolgo quotidianamente per lui non hanno colmato il gran vuoto della sua scomparsa. È stato un rapporto complesso, complicato dai nostri caratteri forti, che si è continuamente rinnovato nel tempo e arricchito di nuovi elementi man mano che la mia maturazione mi faceva comprendere i sentimenti che agitavano il suo animo e i grandi cimenti in cui era impegnato.

Ho il ricordo di una ragazzina, con una gran voglia delle braccia di suo padre, in eterno conflitto con una certa signora Politica, che me lo rubava anche la domenica e durante le feste, quando i bambini hanno diritto di salire a cavalcioni sulle spalle paterne per essere portati a spasso, al cinema o al circo, quando c’era.

Da noi la signora Politica era di casa. Occupava i nostri discorsi la mattina, a mezzogiorno e la sera. Naturalmente io non capivo. Capivo soltanto che c’era una cosa più importante di me, che mi relegava in secondo piano e questo mi faceva soffrire. Le cose si complicarono ancora di più con la nascita di mio fratello.

La nostra era una famiglia come tante, dove si nutrivano sentimenti, convinzioni e tradizioni comuni. Le figlie femmine sono quelle che un giorno escono di casa, prendono un altro nome, faranno figli che si chiamano con un altro nome e magari le rivedi solo quando sei vecchio e hai bisogno di aiuto. Il maschio è quello che si chiama come te, che per tutta la vita si chiamerà come te, che avrà figli con lo stesso nome, che forse porterà avanti il tuo lavoro e sarà migliore di te.

Per farla breve, la nascita di Bobo mi ha relegato al ruolo di figlia femmina che mi andava proprio stretto. Dopo tutto ero più grande, capivo di più, potevo partecipare.

Quando fui un po’ più grande, mi venne la passione dei cavalli. Ce l’ho tuttora. Ho un bel cavallo grigio che caracolla come un Dio e mi fa vincere tutte le gare in cui sfido i butteri della Maremma. Anche a Bettino i cavalli piacevano e ogni domenica era un batticuore: mi porterà a San Siro o ancora una volta la signora Politica se lo porterà via?

Sono stata anche gelosa delle donne di mio padre. Bettino era sensibile alla seduzione femminile: facile conquistarlo, praticamente impossibile tenerselo. C’è riuscita solo mia madre col suo grande amore e una capacità di comprensione e di perdono che ancora le invidio.

Due caratteri forti. A vent’anni sono uscita di casa per avere una vita indipendente. Bettino non me l’ha perdonata, anche se credo che abbia silenziosamente steso la sua protezione su di me. L’ho rivisto quando è nato Federico. È venuto a trovarmi in clinica. Imbarazzato, ha ripetuto dieci volte “come stai”, ha preso in braccio Federico e lo guardava stupefatto, come incapace di rendersi conto del miracolo della vita.

Di quanti sentimenti si è nutrito il rapporto con mio padre? Devo riconoscere che solo ora lo sento pieno e completato, ora che anch’io sono immersa nella politica, soffro la stessa passione che soffriva lui, ho le sue stesse aspirazioni, le sue delusioni, la sua forza di combattere.

Oggi capisco che la politica non mi rubava niente, faceva solo migliore, più grande, più comprensivo mio padre. Arricchiva lui e, indirettamente, arricchiva anche me. Mio padre ha fatto cose che sono entrate nelle case di tutti gli italiani. Aver dichiarato la superiorità dell’individuo sullo Stato, sul partito, sulla massa contraddicendo la cultura dominante, Bettino ha regalato più libertà a tutti gli italiani. Quando ha sfidato la CGIL e il Partito Comunista sulla scala mobile per combattere l’inflazione, ha dato più potere d’acquisto ai salari e agli stipendi di tutti gli italiani; quando ha esaltato il made in Italy portando l’Italia fra i Grandi della Terra ha ravvivato il sentimento nazionale nel cuore di tutti gli italiani.

Non ho personalmente pensieri di grandezza. Ho solo voglia di portare nella politica italiana quel senso della verità che è tragicamente mancato negli anni della catastrofe della prima Repubblica. Un diluvio di menzogne, dei giornali, dei magistrati, dei comunisti, dei padroni del vapore che dietro le quinte tiravano le fila. Ed ora le mie figlie, per portare un fiore al loro nonno, devono traversare il mare.

Solo ora capisco che mi ha voluto bene, nel modo migliore in cui un padre può voler bene, senza inutili sentimentalismi e smancerie, ma con fermezza, con spirito educativo, con l’esempio di una vita dedicata ad alti ideali. Le carezze erano mirate, ma ognuna valeva per cento e oggi sento che valevano per mille. Purtroppo questo rapporto pieno e completo di oggi è soltanto ideale. Della sua immagine viva mi resta soltanto l’angoscia dell’ultimo giorno, ad Hammamet, dov’ero sola in casa con lui.

“Voglio andare a riposare. Preparami un caffè”. Quel caffè non l’ha mai bevuto. L’ho trovato sul letto, senza vita. Il primo pensiero fu per la sua vita incompiuta. Non avevo mai immaginato che potesse concludersi così, con la sconfitta dell’esilio. Aveva vinto tutte le sue battaglie, perdeva la più importane, quella della vita.

La sua morte mi defraudava anche di un amore che ora soltanto, nelle lunghe giornate di Hammamet, cominciava a prendere la tenerezza che avevo sognato per tutta la vita. Fu lì, in quello stesso momento in cui si compiva l’ingiustizia più grande che lo colpiva, la morte prematura, che presi la decisione di dedicare la mia vita alla restituzione a mio padre degli onori che spettano a un uomo che ha dedicato la sua vita al bene dell’Italia.

Oggi non saprei dire se quella decisione fu davvero dovuta al senso dell’ingiustizia subita da mio padre o non piuttosto all’inconscio desiderio di immedesimarmi nella sua vita per dare finalmente completezza al mio grande sentimento per lui.


CHARLES BUKOWSKI

Che differenza c’è tra poesia e prosa?La poesia dice troppo in pochissimo tempo,la prosa dice poco e ci mette un bel po’.(Da “Storie di ordinaria follia”, 1972)
ATTUALITÁ Marcello Pera - Pannunzio, un vero liberale che fu vittima del Risorgimento Matteo Lo Presti - Giorgio Benvenuto, i politici? Cani da riporto dei mass media Giuseppe Corigliano - Opus dei, la santità nella quotidianità INTERVISTE Antonella Parmentola - Raffaele Vignali, l’imprenditore è un uomo alla ricerca del proprio destino

Raffaello Vignali, 45 anni, bolognese, dal 2003 è Presidente della Compagnia delle Opere, associazione di piccole e medie imprese

e realtà non profit, nata nel 1986 per promuovere e tutelare la presenza dignitosa delle persone nel contesto sociale e lavorativo

Antonella Parmentola

Leggendo la sua biografia, il dato sorprendente è l’età. A 40 anni è arrivato alla presidenza della Compagnia delle opere, quando in Italia arrivare da giovani a poltrone di potere è difficile. Come è stato possibile?

“Le poltrone di potere sono altre, non certo quella di Compagnia delle Opere. Quello che facciamo concretamente, nel rapporto con gli associati, è un aiuto affinché ciascuno possa esistere, affinché ogni impresa associata possa essere sostenuta. Comunque, per fortuna, in questo impegnativo compito non sono solo, dato che la mia responsabilità e condivisa con tanti amici”.

Quali erano i suoi sogni. Cosa desiderava fare da grande?

“Avrei voluto fare l’ingegnere meccanico. Invece è finita che mi sono laureato in filosofia. Però una parte del sogno si è avverata, dato che oggi insegno agli ingegneri”.

La sua carriera come è andata avanti?

“Come per tutti, attraverso le circostanze, ma soprattutto attraverso la possibilità di confrontarmi sulle scelte con degli amici veri”.

La sua formazione è cristiano-cattolica, in un momento storico in cui la fede è spesso dimenticata o strumentalizzata. Come è possibile conciliare fede e lavoro?

“L’esperienza cristiana, come l’ho incontrata, mi ha affascinato proprio perché mi ha reso evidente che il cristianesimo non è una fuga dalla realtà, ma la via per affrontarla. Anzi, proprio nell’affrontare ogni circostanza del reale trova la possibilità di diventare una vera esperienza personale. Ma è vero anche il percorso opposto: prendendo in considerazione sul serio il lavoro non si può non arrivare a porsi una domanda su quale sia il suo vero significato. Il lavoro non può essere risposta a se stesso”.

Sposato, con tre figli. In che modo armonizza un impegno come il suo e i compiti di marito e padre?

“Io vorrei che i miei figli comprendessero che la vita vale se è spesa per un ideale più grande; questo però non è una giustificazione per motivare un’assenza da casa. Io cerco di esserci il più possibile. Certo non potrei fare quello che faccio se mia moglie non mi sostenesse”.

L’istituzione della famiglia sta vivendo una crisi profonda. Quali sono le priorità su cui intervenire?

“La crisi della famiglia è innanzitutto una crisi educativa. Ciò non significa – come diceva Péguy – una crisi di insegnamento, ma una crisi di vita. È anche vero che una famiglia senza una comunità viva, che educhi continuamente a un ideale, ha davanti a sé una missione quasi impossibile. Per questo la priorità principale è sostenere chi nella nostra società ha un compito educativo”.

Attualmente è professore a contratto presso il Politecnico di Milano, dunque non un imprenditore; ciononostante è presidente della Cdo. Perché?

“Come il mio predecessore, Giorgio Vittadini, ho sempre reputato che sia meglio che il presidente di Cdo non abbia interessi economici in gioco. Questa è una libertà grande per l’associazione, ma è una libertà ancora più grande per me”.

La Compagnia delle opere è una realtà relativamente giovane – ha poco più di venti anni – eppure a lei fanno capo circa 34.000 realtà imprenditoriali, piccole o medie. Quali sono i valori e gli interessi che le tengono insieme? E cosa la Cdo offre loro?

“Il primo interesse che tiene insieme gli associati è quello di trovare un ambito dove il loro tentativo imprenditoriale possa essere compreso e aiutato. La condizione normale in cui si trovano gli imprenditori è quella di una solitudine: soli di fronte al mercato, di fronte alle nuove sfide, a clienti e fornitori, soli di fronte a un fisco che li vessa e a normative di cui spesso non capiscono il senso. Vincere questa solitudine è il primo compito di Compagnia delle Opere.

Questo rapporto, che noi chiamiamo “amicizia operativa” arriva sino al punto più interessante dell’attività imprenditoriale: quella tensione che nel rapporto con la realtà esprime la ricerca del senso delle cose. Al fondo è questo che muove ogni imprenditore.

Compagnia delle Opere esiste per aiutarsi a fare meglio impresa e in questo richiamarsi al motivo per cui si fa tutto. Come mi ha detto un associato: “Cdo mi è indispensabile, perché voi ci aiutate ad alzare la testa dal tornio””.

Parlando di piccole e medie imprese, lei sostiene che siano il vero motore dell’Italia, ma che una politica errata le stia soffocando invece che farle diventare il volano della crescita. Come agire?

“Bisogna agire su due versanti. Il primo è di carattere culturale: in Italia esiste ancora una sorta di sospetto preventivo verso chi fa impresa, come se l’imprenditore fosse uno che si mette in proprio per qualche motivo losco e comunque per frodare lo Stato. Invece non è così: il Pil, non dimentichiamolo, lo fanno le imprese; il benessere e l’occupazione nascono dalle imprese, non dai decreti dello Stato. Quindi è necessario ricreare una cultura che sia favorevole all’impresa.

In secondo luogo l’impresa si favorisce anche con politiche fiscali e normative che sostengano il rischio imprenditoriale; anzi, in fondo sarebbe sufficiente avere politiche e normative che non lo ostacolino. E poi è importante premiare i virtuosi, ad esempio defiscalizzando gli investimenti. Chi reinveste gli utili crea sviluppo e crescita economica, e questo deve essere sostenuto”.

Il suo ultimo libro ha come titolo la frase che sarebbe stata pronunciata da Galileo Galilei al tribunale dell’Inquisizione al termine dell’abiura dell’eliocentrismo “Eppur si muove”. Perché l’ha scelta?

“Si dice che Galileo uscito dal Tribunale abbia battuto un piede per terra e abbia detto, appunto, “Eppur si muove”. A fronte di slogan facili quanto errati, secondo i quali le piccole e piccolissime imprese non possono innovare, la mia esperienza sia di presidente sia di studioso di innovazione dice esattamente il contrario: che le piccole imprese italiane, quanto all’innovazione, non sono seconde a nessuno”.

Nel libro lei pone il capitale umano e l’innovazione come fattori centrali nella gestione delle piccole e medie imprese. Ma davvero l’innovazione è tanto difficile da attuare in piccole realtà?

“L’innovazione non è, come sosteneva Marx, una sovrastruttura, ma è strettamente legata alle caratteristiche delle persone, alla qualità del capitale umano. Quindi, proprio perché è il capitale umano la fonte dell’innovazione, questa non ha nulla a che fare con le dimensioni delle imprese”.

Inusuale è il richiamo che fa al gusto del bello. Qualcosa che, sottolinea, non si impara a scuola. Ma si può imparare in azienda?

“Il gusto del bello è frutto di un ambiente favorevole. Noi, da questo punto di vista, siamo tra i più fortunati: l’Unesco stima che 2/3 del patrimonio culturale mondiale si trovi in Italia. Siamo immersi in una continua educazione al bello ogni volta che apriamo gli occhi. Questo gusto del bello, però, si può imparare ovunque, anche in azienda. Purché ci sia qualcuno che te lo faccia vedere”.

Cosa pensa della gestione familiare di moltissime aziende? È possibile considerarlo un vantaggio competitivo?

“Il primo vantaggio di un’impresa familiare è l’aspetto ideale, che dà una spinta in più. Le porto l’esempio di un imprenditore del Sud che si è messo in proprio a una certa età, abbandonando un lavoro sicuro, solo per dare lavoro ai suoi quattro figli che erano disoccupati.

Questo imprenditore ha un di più, anche a livello competitivo, che gli altri non hanno. Infatti nel giro di pochi anni è stato capace di sviluppare un’azienda che oggi conta circa 60 dipendenti e che è in prima linea sul fronte dell’innovazione, ad esempio costruendo cabine per elicotteri con materiali avanzati. E poi molti fanno erroneamente coincidere azienda familiare con piccola azienda. Non è vero: Auchan, ad esempio, è un’azienda familiare. E non dimentichiamo che praticamente tutte le aziende sono nate come aziende familiari”.

Cina e India. Come possono, soprattutto le imprese piccole e medie, confrontarsi sul mercato internazionale con colossi come questi ed accedere ai nuovi mercati che queste portano con sé?

“I piccoli sono più veloci dei grandi. Non è detto che la piccola dimensione sia sempre uno svantaggio. Sul fronte dell’internazionalizzare le piccole imprese hanno diversi punti deboli, ma possono mettersi insieme, creare dei consorzi. Del resto la cultura collaborativa fa parte del Dna del sistema delle imprese italiane. Non è un caso che in questi anni così difficili le aziende collocate all’interno dei distretti abbiamo ottenuto nell’export risultati migliori rispetto a quelle fuori dai distretti”.

Tre anni fa ha creato l’appuntamento del Matching. In cosa consiste?

Matching è un evento pensato appositamente per la piccola e media impresa, che favorisce le relazioni tra le PMI. Si tratta di un appuntamento business to business il cui obiettivo è quello di mettere in contatto diretto le imprese. Il successo di questa iniziativa è testimoniato dal numero dei partecipanti, passato in tre anni da 500 a oltre 1.600.

Matching i protagonisti dell’evento sono gli imprenditori stessi che si incontrano, si conoscono, avviano trattative commerciali, stabiliscono rapporti di partnership per fare meglio, per essere sostenuti nella propria attività generando occasioni e opportunità di crescita. È un altro esempio, anzi il più significativo, di una rete in atto”.

Lei definisce imprenditore qualcuno che nell’impresa cerca il proprio destino; è davvero così? E in che modo questo si realizza?

“Un uomo che intraprende lo fa per cercare, anche se magari in modo inconsapevole, il proprio compimento, il proprio destino. Se così non fosse, se l’unico obiettivo fosse il profitto, allora forse farebbe molto meglio a giocare in Borsa; guadagnerebbe di più faticando meno. Invece l’imprenditore mette in gioco qualcosa in più: vuole costruire qualcosa, e dentro questa costruzione cerca di realizzare se stesso”.

Lei parla spesso del valore della gratuità. Una nozione che sembra fare a pugni con l’idea di profitto che comunque è legata al fare impresa. Ce lo può spiegare?

“La gratuità è strettamente legata al fare impresa. Basti pensare al fatto che il rischio, per sua stessa natura, è nemico del calcolo; così come anche la gratuità è nemica del calcolo. All’origine di tante nostre imprese c’è un atto gratuito così come molte hanno trovato un sostegno senza tornaconto o un contesto favorevole che non hanno creato da sé. Quanto dell’economia italiana basata sul turismo si appoggia su una bellezza naturale e una ricchezza artistica che non abbiamo costruito noi? E ancora, non ha a che fare con la gratuità il fatto che l’impresa genera un benessere di cui tutti ne beneficiano?”.

Lo scandalo dei rifiuti a Napoli sembra marcare ancora di più la distanza tra un’Italia del Nord comunque in crescita ed un Sud che fa sempre più fatica a riscattarsi. I punti essenziali per una svolta reale?

“Occorre un’educazione al senso ideale della vita, solo da qui si può ripartire. Napoli non è solo quella descritta dai cumuli di rifiuti. Penso ad esempio alcuni amici laureati e professionalmente affermati che continuano a vivere al Rione Sanità, e lì hanno creato opere educative, sociali e imprenditoriali, che sono una speranza per tutti. È questa la vera novità a cui guardare. Si può ripartire solo dal positivo che c’è, non da quello che manca. E di fatti come questi ce n’é tantissimi”.

In un mercato del lavoro nel quale, oggettivamente, si fa sempre più fatica a trovare il proprio spazio, quali consigli darebbe ad un ragazzo che volesse realizzare il proprio destino in un’impresa? Da dove partire? E su cosa puntare?

“Direi di puntare in alto, a una vera ricerca della propria realizzazione. I nostri giovani non devono cercare di sistemarsi, non devono cercare “il posto”: devono essere educati a concepire l’avventura lavorativa come qualcosa in cui implicare totalmente la propria persona, i propri interessi, i propri ideali”.

La politica è un ambito che può affascinare. Lei ha mai pensato di scendere in campo?

“Secondo lei lavorare con tante realtà economiche e di risposta ai bisogni, non è già fare politica? Chiedere un mercato del lavoro per cui chi non ha un’occupazione possa realmente trovarla, non è politica? E si potrebbe continuare a lungo con una serie di attività di Cdo che hanno questo genere di orizzonte. Fare queste cose per noi significa scendere in campo per la res publica, cioè per il bene comune”.

Interviste - 1954, Elda Lanza, la “tata” che ha visto nascere la tv

Il primo volto della televisione italiana, giornalista, scrittrice, esperta di comunicazioni, di buone e cattive maniere, docente

presso l’Accademia d’Arte di Osaka, corporate coach

Che cosa si prova a essere Elda Lanza?

“La gradevole sensazione di non essere passata inosservata”.

Sei stata il primo volto della televisione italiana…

“Detto così sembra che io sia stata un manifesto pubblicitario. Oltre tutto la definizione è sbagliata: il primo volto della televisione, che riprendeva gli esperimenti negli anni cinquanta in modo continuativo, è stata l’annunciatrice Fulvia Colombo”.

Com’era?

“Bellissima. Alta, bionda, diplomata in pianoforte, voce gradevole, ottima dizione, elegante, sorriso garbato. Un emblema della nascente televisione.

In un’epoca in cui le ragazze sapevano a malapena l’italiano, lei si esprimeva correttamente in francese e in inglese. È andata più volte in America a rappresentare la nostra televisione. Ecco, lei era in assoluto il volto della televisione”.

E tu?

“Io sono stata la prima presentatrice. Credo che il termine lo abbiano inventato per me. Io conducevo i programmi. Sulle locandine all’inizio della trasmissione la dicitura esatta era: Presenta Elda Lanza oppure A cura di Elda Lanza. Ero io”.

Come sei arrivata in Televisione? Venivi dal teatro?

“No, assolutamente. Quando ero piccola e mi chiedevano che cosa avrei voluto fare da grande rispondevo: Greta Garbo, come se fosse una professione. A vent’anni mi ero iscritta alla scuola del Piccolo Teatro, con Jacobbi, Grassi e Strehler. Mi sono appassionata di teatro, non del palcoscenico. Ero timida. E non ero un’attrice. Tuttavia in quell’anno di corso ho imparato molto. Non ho mai dimenticato le lezioni di Strehler, che mi sono servite in tutto quello che ho fatto negli anni, dalla televisione all’insegnamento, alla comunicazione.

La televisione è arrivata alcuni anni più tardi. E non per caso. Stavo terminando l’università, filosofia. Una straordinaria agente letteraria, Matilde Finzi, leggendo per caso un mio testo, mi propose di scrivere un romanzo per un editore argentino. Iniziai in questo modo la mia collaborazione, che durò qualche anno: in Argentina ero conosciuta, scrivevo romanzi a puntate, novelle, romanzi a fumetti.

“BoleroFilm”, che stava nascendo in Mondadori contro il rivale “Grand Hotel”, acquistò i diritti dei miei romanzi argentini e Luciano Pedrocchi, il direttore, volle che collaborassi al suo giornale. Frequentando la Mondadori mi capitò di incontrare Nuccia Pressi, giornalista di “Grazia”, che mi offrì una piccola rubrica di arredamento: testo e disegni. Di moda e costume scrivevo invece sul settimanale, diretto da Martinelli. Ora non so dirti come sia capitato; è successo tutto insieme e tutto all’improvviso, in una combinazione di eventi imprevedibile e straordinaria.

A Milano stava nascendo la televisione italiana, nel senso che stava organizzandosi in programmi e palinsesti ancora sperimentali. Il direttore dei programmi, Attilio Spiller, autore di riviste e programmi radiofonici di successo, stava progettando una trasmissione al femminile, con rubriche varie: può sembrare naturale che consultasse riviste femminili come “Grazia”. Era un apprezzato collezionista; amava l’antiquariato, ma gli piaceva il connubio di antico e moderno, che io trattavo spesso nelle mie rubrichette perché era una moda del momento.

Seguendo le mie collaborazioni sui giornali era arrivato a chiedere di me, senza conoscermi. Martinelli, al quale si era rivolto, mi domandò se poteva interessarmi scrivere testi anche per la televisione. Per me la televisione era quello scatolone che ogni tanto vedevamo nei film americani. Ma era lavoro. Durante la guerra la mia famiglia aveva perso molto e lavorare non era un passatempo. Quindi ho accettato”.

Quando è successo, te lo ricordi?

“Potrei dimenticarlo, secondo te? Era il 26 giugno del 1952. L’appuntamento con Spiller, in corso Sempione al 27, secondo piano, era per le undici. Alle dieci e mezzo io camminavo già avanti e indietro davanti al palazzo della RAI, senza trovare il coraggio di salire quei sette gradini, spingere la porta a vetri ed entrare. Mi dicevo con calma che qualunque fosse stato il risultato di quell’incontro, nella mia vita non sarebbe cambiato niente. Mi chiedevano dei testi. Io ero capace di scrivere, che paura avevo? Invece avevo paura. Mia madre mi aveva consigliato un vestito di cotone a quadrettini azzurri, a maniche corte e accollato, come usava allora. Era una giornata torrida. Con quell’abituccio di cotone, i capelli incollati dal caldo, a Spiller devo essere sembrata una ragazzina…”.

Quanti anni avevi, se vuoi dirlo?

“Pensi davvero che voglia nasconderti la mia età? Io sono orgogliosa dei miei ottantatré anni. Allora ne avevo ventisette. Ma sembravo molto più giovane: faccino pulito, senza trucco, tacchi bassi, timidissima…”.

Scusa, se ti ho interrotto, continua…

“Quello studio al secondo piano. Una stanza enorme, che un architetto aveva sicuramente arredato perché fosse imponente. Lo era. Dietro una scrivania lucida, ancora nuova, su una poltrona di cuoio con lo schienale che avanzava di mezzo metro oltre la sua testa, sedeva il direttore, il dottor Attilio Spiller. Non potrò mai dimenticare con quale sguardo mi accennò la poltroncina scomoda accanto alla scrivania. Era deluso, naturalmente. Si aspettava una giornalista, magari architetto, spigliata ed elegante. Una donna, insomma. Io gli ero sembrata un verme. Una ragazzina inaffidabile.

Mi disse che gli occorrevano dei testi di arredamento, proprio come quelli che pubblicavo su “Grazia”, che una ragazza bellissima, alta e bionda, che stavano cercando, avrebbe letto in Televisione. Sorprendentemente cominciai a parlare, a chiedere che tipo di rubriche aveva in mente, che cosa si aspettava dai miei testi. Se avessi dovuto tenere un tono discorsivo… Non riconoscevo me stessa: timida com’ero, sembravo scatenata. Volevo quel lavoro a ogni costo”.

E l’hai ottenuto, infatti.

“No, non subito. Stavamo ancora parlando, Spiller e io, di come avrei dovuto impostare la rubrica, quando dal fondo dello studio venne verso di noi un giovanotto alto e biondo, con il viso mezzo nascosto da una sciarpa bianca, del quale non mi era accorta. Toscano. Mi tese la mano e si presentò con il tono di chi è sicuro di essere conosciuto. “Sono Franco Enriquez”, disse. Non l’avevo mai sentito nominare. Mi soccorse Spiller: Il regista, suggerì. Mi alzai e arrossii. Fu Enriquez a pretendere da Spiller che mi facessero un provino. “Questa parla con gli occhi, con la faccia, con la voce… falle un provino. Faglieli dire a lei i suoi testi”. Discussero di me, come se io non ci fossi. Spiller insisteva sul suo progetto: voleva una donna bellissima, alta, bionda, elegante… Enriquez ribatteva che erano sciocchezze, fantasie, che io ero più credibile. Gli piaceva la mia voce. Volle a ogni costo farmi fare un provino della voce e la fece risentire a Spiller: questa è una voce che va diritta allo stomaco, altro che alta e bionda”.

E così hai cominciato.

“Credi davvero? Allora le cose non erano così facili. Mi sottoposero a quattordici provini…”.

Quattordici provini? Perché?

“Sognavano, per quel ruolo, una donna alta e bionda, elegante, un po’ sofisticata. Parlavano di abiti scollati e orecchini pendenti. Io ero come sono. In quattordici provini ho dovuto dimostrare che io sarei stata meglio.

Uno stanzone, che poi è diventato se non ricordo male lo studio 3 di corso Sempione, al pianterreno. Una sola telecamera, molte persone che si aggiravano da un punto all’altro dello studio, una parete di vetro dietro la quale, suppongo, ci fossero il regista e altri dirigenti che assistevano ai provini, una telecamera con il carrello e una gru con il microfono. Una sedia. L’assistente di studio mi disse quello che dovevo fare, sedermi, alzarmi lentamente per non farmi “tagliare la testa”, provare il tono di voce per il microfono, aspettare che si accendesse la lucetta rossa sopra l’obiettivo. Quando si accende lei parli. Per dire che cosa? Tutto quello che leviene in mente.

Per quel giorno e i giorni successivi, per quattordici volte e per alcune ore ogni volta, ho raccontato brani di esami che avevo dato, favole, pezzi di arredamento che avevo scritto, viaggi, incontri. Non ero più la ragazza timida che conoscevo: ero una donna che voleva a ogni costo quel lavoro. Cominciava a piacermi; volevo farcela. Al termine del quattordicesimo provino scese in studio un signore alto e magro che si presentò: era Niccolò Carosio. Mi strinse la mano e mi domandò, con un sorriso, se mi interessavo anche di calcio. Gli confessai con molto imbarazzo che di calcio non avrei saputo dire niente. “Meno male, altrimenti avrei dovuto cercarmi un altro lavoro. Comunque, lei è formidabile”. Capii allora di aver battuto la ragazza alta bionda dei loro sogni”.

Quando sono iniziate le trasmissioni?

“Mi convocarono per la fine d’agosto. Concordammo il tipo di trasmissione: tre rubriche, arredamento, moda, arte. Febo Conti, che faceva parte del gruppo di attori che lavorava in radio per le trasmissioni di Spiller, quindi con un nome noto al pubblico, avrebbe presentato la trasmissione che aveva un titolo antiquato anche per l’epoca: “Per voi signora”.

Io avrei scritto il testo e avrei presentato la rubrica di arredamento, che apriva la trasmissione. Altre due persone, che ricordo poco perché non ho più rivisto, presentavano le due rubriche successive, con una sfilata di cappelli e un’intervista ad Aligi Sassu. Regista sarebbe stato Franco Enriquez, assistente alla regia Dada Grimaldi, che poi diventò regista di altre mie trasmissioni, e non solo, a Torino.

La sera dell’8 settembre 1952, nello studio due di Milano, ebbero ufficialmente inizio le trasmissioni sperimentali della televisione italiana. Trasmissioni cioè con un palinsesto ridotto e continuamente modificabile, ma continuativo. Una trasmissione pomeridiana, i telegiornali, una trasmissione serale… di varia umanità”.

Ti ricordi come iniziava la tua prima trasmissione televisiva di quella sera?

“Sì, naturalmente. Avrei iniziato la trasmissione arrampicata su una scaletta con un martello in mano, che mi sarei data su un dito nel tentativo di piantare un chiodo per appendere un quadro. Niente di più scontato e di più falso, ma la televisione italiana cominciò con queste parole recitate da me: “Buonasera. Quante volte vi sarà capitato un piccolo incidente come questo…”. Non so come continuasse, non me lo ricordo”.

Quindi, sei entrata in televisione né per tessera né per caso…

“Neppure perché fossi particolarmente affascinante. Inoltre, all’epoca, ero fidanzatissima con il ragazzo che è diventato mio marito. Ero sota, di quel somo vero di allora. La televisione era democristiana, non ti dimenticare che Guala è stato uno dei nostri direttori. Eppure mi hanno sempre lasciata lavorare. Quando ci hanno presentati a Guala, tutti in fila, noi che eravamo la TV, qualcuno ha bisbigliato all’orecchio del direttore che io ero “sota”, come una colpa da sopportare con pazienza. Guala, arrivato a me, mi fece una carezza sulla guancia: “Però è brava”, disse. Meglio di quelli di adesso”.

Questi gli inizi…

“Sì, solo l’inizio di un percorso durato vent’anni esatti. Dal 1952 al 1971. Vent’anni di contratti a termine e di trasmissioni che riprendevano ogni anno con lo stesso titolo e lo stesso modulo”.

Com’era la tua televisione?

“Straordinaria, con una premessa. È stata un’avventura fantastica e entusiasmante nei primi anni, dal 1952 al ’54, finché la televisione è stata sperimentale. Dopo è diventato un lavoro; non come tutti, ma certamente come tanti. In quei primi due anni io ho vissuto in una dimensione che non saprei paragonare a niente. Venivo da una famiglia più che borghese; otto anni di collegi privilegiati; università; buone letture e buone amicizie. Un fidanzato che “faceva” la pubblicità. Una ragazza “bene” come si intendeva allora, abbastanza colta, politicamente informata, educata e timida. Mi sono trovata, senza alcuna premessa, scaraventata in un ambiente di teatro, frequentato da guitti eccezionali, da attori che sarebbero diventati grandi, ma che allora raccoglievano tutto quello che potevano, mimi, cantanti, ballerine, soubrette… Parlavano un linguaggio che stentavo a capire, e che non mi scandalizzava perché a ogni costo volevo crescere. Mi scoprii spiritosa”.

Perché soltanto attori?

“Soprattutto comici, gente da avanspettacolo. Perché Spiller li conosceva; ma soprattutto perché era gente che andava all’impronta, a braccio. Che un guasto della telecamera non avrebbe messo in difficoltà. Quello che pochi sanno, perché nessuno ne parla mai, è che gli inizi della televisione sono nati sulle battute, le smorfie, i guizzi di attori che il grande pubblico ignorava. A volte di sera andavamo con Spiller nei teatrini della periferia a cercare nuovi talenti; spesso li trovavamo. Alcuni sono diventati famosi. Dario Fo e Giustino Durano facevano coppia anche in teatro, ma erano agli inizi. Inventavano e recitavano per noi le loro gag, che io trascrivevo velocemente per recuperarle in trasmissione. Erano in tanti, tutti bravi. E tutti modesti.

Scusa, non cerco nessun nome perché ne dimenticherei qualcuno e mi dispiacerebbe. Per allegria vorrei poterli citare tutti: per ringraziarli per quello che mi hanno dato. Mi ricordo la prima volta che si è presentato da noi Nino Manfredi: diceva le sue battute in un dialetto che per me era incomprensibile e restava a guardarmi per accorgersi se le avevo capite. Aspettava che ridessi: “se chissa ride fa’ ride”. E faceva ridere davvero”.

Da come ne parli sembra che fossero tutti uomini, e tu là in mezzo l’unica donna?

“Molti uomini ti proteggono, e quelli non erano i Proci. Comunque i provini continuavano e ogni tanto arrivava una ragazza nuova, soprattutto annunciatrici. Quando arrivava una presentatrice nuova, io le cedevo una delle trasmissioni in prova. Era così che andavano le cose allora”.

Un esempio?

“Ciao, Ragazzi” – una trasmissione che avevo iniziato io e che ho passato a Biancamaria Piccinino. La rivista “Un Due e Tre”, iniziata con Febo Conti e poi lasciata a Tognazzi e Vianello. Anche “Una risposta per voi” era una mia trasmissione, che il Professor Cutolo ha poi continuato con molto successo”.

Hai conosciuto Mike Bongiorno?

“No mai. La sua prima trasmissione di “Arrivi e Partenze” l’abbiamo fatta insieme, dubito che se ne ricordi: lui a Roma e io a Milano”.

Mandavate in onda soltanto trasmissioni d’intrattenimento?

“No, assolutamente. Gli attori venivano impiegati per lo spettacolo di rivista che andava in onda una volta la settimana. Poteva capitare che Febo Conti e io partissimo di sera, dopo una trasmissione del pomeriggio, e andassimo a Torino, cambiandoci vestito in auto, per intervistare Macario o Rascelo Dapporto.

Molte interviste, dopo il telegiornale, anche a personaggi della cultura o dell’arte, raramente della politica. Improvvisavo. Il mio idolo era Vittorio Veltroni, cercavo di imparare da lui a fare domande e aspettare risposte. Era un maestro. Le trasmissioni del pomeriggio erano invece dirette ai ragazzi o alle signore. Le mie trasmissioni”.

Com’era strutturata “Per voi signora”?

“Un pistolotto iniziale, una rubrica di moda, una di cucina; una rubrica di libri; una rubrica di arte, spiegata e visualizzata; e poi, a scelta, rubriche di lavori a maglia, di bellezza, di portamento e comportamento, puericultura, interviste. Terminavamo con un cantante o un pianista… anche per questo quegli anni sono stati magici. La prima apparizione televisiva di Domenico Modugno, nella mia trasmissione con U’piscispada. Un contenitore vario e variegato, disponibile a tutto. La moda italiana è nata a Firenze, ma ha avuto il suo battesimo ufficiale nella mia trasmissione”.

E tu, la signora della televisione… come ti hanno battezzata i giornalisti.

“No, questa è un’altra storia. Eravamo tutte educate e gentili allo stesso modo. Io sono stata la prima donna della Tv a sposarmi, nel 1955: sono diventata la signora della TV, suppongo, per questo. Ero anche la meno giovane. L’unica che avesse la responsabilità di una trasmissione scritta e pensata in perfetta autonomia. Nella mia trasmissione avevo il compito di collegare le varie rubriche, di presentare gli ospiti. A volte mi riservavo un piccolo spazio per un discorso che ritenevo importante. Erano gli anni del femminismo, bisognava parlarne. Andavamo in diretta, quindi le trasmissioni erano sotto la mia diretta responsabilità e io lo sapevo.

Tuttavia in quegli anni, in una trasmissione che ha fatto storia, ho raccomandato alle donne – le donne di allora, quelle che di pomeriggio alle diciassette e trenta stavano davanti al televisore – di imparare a camminare da sole per essere pronte a camminare meglio in due.

Un mezzo scandalo; arrivarono telefonate dalla direzione generale, mi fu raccomandato di moderare parole e idee. Un conformismo paventato e diffuso che durò parecchi anni.

Dovevamo stare attenti a quello che dicevamo e a come. Spesso passavo da un’intervista a un politico a una trasmissione di varietà. Ero sola, eravamo pochi e tutti indispensabili per far crescere televisione e tecnici. Manovalanza, altro che signora della Tv. Saltellavo da una trasmissione all’altra, magari per sostituire qualcuno all’ultimo momento. A volte facevo due trasmissioni in un giorno, una nel pomeriggio e l’altra la sera, cambiando soltanto il vestito; ma ogni venerdì pomeriggio tornavo fedelmente alla mia trasmissione”.

Quanti anni è durata questa tua trasmissione?

“Dal 1952 al 1954, poi con un titolo diverso, voluto da me “Vetrine”, altri tre anni, fino alla nascita di mio figlio nel 1957”.

Evento che ti ha costretto a lasciare la televisione.

“Per la verità non è stata la nascita di mio figlio, ma la pubblicità dei Pavesini. Era già deciso che avrei ripreso nel giugno dell’anno successivo con una nuova serie. Mentre ero incinta… sai che sono riuscita a mandare in onda la mia gravidanza, settimana dopo settimana con l’aiuto spetico del mio ginecologo? Purtroppo dopo le prime settimane a qualcuno è venuto il sospetto che fosse eccessivamente osé, e l’hanno fatta saltare (Bonolis è stato più fortunato di me: altri tempi).

Comunque… sì, mentre ero incinta e ormai in vacanza, mi telefonò il signor Pavesini: mi voleva per i suoi Caroselli a una cifra che mi sarebbe stato difficile rifiutare. Andai a parlare con Sergio Pugliese, direttore generale, ormai trasferito a Roma. Mi disse che se accettavo di fare pubblicità avrei dovuto rinunciare per sempre alla televisione. Mi ricordo che ero enorme, mi muovevo a fatica. Mi alzai per congedarmi. “Ci pensi”, mi disse. “La televisione è il suo lavoro”. Ma quelli erano soldi, tanti e subito: la televisione me li avrebbe dati in dieci anni. Mi congedai con un guizzo d’orgoglio: se la televisione avrà ancora bisogno di me, mi richiamerete. Accettai la pubblicità”.

E infatti sei tornata in televisione.

“Sì, l’anno successivo. La mia trasmissione del pomeriggio per le signore era passata con un altro titolo (che a me sembrò bruttissimo: “Lei e gli altri”), più o meno con la stessa impostazione, a una giornalista di moda non particolarmente telegenica. Non durò molto, ma mi feci carico di non guardarla mai. Bene, dopo un anno in cui mi ero goduta la mia casa e il mio bambino, era febbraio, l’ora di pranzo, ero a tavola, squillò il telefono.

Era la televisione: come avevo previsto, per una trasmissione di libri per ragazzi, “Avventure in libreria”. Lo scrittore che l’aveva ideata e avrebbe dovuto presentarla alle tre e mezza di quel pomeriggio, aveva dato forfait, paralizzato dalla paura. Mentre mi truccavano lessi il copione, per fortuna presentava libri che conoscevo bene, la trasmissione fu un successo. Che durò altri sette anni. La più bella trasmissione di libri e per ragazzi che la televisione abbia mai mandato in onda”.

Perché ridi?

“La Tv di allora era stupidamente bacchettona. Nella trasmissione c’era un siparietto in cui giocavo con il famoso Topo Gigio. Me l’hanno tolto perché il Topo sembrava un po’ troppo languido con me. Dissero anche che Mazzullo (lo straordinario doppiatore del Topo) fosse innamorato di me”.

Il resto della storia è recente: “Avventure in libreria” è stata soppressa per volontà di un dirigente degli studi di Torino, e al suo posto ti hanno costretta a realizzare per altri sei anni una trasmissione per le ragazze, interamente con risorse locali. Com’è finita?

“È finita. Mi sono annoiata. Avevo intanto aperto una mia agenzia di comunicazione d’impresa. Avevo successo in un campo nuovo per me, e molto eccitante. Anche in questo caso, una delle prime in Italia. Mi piaceva. Con molta cortesia e altrettanta fermezza ho salutato tutti e ho annunciato che non sarei più tornata in televisione,
la mia personale avventura televisiva era conclusa. Ci siamo separati educatamente e senza rimpianti. Io avevo da vivere un’altra avventura”.

Davvero senza rimpianti?

“Davvero. Avevo dato moltissimo e moltissimo avevo ricevuto. Non volevo sciupare un periodo così importante della mia vita trascinandomi da una porta a un portone. Mi hanno richiamata, qualche volta sono tornata: una trasmissione su Gabriele D’Annunzio dal Poldi Pezzoli; una storia del cinema, molto interessante; una splendida esperienza con il regista Maurizio Corgnati per una trasmissione sugli artisti di strada, alla quale eravamo d’accordo di dare un seguito. Anni prima mi avevano richiesto per il “Festival di Sanremo”; ma avendo avuto un’esperienza terribile con un Festival internazionale del Jazz, da Sanremo, teatro del Casinò, ho rifiutato”.

Hai conosciuto molti personaggi importanti, quali ricordi soprattutto?

“Quelli che sono diventati importanti dopo”.

Un ricordo da salvare?

“Tutti i ricordi andrebbero salvati. Ti passano davanti agli occhi così in fretta che non hai il tempo di trattenerli. Il profumo di Wanda Osiris, il colore degli occhi di Gérard Philipe, la statura di Ingrid Bergman, Lelio Luttazzi al piano, le battute cattivissime di Umberto Eco, che con Furio Colombo è stato assistente dei mie programmi a Milano, la gelida cortesia di Vittorio De Sica, la malizia adorabile di Totò, la voce di Modugno, lo scilinguagnolo inarrestabile di Walter Chiari.

E sopra a tutti, un genio dello spettacolo, l’uomo che mi ha insegnato, anche strapazzandomi, i tempi teatrali in un esercizio di comunicazione che mi ha accompagnato tutta la vita. Quell’uomo è Attilio Spiller: mi dispiace di non averglielo mai detto”.

Anche ai tuoi tempi c’erano le raccomandazioni “molto speciali”?

“No, certamente. Erano poche le aspiranti e pochi quelli che contavano: la televisione aveva bisogno di noi se voleva crescere. Nessuno avrebbe rischiato”.

Cosa pensi della tv di oggi? Ha un suggerimento da dare?

“La mia televisione era povera di mezzi, ma ricca di idee. Se ci riprovassimo?”.

Perché nelle rievocazioni non vieni mai citata?

“Per mancanza di materiale, suppongo. Allora si andava in diretta e non si facevano replay”.

Non hai mai raccontato queste tue esperienze, perché?

“Bisognerebbe avere il coraggio di dimenticare i propri ricordi. Comunque in parte li ho raccontati nel mio romanzo, “La bambina che non sapeva piangere”. Una specie di autobiografia vera al cinquanta per cento: anche se non dirò mai quale”.

Non c’e’ contraddizione in quello che hai detto? I ricordi andrebbero salvati o dimenticati?

“Non devono diventare rimpianti. Di una cosa sono sicura, io mi sono inventata una vita felice”.


r.d.a.


GIOVANNI TORTI
Un romor misurato, un magisterodi parole assortite e a pochi intese,muto di passione e di pensiero,onde son ricantate antiche imprese,o amor si finge, o pastoral concento,o è laudato chi più in alto ascese:tal rechiam noi dal pueril conventotipo di poesia, grazie a coloroond’ogni saper nostro ha fondamento.(Da “Sulla Poesia-Sermone”, 1818)

 

Rachele Zinzocchi - Alain Elkann: Chi dice che oggi è morta la cultura?

Lo stato di salute del sapere nell’epoca dei mass media secondo il noto scrittore e giornalista di La7, che però avverte: “Evitare la fuga dei cervelli? L’Italia deve fare sistema”

Rachele Zinzocchi*

Figura raffinata ed elegante del nostro panorama culturale e televisivo, Alain Elkann appare come un intellettuale d’altri tempi, con una classe distaccata, ma partecipe, che resta peraltro sempre tutt’uno con il nostro tempo e la nostra epoca, di cui è uno dei conoscitori più acuti. Scrittore e giornalista nato a New York, Elkann sembra sempre un passo avanti e sopra: senza però mai lasciare indietro nessuno, vista la sua cristallina chiarezza ed il suo spirito pungente.

Conduttore della nota rubrica su La7 “Due minuti un libro”, dove ogni giorno un nuovo libro e il suo autore divengono protagonisti come in un agorà dell’antica Grecia, Elkann si occupa anche di altre rubriche come “L’Intervista” o “La settimana”. È online con video e approfondimenti all’interno del canale News di LA7.it. E la sua poliedrica attività si estende anche oltre: collabora con “La Stampa” e lo “Specchio”, “Capital” e “Amica”. E, soprattutto, è un grande scrittore. Qualcuno dei suo libri? Da “Vita di Moravia”, tradotto in oltre quindici lingue, a “Cambiare il cuore”, con Carlo Maria Martini, da “Essere ebreo”, con Elio Toaff, a “Emma, intervista a una bambina di undici anni”. E, ancora, “Il Messia e gli ebrei”, con Elio Toaff, dove vengono toccati i punti principali della fede ebraica, e “Il padre francese”, un grande ricordo in memoria del padre scomparso.

Per questa sua capacità di unire e coniugare insieme cultura d’altri tempi e conoscenza della realtà di oggi, abbiamo chiesto ad Alain Elkann di riflettere con noi sulla situazione della cultura nell’epoca attuale: un’epoca dominata da tv, mass media, quella che si chiama “globalizzazione” – la tèchne o “tecnica”, evocata già un secolo fa dal filosofo tedesco Martin Heidegger come prospettiva del nostro mondo.

L’epoca attuale, dominata dalla tecnologia, sembra lontana dalla cultura, da una autentica coltivazione dell’amore per essa. Che fine ha fatto la cultura oggi? C’è ancora spazio per le sue forme espressive, voglia di libri, di arte, di musica?

“Da tempo ormai è invalsa la paura dilagante che la cultura sia dimenticata dai mass media. In realtà, però, le cose stanno diversamente. Non ricordo che ci sia mai stato un periodo di così grande divulgazione e diffusione della cultura come quello in cui viviamo oggi.

Possiamo discutere sul fatto che, magari, se ne diffonda sempre troppo poca rispetto alle reali esigenze: ma lo spazio attualmente lasciato alla cultura ed alla sua espressione è enorme. Suscettibile di discussione è anche la qualità della cultura che viene diffusa e comunicata oggi. Questo, però, va riferito ad un altro problema: la qualità, anzitutto, della nostra epoca.

La cultura – così come la politica – riflette sempre il mondo in cui ci troviamo a vivere: il nostro habitat, la società, le situazioni in cui il Paese si trova. La cultura che abbiamo è la cultura di questa nostra epoca: bella o brutta che sia.

Se questa sia un’epoca debole o importante – e pertanto, di conseguenza, se importante o debole sia la cultura di cui ci cibiamo oggi – è difficile da dire: siamo contemporanei, e un giudizio reale potrà essere dato solo dopo. Di certo, però, non si può dire che i mass media, i mezzi di comunicazione attuali ghettizzino la cultura: che è anzi in uno dei periodi di sua maggiore espressione”.

Cultura, specchio della società: che epoca viviamo oggi?

“Questo è appunto un giudizio complicato da dare. Siamo troppo radicati nel nostro tempo per poterci distaccare e guardare tutto dal di fuori.

Di certo, però, posso dire che io, ad esempio, ho modo di occuparmi di tante forme di cultura: sia attraverso la divulgazione televisiva, sia tramite i giornali, senza contare la museologia. Il mio principale lavoro, però, sin da ragazzo è quello di scrivere. Ecco, una delle cose che più mi colpiscono da sempre è che non si fa che parlare della presunta “fine del romanzo”. Invece, ogni volta, resto sorpreso da quanti romanzi di valore vengono realizzati, da quanti bravissimi scrittori ci sono oggi.

Abbiamo una grandissima produzione letteraria, anche a livello europeo: francese e inglese, americana e russa, tedesca, ma che viene anche da paesi lontani come l’India o la Cina, l’Africa, il mondo arabo e musulmano. Insomma, tutto si può dire tranne che la letteratura oggi sia morta. E questo vale anche per l’arte contemporanea, che gode di uno dei suoi periodi più fertili. Se poi si tratti di grande arte o meno, questo non lo sappiamo, né dunque possiamo dirlo”.

È già importante e innovativo sottolineare che la cultura oggi è viva.

“Assolutamente: la cultura è vivissima. Per esempio, osserviamo il modo in cui si sviluppa la fruizione della cultura oggi. Sono presidente del Museo Egizio di Torino: ogni volta c’è un afflusso straordinario di visitatori, soprattutto di bambini. Resto stupefatto anche io: ci sono bambini e ragazzini attentissimi, intenti a prendere appunti, fare domande e informarsi. Sappiamo che il nostro sito è consultato in tutto il mondo. Il motivo per cui molti pensano che oggi, nel mondo attuale, la cultura sia morta è che non focalizzano con attenzione il fatto che oggi i modi per avvicinarsi alla cultura, per fare cultura, si sono differenziati e moltiplicati.

Sono modi diversi, ma non meno validi. Da un lato, è vero che c’è una massificazione delle cose; dall’altro però va obiettivamente riconosciuto lo sforzo incredibile che sempre più spesso viene fatto”.

Senza dubbio, vista la sua attività, il suo è un punto di vista privilegiato.

“Abito in due città, Torino e Roma, dove la vivacità culturale è enorme. I sindaci danno alla cultura un’importanza molto grande: che si parli di musica o teatro, cinema o letteratura, in ogni caso l’attenzione per la cultura è enorme. Nei restauri, ad esempio, vedo una grandissima vitalità: c’è quasi la voglia di fare rivivere le cose. Per farle capire l’offerta: adesso mi sto recando alla presentazione di un libro al Museo Egizio, stasera poi avrei un concerto a cui tengo molto. E ci sono almeno altre dieci cose da fare. E siamo solo a Torino…”.

Dopo la passione per l’arte che ha potuto riscontrare nei bambini, quale impressione ha avuto invece degli studenti più grandi? Si parla tanto del fenomeno “fuga di cervelli”, per cui l’Italia si lascerebbe sfuggire tutte le sue migliori intelligenze: la questione è legata soprattutto alle discipline scientifiche, ma anche le realtà umanistiche non possono che risentirne. Che impressione si è fatto?

“La scuola e l’università hanno tanti problemi, ma tra tutti il più urgente è quello del nostro immobilismo, della nostra infinita complessità burocratica. Mi spiego: il Paese è ancora legato ad una forte burocratizzazione. E la gente è ancora fissata con l’idea del posto fisso: è quello che vuole sopra ogni cosa, che vede come obiettivo. Le persone sono meno abituate alla elasticità che invece il lavoro dovrebbe avere. Con questo desiderio, si scontra poi la realtà della difficoltà di trovare il posto che si desidererebbe. È problematico trovare un impiego, un posto di lavoro dopo.

Perciò l’Italia vive questa condizione. Sarebbe necessario uno svecchiamento mentale del nostro Paese per far sì che in Italia i giovani possano trovare più facilmente lavoro. Al momento sono tutti legati alle loro poltrone. D’altronde, così come l’arte è lo specchio del paese, i difetti di un popolo si riflettono anche sulla sua classe dirigente”.

C’è qualcosa in particolare che l’Italia potrebbe fare per iniziare un miglioramento anche in questo?

“A Torino c’è un esempio virtuoso di un atteggiamento che riterrei vincente per tutto il Paese: la capacità di “fare sistema”. È una dote non ancora troppo sviluppata ovunque, ma che sarebbe davvero importante.

Gli italiani sono un popolo di persone brillanti: ma se mancano di questa capacità di fare sistema è ovvio che i cosiddetti “cervelli” finiscano con l’andare là dove il sistema funziona. Cioè all’estero. Mi pare inoltre che, forse, manchi un po’ di ambizione. Forse sono troppo privilegiate le materie umanistiche: questo ci ritarda rispetto alle altre realtà”. Lei oggi è presidente anche della Fondazione CittàItalia e di Mecenate 90, associazione che dal 1990 svolge attività di promozione e assistenza tecnica nei settori della valorizzazione e della gestione dei beni culturali e dello sviluppo locale. Qual è l’obiettivo della sua attività?

“Si tratta di due realtà che danno grandi soddisfazioni. Stimolano infatti il privato a farsi carico del bene culturale, del patrimonio museale del nostro Paese, talmente enorme che lo Stato non potrebbe farsene carico interamente.

A mio avviso, è giusto che i cittadini si responsabilizzino. Ad esempio, abbiamo cercato di organizzare aste di opere d’arte realizzate da artisti che mettevano a disposizione i loro lavori. I proventi di tali aste andavano a restaurare una opera d’arte che necessitava di “rivivere”.

In questo modo, chi compra arte contemporanea vede in maniera diretta e tangibile che i suoi soldi andranno a salvare un’altra opera d’arte.

Questo è il segreto per alimentare e tenere in vita una attività del genere: il cittadino deve poter vedere ciò che fa. È una responsabilizzazione che facilita un atteggiamento specifico verso i nostri beni culturali: che così non vengono né dimenticati, né trascurati, con indiscutibile vantaggio per la nostra cultura nel suo complesso”.

Nella sua rubrica ha presentato centinaia di libri: quale le è rimasto nel cuore?

“Guardi, si parla di circa 360 libri all’anno: non potrei prediligere nessuno dei miei ospiti in particolare.

A ognuno diamo la massima dignità, cercando al contempo la massima varietà nella presentazione. Tengo davvero tantissimo alla rubrica “Due minuti un libro” su La7: è un servizio importante oggi, perché al libro viene data la stessa importanza di qualsiasi altro prodotto. Un elemento in più che fa distinguere La7 una volta ancora come tv indipendente: un’emittente di qualità che, tra l’altro, ogni giorno rende protagonista un pezzo della nostra cultura”.

* Dice di sé:
Rachele Zinzocchi. Trentun anni, fiorentina di nascita, ma romana d’adozione, una laurea in filosofia teoretica alla Scuola Normale Superiore di Pisa – sulla metafisica e la finitezza umana – e un amore ancora oggi viscerale per ciò che significa “pensare”: oltre che per la possente lingua tedesca. Giornalista per desiderio di libertà nella comunicazione, è stata folgorata sulla via di Damasco da una grazia divina.

GIOVANNI BERCHET
Tutti gli uomini, da Adamo in giù, fino al calzolaioche ti fa i begli stivali, hanno nel fondo dell’animauna tendenza alla poesia. Questa tendenza, che in pochissimi èattiva, negli altri non è che passiva, non è che una cordache risponde con simpatiche oscillazioni al toco della prima.(Da “Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo”, 1816)
Francesco Canino - E Torino cambia così, con la voce di Carlo Fruttero

In un documentario, progetto innovativo di Rai Sat Cinema, si fa il punto su una città in pieno fermento

Francesco Canino*

Raccontare una città non è facile. Raccontarne i cambiamenti, ancora meno. Ci sono probabilmente tanti modi per farlo quanti sono gli occhi dei suoi abitanti. Nel caso di Torino, che di abitanti ne ha quasi un milione, ci sono almeno due milioni di prospettive differenti, con migliaia di sfaccettature che si mescolano ed entrano in gioco. Una studentessa universitaria ventiduenne, un meccanico di cinquantacinque e un designer di trentotto ci descriverebbero probabilmente sfumature e sensazioni, passioni e disincanti diversi, ma complementari. Una mattina di gennaio, seduti su una panchina in Piazza Vittorio. Ora di pranzo. Fino a qualche minuto prima c’era una nebbia, di quelle impenetrabili, che non ti fa vedere che sul marciapiede opposto c’è una signora che porta a spasso il cane o un barbone che se ne sta intirizzito ad aspettare due spicci di elemosina.

Un leggero colpo di vento si trasforma in una brezza più sostenuta e comincia a spazzare via il grigio nebuloso, svelando un sole caldo che ti avvolge con un tepore già primaverile. Su quella panchina si parla di grigio.

“Da piccola quando chiedevo ai miei cugini di venirmi a trovare a Torino mi rispondevano sempre di no. Dicevano che era troppo grigia e triste”. “Da ragazzino al mare d’estate, quando giocavo in spiaggia e conoscevo qualche altro coetaneo, ogni volta che dicevo di venire da Torino mi rispondevano: che brutta, è così grigia! Ci rimanevo sempre malissimo”.

Da bambini ancora non si conosce il significato di luogo comune. “Il grigiore di Torino, di cui per primo parlò su “Casabella” negli anni trenta del secolo scorso Filippo Burzio, riferendosi all’astrattezza e alla razionalità del capoluogo subalpino, è oggi una leggenda metropolitana. Tanto che, dopo i recenti interventi di restauro, che hanno restituito al centro storico i suoi colori originari, già mortificati qui come altrove dall’incuria e dallo smog, la città sta recuperando le tinte solari amate da Nietzsche, e da questi cantate nelle lettere all’amico Peter Gast” ha scritto Giuseppe Culicchia su “Torino è la mia città”, una “non guida” della città edita nel 2005 da Laterza, un libro di grande successo tanto da registrare fino ad oggi ben ventitré ristampe. “Torino, già militare e poi industriale, non è più né militare né industriale. E giorno dopo giorno cerca la sua nuova identità. Puntando, si dice, sulla cultura” sintetizza Culicchia.

Incontro Chiara Bacilli proprio su una panchina. Lato sinistro di Piazza Vittorio Veneto, di fronte a noi il Po, la Chiesa della Gran Madre e la collina che fino a poche ore prima era nascosta, come una quinta teatrale, dalla nebbia densa. “Questa piazza mi ricorda un porto…” mi dice subito Chiara.

È una giornalista, una conduttrice radiofonica di Radio Rai e collabora dal 1999 con Rai Sat Cinema.

Le parli per un’ora e ti sembra di conoscerla da sempre: usa un linguaggio chiaro, mai sintetico né troppo arzigogolato, ti racconta del montaggio del suo ultimo documentario sul “Torino Traffic Festival” e capisci che in tutto ciò che fa ci mette passione. E ironia.

“Ho trentasei anni e continuano a definirmi la “giovane” conduttrice radiofonica, la “giovane” regista… mi chiedo che effetto mi farà quando smetteranno di chiamarmi così!”.

Dalla sua testa e da quella di Davide Di Leo (il tastierista dei Subsonica più conosciuto come Boosta) è nato un progetto, apparentemente ambizioso, e sicuramente ben riuscito: raccontare come una città, Torino appunto, sia riuscita con un percorso faticoso e lungo quasi trent’anni a cacciare in un angolo i luoghi comuni che la riguardavano, per diventare una realtà completamente diversa e vivere una stagione di instancabile fermento.

Così è nato “Surfin’ Torino”, un documentario prodotto da Rai Cinema (Carlo Brancaleone, Responsabile Produzione Film d’Esordio e Sperimentali, ha colto con entusiasmo l’idea, tanto che potrebbe essere il primo di una serie di documentari prodotti per raccontare le tante belle realtà italiane) nel quale trentaquattro torinesi raccontano come la città “negli anni sessanta e settanta (ma anche prima, e perfino dopo!) era una città grigia, nebbiosa, a volte tetra.

Una città industriale, poco invitante di giorno e deserta di notte. Si animava quando la notte fonda s’incrociava con l’alba, e gli operai della Fiat popolavano tram e autobus: chi andava, chi tornava, erano comunque gli unici a movimentare la città. Non era così, come veniva descritta, nemmeno allora. Ma quel che è certo è che non è così adesso.

Ingredienti del film sono la musica, la creatività e la passione, sapientemente mescolati alla voce (e spesso al volto) del narratore, lo scrittore Carlo Fruttero.

Del resto chi meglio di lui, mai banale, sempre ironicamente disincantato, profondamente torinese, poteva guidare lo spettatore in un percorso (a volte) così complicato, ma terribilmente intrigante?

Vorrei partire da una domanda, apparentemente banale, ma che costringe in qualche modo a fare un po’ il punto della situazione. Se dovesse descrivere Torino usando solo tre aggettivi, quali userebbe?

“Effettivamente non è facile… La prima cosa che mi viene in mente è “appassionante”. Mi capita spesso di viaggiare, perché per Rai Sat seguo i festival del cinema di mezzo mondo: ci sono posti in cui mi trovo davvero bene, come a Berlino, però dopo un paio di giorni sento crescere una strana impellenza.

È quella di voler tornare subito a Torino… questa è casa mia! Poi direi che è “sincera” perché si mostra per quella che è: ci sono delle zone dove è chiusa e impenetrabile e altre, invece, dove è estremamente aperta. Sa farsi apprezzare solo da chi si sforza di capirla.

E il terzo aggettivo potrebbe essere “indefinibile” perché mi vengono in mente almeno altri cento aggettivi: ci sono mille modi per descrivere questa città che, per chi si ferma al primo colpo d’occhio, può risultare dubbia e stratificata, ma invece è poetica e accogliente”.

Per decenni l’unico aggettivo usato per descriverla è stato “grigio”. Poi sono arrivate le Olimpiadi Invernali del 2006 ed è stato come se i colori dei cinque cerchi olimpici avessero irradiato di colpo tutta Torino. Il cambiamento è iniziato lì?

“Assolutamente no! Le Olimpiadi sono state in qualche modo il coronamento di un percorso che è iniziato almeno vent’anni prima.

Come abbiamo cercato di raccontare in “Surfin’ Torino”, intorno agli anni ’80 è nato un attivismo giovanile che ha dato vita ad un movimento culturale e creativo che viaggiava su più binari: musicale, teatrale, letterario con una continua mescolanza di esperienze, di storie, di vite.

“È una ripresa che parte da una presa. Di corrente” è un po’ la frase che sintetizza al meglio questo cambiamento: perché Torino è stata davvero scossa da un’onda di suoni e di rumori che hanno cominciato a mutarla profondamente”.

La notte, dite nel film, è “lo specchio che misura questo cambiamento”.

“Fino alla fine degli anni ’70 la città ad una certa ora si spegneva, completamente, per poi svegliarsi solo quando gli operai del primo turno iniziavano ad uscire di casa. Poi c’è stata l’esplosione dei club, in cui hanno iniziato a mescolarsi artisti, poeti e musicisti di vario genere e Torino ha iniziato a vivere anche di notte.

Chiaramente nel film raccontiamo una delle tante chiavi di lettura di questo cambiamento, che è corso parallelo su più fronti che si sono inevitabilmente incrociati ed intrecciati”.

“Questa è una città scandita dal ritmo delle sirene” scriveva Carlo Levi. La storia dell’industria è connaturata a quella di Torino. La Fiat è stata il motore della città e quando questo si è inceppato la città stessa ha arrancato. Oggi che l’azienda ha ripreso a correre e i conti non sono più in rosso, sembra però tutto meno Fiat-centrico.

“Beh non è facile descrivere in poche parole un cambiamento epidermico e di sostanza, che storici e sociologi ancora oggi cercano di indagare.

Ci sono stati anni molto difficili e le ricadute della crisi della Fiat sono state molto forti, perché tutto l’indotto ne ha di conseguenza sofferto.

Ma già negli anni ’90 c’è stato un cambiamento e i protagonisti della storia di questa città si sono prima diversificati e poi moltiplicati: giovani designer, musicisti, piccoli editori, registi, architetti hanno cominciato ad essere una parte sempre più attiva di Torino. La parola chiave è diventata creatività”.

Parte di quest’onda creativa, come l’avete definita lei e Boosta, è confluita nelle immagini del vostro film, in cui sono raccolte le testimonianze di trentaquattro torinesi illustri, da Luciana Littizzetto, alla stilista Kristina Ti, passando per il regista Davide Ferrario e Don Piero Gallo, fino ad arrivare a John e Lapo Elkann: tutti raccontano il loro punto di vista sul percorso che ha portato Torino da città dell’industria a città culturale e creativa. Come li avete scelti?

“Non è stato facile. Un giorno ci siamo ritrovati a casa mia e avevamo un cartellone con quasi trecento nomi. Abbiamo ragionato un po’, incastrato idee e volti, sfoltito l’elenco dandoci due spunti iniziali: ci siamo detti, non facciamo un ritratto “istituzionale” e scegliamo tutte le persone che, con un po’ di fortuna, si possono incontrare in giro per la città”.

Quali sono stati i personaggi che l’hanno più colpita?

“Senza dubbio Carlo Fruttero. È la torinesità fatta persona. Incontralo è stato scoprire che l’immagine che avevo di lui corrisponde al vero: è di un’ironia senza paragoni, ha uno stile di fronte al quale non si può che restare ammirati… e poi sa smorzare gli entusiasmi e riportare alle cose concrete come pochi altri. Forse quello che mi ha sorpreso più di tutti è stato John Elkann: ha quell’aria da bravo ragazzo, tutto serio e compunto, ma sa essere molto divertente ed è stato estremamente disponibile”.

Abbiamo accennato prima alle Olimpiadi. Sono state un grandissimo evento e, oltre ad essere ben riuscite, hanno proiettato in tutto il mondo un’immagine completamente diversa di Torino. Il cambiamento dell’immagine della città ha lasciato tutti a bocca aperta… per primi forse gli stessi torinesi.

“Io la vedo proprio così. I torinesi più accorti, quelli che sanno guardarsi attorno, si erano resi conto che le cose erano cambiate già da un bel pezzo. Quelli più sonnolenti si sono svegliati di colpo, si sono guardati in tivù e si sono piaciuti.

Le Olimpiadi sono state davvero uno scatto d’orgoglio e di autostima e sono state un momento molto particolare perché Torino, che guarda e scruta senza il desiderio di essere vista, si è aperta al mondo mantenendo ben salda la sua identità di comunità”.

L’identità si costruisce anche sulle radici della sua storia. Marco Revelli, docente di Scienze della politica all’Università del Piemonte Orientale, che si è occupato a lungo della storia dei processi produttivi, ha scritto che “tutto è in frantumi, ci sono rovine dappertutto, come se l’esperienza industriale non si potesse riciclare. La storia di questa città, nell’ultimo secolo, sta scomparendo senza memoria, perché Torino non riesce a costruire memoria”.
Un’analisi impietosa.

“Catastrofica, secondo il mio punto di vista, ma in parte condivisibile. Il problema della memoria è un problema culturale. Ai giovani manca la voglia di sapere da dove veniamo e cosa siamo stati, ma credo sia una questione che tocca tutta l’Italia e non solo Torino.

Quanti giovani torinesi, ad esempio, sanno che i locali che frequentano ai Murazzi (le sponde del Po, ndr) erano, nel secolo scorso, officine, approdi e rimesse delle barche? O che i Docks Dora, che oggi sono pieni di locali, set fotografici, studi di designer erano capannoni industriali? Sono in pochi, ma perché nessuno glie lo dice”.

Sempre Revelli, che ha il merito di suscitare dibattiti su argomenti che i media mettono in rilievo solo quando scoppia “la tragedia”, dice che “Torino è sempre più come la Moriana di Calvino, la città con un volto di marmo e di alabastro e uno di ferro e di cartone, e una faccia non vede più l’altra”. Sono passati quasi tre mesi dall’incidente
alle acciaierie Thyssen Group. C’è chi ha scritto che una parte della città non si è nemmeno accorta dei sette operai
morti.

“Questo non lo credo. Sono state dette e scritte tante parole in libertà in quell’occasione. Chi si è dimenticato di loro? La gente comune o chi avrebbe dovuto occuparsi della sicurezza sul lavoro di quegli operai?

La città ha partecipato ai funerali, ha fatto un gesto (forse quello più visibile) bloccando tutte le manifestazioni di festa per il Capodanno, visto che l’ultimo operaio è morto poche ore prima dell’ultimo dell’anno, e soprattutto è stata solidale, ma nel silenzio: Torino non è la città dei gesti eclatanti e per questo può sembrare arida, ma in quell’occasione ha dimostrato ancora una volta di sapere essere comunità.

Basta passare davanti alla Thyssen e vedere quanti fiori ancora oggi i torinesi portano lì davanti… proprio perché non hanno dimenticato e non vogliono farlo”.

Senza dire che le famiglie delle vittime stanno avendo un sostegno concreto da parte del comune, col sindaco Sergio Chiamparino impegnato in prima persona per trovare un impiego a chi ne aveva bisogno, e che quasi cento ex operai della Thyssen (che è stata definitivamente chiusa) hanno già trovato un lavoro grazie all’Amma, l’Associazione degli Industriali Metallurgici, Meccanici e affini. Anche questo è parte dello spirito di questa città.

“Credo sia proprio così. Se potessi aggiungere altri due aggettivi, per rispondere alla tua domanda iniziale, direi che Torino è solidale e collettiva. Protegge e si protegge, ma è aperta e accogliente.

Piazza Vittorio, in fondo, è come un porto, dove si mischiano, anche solo per qualche istante, vite e realtà diverse. Basta una fotografia di questo posto ora: stiamo seduti a parlare su questa panchina e in quella alla nostra destra c’è una studentessa che ripassa per un esame, un meccanico in pausa pranzo e un designer che parla al cellulare e gli chiede un accendino per fumarsi una sigaretta”.

C’è un porto, ma non il mare.

“Per quello basta un po’ di fantasia. Torino il mare non ce l’ha, ma è come se l’avesse ed è percorso da una “buona onda” di creatività che arriva da lontano.

Se poi l’onda dovesse diventare “cattiva” non c’è problema… basta prepararsi e cogliere il suggerimento ironicamente geniale che Carlo Fruttero dice alla fine di “Surfin’ Torino”: “Un surf è sempre meglio averlo in casa: non si sa mai che uno tsunami risalga il Po”.

Dicono di Torino
Evelina Christillin (Presidente della Fondazione Teatro Stabile di Torino, Presidente dell’Orchestra Filarmonica ‘900 del Teatro Regio di Torino e vicepresidente del Toroc, il Comitato per le Olimpiadi di Torino 2006).

Contemporanea. Torino è forse la città più europea d’Italia, non solo sta al passo coi tempi, ma spesso li anticipa. È più vivace di Roma o Milano, c’è un fermento continuo e un’offerta culturale impareggiabile. È una grande città laboratorio che non teme il confronto.

Aperta. Non ha paura di accogliere l’immigrazione e il cambiamento non la spaventa. C’è un tessuto umano pulsante che non si arrende e non si ferma davanti alle difficoltà e ai drammi. E chi dice che la questione operaia è dimenticata si sbaglia, ne abbiamo avuto la prova con i sette morti della Thyssen: la città ha saputo fermarsi a riflettere sulla questione del lavoro e si è stretta vicino alle famiglie degli operai, proprio perché ben sa che la loro storia è la storia di Torino. Ha saputo cambiare poggiandosi saldamente sulle proprie origini e radici: l’innovazione
sarebbe nulla senza la tradizione. Il carattere militare e industriale ha resistito proprio perché senza queste connotazioni si sarebbe persa la bussola.

Progettuale. Torino sa ripartire e darsi degli obiettivi. Penso al 2003/2004 quando sono mancati Gianni Agnelli, Alessandro Galante Garrone e Norberto Bobbio: la città aveva perso le sue figure più carismatiche e c’era uno sconforto tremendo, quasi una rassegnazione. Poi sono arrivate le Olimpiadi e c’è stata una ripartenza, è come se la città si fosse rimessa in moto. Oggi vibra, si muove e si evolve. Ho vissuto tutta la storia di Torino degli ultimi trent’anni, ero in giro per la città il giorno in cui uccisero Carlo Casalegno, ricordo la marcia dei 40 mila e posso dirlo: oggi si sta molto meglio di vent’anni fa e i torinesi sono cambiati e hanno imparato, con pacatezza, a misurarsi con una nota del proprio carattere che fino a qualche tempo fa tenevano ben nascosta. L’autostima.

Erika Cordero (diplomata nel 2003 alla Scuola Holden di Alessandro Baricco, subito dopo è entrata nel gruppo Mondadori ed è una giornalista del settimanale “Confidenze”).

Doppia. Torino la vedo come un ossimoro. Ha due facce diverse e apparentemente inconciliabili: una è affascinante, in continuo movimento, aperta al confronto, quasi patinata. Poi c’è quella opposta, completamente conservatrice, chiusa e un po’ fredda: secondo me questa è ancora la sensibilità che continua a prevalere, anche se ci sono sempre più spesso persone interessanti nell’ambito culturale e artistico, magari poco conosciute, ma piene di nuove idee. Forse è proprio questa contraddizione a tenere viva Torino.

Decadente. Metà della città mi ricorda un nobile decaduto, di quelli un po’ fané, ma che mantengono comunque uno stile decoroso ed elegante. C’è un posto della città, davanti all’ospedale Mauriziano, nel quale sin da piccola ho sempre pensato che si respirasse il vero profumo di Torino: in quello slargo si incrociano un lato squallido (che è forse quello più interessante) ed uno invece più elegante: per me quello è un po’ il confine tra le due Torino che percepisco. Penso che sia proprio dall’incrocio delle due facce che possa venire fuori il meglio dell’arte e della cultura che Torino riesce ad offrire.

Rinascente. Scelgo questo aggettivo proprio per il dualismo che contraddistingue Torino. Ad una faccia della medaglia che vedo scura, se ne contrappone una chiara.

C’è una spinta propositiva che si sente in sottofondo, come se continuasse a bollire qualcosa in pentola e stesse per venire a galla: il bello di questa città è che anche quando tutto sembra finito, quando sembra che la crisi sia irreversibile, è sempre capace di rinascere e rigenerarsi. Anche dai drammi o dalle vicende negative, come nel caso dalla morte dei sette operai della Thyssen, Torino riesce a cogliere una sfumatura per andare avanti e progredire senza dimenticarsi del proprio passato e della propria storia.

Marianna Martino (Nel 2005 ha fondato la “Zandegù”, casa editrice della quale è direttrice editoriale. Pubblica principalmente narrativa italiana surreale e testi di autori italiani inediti).

Bella. Torino è come la donna di cui tutti gli uomini vorrebbero innamorarsi: è sempre bella come la prima volta che l’hai vista. Io ci vivo da cinque anni e tutte le volte che esco di casa mi sento fortunata perché mi piace starci, passeggiare per le vie del Quadrilatero o prendere un caffè in Piazza Vittorio. Mi piacerebbe solo che fosse più pulita e che ci fosse meno traffico.

Pulsante. C’è un grande fermento culturale e Torino offre davvero la possibilità, a chi ci mette impegno e passione, di partire da zero e costruire qualcosa. Il mio esempio è forse significativo: a 22 anni ho deciso di fondare una casa editrice e a piccoli passi, con l’aiuto dei miei genitori e dei miei amici, ci sono riuscita: mi sono trasferita dalla provincia, che per me era diventata claustrofobica, e mi sono inventata un lavoro. Dopo due anni di attività posso provare a tirare un bilancio che considero molto positivo: abbiamo editato dodici libri e nel 2007 abbiamo avuto uno spazio nella sezione “Incubatore”, l’area riservata agli editori esordienti, alla Fiera del Libro di Torino e quest’anno esordiremo tra i “big”.

Poetica. Ci sono parti della città che resteresti a guardare per ore perché sono scorci rubati ad una cartolina. C’è un posto che mi rapisce completamente ed è Piazza Bodoni: quanto ho un po’ di tempo libero mi siedo su una panchina e ascolto la musica che esce dal Conservatorio. Ma anche le vecchie aree industriali, magari abbandonate e lasciate a se stesse, non turbano la vista.

Non credo a chi dice che Torino non abbia memoria: parlo spesso con molti miei coetanei e non sono per niente ingrati né tanto meno miopi ma, al contrario, sanno qual è la storia di questa città, quanto devono alla tradizione e alla cultura operaia.

* Dice di sé:
Francesco Canino. Nato a Torino ventisei anni fa, laureando (per la gioia di mamma) in Scienze Politiche, con una tesi sulla “metamorfosi dell’intervista”. Amerebbe scrivere un libro su Bettino Craxi e sul suo ruolo di innovatore nella comunicazione politica Italiana. Pur non credendo nella reincarnazione, nella vita precedente pensa di essere stato un ozioso aristocratico dell’antica Roma morto (continuando a mangiare) durante l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.. In quella futura spera di essere la nuova Raffaella Carrà. Avrebbe voluto un professore di filosofia più motivato nello spiegargli la materia, invece ha studiato “La critica alla ragion pura” di Immanuel Kant senza averci capito nulla. Collabora con i settimanali della Mondadori, “Tu” e “Confidenze”.

THOMAS STEARNS ELIOT
Le parole si tendono si laceranoe talora si spezzano sotto il peso,sotto la tensioneincespicano scivolano muoionoimputridiscono per imprecisionenon vogliono stare al loro postonon vogliono restare ferme.(Da “Quattro quartetti”, 1943)
BELPAESE? Federico Filippo Oriana - Mai così pochi hanno fatto male a così tanti

Svaniti, o quasi, i punti di forza sono rimasti quelli di debolezza: sistema politico mediocre, amministrazione burocratica, scuola

inidonea, università baronale, populismo giornalistico-sindacale, avversione per il libero mercato

Federico Filippo Oriana*

I pessimistici auguri del nostro Direttore, i discorsi che corrono inquesto periodo in ogni dove, anche nelle segrete stanze imprenditoriali, perfino in articoli della stampa internazionale, mi hanno suggerito il tema dei temi: il nostro Paese ha speranze? siamo veramente e finalmente al declassamento vero e proprio? Cosa c’è per noi dietro l’angolo?

Il tema del declino: anche se, ha correttamente osservato Vittorio Feltri, i declini di nazioni sono fenomeni storicamente lunghi, che non si visualizzano in un anno o due. È vero, però, anche che, al di là della questione nominalistica, se i tradizionali punti di forza del Belpaese si fossero spenti rimanendo solo gli altrettanti tradizionali
punti di debolezza, sarebbe in corso un processo di fondo magari di lunga durata, ma di cui alcuni elementi visibili costituirebbero un sintomo rivelatore.

È da qui, dunque, che bisogna partire, dai punti strutturalmente forti e deboli per giungere, solo dopo, agli aspetti contingenti, alle politiche seguite e da seguire. Quello che pochi hanno il coraggio di riconoscere, e nessuno sulla stampa “ufficiale”, è che la ricostruzione e poi il miracolo economico italiano furono sostanzialmente fondati su sei fattori:

1) evasione fiscale;

2) evasione contributiva;

3) svalutazione internazionale della moneta;

4) inflazione interna;

5) aiuti di stato alle imprese;

6) Piano Marshall, ossia aiuti americani.

Queste situazioni – tutte lontane dalle regole del diritto o del mercato – fecero – come scrisse “The Economist” nel suo famoso rapporto del 1971 – “entrare un popolo scalciante e urlante nel ventesimo secolo”. Se solo si pensa alle condizioni dell’Italia del dopoguerra, non solo e non tanto di rovine fisiche, ma di profonda arretratezza culturale e tecnologica di gran parte della popolazione, quella delle campagne e del Mezzogiorno, entrare negli anni ’70 nel G7 e sfiorare negli anni ’80 la posizione di quarta economia mondiale fu effettivamente vero miracolo.

Ma questi presupposti di allora (fattori di insorgenza in linguaggio tecnico) sono tutti evaporati. Cominciando dal fondo:

1. agli americani (per ora) non interessiamo più per la scomparsa del comunismo (la Cina è comunista solo di nome, in realtà è un paese dittatoriale di capitalismo selvaggio e, comunque, a differenza di quello che si diceva negli anni ’80, è lontana, almeno per noi che nessun contributo militare possiamo dare al suo containment);

2. gli aiuti di stato sono proibiti dall’Unione Europea (quindi le crisi tipo Alitalia non si possono più risolvere con i metodi old style di una bella palata di denaro pubblico);

3. l’inflazione è impedita dalla forza dell’euro e dal patto di stabilità europeo su cui vigila la BCE;

4. la svalutazione della moneta non si può più tentare per il semplice motivo che non abbiamo più la moneta;

5. l’evasione fiscale e contributiva sono diventati fenomeni marginali, salvo forse che al Sud, per vari motivi: anche su di loro vigila l’Europa in quanto fattori di potenziale concorrenza sleale intracomunitaria, si sono affinati enormemente gli strumenti di controllo e con l’informatica si è evoluto il livello culturale degli operatori e con esso la sensibilità sociale e civile.

Contemporaneamente lo scenario internazionale si è anch’esso molto modificato: sono entrati – e non solo a livelli bassi della divisione del lavoro – nuovi players di dimensioni straordinarie come l’India e la Cina, sono praticamente cadute tutte le barriere al commercio internazionale, Internet ha fatto irruzione sulla scena e il mercato si è, quindi, globalizzato favorendo le realtà economiche capaci di giocare a livello planetario e travolgendo le rendite di posizione.

La globalizzazione economica può essere fonte di opportunità (enormi) o di problemi (altrettanto enormi), dipende se sei capace di giocare a quel gioco: ma per l’Italia, al momento, i problemi eccedono i vantaggi perché, tradizionalmente, la sua industria vede la prevalenza, quantitativa e qualitativa, delle piccole imprese, cioè di realtà che non hanno né nel loro DNA né nelle loro possibilità, ad esempio, una campagna pubblicitaria a livello planetario.

Lo stesso discorso può essere fatto per l’euro: opportunità grandissima o vincolo terribile. Per chi, come noi, deve far mangiare due volte al giorno quasi 60 milioni di anime (metà dei quali ubicati in aree degradate e povere) e ha, quindi, più bisogno di sviluppo che di stabilità, di lavoro purchessia che di qualità, il problema eccede l’opportunità.

Di fatto, l’euro ha presentato per noi sinora un solo vantaggio concreto: se avessimo ancora la lira con il costo del barile di petrolio quadruplicato in cinque anni, il prezzo di benzina e gasolio sarebbero il doppio di quello attuale, già alto. Per il resto l’euro avrebbe costituito una vera opportunità se gli assetti politico-istituzionali-sindacali interni fossero stati in grado di compiere rapidamente un processo virtuoso di adeguamento, ma così non è stato (come, del resto, era assolutamente prevedibile e in effetti previsto).

Ci troviamo, quindi, in mano un altro fattore economico esplosivo: una valuta fortissima per un’economia zavorrata da costi pubblici in eccesso, da inefficienze sistemiche, da posti di lavoro che vengono mantenuti solo per considerazioni sociali, da alta fiscalità e da oneri impropri sulle buste paga. Questa situazione blocca lo sviluppo economico del Paese e divide gli italiani tra chi si è potuto avvantaggiare (operatori medi e piccoli operanti in mercati non esposti alla concorrenza internazionale) della valuta forte e chi, come dicevano Mogol e Battisti, al 21 (magari anche al 15) del mese ha già finito i soldi, un numero enorme (e purtroppo crescente) di italiani.

In questo scenario, così poco promettente, perché abbiamo ancora un’economia più grande di paesi di popolazione simile, come il Brasile, la Turchia o (forse) la Spagna? Per l’esercito sterminato di piccole e medie imprese. In qualunque direzione si esca da Milano si cammina per ore, senza soluzione di continuità, tra strati di stabilimenti e così per le altre città lombarde, per le province del Veneto, dell’Emilia, del Piemonte.

È (ancora) il Paese del milione di imprese e delle duecentomila industrie, di ogni genere, settore, tipologia e dimensione. Questa caratteristica – che riguarda almeno tutto il Nord, Toscana, Umbria, Marche e la metropoli romana – ci ha dato un grande vantaggio negli anni in cui – sotto la spinta del primo e del secondo shock petrolifero – era essenziale ristrutturare per contenere i costi (ricordate il piccolo è bello degli anni ’70 e 80?), ma diventa un handicap quando si tratta, come ora, di aumentare i ricavi per giocare su scenari globali: la piccola impresa ha, infatti, più flessibilità, ma minori economie di scala. È, tuttavia, il nostro esercito economico, l’unico che abbiamo.

Svanendo, quindi, i punti di forza sono rimasti quelli, atavici, di debolezza. Una pubblica amministrazione di (mediocre) impronta giuridica, a differenza di quella, ad esempio, a formazione tecnica degli Stati Uniti: anche il problema di una lampadina bruciata o di un marciapiede rotto diventa allora l’interpretazione di una norma (che in
genere – l’ho sperimentato amministrando un comune – spiega perché la cosa non si può fare) invece che la risoluzione dell’inconveniente.

Una scuola di marca gentiliana, assolutamente inidonea a far comprendere e amare ai giovani la tecnologia. Un’università burocratica e baronale, chiusa ai veri talenti e fuori da ogni logica di mercato a differenza, ad esempio, dell’America (dove le migliori università prendono i migliori docenti e i migliori studenti cercano quindi di entrare nelle migliori università anche a 4.000 miglia di distanza, rendendo dinamica la competizione per il lavoro e quindi l’intera società).

La scarsissima propensione per l’inglese e per le altre lingue. Un sistema giuridico-giudiziario causidico e formalista. Il populismo politico-giornalistico-sindacale dominante. Una pregiudiziale avversione per il libero mercato e per le sue dure – ma salutari e inevitabili – implicazioni in un mondo dove è rimasto solo il sistema di produzione e scambio di tipo capitalista.

Last but not least, il sistema politico-istituzionale. Sistema che si giustifica con un unico scopo: servire il popolo, la nazione, la gente, come si preferisce dire. E in questo senso l’Italia non è mai stata fortunata. Le performance mediocri sono cominciate subito dopo l’Unità e attraverso scandali (vedi la Banca Romana ancora nell’800), guerre coloniali ridicole e tardive, cariche mortali sulla gente affamata alla Bava Beccaris, interventismo, fascismo, democrazia cristiana con la sola eccezione dell’inimitabile De Gasperi, via via venendo verso il presente, il sistema politico ha reso all’Italia un ben misero servizio. Anzi, in genere è stato il problema e non la soluzione.

Dire, come fanno i poveri Presidenti della Repubblica (lo farei anch’io al loro posto), “cercate di andare un po’ più d’accordo” mi sembra poco rispetto alla profondità della crisi del sistema politico italiano, crisi che non è nata con la cosiddetta seconda repubblica, visto che era già ben visibile da almeno vent’anni prima. La seconda repubblica ha costituito, anzi, un tentativo serio e necessario di rispondere all’improduttività e alla stagnazione sistemica che impediva all’Italia di restare al passo con l’Europa e con gli Stati Uniti, ossia con paesi tutti costituzionalmente alternativisti.

L’esperimento, per ora, non ha funzionato per ragioni che sarebbe o superficiale o troppo complesso esaminare qui: solo si può accennare all’incompiutezza del percorso che ha portato a innestare una legge elettorale maggioritaria e alternativista su un impianto costituzionale opposto, che non vi è stata la possibilità di modificare.

All’interno di un servizio politico-istituzionale-amministrativo alla società, complessivamente, di infimo livello, spiccano, poi, delle punte negative: pensiamo, ad esempio, ad un certo tipo di sindacalismo inconcludente, senza sbocchi, di presa in giro dei lavoratori quale quello che ha affossato l’Alitalia. Pensiamo a un certo ambientalismo, che diffonde solo inquinamento materiale, morale ed atmosferico come quello che ha demolito le centrali nucleari e impedito la costruzione degli inceneritori con le conseguenze sia sul piano del costo dell’energia sia su quello dei rifiuti in questo periodo sotto gli occhi di tutti.

Ma allora si stava meglio quando si stava peggio? Probabilmente sì, anche se non è possibile far tornare indietro le lancette dell’orologio e le condizioni al contorno di 30, 40 e 50 anni fa non sono riproducibili. Quello che è sicuro è che rimandare indietro la gente, richiedere quella frugalità di vita alla quale ci ha invitati il Papa negli scorsi giorni non è, purtroppo, possibile: nessuno rinuncia a quello che ha già avuto perché non comprende, non può comprendere perché non possa più averlo e a cosa serva dannarsi nel lavoro se non vi è prospettiva di miglioramento, anzi…

E il “benessere” o “malessere” percepito – così come il freddo o il caldo – non sono solo legati a dati numerici – economici o statistici – né ai parametri seguiti dagli studi dei giornali sulle città dove “si vive meglio” (che danno sempre vincenti città gelide in tutti i sensi, come Bolzano, Aosta, Sondrio, Udine, dove nessuna persona sana di mente, potendo scegliere, vorrebbe vivere…). Ma ad un insieme di elementi di stato d’animo complessivo con forte valenza psicologica, spesso alimentata – in un senso o nell’altro – dalle aspettative sul futuro.

Tutto ciò posto, cosa c’è dietro l’angolo? Ho visto nella mia vita crisi apparentemente peggiori, quale quella degli anni ’70, quando terrorismo e crisi economica si accoppiavano. Ma allora si sapeva cosa si sarebbe dovuto/potuto fare per uscire dalle secche e si disponeva degli strumenti per farlo. Ora la globalizzazione e l’Europa ci hanno tolto, la prima, i margini di risanamento autoctono e, la seconda, gli strumenti per farlo. Le altre volte avevo sempre creduto nel famoso stellone, ora sarei più cauto.

Certamente si può migliorare e la continuazione del precedente Governo sarebbe stato un segnale importante di stabilità e avrebbe dato il tempo minimo per tentare un risanamento di marca liberal-imprenditoriale: parafrasando Churchill, mai così pochi hanno fatto male a così tanti (penso a quei 23.000 elettori leghisti che hanno votato per sbaglio una lista di disturbo consegnando il premio di maggioranza alla Camera al centrosinistra…).

Si possono prefigurare due scenari: uno normale e uno pessimistico. Quest’ultimo dipende, paradossalmente, dalle banche: dico paradossalmente perché è il colmo che un operatore come il sottoscritto scriva che il bene dell’Italia e il bene delle banche convergano con tutta la polemica che – con buoni motivi – sviluppiamo ogni giorno contro di loro.

Però la verità è che non sappiamo quali rischi, esattamente, il sistema bancario italiano si sia preso con la partecipazione a salvataggi industriali e, soprattutto, con i mutui e i prodotti derivativi: se ci dovesse essere un’insolvenza a livello mondiale della finanza “avanzata” temo che non sarebbero le (relativamente) piccole banche
italiane a salvarsi e questo vorrebbe dire il disastro, con l’unica consolazione che non saremmo soli. Lo stesso se si determinasse una diserzione di massa nel pagamento dei mutui da parte della clientela privata.

Credo di più nello scenario “normale”, di un Paese cioè in dolce, opulento e tranquillo declino che perderà posizioni e opportunità senza neppure accorgersene. Ma la storia di un Paese millenario non finisce domani e un’azione governativa di impronta liberale avrà altre occasioni e dovrà necessariamente essere ripresa, io spero già da quest’anno. Tuttavia gli altri corrono e noi stiamo sprecando anni. Quindi, anche se io non vedo la catastrofe all’orizzonte, non credo che la mia generazione potrà vedere di nuovo un’Italia posizionata come lo era negli anni ’80 (sia pure con il contributo di una crescita esplosiva del debito pubblico).

* Dice di sé:
Federico Filippo Oriana. Avvocato immobiliarista, presidente dell’Aspesi – Associazione nazionale società immobiliari, operatore giuridico-economico nel comparto immobiliare, appassionato di problemi istituzionali, internazionali e della difesa, presidente del Comitato regionale ligure delle comunicazioni (ente regionale dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni). Non è sportivo e non ha hobby, se non leggere e scrivere (non per “épater le bourgeois”, ma perché è vero…).

GIOVANNI GHERARDINIChiamasi poeta chi possiede la facoltà di concepirel’idea del Bello e di renderlo sensibile ad altrui.

Quindi la poesia, considerata come produzione del poeta,

altro non è che la manifestazione del Bello

da esso lui concepito. Il fine cui tende la poesia

è di signoreggiare il cuore e la fantasia,

ovvero l’uno e l’altra insieme, rendendo sensibile ad altrui

il Bello concepito dal poeta.

(Da “Manuale di poetica”, 1856)

Flavia Carrara - I baroni comunicano? Sì, per esercitare il potere

Occorre creare consenso intorno all’idea che l’intero patrimonio intellettuale può contribuire a quel rinascimento culturale di cui

l’Italia percepisce l’urgenza per affrontare le sfide del millennio

Flavia Carrara*

Comunicare è un atto rivoluzionario, incompatibile con il mantenimento di equilibri costituiti, basati su logiche di potere, e per questo la comunicazione nella sua vera accezione è da quest’ultimo temutissima; risponde solo a quel potere acquisito attraverso il merito dell’aver operato attraverso logiche di pensiero e che attraverso logiche di pensiero continua ad operare. Presuppone apertura, capacità di rischiare per mettere in gioco il proprio patrimonio di idee in nome di ciò che di inedito può derivare dall’incontro con l’altro. Nella comunicazione vince chi ha idee da mettere in gioco; chi invece fa del suo presidio nozionistico uno strumento per acquisire importanza a livello istituzionale perde, inesorabilmente, a meno che la comunicazione non riesca ad eliminarla, a meno di non metterla nelle mani di un burocrate.

Se la deroga alla vera natura della comunicazione può essere compresa in un’azienda quotata in borsa o in una pubblica amministrazione, non può esserlo in un’istituzione che allo sviluppo di intellettualità è preposta per sua propria inderogabile missione. Lo scorso 26 gennaio Vittorio Sgaramella ha scritto su Repubblica che per sbloccare l’impasse in cui versa l’università italiana occorrerebbe reclutare docenti stranieri, i cosiddetti “peers”. Forse c’è un altro metodo, reclutare veri comunicatori, che abbiano rango di peers nei confronti dei docenti, dall’estero o dall’Italia poco importa, l’Italia in termini di creatività è difficilmente superabile, purché non burocrati: i baroni scomparirebbero nel giro di poco tempo.

La questione dell’università italiana non sta nella redistribuzione dei finanziamenti pubblici, né nei processi di valutazione dei docenti, né in tutto ciò di cui si sente argomentare abitualmente. Risiede nel fatto che chi dovrebbe essere preposto a fare cultura non lo fa, bensì utilizza la conoscenza, spesso per lo più nozionistica o spetica, e magari la fama acquisite in un determinato settore, per esercitare un potere alla stregua, o forse peggio, della peggior tradizione politica. In altre parole è questa una “cultura” del tutto disgiunta dalle logiche dell’operare visto che le istituzioni di cui tali personaggi fanno parte sono sprofondate nel più cupo oscurantismo, dove vigono logiche di potere addirittura feudale, dove il personale è scelto in base a criteri diametralmente opposti a ciò che è merito.

In altre parole, può accadere che un “professore” sia un intellettuale, ma è un caso; così come può accadere che lo sia un taxista o un impiegato. Sarebbe interessante andare a stabilire con quale probabilità nel primo e nel secondo caso e non saprei quale possa essere l’esito.

Comunicare la cifra di un’istituzione che fa cultura è impresa irripetibile nella sua difficoltà e, al tempo stesso, nella sua semplicità. La difficoltà consiste nella ricerca della chiave per comunicare intellettualità ad un pubblico che la rifugge e la teme per principio, pur senza intenderne la valenza, associando il significante intellettualità a quel sapere preconfezionato e nozionistico che dell’intellettualità è l’antitesi e che non tollera deroghe al conformismo.

La semplicità consiste nel fatto che alla comunicazione non siano concesse alternative, scorciatoie, fraintendimenti, che non esista un suo sotto prodotto che ad essa possa sostituirsi e quindi debba per forza di cose esplicarsi nella sua accezione più alta: mettere in gioco un’istanza affinché nell’incontro con l’Altro questa possa giungere a dar luogo all’inedito.

Spesso nell’accezione comune, invece, l’efficacia della comunicazione viene intesa in altro modo, prevalentemente come quell’insieme di strumenti atti a dare visibilità a qualche cosa di già preconfezionato, come se la comunicazione non dovesse influire su ciò che viene ritenuto essere oggetto della comunicazione, anzi debba
trasmetterne fedelmente il contenuto.

Come essa fosse causa e non effetto dell’apertura di un’idea, di un progetto, di una qualsiasi iniziativa all’Altro; come se il risultato della comunicazione possa essere previsto, studiato a tavolino e non il frutto di un incontro che produca qualcosa di inedito, di assolutamente inaspettato e imprevedibile. In altre parole spesso una comunicazione viene ritenuta efficace in base al livello di fedeltà con il quale viene riportato un messaggio predefinito, dalla sua aderenza ad esso, da quanto si riesca a minimizzare lo scarto tra quanto si vuole comunicare e ciò che viene percepito. Per questo si è disposti a mobilitare eserciti di esperti, investire risorse finanziarie, inventare sofisticati espedienti tattici. Prevale, in questa concezione, l’assoluta assenza dell’idea di apertura e di rischio che una qualsivoglia operazione di comunicazione non può non comportare.

Ma la cifra della comunicazione sta proprio in quello scarto, nell’ineludibile malinteso che si crea nel fare esercizio di “parola”, nell’interlocuzione intesa nel senso più pieno del termine. Ogni tentativo di eliminare quello scarto equivale ad un tentativo di eliminare la “differenza assoluta” insita nell’Alterità, anziché superarla attraverso
l’invenzione; altresì equivale a minimizzare o annullare il rischio connesso all’apertura e fare della comunicazione la causa quando invece ne è l’effetto, la novità che ne emerge come risultato. Per questo il verbo comunicare è, per così dire, intransitivo, non può reggere un complemento oggetto, non può esistere nulla che sia davvero oggetto di comunicazione. Comunicare equivale a creare un consenso intorno all’idea che l’intero patrimonio intellettuale disponibile si apra alla possibilità che da esso ne possano nascere altri, generati dalla scintilla dell’incontro, e fare in modo che questo patrimonio possa concretamente contribuire a quel rinascimento culturale di cui il paese Italia e il paese Europa percepiscono l’urgenza per affrontare le sfide del millennio.

In realtà la tendenza a ridurre la comunicazione a strumento è tipica della cultura occidentale, è molto diffusa sia in Europa che negli Stati Uniti, anche se con modulazioni diverse, ed è una tendenza figlia del conformismo. La cultura occidentale cerca di tranquillizzare le ansie nel déja-vu, nella circolarità del pensiero, nell’abuso del significante “sistema” o “modello” negli ambiti più svariati, dal mondo dell’economia a quello della scienza fino a quello della speculazione letteraria.

È rispetto a tutto questo denso pensiero dominante che, come già argomentavo nel precedente numero dell’Attimo, urge una nuova dissidenza, un pensiero soporifero, assopente, inibente le funzioni intellettive e vitali, che favorisce l’insorgere di un clima recessivo in ambito economico e pubblico oltre che depressivo in ambito privato. In un tale contesto la comunicazione diventa sinonimo di propaganda, una macchina che trasporta un oggetto, in questo caso il messaggio, da un punto all’altro, da una mente all’altra allo scopo di evitare che mai possa produrre qualcosa di inedito; l’inedito è indesiderato.

Comunicare, intellettualità: la virgola volutamente introdotta tra il verbo comunicare e il significante intellettualità significa che comunicare è intellettualità, sta a sottolineare l’intransitività del verbo comunicare; per questo è in grado di discriminare tra un intellettuale e un barone, esaltando il primo e penalizzando il secondo. Dunque, i professori fanno bene, benissimo, a temerla.

* Dice di sé:
Flavia Carrara. Giornalista, è stata corrispondente dall’Italia e, successivamente, da Bruxelles del Nihon Keizai Shimbun (gruppo Nikkei), il primo quotidiano economico e finanziario giapponese e collaboratore, negli anni ’90, del “Corriere della Sera” e del “Sole 24 Ore”, per passare ad occuparsi di comunicazione prima nell’Olivetti pre-opa, poi all’Università Bocconi di Milano e ancora, sempre a Milano, alla Edison. Membro del comitato scientifico della Ernst & Young. Attualmente è responsabile sviluppo e relazioni istituzionali del CERM.

 

ANA BLANDIANA
La poesia è ciò che mi ha dato, come un sesto senso,la sensazione della presenza dell’altro nel mondo circostante.L’altro mi guarda dalle pietre, dalle piante, dagli animali,dalle nuvole, un altro che solo nei momenti digrande stanchezza si chiama nessuno.(Da “Un tempo gli alberi avevano gli occhi”, 2004)

 

GUSTAVE FLAUBERT
Un tempo si credeva che lo zuccherosi estraesse solo dalla canna da zucchero,ora se ne estrae quasi da ogni cosa; lo stesso per la poesia,estraiamola da dove vogliamo, perché è dappertutto.(Da “Corrispondenza”, 1842)
AMARCORD Ottavio Rossani - Mario Luzi, “Io sono un operaio della parola”

Vediamo e viviamo esperienze tragiche, ma nella nostra contemporaneità manca il tragico, perché manca il sacro, manca il processo di purificazione

Ottavio Rossani*

Mario Luzi non è stato solo un poeta, è stato un “vate”, uno dei grandi padri della patria, inteso nel senso di un uomo che può e deve essere preso a modello di civiltà. Luzi non ha fatto la Resistenza, non è stato un uomo di battaglia o di guerra, ha vissuto nella normalità di una vita borghese. All’inizio nel riparo della scuola, prima liceo, poi università. Col passare degli anni, e mentre si avvicendavano i suoi libri di poesia, che ogni volta aggiungevano modificazioni strutturali e sostanziali alla sua storia di creatore di versi, la sua mitezza, la sua timidezza, la sua introversione, si sono sciolte progressivamente fino a diventare determinazione, capacità di frustare persone e cose con una semplice frase lapidaria.

Negli ultimi due decenni, alla sicura delusione, peraltro mai dichiarata, di non essere stato insignito del premio Nobel, nonostante ogni anno fosse ufficialmente candidato presso l’Accademia di Stoccolma, ha aggiunto la chiarezza sempre più distillata della sua vis poetica, tanto da essere definito il nuovo Dante, quantomeno del Novecento, per la mole e l’intensità dei suoi testi (e i versi più recenti, per la maggior parte ancora sparsi, si possono chiamare “danteschi” sia per ispirazione, sia per movimenti stilistici, sia ancora per i richiami assoluti all’opera di Dante). Mario Luzi ha avuto il riconoscimento del laticlavio alla veneranda età di 90 anni. Ma è stato senatore a vita, dopo la nomina del presidente della repubblica Carlo Azeglio Ciampi, per soli 120 giorni. Poche presenze in Parlamento, per via della salute già in bilico, ma quelle volte si è fatto decisamente sentire.

L’avversione al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, è stata nettissima. Non ebbe remore a definirlo (31 dicembre 2004, in occasione di un treppiedi che fa da supporto alle macchine fotografiche, finito addosso all’allora primo ministro per dabbenaggine del giovane proprietario) emulo di Mussolini. E ha detto senza enfasi, ma con precisa intenzione: “Un po’ se l’è cercata”. Perché? gli hanno chiesto i cronisti. “Ma perché Mussolini in occasione di un attentato più serio nel 1926 ci speculò; e ugualmente ora Berlusconi nei confronti di quell’incauto giovanotto”. Era stato nominato al Senato il 14 ottobre 2004. Di lì a poco sarebbe morto, il 28 febbraio 2005.

Sono andato a Firenze in occasione del suo novantesimo compleanno. La città, a cominciare dal sindaco, ma con la collaborazione di Provincia e Regione, gli ha tributato una festa straordinaria. In quella serata mi sono reso conto veramente di quanto il nome e la figura di Mario Luzi fossero simboli della più sana e fiera Italia letteraria, civile e politica. Dal punto di vista letterario era il grande poeta del Novecento italiano. Dopo il Nobel attribuito a Eugenio Montale nel 1976, egli lo aspettava da un anno all’altro. Gli accademici di Svezia lo hanno attribuito a Dario Fo nel 1997.

E da quel momento in poi Luzi ha capito che non gliel’avrebbero più assegnato, dal momento che all’Italia ne viene attribuito, in media, uno ogni vent’anni circa. Ma non se n’è mai fatto cruccio. O, almeno, non l’ha mai mostrato. Anzi, se per caso gli facevi domanda: “Le dispiace non ricevere il premio Nobel” sorrideva e con quella voce pacata, flebile, dolce, e con gli occhi volti verso l’alto come per significare “Oh, Dio, sempre questa stupida domanda”, rispondeva: “Ma no, non è poi un premio, sia pure importante come il Nobel, che cambia la vita. A questa mia età cosa vuole che m’interessi! La vicenda va così e basta”. Ricordo che Montale, nel 1976, quando, il giorno dopo l’annuncio del Nobel, gli chiesi: “È contento di questo importante riconoscimento, che poi ha anche una buona dotazione in denaro?”, dentro di me pensavo: “Adesso mi risponderà che gli ho fatto la domanda più stupida che potevo pensare”, e invece disse: “Mah, forse me lo dovevano dare una ventina d’anni fa. Allora anche i soldi mi sarebbero serviti molto di più di quello che possono servirmi adesso”. Ricordo che un po’ ci rimasi male. Ma insomma, il Nobel è uno di quegli eventi epocali che in qualche modo cambiano la vita. Perciò sono convinto che fino all’ultimo Mario Luzi ha atteso con ansia che gli arrivasse la telefonata con l’annuncio del Premio, anche se in realtà non ne parlava mai, almeno che non gli arrivasse la fatidica domanda.

Per tornare alla festa di Firenze, quella sera del compleanno, il 20 ottobre 2004, ho mandato una corrispondenza al “Corriere della Sera”, che qui trascrivo per ricordare il clima e il significato delle lunghissime partecipazioni. Il teatro era pieno di una folla plaudente, non solo fiorentina. E innumerevoli sono state le manifestazioni di affetto e di stima sul palco, comprese molte letture di poesie in suo onore da parte di poeti anziani e giovani, cioè dalle varie generazioni del Novecento, di cui Luzi in quel momento era il decano, il nonno e per alcuni addirittura il trisnonno. Ecco il racconto della serata, come l’ho vista e sentita io.

Dal nostro inviato

Firenze – “Operaio della parola”. Così si è autoproclamato, ieri, Mario Luzi a Palazzo Vecchio, dove nell’imponente Sala dei Cinquecento affollata da ammiratori, studenti, amici, è stato festeggiato il suo novantesimo compleanno. Si è smentito così il detto nemo propheta in patria: e che l’ abbia fatto Firenze (con il sindaco Leonardo Domenici; il presidente del consiglio regionale Riccardo Nencini; il presidente della regione Toscana, Claudio Martini), la città che ha costretto Dante a fuggire per salvarsi, nonostante la fama di grande poeta già in vita, è doppiamente significativo. Firenze ha voluto festeggiare il suo attuale “vate”, all’indomani della nomina a senatore a vita da parte del presidente della Repubblica, Ciampi, “per aver illustrato la patria”. E chiudendo il convegno “Nuovo nato al mondo”, in cui diversi oratori hanno illustrato e interpretato il suo messaggio poetico, egli ha invocato una particolare attenzione sulla lingua italiana, che ha definito “elemento unificante”. Dantesco, si potrebbe dire. Ma è da molto tempo che Mario Luzi decodifica il suo impegno civile con l’esortazione a corroborare la lingua che ci unisce tutti, con l’invenzione, lo studio, la ricerca, soprattutto in questa fase storica in cui, da molti versanti, se ne vede invece la mortificazione, la decostruzione, l’impoverimento.

“Rivolgo un caloroso ringraziamento al presidente Ciampi, che ha voluto onorarmi della carica di senatore a vita e a tutti gli amici che sono qui a festeggiare il mio compleanno – ha detto Luzi –. L’importante è ritrovarsi nella lingua, nella parola, nella poesia. La lingua italiana è il nostro elemento unificante, il nostro patrimonio più antico. Non la violentiamo e non la sciupiamo come si fa correntemente”. “Parlo come lavoratore e operaio della parola – ha continuato Luzi –. Custodiamo il bene prezioso della lingua italiana non mettendola in naftalina, non esponiamola a tutte le aberrazioni che sono in corso”.

Nicoletta Marasco, vicepresidente dell’Accademia della Crusca, ha letto alcuni passi di una lezione sulla lingua, scritta da Luzi nel 2003, quando fu nominato socio dello storico sodalizio. Prima c’erano stati gli interventi di alcuni suoi amici e studiosi. Alberto Asor Rosa: “Settant’anni di ricerca poetica e novanta di vita non si possono racchiudere in una formula. E tuttavia, si può vedere il mutamento e la lunga durata della sua poesia. È ammirevole
il suo inesauribile e continuo rinnovarsi. L’assoluto di Luzi è investigazione intrepida dell’enigma che sta fra cielo e terra. La chiave dell’enigma è l’amore”. Ma, nella poesia di Luzi, Sergio Givone trova un aspetto metafisico che apre nuove prospettive. “Una poesia metafisica come pensiero interrogante sull’esistenza. Sappiamo che dà voce agli opposti, perché coesistono: luce e buio, sì e no, il mistero che consola e l’enigma che brucia. Si tratta di una metafisica creaturale, come egli stesso ci indica nell’ultimo suo libro “Dottrina dell’estremo principiante”. In Luzi creazione e separazione non sono dissociabili: il che è molto ironico e molto tragico”.

E sul concetto di metafisica si è intrecciato anche un breve dialogo tra Sergio Givone e Giorgio Ficara. Secondo quest’ultimo “Luzi non ammette che la creazione finisca nel nulla. Anche il male è un fatto inevitabile, ma il dolore e la bufera possono essere superati. Luzi è un cercatore d’infinito trattenuto, però, nella dolcissima finitudine”. Giuseppe Nicoletti ha tratteggiato a tutto tondo l’intera attività poetica di Luzi. Ha isolato le fondamenta del suo fare poesia: la capacità di evocare immagini-prodigio, “la musica, una materna sonorità d’elegia, increspata da una pena, da una perplessità indecifrabile”, il dramma e l’enigma, “l’incapacità dell’uomo di darsi ragione del proprio stato di sofferenza”.

La giornata che si era aperta con alcuni interventi del neo senatore su temi di politica generale (“Purtroppo la politica ha metodi e sistemi che non sono intelligibili a tutti. Quindi, è comprensibile una certa diffidenza. Capisco anche il distacco”), si è conclusa al teatro della Compagnia, dove i poeti Cesare Viviani, Roberto Mussapi, Alba Donati, Antonio Riccardi e Davide Rondoni hanno recitato poesie di Luzi e lui stesso ne ha lette alcune inedite. Anche Carla Fracci ha letto la poesia “Per Coro” che Luzi dedicò a un suo spettacolo. Infine, la sorpresa annunciata:nella sala del consiglio era pronta la torta con 90 candeline da spegnere”.

Ho voluto riproporre qui la memoria di quell’evento perché quella sera ero particolarmente felice di essere lì accanto a lui. Infatti quando mi sono avvicinato, alla fine degli interventi in teatro, mi ha guardato con occhi affettuosi. Non si aspettava che io andassi a trovarlo. Gli ho detto che ero lì per scrivere il racconto della sua giornata di compleanno e ho visto balenare nei suoi occhi una luce di gioia. Altre volte ci eravamo incontrati, ma sempre in forma privata. Ero uno dei tanti che masticavano la sua poesia e vi trovavano alimento, linfa, forza e spesso coraggio. Anch’io scrivevo e scrivo poesie; sono lontano dalla poesia luziana distanze chilometriche. Eppure quando gli avevo inviato da leggere “Il fulmine nel tuo giardino”, il libretto che ho scritto subito dopo la morte di mia moglie, nel 1995, aveva voluto parlarmi, dirmi che capiva, sentiva, il mio dolore, ma che avevo “saputo scrivere quelle poesie commemorative con la giusta consapevolezza, senza isterismi, e senza retorica”.

Erano state quelle parole, per me, un balsamo, in quel frangente terribile. Ero schivo, come lo sono sempre stato, e non gli ho mai presentato un libro di mie poesie da pubblicare. Un’amica che lo frequentava e che aveva modo di stuzzicarlo, di fargli mille domande, tentando di portarlo anche sul gossip, un giorno mi ha telefonato e mi ha detto: “Certo che sei un bel tomo. Luzi ti stima moltissimo. Non capisco perché non gli mandi un tuo manoscritto. Te lo pubblicherebbe sicuramente. Sai quante volte ha detto che hai una scrittura felice? Sei proprio un tonto”. Sì, mi sono sempre trattenuto. Avevo con lui un rapporto di fiducia, amichevole.

Avevamo fatto alcune conversazioni/interviste “a futura memoria”, come mi ha detto un giorno. E non volevo che pensasse che gli stessi attorno, che andavo a trovarlo, per farmi pubblicare un libro. Ho sempre tenuto a separare le cose: l’amicizia, la professione, la scrittura. D’altronde, che importanza poteva avere pubblicare un
libro in più se il costo magari era perdere l’amicizia di un uomo e di un artista come lui? Insomma, questi dubbi e queste domande me le sono poste. E le cose sono rimaste com’erano. Incontri, amicizia, stima, affetto, e dialoghi di cui mi restavano degli appunti.

Ho conosciuto Luzi nel 1991. Ero andato a Compiano, un piccolo paese dell’Appenino parmense, sotto Borgotaro, vicino a Bedonia, dove ha un “buen retiro” Lucio Lami, mio primo direttore in un giornale femminile della Rizzoli, nel lontano 1969. E a Compiano, Lami, giornalista, a lungo inviato speciale in zona di guerra e di guerriglia, speta dell’America Latina nonché scrittore di libri/reportage ma soprattutto di biografie e romanzi storici. Tra i suoi libri, mi è piaciuto di più è “Garibaldi e Anita corsari”, un lavoro di scavo storico sulla base dei documenti inediti trovati nelle sue scorribande tra l’Uruguay e l’Argentina. Lucio Lami era allora vicepresidente del Pen Club. Il Comune di Compiano aveva accettato il suo progetto di un premio letterario intestato al Pen e ogni anno finanziava (ancora lo fa) una festa straordinaria per l’assegnazione del riconoscimento che nel giro di un paio d’anni era diventato ambitissimo, perché non si facevano pastette.

Le case editrici con i loro uffici stampa e i direttori editoriali non potevano in alcun modo influire sulla scelta dei giurati. Era stato messo a punto un meccanismo di voto per cui il verdetto era pulito. A garanzia di tutto questo c’era Mario Luzi, eletto un anno dopo l’altro, presidente del Pen Club all’unanimità dei soci votanti. Quell’anno ero andato lì a seguire la lettura dei voti distribuiti tra i cinque libri finalisti. Dopo d’allora ho seguito il premio per un bel po’ di anni finché è rimasto presidente Mario Luzi. Nel 1995 gli ho chiesto un’intervista. Avrei dovuto pubblicarla sul
“Corriere della Sera”. Poi però, dopo qualche giorno, la valutazione sull’opportunità di metterla in pagina cambiò da parte della direzione e mi rimase tutto nel taccuino. L’occasione era stata la nomina di Luzi alla presidenza del “Centro mondiale della poesia” a Recanati.

Perché ha accettato, professore, questo incarico? In fondo non è poi così importante!

“Ma io non vado in cerca di incarichi importanti. Il “Centro di studi leopardiani” è un’istituzione prestigiosa che già si è resa meritevole di importanti convegni e pubblicazioni. Il presidente, on. Franco Foschi, che è un politico, ma anche uno studioso di Leopardi, ha avuto l’intuizione di fondare un “Centro mondiale della poesia” di cui dovrei diventare presidente. In altre parole i due centri saranno collaterali e svilupperanno iniziative sinergiche. In particolare il “Centro mondiale della poesia” avrà il compito di mettere in moto un luogo di vita intellettuale moderna, agile e fruttuosa. Si tratta di accendere un piccolo faro in Europa in questa fase della vita civile che di luce ha tanto bisogno. Foschi ha sempre avuto l’ambizione di creare un punto di riferimento culturale internazionale. Il Centro vivrà con la collaborazione di casa Leopardi. L’atmosfera di Recanati è quella giusta per proiettare nel mondo il senso di una cultura innovativa”.

Non le sembra un po’ velleitaria la cosa? Già altrove iniziative simili sono fallite. Perché esporre il suo nome al rischio di una riuscita zero?

“È vero, già altrove è stato tentato l’esperimento e non ha dato risultati. L’Unione internazionale dei poeti aveva emanato un suo Centro di diffusione della cultura, con traduzioni, letture, messe in scena, operando scambi con i vari centri culturali d’Europa. Ma l’iniziativa è fallita appena cominciata. L’on. Foschi ha recepito l’idea e ha alzato il tiro. Intitolare un’istituzione di poesia a Leopardi è una grande responsabilità, ma Foschi ha il senso del rischio, e lo corre. Finora le cose da lui messe in cantiere sono riuscite. È stato anche un buon ministro del lavoro, in uno dei precedenti governi, non ricordo bene.

Si tratterà di costituire un direttivo di cui dovrei essere presidente. Poi si vedrà”.

Ha in mente qualche iniziativa particolare, per rendere operativo il progetto?

“No, per ora mi sono stati chiesti i nomi del comitato direttivo da nominare e io glieli ho dati. Sono tutti “grandi” che non arrivano su un terreno sconosciuto: siamo nella terra e nella casa di Leopardi e tutti sono consci dell’importanza culturale che ha Leopardi nella tradizione italiana”.

Chi sono?

“Yves Bonnefoy, oltre che poeta, è un fine studioso delle arti del Rinascimento, per la Francia; Seamus Heaney, grande poeta irlandese per il mondo anglosassone (guarda caso, di lì a un mese avrebbe vinto il premio Nobel per la letteratura. N.d.R.); Josè Maria Valverde per la Spagna (sarebbe morto l’anno dopo, senza riuscire a venire in Italia. N.d.R.), poeta esistenzialista cristiano molto valido, insegna storia delle idee a Barcellona. Resta aperta l’area tedesca, ma sto pensando a Lars Forssell (1928), scrittore svedese di origine tedesca, di cui Giacomo Oreglia ha tradotto in italiano un’antologia presso Passigli (Poesie, 1990). È un poeta civile che ha partecipato delle avventure del mondo contemporaneo”.

Sono già stati interpellati?

Non ancora, lo saranno, ma non sono in grado di dire chi accetterà o no. Quando sarà formato il Comitato, ci riuniremo periodicamente. E organizzeremo appuntamenti per tutti, autori e lettori. Faremo iniziative letterarie e civili. Si tratterà di studiare come leggere il mondo, non solo dal punto di vista politico. Non so se saremo ascoltati, ma ci proveremo. Il primo obbiettivo è la conoscenza reciproca in Europa tra artisti che lavorano in modo diverso. Le traduzioni saranno fondamentali per conoscere il mondo creativo contemporaneo”.

Ma lei Luzi è innamorato di Leopardi? Lei si definirebbe un leopardiano?

“Leopardi è stato uno dei nostri più grandi poeti e uomo di cultura. È stato cosciente della modernità. È un riferimento basilare per ogni uomo di cultura. Specialmente leggendo lo “Zibaldone”, come è stato fatto per fortuna, e tutti i problemi della convivenza umana, di socialità, che il poeta ha sviscerato, ci si rende conto di quanto abbia anticipato la modernità. Ho venerazione e affetto per questo giovane che a 23 anni aveva già pensato tutto quello che c’era da pensare sul mondo. Un genio, una mente universale di tipo leonardesco. Il fascino del suo canto è che dalla purezza emozionale sale al pensiero, conscio di un’esperienza (leggere “La ginestra”) che arriva a fondere, unificare, lingua-pensiero-canto, annullando in anticipo molti dei quesiti pretestuosi che si sono succeduti negli anni.

Se leggiamo le ultime poesie di Leopardi, ci accorgiamo che la disgregazione tra naturalezza ed artificio è già compiuta. È il poeta più moderno anche rispetto a noi tutti. Come Dante. Il rapporto tra cose e lingua, tra idea e arte è più contemporaneo delle nostre idee contemporanee. Avendo questa possibilità di lavorare nel mondo della poesia e della cultura, che deriva dal fatto che lui ha vissuto a Recanati e che ci sono persone che per lui hanno una vera devozione, mi è sembrato giusto non declinare l’invito a mettermi in gioco”.

Perché non arriva il Nobel per Mario Luzi?

“Non lo so. Purtroppo per quel che riguarda la proposta che doveva partire dall’Italia, anche quest’anno non c’è stata chiarezza. Ci sono state incomprensioni, i rapporti non sono stati quelli giusti. Lo so da Giacomo Oreglia, operatore culturale in Svezia. Del resto il premio Nobel è fascinoso perché è misterioso. Quello che matura è imprevedibile. Sarebbe bello che l’Italia avesse un nuovo riconoscimento. Non mi riferisco a me soltanto. L’osservatorio degli accademici è globale. Sarebbe ora che un italiano ricevesse di nuovo la loro attenzione. Sono vent’anni che non accade. Io non ci penso. Se poi arriva… Sinceramente devo dire che non mi sembra la cosa più importante. Quasi tutti gli scrittori più impegnati nella scrittura e nella vita, che hanno lasciato una traccia che influenza e affascina i lettori, non hanno ricevuto il Nobel. Valore assoluto e premi spesso non coincidono. Il riconoscimento è una gratificazione più per il Paese che lo riceve. La parte economica non sarebbe che un di più e sinceramente non saprei nemmeno come spendere quei soldi.

Luzi, che cosa sta preparando ora?

“Ho cominciato l’anno scorso un lavoro teatrale, spero di portarlo a termine, su Benjamin Constant, che ho sempre amato. Si tratta di un dialogo sulla mancanza del tragico nel mondo moderno. Certo, vediamo e viviamo esperienze tragiche, ma quello che voglio dire è che nella nostra contemporaneità manca il tragico, perché manca il sacro, quindi manca il processo di purificazione. È un tema veramente ostico per la produzione scenica. Sono incerto sul titolo: se dedicarlo a lui o alla moglie Cecile”.

In altri incontri, Luzi mi ha parlato della sua vita, dei suoi dolori, delle passione per l’insegnamento. Mi ha parlato di tante cose, e anche io gli raccontavo di me, dei miei viaggi, dei personaggi che intervistavo. Mi parlava dei suoi poeti prediletti, i francesi, da Rimbaud e Baudelaire, fino ai contemporanei.

Una volta mi ha detto che gli piaceva molto appunto Bonnefoy, ma anche Bernard Noële tra i classici adorava Mallarmée. Per quanto riguarda i poeti italiani, aveva stretto amicizia con alcuni giovani, tra cui Milo de Angelis. Gli piaceva tenere i contatti con i nomi che si “muovevano”: usava questa parola per significare che cercava segnali di novità nella scrittura poetica dei giovani.

La nomina a senatore ha un po’ sconvolto la sua vita. Per quanto ha tentato di continuare a fare le cose di sempre, perseverare nella scrittura fino alla fine, tuttavia ormai aveva in mente che doveva rendere un servizio al Paese e doveva andare a Roma.

Gli ho fatto una telefonata per fargli i complimenti e mi ha risposto: “È una cosa seria, è un altro lavoro. Intendo farlo con impegno. Dicono “senatore a vita”, ma in verità pensano a “senatore a morte”, data la mia età. Finché potrò, io dirò liberamente ciò che penso”. E infatti al Senato quando ci è andato ha sempre chiesto di intervenire. E le sue parole non sono state né convenevoli né di circostanza. Sono stati pensieri costruttivi per il Paese, ma anche di rampogna e di critica verso un Governo (quello di Berlusconi) che non stimava.

Ha detto che avvertiva un pericolo per l’Italia. Quale pericolo?, gli ho domandato. “Il pericolo è che gli improvvisati politicanti demoliscano tutto ciò che di buono è stato costruito dal Risorgimento ad oggi. È stato difficile raggiungere un senso dello Stato radicato nei cittadini e anche la consapevolezza del diritto alla libertà. Ora c’è al potere una classe dirigente faziosa. Non importa a questi signori il destino del Paese, a loro interessa solo il contingente, fanno leggi che valgono solo per oggi e pregiudicano il futuro dei nostri ragazzi.
Il rischio è che se ne vada in fumo l’edificio costruito nell’ultimo millennio”.

Come ha detto scusi? Un millennio addirittura!

“Certo, il nostro Paese non è nato con le baionette dei garibaldini, è nato con la forza della lingua. E la lingua italiana ha cominciato a diventare nazionale dal Mille in poi. La strada è stata lunga, ma oggi siamo arrivati veramente ad avere una lingua parlata dovunque sul territorio. È la lingua che tiene unito un popolo”.

Perché dice così?

“Perché ci sono persone che predicano e si danno da fare per arrivare a realizzare la disgregazione. Si parla di federalismo, ma in realtà non sanno cos’è: federalismo è avvicinamento.

Ma invece si muovono per attuare la divisione tra le varie parti del territorio. La gente non si rende conto, con chiarezza, di qual è il pericolo. Io lo vedo e tremo per il vostro futuro, perché io non ci sarò”.

Un altro giorno sono andato a trovarlo a casa. Non stava tanto bene. Era coperto con due maglioni: un golf di cachemire sotto e un bel cardigan pesante con i bottoni grossi tipo giaccone. Quella volta gli ho chiesto quale fosse il libro che amava di più tra quelli scritti. Mi ha risposto che era il “Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini”. Si era proprio identificato con il pittore, in quanto sia quello, sia lui avevano dedicato la loro vita all’arte. Non ho detto niente, non ho commentato. Ma dal mio viso forse ha capito che non condividevo. Perché per me il suo più bello, più nuovo, più levigato, più leggero, più ispirato da un senso di grande pietas per l’uomo debole, ma arrogante è “Per il battesimo dei nostri frammenti” (1985).

Qui, ora, voglio chiudere citando alcuni versi di un poemetto che ho sempre considerato straordinario per afflato lirico e senso civile. Si intitola “Presso il Bisenzio” e si trova nel libro “Nel magma” del 1963 (ora inserito nel II volume di “Tutte le poesie” (Garzanti, 1979) che ha per titolo “Nell’opera del mondo” (pagg. 67-70). Chiude così: “Non potrai giudicare di questi anni vissuti a cuore duro,/ mi dico, potranno altri in un tempo diverso./ Prega che la loro anima sia spoglia/ e la loro pietà sia più perfetta”. Francesco Flora ha coniato per lui e altri del primo Novecento l’aggettivo ermetico, identificando tutta una generazione di scrittori, a cominciare da Ungaretti, come appartenente all’ermetismo. Ma la definizione per Luzi è stata abbastanza fuorviante. Perché anche il primo libro “La barca” (1935) tanto ermetico non è. Ma questo è un altro discorso.

Finisco, quindi, dicendo che ho amato la poesia di Luzi e la amo. Quel che trascina è il suo tentare di innalzarsi sempre un po’ di più, di commisurare la vita al sacro, ben conscio che l’uomo è esposto alla sconfitta, alla caduta, all’errore. Una corrente spirituale che contagia, anche quando il modo di vedere e di sentire è magari proprio l’opposto. Ma non è questo il carisma del grande poeta, del “vate”? E per chi si può usare questo appellativo mitico, che compendia valori lirici e valori civili, se non per Mario Luzi?

* Dice di sé:
Ottavio Rossani. Giornalista al “Corriere della Sera”. Laurea in Scienze politiche e sociali. Come inviato speciale, ha viaggiato in Italia e nei diversi continenti, soprattutto in America Latina, firmando reportage, interviste, analisi su questioni e personaggi della politica, del costume, della letteratura. Ha pubblicato una decina di libri. Poesia: tra gli altri, “Le deformazioni” (Campironi, 1976), “Falsi confini” (Xenia, 1989), “Teatrino delle scomparse” (Periferia, 1992), “L’ignota battaglia” (Iride-Rubettino, 2005). Il romanzo: “Servitore vostro humilissimo et devotissimo” (Bonanno, 1995). Saggi: tra gli altri, “L’industria dei sequestri” (Longanesi, 1978), “Leonardo Sciascia” (Luisé, 1990), “Le parole dei pentiti” (Datanews, 2000), “Stato società e briganti nel Risorgimento italiano” (Pianetalibro, 2003). Ha curato alcune regie teatrali e diverse mostre personali e collettive dei suoi quadri (acrilici) in Italia e all’estero.
Da ottobre 2007 è responsabile del blog dedicato alla Poesia sul “Corriere della Sera on-line”, il primo nel mondo su un quotidiano elettronico.

 

GIORGIO BASSANI
La poesia è delle anime vergini, degli angeli, di chi crede.Naturalmente noi non viviamo più all’età d’Omero, e quindici è difficile trovare qualcosa in cui credere.Ma ad ogni modo, per essere poeti bisogna tornarea una necessaria condizione d’ingenuità.(Da “Di là dal cuore – Da una prigione”, 1940-1950)
Cristina Tagliabue - A Firenze, quel piccolo studio di Luzi sommerso da libri, quaderni e calepini

Dopo gli incontri, le conferenze, le lezioni parlava con tutti, singolarmente. Con chiunque aveva un atteggiamento di apertura totale e di parità

Cristina Tagliabue*

Dicevano di un grande attico con terrazzo, affacciato all’Arno. In realtà, era un piccolo appartamento, al quarto piano di una palazzina con ascensore, con poche stanze, senza tappezzeria. Pareti intonacate di bianco, e piastrelle per terra. E poi uno studio, un lungo corridoio, una cucina umile e un “tinello” che non usava mai, e che rispolverò solo negli ultimi anni, per farci accomodaregli ospiti. L’Arno si vedeva, certo, ma a malapena, sporgendosi un po’ dal balcone.

Mario Luzi era così. Un uomo semplice. Aveva lasciato che il telefono rimanesse fuori dalla stanza dei suoi pensieri. Quella in cui leggeva e scriveva. Per un certo periodo si servì anche di una segreteria, che lo aiutava con le telefonate. “Fuori, fuori, il mondo della comunicazione” ripeteva. Che non gli piaceva affatto, ma di cui si preoccupava eccome. “Bastava passassero due giorni in cui non veniva cercato, che si domandava: che succede?” ricorda mia zia, Paola Sivieri.

Senza voler nulla in cambio, e senza pretesa alcuna, Luzi dal suo studio dava indicazioni. Caproni sì “anche se gli manca lo sfociare…”, e poi Zanzotto, altro suo amico. “E poi i russi, le poetesse russe… bisognerà affrontarle per forza”. Seduto dalla poltroncina del suo studio pensava, parlava. Dei suoi colleghi, anche, per cui nutriva affetto e stima, ma di cui riusciva sempre a trovare un piccolo difetto. Un particolare della poetica che non gli andava giù…

Al suo fianco, nella condizione di ascoltare, un’altra poltroncina per gli avventori. In mezzo, un tavolino per appoggiar la cenere delle sigarette. Quelle poche che fumava ancora, dopo una gioventù – diceva – da accanito tabagista. Attaccato alla finestra, un grande tavolo moderno, di cristallo, con le gambe in legno. Accatastati sopra, disordinatamente, fogli su fogli su fogli. Lettere, quaderni, calepini ovunque, anche sul pavimento, impilati in mezzo
ai libri, impilati in mezzo allo studio, tanto da non lasciare quasi spazi per deambulare. La libreria non era neppure così grande. Quella dello studio, alta quanto la stanza, era semplice, di legno, con volumi in tripla fila. Poi c’era un’altra libreria in tinello. E tuttavia lo spazio non bastava mai.

Anche se il “maestro” aveva donato alla città di Pienza – ne era cittadino onorario – tutti i suoi libri, la carta continuava imperterrita ad arrivare, autografa dai suoi amici autori o, semplicemente, per essere letta e vagliata. La carta era la materia specifica che occupava più spazio, in quel piccolo luogo di Firenze, così umilmente pubblico, così riservatamente aperto.

“Dopo gli incontri, le conferenze, le lezioni parlava con tutti, singolarmente, alla pari. Con chiunque gli rivolgesse la parola, aveva questo atteggiamento di apertura totale e di parità – mi tramanda la zia –. Avrebbe potuto esser ospitato in qualunque luogo, ma amava passare le sue vacanze a Pienza. Dove salutava chiamando le persone per nome, e dove dormiva nella calma di un monastero prima, e di un piccolo appartamento poi. Seguito solo da una suora che gli preparava il pranzo”.

Seppur magro, a Luzi piaceva la tavola. I carciofi erano la sua passione, cucinati in qualsiasi modalità. “Mia madre era una donna di casa, mio padre un ferroviere. Una famiglia con il privilegio della Toscana: come siamo stati fortunati, che bello aver vissuto in queste terre”. Anche i bicchieri, la sera, erano sapori delle sue parti: sempre e solo la Vernaccia di San Gimignano. Un calice poco costoso, che a comprarlo nei supermercati viene 10 euro. E nei ristoranti dove si recava, a Pienza, 20 la bottiglia.

La mattina, invece, il caffè e il radiogiornale delle sette.

I quotidiani non erano necessari. Ogni tanto si lamentava di quel signore che gli ricordava un altro signore che parlava dal balcone. In generale, non gli piaceva ascoltare le sue parole amplificate dai media. Sembrava spaventato dai meccanismi della televisione, assente dalla sua abitazione, dove rari erano anche i giornali.

Prendevano le sue piccole lamentele, le strumentalizzavano. Come accadde con il Nobel tanto agognato e mai arrivato. “Ci rimase male, certo, ma non per Dario Fo – ricorda zia Paola –. Gli sarebbe piaciuto che la sua poesia fosse conosciuta in tutto il mondo, per questo soffrì. Il fatto è che non aveva nessuno che curasse i suoi interessi in Svezia, né tanto meno all’estero. Era solo, con le sue forze, e spesso incapace di occuparsi delle pubbliche relazioni. Come quando scoprì che i suoi risparmi si erano volatilizzati insieme al consulente finanziario… era amareggiato, si sentiva in colpa. E d’altronde, non c’era una persona che si occupasse davvero di lui, e lui non sapeva mai dire di no, a nessuno”.

Forse ne patì, di solitudine, o forse no. Non gli mancavano amici tra i poeti e i letterati, e poi aveva due compagne alle quali molto teneva. Una donna di Genova, e l’altra, instancabile, la scrittura.

Viaggiava molto, ma scriveva sempre, da ovunque. A casa, la regola era l’esercizio mattutino. Il pomeriggio passeggiava, e la sera la Vernaccia. Meritata dopo aver camminato ore sulle sponde dell’Arno, con quel golfino sempre allacciato alle spalle.

“Ehi Mario” gli faceva chi lo conosceva. Tra tutti i passanti, si intratteneva soprattutto con gli artigiani. A chi lo accompagnava nei suoi percorsi, faceva osservare il rimestìo e il luccicore delle acque che riflettevano il sole. Oppure le montagne: “guarda le catene dell’Orcia – diceva – nel loro instancabile andamento”.

“Si innamorava delle parole, e anche dei suoni delle parole – racconta zia Paola – Ricordo un giorno in cui lo portammo in auto da amici, fuori Milano. Passammo per un paese, Boguggiate. Beh, Luzi se ne innamorò, del suono di quel posto, e per tutto il viaggio continuò a ripetere, con diversi accenti e inflessioni, quasi come un bambino:
Bo-gù-ggia-te, Bògu-ggiate, Bo-gug-gìa-te…”.

Anche nei momenti più tristi, chiudeva ogni discorso dicendo “la vita è un prodigio”. Si spense una mattina, con il sorriso in volto. Lo ricordiamo così, come aveva scritto: “Mondo, non sono circoscritto in me”. E poi con un’altra frase, che aveva scelto per il corso di poesia russa. “E non sia nostalgia, ma desiderio”.

Note a margine: Mario Luzi ha tenuto diverse lezioni al Centro Coscienza di Milano, nonché coadiuvato Paola Sivieri, mia zia, per le sue lezioni sulla poesia del Novecento. Per questa sua presenza, disinteressata e amichevole, la mia famiglia gli sarà sempre grata.

* Dice di sé:
Cristina Tagliabue. Giornalista professionista. Ha quasi 35 anni; compila un blog tutti i santi giorni, e i temi a lei cari sono cultura, creatività e i ritratti di personaggi – famosi e non. Nel 2007 ha vinto il Premio Giornalistico Ischia Giovani. Scrive nella pagina “Media” de Il Sole 24 Ore, e si occupa di una pagina titolata “Creatività” su Nòva24. Scrive inoltre per il Corriere Economia e Corriere della Sera Magazine. Nel gennaio 2007 ha pubblicato un saggio insieme ad Enrico Ghezzi: “Blobblog. Linguaggi mediatici da Blob ai Blog”. Ha tenuto seminari di scrittura all’interno del corso di Letteratura Contemporanea di Pavia, organizzati insieme alla rivista universitaria “Inchiostro”. Nel suo passato ci sono ruoli manageriali e gestionali. Caposervizio a Milano Finanza. Direttore editoriale di Altavista.it. Direttore editoriale dei contenuti della Telecom Italia Mobile. Ora, autrice e responsabile solo di se stessa, semplicemente, scrive.


La Barca gli rende onore
Mario Luzi, poeta e scrittore.(Firenze, 20 ottobre 1914 – Firenze, 28 febbraio 2005)
È considerato uno dei fondatori dell’ermetismo e uno dei maggiori poeti italiani contemporanei. I suoi esordi letterari risalgono agli anni ’30 (“La barca”, 1935), quando comincia a frequentare altri giovani poeti della scuola ermetica (Bigongiari, Parronchi e Bo) e collabora a riviste d’avanguardia come “Frontespizio” e “Campo di Marte”.Nel 1938 inizia l’insegnamento alle scuole superiori e nel 1955 gli viene assegnata la cattedra di letteratura francese alla Facoltà di Scienze Politiche di Firenze. Scrittore prolifico, pubblica diverse raccolte di poesie, poemetti e testi teatrali.In occasione del suo novantesimo compleanno è nominato senatore a vita della Repubblica italiana.A Luzi è intitolato il Centro studi “La Barca”, costituito nel luglio del 1999, per raccogliere, custodire e divulgare gli oltre diecimila volumi ed il materiale d’archivio donati dal poeta fiorentino al Comune di Pienza, di cui è cittadino onorario.Frase celebre: “Bisogna fargliela conoscere, proporgliela, fargliela leggere ai giovani, la poesia. Bisogna creare occasioni di scoperta e di novità. Non si può dire che, soprattutto in questi ultimi anni, non lo si faccia. Ma l’esito è comunque incerto”.
Pier Luigi Magnaschi - La mia vecchia, abbagliante, avventura al Giorno

Il quotidiano usciva da una crisi pesantissima. Se non fosse stato così, Zucconi e io non saremmo certo stati chiamati alla sua guida

Pierluigi Magnaschi*

Il mio periodo magico nel giornalismo si è verificato tra 1980 e il 1984, quando ero lo scatenato braccio destro di Guglielmo Zucconi alla direzione de “Il Giorno”. Con Zucconi, mio vero maestro di giornalismo e forse anche un po’ papà, che aveva anche le pazienze e le indulgenze di un nonno, avevo lavorato nel decennio precedente, prima come suo redattore capo al settimanale “Tempo illustrato” e poi come suo direttore responsabile al settimanale “La Discussione”. Due avventure giornalistiche realizzate con pochi mezzi, ma che avevano avuto un grande successo, tant’è che entrambe le testate (alla fine, e proprio a causa del loro successo) ci furono scippate da coloro che, ritenendo che le più alte vendite fossero frutto del caso e la maggior diffusione fosse stata conseguita una volta per sempre, una volta presele in mano, le fecero poi morire.

“Il Giorno”, che era stato fondato da Gaetano Baldacci e che, quando ero piccolo, era anche stato il mio primo quotidiano, usciva, agli inizi degli anni Ottanta, da una crisi pesantissima.

Se non fosse stato così, sia Zucconi sia io, non saremmo certo stati chiamati alla sua guida. Nel giro di pochi anni, infatti, “Il Giorno” aveva perso quasi tutte le sue grandi firme che erano state risucchiate dall’allora più glamour e remunerativo “La Repubblica” che, proprio allora, sotto la guida di Eugenio Scalfari, stava prendendo il volo. Se ne erano andati molti pesi massimi fra i quali Gianni Brera, Giorgio Bocca, Bernardo Valli, Natalia Aspesi, Alberto Arbasino, Pietro Citati, Gianni Locatelli. L’allora inviato internazionale di punta, Paolo Bonaiuti, se ne era andato a “Il Messaggero”.

Negli anni Settanta, gli anni del grande flop de “Il Giorno”, il pur straordinario Gaetano Afeltra, corrierista da sempre e fino al midollo, nel dirigere il quotidiano milanese di via Fava, aveva purtroppo voluto farne una sorta di “Corriere della Sera”. Era il peggio che si potesse fare di un giornale che era nato e vissuto proprio per essere l’anti-Corriere. Non solo nella linea politica, nel mix e nella graduatoria degli argomenti, ma anche nella forma grafica.

Il fondatore del “Il Giorno”, Gaetano Baldacci, quando analizzava criticamente il suo quotidiano (e lo faceva ogni giorno, di prima mattina) diceva ai suoi collaboratori: “Se abbiamo una prima pagina uguale o simile a quella del Corriere dobbiamo chiederci dove abbiamo sbagliato”.

Arrivando, con Guglielmo Zucconi, in via Fava, ero convinto che dovevamo, anche noi, porci ogni giorno lo stesso interrogativo. Sia pure tenendo conto del tempo passato, dovevamo precipitosamente tornare alle origini. Le caratteristiche originali del Giorno erano, infatti, una prima pagina-vetrina con titoli essenziali, composti in stile Century. La prima pagina inoltre doveva essere sempre arricchita da ampie e significative foto a colori, con articoli brevi, che finivano sempre in prima pagina.

Afeltra invece, per aderire al modello Corriere (che, non a caso, aveva costruito lui stesso in tanti anni di straordinario lavoro in via Solferino) aveva finito per togliere persino le foto a colori. E le foto in bianco e nero le pubblicava inoltre molto piccole, come se fossero dei riempitivi (“macchiamo un po’ qui con una foto”, diceva al suo proto, di notte, nel salone della tipografia): si comportava come se le foto fossero dei riempitivi e non dei documenti spesso più importanti dei titoli e dei testi.

Afeltra non solo aveva mandato in soffitta lo stile Century nei titoli, ma lo aveva addirittura sostituito con l’austero e vecchissimo Bodoni. Aveva cioè cambiato uno stile che oggi chiameremo da rapper (e che poi, spesso con ritardo di decenni, è stato adottato, con poche variazioni, da quasi tutti i quotidiani italiani) con quello, il Bodoni, che era, per capirci, il carattere di riferimento per un segretario comunale con il pullover di lana grigio scuro sotto una giacca con la toppa nera sui gomiti.

Perse le sue specificità, che un tempo erano dissacranti, “il Giorno” entrò inevitabilmente in vite e l’emorragia di lettori divenne sempre più imponente.

Quando arrivammo in via Fava ci rendemmo, perciò, subito conto che il giornale andava immediatamente portato in sala di rianimazione. Il primo giorno che misi i piedi in redazione proposi quindi di mettere in prima pagina la notizia, con relativa foto a colori, del mega concerto, a San Siro, di Miguel Bosè che, allora, era l’idolo delle adolescenti. Un giornalista importante della vecchia guardia mi chiese, allora, con l’aria accigliata di un preside d’altri tempi: “Ma chi è ‘sto Miguel Bosè?”. Mi resi subito conto che se il Giorno si era inabissato, non era per caso. Questo giornale, un tempo irriverentemente garibaldino, adesso aveva la flebite, portava il pannolone ed era adatto ad accogliere la pubblicità del callifugo Ciccarelli .

I mali di cui “Il Giorno” allora soffriva erano:

1) la caduta in verticale delle vendite;

2) la perdita di peso politico del giornale (non pungolando più i politici, costoro, sapendo che il quotidiano

era delle partecipazioni statali, se ne servivano per i loro soffietti, come se fosse la Rai, salvo poi, come

capita sempre in questi casi, disprezzarlo);

3) la disaffezione della proprietà (l’Eni), che non più sapeva che farsene di un quotidiano che perdeva, ogni

anno, un sacco di soldi e che era nato nei tempi corsari di Enrico Mattei, che non a caso si erano conclusi

con un jet che esplode nel cielo di Bascapè, a pochi chilometri da Linate;

4) la paralizzante sindacalizzazione corporativa dei giornalisti, quasi tutti (quelli impegnati nei corridoi) di

estrazione sota;

5) l’indisponibilità di mezzi per fare nuove assunzioni, che sarebbero state necessarie per dare la sveglia a

una redazione pesantemente assopita, acritica ed autoreferenziale.

La prima domanda che mi posi, mettendomi con Zucconi alla guida de “Il Giorno”, era: debbo andare alla ricerca dei lettori che, scontenti della normalizzazione del Giorno, se ne erano andati perché il giornale, un tempo era effervescente, adesso aveva perso tutte le bollicine?

La risposta che mi diedi era: no. Ero (e sono) convinto che i lettori che se ne erano andati, avevano abbandonato la testata definitivamente. I lettori infatti intrattengono sempre, con il loro quotidiano, un rapporto di tipo matrimoniale. Divorziano solo due o tre anni dopo che si sono accorti che stanno male con il loro partner. Però,
quando hanno divorziato, è quasi impossibile che ritornino sui loro passi. Il rapporto dei lettori con un settimanale (e ancor di più con un mensile) è invece di petting. Se vanno in edicola per acquistare “Panorama” e vedono che “L’Espresso “ ha una copertina più interessante (o un gadget più appetitoso) lasciano “Panorama “ per acquistare
la testata concorrente. Ma poi, la settimana, successiva, tornano sui loro passi. Si trattava, quindi, di inventare un giornale nuovo, in sintonia con i giovani di quel tempo.

Per prima cosa, anche perché Zucconi mi aveva lasciato carta bianca sulle soluzioni concrete, affrontai il problema grafico con l’aiuto di un vecchio e giovanissimo grafico, Vittorio Crucillà (adesso lo chiameremmo art director). Crucillà era vecchio perché si truccava da vecchio più di quanto fosse, e poi perché diceva che era vicino
alla pensione. Crucillà, però, era anche giovanissimo perché era un geyser di novità che, mortificate durante la direzione di Afeltra, che lo lasciava sbizzarrire solo nel supplemento sportivo del lunedì, zampillavano fresche e coloratissime dal suo fascio di pennarelli Lampostil che sceglieva con la rapidità e la cura con la quale un pianista di jazz sceglie i tasti da battere.

Crucillà era più dissacrante e impertinente di me che, dalla mia, avevo almeno l’attenuante della giovane età. Dovevo perciò calmarlo nelle sue innovazioni. Gli dicevo: “Non devi ficcare tutta la tua fantasia in una sola pagina. Lasciane un po’di scorta”. Entrambi però concepivamo le pagine del Giorno come se fossero fatte di Pongo, da plasmare senza pregiudizi, in funzione, solo, delle necessità del momento e con l’unico scopo di tenere desta l’attenzione dei lettori.

Crucillà disegnava le pagine in modo velocissimo, cantando a squarciagola canzoni impossibili in una lingua anche a lui sconosciuta e sicuramente mai esistita. Io gli davo indicazioni precise. Lui mi stava ad ascoltare con grande attenzione e docilità e poi faceva quello che voleva, ma sempre molto meglio di come avevo pensato io. Avendo sempre amato circondarmi sul lavoro di persone più brave di me (almeno nel loro specifico settore), non solo lo lasciavo fare, ma lo incoraggiavo anche.

Dalla sua mente felice da Archimede Pitagorico della grafica uscivano capolavori a getto continuo. Nessuno lo dice, forse anche perché pochi lo sanno, ma il giornalismo italiano deve moltissimo a Vittorio Crucillà, la cui genialità meriterebbe di essere ricordata nei libri di storia del giornalismo e celebrata dai giornalisti di oggi. L’R2 di “La Repubblica”, ad esempio, nato trent’anni dopo, deve molto, forse inconsapevolmente, alla grafica di Crucillà. E cosi anche la nuova “Stampa” di Giulio Anselmi. Anzi, queste due testa te, che pure, dal punto di vista grafico, sono le migliori oggi in Italia, sono, ancora oggi, delle copie timide di ciò che Crucillà faceva sulle pagine-Pongo del Giorno dei primi anni Ottanta.

Non sapendo che le cose erano impossibili, noi le facevamo. Molti vecchi lettori ricordano ancora adesso una foto a colori enorme che occupava tutta la parte alta della prima pagina del Giorno e che riprendeva una ruspa che stava schiacciando una montagna di arance che venivano distrutte, su ingiunzione della Comunità Europea, a causa della sovrapproduzione di agrumi. In occasione dell’attentato al Papa feci un ulteriore passo avanti, dedicando l’intera prima pagina a una sola foto a colori, quella del Papa in fin di vita.

Scelte di questo tipo, per i giornali di allora, costituivano l’impensabile. A tal punto che ancora oggi, i quotidiani italiani (anche quelli in formato tabloid) non osano ancora fare la prima pagina-copertina, con una sola foto, un grande titolo e solo qualche modesto richiamo. Chissà quanti anni ancora ci vorranno per vedere il moderno, irrompere anche sulle prime pagine dei grandi quotidiani italiani che sono tutt’ora alla ricerca, come è d’uso in Italia, di una improbabile “terza via” che, come al solito, riesca a conciliare gli opposti.

La rivoluzione “al Giorno” la facemmo con i fichi secchi. Non potevamo assumere. Non dico le grandi firme, ma nemmeno i praticanti al minimo di stipendio. Mi misi perciò a guardarmi in giro negli angoli della redazione alla ricerca di giovanissimi giornalisti che erano stati mortificati nella loro creatività dai burocrati giornalisti che, grazie alla loro maggiore anzianità, potevano permettersi di castrarli.

Il primo a fare le spese di questa austerità, del resto, fui io che, ingolosito dall’avventura, accettai di farmi assumere alla condirezione de “Il Giorno” per un tozzo di pane onnicomprensivo. Se mi avessero solo pagato gli straordinari sarei diventato un nababbo. Di fronte alle mie proteste, Guglielmo Zucconi, che sapeva come nessun altro indorare le pillole, mi disse, sgomento, con l’aria sorpresa di un amico che non si aspettava di vedere protestare chi aveva beneficato: “Ma come, Pierluigi, proprio non ti capisco. Sei già intelligente e vuoi anche essere ricco? Ma dai!”.

Tenendo presente che i quotidiani italiani dei primi anni Ottanta erano confezionati come se si dovessero informare dei lettori simili ai personaggi ottocenteschi delle “Veglie di Neri” di Renato Fucini, e partendo dalla constatazione che tutte le famiglie italiane possedevano un televisore, decisi, primo giornale in Italia, di inventare,
per reazione al tran tran de “Il Giorno” di allora, una pagina televisiva che non s’era mai vista prima . Non era una pagina di critica televisiva, ma di cronaca televisiva. Volevo una pagina che raccontasse i retroscena, pedinasse i personaggi, descrivesse le risse o le semplici rivalità, ricostruisse le cordate fra manager ed artisti, fra giornalisti e partiti.

Destinai allo scopo un giovanissimo praticante che poi è diventato un’autorità nel settore, Paolo Martini, che ben presto si trasformò in un fulmine di guerra che faceva tremare tutti i grandi papaveri della tv o che, ingolositi dalla quella pagina fuori dal comune, chiedevano insistentemente attenzione per loro o per i loro programmi. Anni dopo, Silvio Berlusconi, che in quegli anni partiva con le sue tv commerciali, mi disse che il mattino, appena si svegliava, voleva “Il Giorno” per leggere subito “che cosa aveva scritto quel cancro di Martini”.

Gigi Moncalvo, invece, era il mio inviato di punta, quello che riusciva sempre dove gli altri assopiti inviati del giornale avevano fallito. Quando, nel primo pomeriggio, l’inviato che era stato tirato giù dal letto per andare su un fatto, comunicava alla redazione che i parenti dell’assassinato non erano in casa, che le foto della vittima non si trovavano, che la faccenda poi, a dire il vero, si era di molto sgonfiata, io facevo immediatamente partire Gigi Moncalvo che andava sul posto, recuperava interi album fotografici, faceva parlare tutti i parenti, spremeva il maresciallo dei carabinieri e intervistava anche la gente al bar .

Poi, di getto, scriveva il pezzo e, il giorno dopo, aveva il materiale per continuare a tener vivo l’evento. Moncalvo mi portò (ed io pubblicai) persino l’elenco dei prezzi che, senza ritegno né pudore, l’èquipe giornalistica Rai, che seguiva il Giro d’Italia, chiedeva alle società commerciali che volevano comparire in tv senza passare per la Sipra, la concessionaria della Rai per la pubblicità. Bastava che pagassero loro, sia pure molto meno. Nel listino dei giornalisti Rai, che sembrava redatto da un ragioniere tanto era dettagliato, c’era di tutto: ripresa della scritta della ditta sul cappellino del ciclista con la visiera alzata, tot; con la visiera abbassata, tot; della scritta sul petto del ciclista, tot; dello striscione pubblicitario attraverso la strada, tot; dell’insegna della ditta sulla fiancata dell’auto, tot; sulla portiera, tot. Mi sembrava una scandalo di proporzioni inaudite. Ma anche allora non successe niente. Tutto fu sepolto in un fragoroso silenzio.

Moncalvo, inoltre, fu il primo giornalista italiano a sostenere (spalleggiato immediatamente dal suo giornale) la tesi che Enzo Tortora era innocente mentre tutti gli altri quotidiani esibivano il pollice verso con tracotante sicurezza.

Mandai, poi, Moncalvo a Palazzo di Giustizia di Milano dove, già allora, molto prima della vicenda “Mani pulite”, funzionava il pool dei cronisti giudiziari che si coprivano le spalle a vicenda scrivendo tutti le stesse cose e, ad esempio, pur non andando a lavorare il sabato e la domenica: molti di loro si facevano pagare i due giorni come se fossero stati presenti. Per riuscire in questa impresa si mettevano d’accordo, lasciando, il venerdì sera, in redazione, i due pezzi da pubblicare nel week end, con l’assoluta certezza che non sarebbe uscito altro da Palazzo di Giustizia. Moncalvo entrò a Palazzo di Giustizia di Milano, senza vincoli di cordata. Dava le notizie che trovava. E ne trovava tante. Seminò il panico fra i colleghi (loro, però, non lo consideravano tale e quindi non gli rendevano nemmeno il saluto). Intanto Moncalvo, al Giorno, faceva crescere le vendite.

Per “Il Giorno” cominciò, con me, a scrivere anche un altro giovanissimo giornalista, poi, anche lui, ne farà, di strada. Era Massimo Franco, attuale notista politico del “Corriere della sera”. Era un lavoratore scrupoloso, attento, disincantato, libero, autorevole fin da piccolo. Le sue cronache politiche (sorpresa!) si leggevano di un fiato. Non erano redatte in politichese. Parlavano ai lettori più che agli addetti ai lavori. A quel tempo, costituivano una novità assoluta. “Il Giorno” era esposto con tanto di bacchetta di legno per non farlo rubare, nell’ultima stanza della sala stampa di Montecitorio, assieme ai negletti giornali regionali. Un paio di anni dopo, un cronista mi telefonò da Roma per dirmi che si era accorto che “Il Giorno” era passato nella prima stanza, in mezzo ai giornaloni, e la sua copia era sdrucita dalla consultazione. Considerai questa notizia come l’uccello che Noè vide dalla sua Arca.

Sull’imponente cronaca milanese vegliava il siciliano insonne, Enzo Catania. Pur avendo famiglia, viveva praticamente al giornale. Scriveva a raffica, a periodi brevi e ficcanti, senza mai correggere nulla. La notte che assassinarono a Palermo il generale Dalla Chiesa, Catania si mise a scrivere in tipografia. Riempì (ancora oggi non credo sia possibile) una pagina intera del giornale nel giro di un’ora.

E sulla cultura vigilava Claudio Altarocca, un bolognese raffinato e popolare, che veniva dalla ricerca universitaria e che, essendo veramente colto, non faceva l’erudito. Commentando i pezzi contorti di certi collaboratori che, con il mio consenso, faceva slittare nel cestino della carta straccia, diceva: “La cultura è come la marmellata: meno la si ha e più la si spalma”.

Massimo Fini non potevo assumerlo per motivi economici. Ma quando seppi che era rimasto a piedi, per la chiusura di un settimanale della Rusconi, gli offrii subito di collaborare. Allora nacque il Fini, che è diventato famoso, grande e intelligente polemista, urticante bastian contrario. Sbavava, comprensibilmente, per fare il commentatore. Io allora gli imposi di fare un’inchiesta sul campo ogni sei commenti. Prendere o lasciare. Per mia fortuna, prese. Fece, ad esempio, un’inchiesta su Milano2, la nuova città che allora era stata realizzata da Silvio Berlusconi. Descrisse, in più puntate, la noia delle signore abbandonate in una periferia di lusso, la vita sudata nelle palestre, gli incontri sconsolati al bar, le anatre del laghetto che, avendo le piume delle ali tagliate, non avrebbero dovuto scomparire e invece se ne erano ugualmente andate ma, forse, in una casseruola.

Il giovanissimo sociologo e sondaggista Enrico Finzi, da me scoperto per caso, scandagliava per “Il Giorno” il nuovo che si stava muovendo nella società italiana. Non solo in politica, ma soprattutto nei consumi, nelle mode, nelle scelte di vita. Non si era mai visto trattare, in modo popolare, ma anche scientificamente ineccepibile, tematiche di questo genere su un quotidiano.

Sul Vaticano feci scendere in pista un altro giovane giornalista, Silvano Spaccatrosi, che ben presto si rivelò essere uno scrupoloso cronista dall’interno delle mura leonine. Il vaticanista titolare invece scriveva come se fosse un papa, mandando messaggi importanti alla “comunità ecclesiale” (questo lo diceva lui, ma io non me ne accorgevo, leggendo i suoi pezzi da mal di testa). Gli ripetei più volte che mi sarei accontentato che fosse riuscito a farsi capire da un professore di scuola media. Per fortuna andò a mandare i suoi messaggi da un altro giornale. E Spaccatrosi poté continuare a scrivere le sue cronache comprensibili senza più essere disturbato da un saggista tronfio che parlava a se stesso e, forse, ai suoi pochi amici.

Inventai tormentoni tipo: “Mio padre” nel quale scrittori e giornalisti scrivevano i loro ricordi sul genitore. Erano pezzi divorati dai lettori. Ricordo lo scrittore Enrico La Stella, figlio di un colonnello del regio esercito, che, raccontava che, quando da bambino disubbidiva, veniva esposto fuori dalla finestra della sua abitazione al quinto piano, dal padre urlante che lo reggeva per la camicia. Capì perché era cosi frastornato.

In quegli anni, inoltre, stava esplodendo la musica leggera, genere allora assolutamente non considerato dagli altri grandi quotidiani. Assunsi, per poche lire, un altro giovanissimo praticante. Si chiamava Marco Mangiarotti. Scriveva bene, forse fin troppo. Ma i suoi pezzi erano pieni di emozioni. Gli dissi: “Tu, d’ora innanzi, devi scrivere solo di musica leggera. Ma non fare l’esteta. Lo fanno già, con esiti ampiamente deludenti per noi, e mortificanti per loro, i direttori d’orchestra falliti che, non essendo riusciti a dirigere alcunché, si sono messi a scrivere da critici musicali. Da te invece voglio fatti, cifre, dichiarazioni, aneddoti (oggi si chiamano gossip) e anche foto originali (gratis, ovviamente)”.

Da quel giorno, la musica leggera entrò a vele spiegate nelle sonnacchiose pagine degli spettacoli del Giorno, nelle quali i critici gallonati e sussiegosi cominciarono a soffrire come delle bestie. Infatti un giorno, io, che scoppiavo di salute, fui atterrato da furibondi calcoli renali, evidentemente propiziati dalle loro benedizioni. Mi avevano ciccato, come si diceva allora. Ma non riuscirono a farmi fuori.

Nelle pieghe della cronaca di Milano del Giorno lavorava un altro giovane praticante, Andrea Marini. Era irrequieto, sveglio, rapido, con l’occhio giusto. Lo nominai su due piedi nostro inviato speciale a piedi. Senza nessun aumento di stipendio, è ovvio. Zucconi non poteva dare un aumento di stipendio a me, immaginarsi se io potevo darlo ad altri. Marini era un inviato a piedi perché doveva scendere camminando, assieme al fotografo Mario Taito, un altro che non si tirava mai indietro, lungo le spiagge della Riviera adriatica dove, d’estate, soggiornavano decine di migliaia di famiglie milanesi e raccontare, con le parole e con le foto, che cosa succedeva, come ci si divertiva, che cosa si leggeva e come si mangiava.

Ne uscì una pagina quotidiana che si leggeva di un fiato. I due erano attesi al loro passaggio, come se fossero delle madonne pellegrine, dai funzionari dalle aziende di soggiorno, dagli assessori comunali al turismo (ai quali era vietato fare interviste), dai venditori di cocco (allora non c’erano ancora i vù cumprà), dai ristoratori da spiaggia, dalle famiglie che volevano far vedere a casa che non erano dei bagnanti qualunque. Nonostante il moto, a furia di coca cole, krapfen e bombolini, i due disgraziati misero su 8 chili in un mese. Un mese dopo, li rividi improvvisamente in redazione con i chili in più e l’abbronzatura al cuoio che si erano guadagnata per causa di servizio. Non li avevo riconosciuti.

Quando affidai la moda alla giovanissima Marina Cosi (nei successivi 37 anni deve essere invecchiata non più di dieci) i quotidiani dedicavano a questo settore delle articolesse piene di piombo solo in occasione delle sfilate. La Cosi usò subito il colore. Gli abiti, più che descriverli, li faceva vedere. E poi seguiva i fatti della moda tutti i giorni. Diventò, nel giro di pochi mesi, il più sicuro punto di riferimento di un settore che a Milano, allora, cominciava a contare molto.

Nei corridoi del Giorno si aggirava un tizio magrissimo che scivolava lungo i muri, guardandosi rancoroso i piedi. Bisognava prenderlo con le pinze. Si chiamava Mario Zoppelli. Era stato corrispondente da Mosca. Richiamato in Italia per motivi di rotazione si trovava come un pesce fuor d’acqua a dover seguire “modesti” (diceva lui) casi di attualità. Si considerava (e forse lo era) un cremlinologo. Si riteneva perciò offeso se lo si mandava a coprire un caso di cronaca italiano, peggio ancora se locale. Un giorno lo mandai a Parma perché le agenzie avevano scritto che lì c’era stato un modesto terremoto. Zoppelli dettò ai dimafonisti un pezzo che cominciava così: “Sala Baganza – Quel pirla di Pierluigi Magnaschi mi ha mandato qui a descrivere un terremoto che non c’è mai stato…”. Il pezzo non uscì, ma quell’attacco mi incuriosì.

Lo convocai nel mio ufficio. Zoppelli si aspettava una lavata di capo. E invece gli dissi: “Se ti metti a lavorare, ti dò una pagina intera. La terza”. Zoppelli mi guardò in tralice, come un bambino preso con le dita nella marmellata, cercando di capire dove lo volevo fregare. Gli spiegai, allora, che lui doveva far parlare le persone comuni: la fioraia all’angolo della strada, il suonatore ambulante, il barista immigrato, il guidatore di tram, il tassista. Ognuno, gli dissi, per modesto che sia, ha storie da raccontare che bastano a riempire una pagina. Zoppelli, proprio come un bambino, si lasciò scappare un sorriso da quella bocca che avevo sempre visto insoddisfatta. Con queste sue terze pagine, Zoppelli inventò un genere, anche questo copiato vent’anni dopo, e divenne famoso. Quando morì, lessi con grande soddisfazione, sul Giorno, molte lettere di suoi vecchi lettori che, vent’anni prima, lui aveva stregato con i suoi pezzi davvero memorabili perché in presa diretta con la vita.

Milano è una città con 150 mila studenti universitari, il doppio di una città come Cremona, che pure giustifica l’esistenza di addirittura due quotidiani locali. Ebbene, ancora oggi, i grandi giornali milanesi non hanno nemmeno un giornalista incaricato a tempo pieno a seguire questo immenso fenomeno scolastico, salvo poi lamentarsi che la gente non legge i giornali. Al Giorno, invece, avevo un giovane giornalista, Giorgio Guaiti, che seguiva a tempo pieno la scuola, trovando ogni giorno spunti nuovi e spesso facendosi aiutare da altri giovani cronisti quando le vicende scolastiche erano troppo numerose. Inoltre, considerando che dalla sola Stazione centrale transitano ogni giorno 120 mila persone, distaccai presso di essa un cronista a pieno tempo, Nino Leoni, un giornalista anziano, ma svelto, con la barba bianca e incolta, che si truccava da baraccato, senza peraltro fare nessuna fatica. Lo chiamavamo “duebinari”. A lui non sfuggiva niente di ciò che correva sulle rotaie. Diceva (non si è mai saputo se scherzasse o se era vero) che si era dimesso dal sindacato dei giornalisti perché era stato motivatamente accolto in quello dei ferrovieri.

Una parola almeno la merita anche lo sport. Una sezione straordinaria del giornale. In ogni specialità “Il Giorno” aveva lo speta assoluto a livello nazionale: da Mario Fossati nel ciclismo, a Giulio Signori nell’atletica, a Gianni Clerici nel tennis, a Gian Maria Gazzaniga nel calcio, a Grigoletti nel basket e cosi via. Non a caso la redazione sportiva de “Il Giorno” era stata costruita, negli anni ruggenti di Italo Pietra, dal leggendario Gianni Brera. Quando arrivai io, i grandi giornalisti dello sport del Giorno c’erano ancora, ma su di loro erano cadute addosso le tende polverose di un giornale che andava a fondo. Ecco perché puntai tutte le mie carte sul capo dello sport, Saverio Sardone. Un uomo di macchina fantastico che, adeguatamente spronato, ricominciò a guidare quella fantastica ciurma con grande autorevolezza, ridando ad essa l’orgoglio dei tempi passati.

Io, per spingerli a dare il meglio, davo loro la sensazione di essere un fanatico del calcio (anche se Grigoletti, sapendo la mia vera passione, viziava le mie due figlie pallacanestriste, Cristina e Roberta, presentandole ai big del basket come Pier Luigi Marzorati). Ogni volta che salivo al piano della redazione sportiva, davo perciò un’occhiata alla classifica del campionato di calcio (che, di mia iniziativa, non avrei mai letto) per non farmi cogliere impreparato. Ho la sensazione che avessero capito che di calcio non me ne importava nulla, ma facevano finta di calmare la mia esibita ed immotivata tifoseria.

L’Italia nord occidentale me la monitorizzava un giovane giornalista della Rai di Bologna, Carlo Valentini. Uno che, col telefono, raggiungeva tutti e che dettava i suoi articoli su un dimafono mentre guidava l’auto spostandosi da un posto all’altro.

Naturalmente, per seguire tutto, lavoravo moltissime ore e riducevo al massimo le perdite di tempo. Alle due, ad esempio, quando tutti avevano già mangiato, scendevo nella mensa de “Il Giorno”, che era stata immeritatamente denominata “Bar Scarafaggioni” (sì, ce n’era qualcuno, ammetteva il gestore, ma sosteneva anche che, quei pochi, erano addomesticati). In mensa mangiavo con la velocità di un cambio di gomme al pit stop di una corsa di Formula 1. La mia media era 7 minuti e 25 secondi. Primo, secondo e macedonia. Caffè in piedi, uscendo.

Non avrei potuto attuare una cosi profonda rivoluzione giornalistica se Guglielmo Zucconi, il direttore con il quale avevo ininterrottamente lavorato nei precedenti sette anni, non mi avesse incoraggiato, sostenuto e protetto dalle innumerevoli reazioni, dentro e fuori il giornale. L’establishment redazionale rumoreggiava. I pigri, infatti, volevano poter continuare a dormire indisturbati. I gallonati, per motivi politici, volevano continuare a godere delle loro rendite di posizione. Non tolleravano i molti giovani scalpitanti, da me scovati negli angoli della redazione in posizioni subordinate e che, stimolati, facevano molto meglio di loro.

Zucconi, mi proteggeva, perché era un giornalista che usava la sua autorevolezza, oltre che la sua straordinaria abilità dialettica, per essere libero e per consentire ai suoi più diretti collaboratori di esserlo altrettanto. Un caso raro nella stampa italiana.

Un’altra persona straordinaria, che ha consentito che questo sogno diventasse colonne di piombo, è stato Cesare Rodi. Un giornalista di vecchio pelo, ma soprattutto un uomo a tutto tondo. Cuciva ininterrottamente (senza nemmeno dirmelo) gli strappi che con la mia irruenza di allora continuavo a fare. Mi consigliava di andare un po’ più
adagio nelle innovazioni e io non lo stavo a sentire perché ero irruente e sapevo che il tempo giocava contro di noi. E lui, sia pure in silenzio, credo che fosse anche compiaciuto del fatto che io, su questo punto, non lo stessi ad ascoltare. Rodi scriveva da dio, ma non firmava nulla. Qualche volta, in tipografia, gli ho firmato, a sua insaputa, suoi pezzi sublimi, fatti di parole che scorrevano felici come l’acqua di un ruscello. Cesare Rodi era un saggio che costruiva ponti umani, smussava gli angoli. Era amato da tutti, in redazione, anche se ad alcuni non andava giù che lui fosse dalla mia parte, dalla parte cioè del cambiamento, dell’innovazione. Rodi mi diceva, da fratello più grande, forse anche da padre: “Pierluigi, ricorda che l’intelligenza è la sola cosa di un uomo che è davvero oscena. La si può usare, ma con cautela. In ogni caso, non la si può esibire”:

Il conto, però, arrivò alla fine del quarto anno, quando ci apprestavamo a festeggiare il clamoroso raddoppio della tiratura. Gianni De Michelis, da ministro delle Partecipazioni statali, all’inizio della nostra avventura, ci aveva dato, senza accorgersene, una mano enorme. Lo fece quando venne ad una di quelle patetiche “conferenze di produzione” del Giorno a dire che “se Il Giorno non va in attivo, per l’Eni non c’è motivo di tenerlo. E quindi lo si vende”. Di fronte a questa minaccia, i lavativi abbassarono le orecchie e Zucconi ed io potemmo lavorare in pace, si fa per dire. Il pareggio economico, grazie a uno straordinario impegno di molti, lo raggiungemmo. Ma quando lo raggiungemmo, De Michelis, con il suo rigore economico insolentemente esibito, non c’era più alle Partecipazioni statali e imparammo, a nostre spese, che un giornale pubblico è, in sostanza, non al servizio dei lettori, ma al servizio di chi lo fa (i giornalisti, specie quelli più pigri, incapaci e politicizzati) e di chi lo utilizza, cioè i politici. Noi non tenevamo conto né degli uni, né degli altri. Il raddoppio della tiratura? E chissenefrega. L’utile di bilancio? Non è importante quando c’è “una missione pubblica”. Parole imbroglione, ma di pronta beva.

Guglielmo Zucconi, da quella gran volpe che era, se ne accorse molto prima di me, che la corda sulla quale dovevamo continuare ad esibirci era diventata rada. Un giorno, dopo una sfilza di assemblee giornalistiche e un tentativo di processo redazionale nei miei confronti sulla base di un’imputazione, si disse, “che faremo conoscere al momento opportuno”, Zucconi mi chiamò e mi disse: quando un cavallo ti vuol disarcionare, il cavaliere avvertito si lancia prima. E, op!, entrambi, lasciammo la tolda.

Da allora, “Il Giorno” è imploso, lo dicono le cifre. E lo dice anche la sua successiva storia miserevole, fino all’inevitabile e mesta privatizzazione. Chi aveva organizzato la rivolta contro la professionalità e la dedizione, in nome della pigrizia e dell’appartenenza, ha purtroppo avuto, personalmente, ragione: ha sì lasciato alle sue spalle un cadavere di giornale, ma ha anche raggiunto il massimo della pensione senza faticare e con gli immeritati galloni
esibiti.

Ci fu, però, un piccolo, ma culturalmente molto agguerrito gruppo di giornalisti con la spina dorsale diritta, che, pur non avendo mai fatto loro particolari favori, prima mi difesero a viso aperto e poi mi resero l’onore delle armi. Erano i giornalisti comunisti che lavoravano al Giorno. Dei soti, l’unico che si alzò in assemblea a difendermi ed ad elogiarmi, fu Guido Gerosa. Non lo credevo così coraggioso e, per me, quel suo accorato e pubblico sostegno assolutamente fuori dal coro fu una piacevolissima sorpresa.

Mi rendo conto che i giovani ed i vecchi giornalisti che hanno rifatto grande “Il Giorno” negli anni della direzione Zucconi-Magnaschi sono molti più di quelli che ho citato. Loro sanno cosa hanno dato e cosa hanno fatto. E sanno anche che se non li ho citati è solo perché lo spazio è sempre tiranno. Ma li ho, tutti, i generosi (e, ripeto, erano tanti) nel cuore, anche trent’anni dopo. L’avventura del Giorno è stata per noi tutti meravigliosa. Anzi, abbagliante.

* Dice di sé:
Pierluigi Magnaschi, piacentino di nascita, milanese di adozione, apolide di testa, è stato costretto dalla circostanze ad organizzare il lavoro degli altri: redattore capo di “Tempo illustrato”, direttore de “La Discussione”, condirettore de “il Giorno”, vicedirettore de “La Notte”, direttore della “Domenica del Corriere”, di “Italia Oggi”, di “Milano Finanza” e infine, per sette anni, dell’“Ansa”. Ora è vicepresidente operativo di “ClassEditori” e docente al master di Giornalismo della Luiss. E può così dedicarsi alla scrittura, che gli piace

SALVATORE QUASIMODOI filosofi, i nemici naturali dei poeti, e gli schedatori fissi delpensiero critico, affermano che la poesia (e tutte le arti), come

le opere della natura, non subiscono mutamenti né

attraverso né dopo una guerra. Illusione; perché la guerra

muta la vita morale d’un popolo, e l’uomo, al suo ritorno,

non trova più misure di certezza in un modus di vita interno,

dimenticato o ironizzato durante le sue prove con la morte.

(Da “Discorso sulla poesia”, appendice a

Il falso e il vero verde”, 1956)

Fiammetta Jori - Ad Agnelli piaceva il vento, perché non si poteva comprare

Nel 1990, a firma di Marie-France Pochna, uscì il libro

“Agnelli, l’irresistibile”: corposo compendio sulla storia dell’uomo, della sua famiglia e del suo impero. In questo ricordo l’attualità

di una figura senza pari nella storia italiana del ’900

Fiammetta Jori*

L’occhio di Pochna in casa Agnelli

La storia di un uomo, di una famiglia e di un impero

Di certo questo non sarà l’ultimo libro scritto su Gianni Agnelli ovvero l’ “Avvocato”, come da tutti gli italiani, confidenzialmente, viene nominato (e mai invano!) né tanto meno è il primo giacché su Agnelli III esiste una bibliografia copiosa che si vanta di firme prestigiose a livello internazionale, nonché di enormi successi editoriali, dato che non è difficile “vendere” un personaggio che già da solo sa “vendersi” benissimo, naturalmente nel senso strettamente americano del termine.

Ad ingrossare il fiume d’inchiostro, che da sempre scorre per il capitano d’industria più charmant del pianeta, si aggiunge ora, affluente di tutto rispetto, questo ponderoso quando ponderato volume della giornalista francese Marie France Pochna, edito dalla Sperling & Kupfer, il cui titolo suona come un inconfutabile epitaffio: “Agnelli, l’irresistibile – Storia di un uomo, di una famiglia e di un impero”; sull’ “impero”, termine oggi piuttosto pericoloso, a meno che non lo si intenda unicamente finanziario, non possono sussistere ragionevoli dubbi e quand’anche ancora ce ne fossero stati, le lunghe digressioni che l’autrice dedica al “Colosso Fiat” (scrupolosamente corredate di diagrammi e grafici delle varie partecipazioni dell’Ifi, con tanto di percentuali) contribuiscono a fugarli all’istante.

Ma è sull’uomo Agnelli, impenetrabile come una sfinge di gran classe, che la Pochna tenta di far luce ripercorrendo con grande professionalità, le glorie e le disfatte, pubbliche e private di una famiglia che può fregiarsi della presenza di uomini che, al di là del nome, degli “agnelli” sembrano non avere proprio nulla.

In questa saga le cui vicende, pur restando saldamente ancorate alla verità provata degli eventi, rasentano spesso, e non per la leggerezza di chi le narra, la dimensione sempre estrema del romanzo, ogni figura viene tratteggiata con acume psicologico e nel rispetto, per quanto possibile, dell’ottica più oggettiva e non distorta dalle faziosità inevitabili delle varie interpretazioni popolari o dai “pettegolezzi” di un basso giornalismo, peraltro sempre
fiorente.

Sul clan Agnelli esiste, del resto, tutta una letteratura “ai confini della leggenda”; tante le cose dette, un po’ meno quelle appurate e Gianni Agnelli, con la complicità involontaria del suo innegabile physique du rôle, nasce già, in qualche modo, prigioniero di un mito che ogni sua scelta di vita era fatalmente destinata ad ingigantire.

Come disse una volta Federico Fellini, rispondendo ad Enzo Biagi che gli chiedeva una sua opinione sul successo personale di Agnelli nel mondo “piace come piace un attore, e perché la fortuna lo ha scelto. È un vittorioso; mettigli un elmo in testa, mettilo a cavallo.

Ha la faccia del re”. “Paris Match” suggerì di vedere nel volto da copertina di Gianni Agnelli “l’effige del condottiero”, mentre “Life” vi aveva ravvisato una “fisionomia da Giulio Cesare” e, per citare le parole di chi gli vive accanto, così anni fa affermò la moglie, Marella Caracciolo: “Ci fu un momento per John Kennedy, ora c’è per lui”; altrove, in una dichiarazione più privata, sempre Marella dirà “non vuole esprimere i sentimenti, ma mi ha sempre incantata e di questo gli sono grata”.

Difficile, allora, per l’autrice districarsi nell’immenso cosmo di notizie, aneddoti e citazioni che circondano la costellazione Agnelli e soprattutto la sua prima stella, ma il suo libro, che è forse tra i più esaurienti, dimostra come sia possibile riuscirne egregiamente ad estrapolare il “ritratto” credibile e verosimile di un uomo tanto noto ed imitato, quanto sconosciuto ed inimitabile e, naturalmente “irresistibile”.

Che Gianni Agnelli, infatti, appaia irresistibile anche ad una visuale d’oltralpe non è che l’ennesima conferma di un suo fascino ormai omologato e consacrato perfino nelle tanto nazional-popolari hit parade dei “più belli ed eleganti”, che spesso l’hanno visto classificarsi al primo posto, incontrastato. Vittoria questa un po’ cheap, ma significativa di come la gente abbia comunque bisogno di un modello cui guardare, sia pure per poterlo poi “snobbare”.

Le donne, è un dato certo, lo adorano e ovviamente da ottimo womanizer (versione yankee del nostro donnaiolo), Mr. Agnelli non ne ha mai disdegnato la compagnia, purché compatibile con i suoi gusti certamente meno facili dei costumi delle signore che volentieri l’avrebbero accompagnato dosando sapientemente l’elemento femminile nel caos ordinatissimo degli innumerevoli impegni quotidiani cui mai si sottrae.

D’altro canto, gli uomini non sono da meno; lo rispettano o comunque lo temono, che poi è la stessa cosa (almeno in politica) e da ogni dove giungono voci, tutt’altro che infondate, che l’avvocato Agnelli sia il “made in Italy” che più ci invidiano nel mondo!

Al libro della Pochna va riconosciuto il pregio di basarsi essenzialmente sulla meticolosa documentazione dell’autrice che, essendo avvocato prima ancora che giornalista, ha lavorato scrupolosamente per due anni con instancabile lavoro d’archivio ed oltre cento interviste da lei raccolte, alla preparazione di questo affresco in cui ogni “pennellata” è giustificata da un’assoluta e provato conoscenza del soggetto, senza nulla concedere ad illazioni o macchinose argomentazioni: ed indubbiamente ad Agnelli, nella cornice dorata della sua vita, si addice di più una studiata policromia piuttosto che la sapiente bitonalità del chiaroscuro.

Tantissime, infatti, le sfumature, non tutte percettibili, che compongono la ormai matura ed impeccabile nonchalance del Signor Fiat, come Biagi lo definì, a nome di tutti in un libro a lui dedicato nel ’76 che portava appunto questo titolo. “Ciò che conta è la sfumatura e non il colore”, diceva Baudelaire; e mi sembra che nessuno come Agnelli incarni, con eleganza e stile, il senso ultimo di un famoso verso che è anche un grandioso enunciato filosofico.

Ed ecco allora, che Marie-France Pochna ci presenta, via via, quasi con la passione dello storico, il nonno senatore, Giovanni Agnelli I, fondatore di cotanto “gigante industriale” che vide nel nipote Gianni il suo delfino; la bellissima mamma, Virginia Bourbon del Monte, di cui tutti gli uomini fatalmente si invaghivano e, tra questi, lo scrittore Curzio Malaparte, con cui ella visse un chiacchieratissimo amore; la nonna americana, Princess Jane, dall’umorismo ineguagliabile ed accattivante; il padre Edoardo, raffinato e soigné, cui si deve la fondazione della gloriosa Juventus che scomparve tragicamente a soli 44 anni in un incidente aereo (Gianni ne aveva allora 14); la fondamentale Miss Parker, la governante inglese, che seguì l’educazione dei piccoli Agnelli e della quale Susanna, nel suo libro autobiografico “Vestivamo alla marinara” ricorda la fatidica frase che sempre ripeteva loro per frenare le intemperanze giovanili “Remember that you are an Agnelli” e poi ancora Valletta, l’uomo dell’interregno che tenne il testimone nella staffetta nonno e nipote, negli anni peraltro difficili in cui quest’ultimo era ancora troppo giovane per assumersi gli onori e gli oneri che l’eredità Fiat comportava; tra i suoi interlocutori e collaboratori, nell’ambito delle problematiche aziendali,Cesare Romiti, Vittorino Chiusano, Carlo De Benedetti, Enrico Cuccia e tanti tanti altri… insomma “quella folla anonima di cui siamo fatti” – come la Yourcenar definisce la nostra memoria
genetica ed esistenziale – qui lascia talvolta individuare dei nomi, e di taluni, si può individuare la fisionomia, intuire un carattere e scolpirsene il volto nell’immaginazione; ciò consentirà al lettore, se vorrà, di guardare diversamente il “fenomeno Agnelli”, che nonostante le patinate frivolezze dell’uomo blasé, che la stampa mondiale rappresenta, enfatizzando dettagli estremamente à la page e, immancabilmente, up to date come nessuno, vive ogni giorno lo stress di un vertice internazionale di potenze industriali e finanziarie in cui la Fiat, di cui egli è presidente e blasone “batte la bandiera italiana” ed è probabilmente questo “il senso della Fiat” cui Agnelli allude quando afferma, categoricamente, che chi gli succederà dovrà comunque averlo, poiché esso, appunto, si identifica “con il complesso di valori che la Fiat rappresenta nel Paese, a Torino, in Piemonte e nella storia dell’industria nazionale”.

Mi si consenta una notazione: era il 1966 quando Gianni Agnelli, dopo anni di goliardiche ed eccentriche avventure da perfetto enfant gaté, che avevano riempito le cronache mondane, prendendo in mano le redini della Fiat fa pronunciare a Valletta la storica frase “Il dottor Agnelli non è più solamente il nipote di suo nonno”; Gianni ha 45 anni e suo padre Edoardo, quando morì ne aveva 44. Forse è solo una banale coincidenza, ma se le eredità
morali esistono, ed Agnelli con forza e fierezza lo ribadisce, essendo egli ciò che palesemente è, credo che quei due freddi numeri, 44 e 45, età rispettivamente di una fine e di un inizio, siano consecutivi proprio perché le segrete liaisons tra padre e figlio si compiono solo se e quando la fatale “predestinazione” dell’uno innesca nell’altro il “libero arbitrio” di una scelta che possa perpetuarne il nome ed il patrimonio spirituale da esso inscindibile.

Una tale personale elucubrazione finale, spero non irrilevante, è comunque frutto delle riflessioni che quasi sempre scaturiscono dalla lettura di un libro intelligente su un uomo intelligente. E l’abbinamento delle due cose è perlomeno raro.

 

Questa mia recensione, datata 13 ottobre 1990, pubblicata su “L’Avanti!”, so per certo – poiché gli fu data brevi manu da una sua cara cugina di Torino che allora, felicemente e con reciproca simpatia, frequentavo – piacque molto all’Avvocato Agnelli. Del suo positivo commento a riguardo (cosa in cui speravo) fui, e non nascondo, moltoflattée.

Non so se questo libro, attento ed esaustivo, sia ancora in circolazione, almeno in Francia o se abbia avuto nuove edizioni. Resta, però, tuttora – e ancor più, anzi – valida a distanza di anni la tesi che informa di sé quelle pagine nonché la mia chiosa sul fondamentale “passaggio di testimone” tra cotanto nonno e cotanto nipote.

Oggi “vicini” nell’amata Villar Perosa, dove l’Avvocato diceva di sentirsi davvero “a casa”ed insieme custodi senza revoca di un retaggio eterno, nel cui nome inscrivere, del proprio destino, l’incipit e l’approdo.

Aggiungo così, idealmente, all’omaggio di questi giorni, per il centenario di Agnelli “Il secolo dell’Avvocato”, al Vittoriano di Roma, curato nei dettagli con affettuosa deferenza da Marcello Sorgi, questa “pagina” che in passato gli dedicai, conoscendo della “staffetta” emotiva ed intellettuale, che talora imposta l’umano destino, gli oneri difficili, aspri, fatali, peraltro inscindibili dai meravigliosi onori che ne sono meritato contrappasso.

Quando l’Avvocato Agnelli chiuse la sua ammirata (e da taluni invidiata) avventura terrena “Libero” titolò: “Il signore degli Agnelli: fine”. Forse carpendo le benevolenze di tante fiction-victims, mi dispiacque non tanto per il defunto quanto per la nostra immagine….

Prevedendo o paventando un triste futuro per l’Italia dove sarebbe salito agli oneri delle cronache qualche semplice “Pecoraro”. E non è un gran traguardo, purtroppo.

* Dice di sé:
Fiammetta Jori. Ripensa volentieri ad una, tra le tante, espressioni felici di Gianni Agnelli. Ad Enzo Biagi rispose così, in un’intervista televisiva: “La mia più grande passione? Mi piace molto il vento, perché non lo si può comprare!”. Noblesse oblige.

GIAMBATTISTA VICOI poeti teologi, siccome posero per princìpi in fisica le sostanzeda essi immaginate divine, così descrissero una a cotal fisica

convenevole cosmografia, ponendo il mondo formato di dèi

del cielo, dell’inferno (che da’ latini si dissero “dii superi” e “dii

inferi”) e di dèi che tra ‘l cielo e la terra si frapponessero (che

dovetter esser appo i latini dapprima i dèi detti “medioxumi”.

(Da “Principi di scienza nuova – Della cosmografia poetica”,

cap. VIII, 1744)

Roberto Sangiorgi Colangelo - Venezia e un Carnevale, lontano, ma non irraggiungibile

Agli inizi degli anni ottanta la città lagunare era meta obbligatoria per chi volesse vivere un’esperienza carnascialesca unica al mondo

Roberto Sangiorgi Colangelo

Se qualcuno, in quella ancor buia e fredda alba di febbraio, si fosse affacciato alla finestra, nei pressi della stazione di Firenze, si sarebbe ritratto intimorito o al contrario, più per curiosità che per benevolenza, si sarebbe soffermato a guardare perplesso quei tre strani personaggi, addobbati in maniera improbabile, che si dirigevano verso i treni. La ragazza, l’unica donna del gruppo, ad un certo punto si voltò di scatto e sibilò furente: “… Roberto!! Ti venisse un bene, se mi pesti ancora una volta lo strascico ti rispedisco da dove sei venuto!”.

Cosa stava succedendo? Per saperlo, dobbiamo fare un passo indietro…

Erano i primi anni ’80, alcune compagnie di attori dilettanti, o più o meno professionisti, di Venezia, avevano riesumato e contribuito a riportare in auge il fiabesco Carnevale della città lagunare, che tanta fama aveva, meritatamente, acquisito nei secoli passati.

Rappresentazioni nei campi, animazioni nelle calli, e rigorosamente, tutti in maschera…

I primi tentativi di questa iniziativa avevano attirato soprattutto l’attenzione della stampa locale, poi, nel giro di pochi anni, sia i giornali sia le televisioni nazionali avevano cominciato a parlare di questo “rinato” carnevale di Venezia, al quale accorrevano e partecipavano, in quei giorni di festa, turisti provenienti non solo da tutta Italia, ma dal mondo intero, contribuendo a creare un vero e proprio fenomeno, che più che mai meritava e merita la definizione di… “costume”.

La cosa non poteva sfuggire a noi tre: Silvia, Andrea ed io; perennemente alle prese con gli esami e le lezioni universitarie, non perdevamo l’occasione per evadere un po’ dalla nostra routine. E Firenze, pur bellissima e ancora vivibile in quegli anni, era, a dire il vero, un po’ sonnacchiosa in quelle settimane di mezzo inverno.

Silvia, quaranta chili di energia ed idee scoppiettanti, non era nuova a certe iniziative. Nel suo paesino di residenza, in provincia di Firenze, assieme ad alcuni amici volenterosi organizzava la sfilata di carri allegorici e coinvolgeva la popolazione locale nell’animazione del carnevale. In facoltà, mi aveva fatto vedere qualche foto: “Beh, sì – commentai io un po’ distaccato – carino, ma queste cose le facevamo anche noi sulle Dolomiti negli anni ’60…”. Lei mi strappò le foto di mano, scuotendo la testa: “Porino, non vorrai mica insegnarmi a come scendere dal letto la mattina, vero?”, rispose con il suo amabile accento e la sua immancabile ironia fiorentina.

“Si, va bene, ma cosa vorresti, che io venissi a Dicomano per vestirmi da Asterix e sfilare su un trattore tra le vecchiette del paese?” le chiesi.

“Quanto sei noioso, quanto sei palloso… – rispose lei – non saresti te se non fossi così… no, io volevo dire che, insomma, potremmo… allargare i nostri orizzonti…”. “Io, nel centro di Firenze vestito da carnevale non mi ci avventuro!”.

Silvia chiuse il libro, che stava inutilmente cercando di studiare, si accese una sigaretta e guardò con aria misteriosa la nuvoletta di fumo che si alzava… “No, Roberto, no, io avrei in mente… come posso dirti… Venezia!”. “Venezia?!”. “Venezia, Venezia!”. Silvia mi lasciò lì seduto, sulla panca degli inconsolati fuoricorso nel corridoio della facoltà, e senza aggiungere altro se ne andò. Nonostante il mio atavico distacco, non potei fare a meno, nei giorni successivi, di rimuginare quanto mi aveva instillato in mente la mia amica del cuore… Venezia e il suo carnevale…
sì, un po’ lontano, ma non irraggiungibile…. E dovevo riconoscere che l’idea non era per niente malvagia, anche se non volevo darle la soddisfazione di accettarla immediatamente.

A convincermi del tutto, fu Andrea, l’altro compagno di studi, già amico d’infanzia e di scorribande estive di Silvia. Andrea aveva uno sviluppato senso artistico, e si dilettava, sin da quegli anni, a disegnare e ideare capi d’abbigliamento che un giorno avrebbe proposto, con successo, ad alcuni noti stilisti fiorentini. Fui del resto io a commentare con lui l’idea, quando lo incontrai a lezione: “Silvia mi avrebbe esposto un progetto…”.
“Non mi meraviglia – commentò lui con un sorriso bonario – Silvia ha sempre un progetto da esporre; di cosa si tratta?”. “Beh, non ho capito veramente bene come e quando… sai, lei si occupa dell’animazione del carnevale a Dicomano …”. “Si, lo so, lo fa ogni anno. Dov’è la novità?”. “Credo che vorrebbe fare una trasferta a Venezia, per il carnevale in laguna…”.

Andrea annuì: “L’idea non è male, manca ancora un po’ più di un mese, ma ci saranno diverse cose da mettere a fuoco…. Troviamoci domani a casa di Silvia, a Dicomano, e ne parleremo insieme!”.

Così, pur con qualche esitazione e incertezza, prendemmo a parlarne, aiutandoci coi principali rotocalchi italiani che cominciavano a trattare del carnevale veneziano in vista per quell’anno, ritrovandoci come cospiratori nel paesino del Mugello, dove abitava Silvia.

Le ore passavano scambiandoci foto di costumi, disegni, schizzi… Le idee, piano piano prendevano forma. “Tu sarai il principe nero… Andrea si vestirà da sceicco, e io… io sarò qualsiasi cosa, purché, più che mai sontuosa e barocca!”, sentenziò Silvia dopo ore e ore di riflessioni.

“Sì, – ribadii io – ma tu saresti capace di cucire e confezionare tutto questo?”.

La mia piccola, vulcanica amica ridacchiò sorniona: “Io no, ma qui… qui ci vuole Marisona!”. Chi era costei? Silvia ci spiegò: Marisona era una donna immensa, e dall’immenso cuore d’oro, che dopo aver lavorato presso una rinomata sartoria fiorentina da uomo, si era ritirata in pensione in quel villaggio alle porte del Mugello. “Mi ha persino confezionato una camicia!” esclamò Silvia per rassicurarci. “Capirai che sforzo… hai le misure 0-12!”, risposi io, smorzando il suo entusiasmo.

Lei non mi rispose, e si rivolse al pacato Andrea: “Naturalmente, tu metterai su carta le mie idee, poi le faremo vedere a Marisona e… io e Roberto andremo a comprare le stoffe e gli accessori”.

Nei giorni seguenti, Andrea cominciò ad elaborare i modelli dei costumi. Non dovevano essere solo dei costumi, ma qualcosa in più: il carnevale di Venezia è bizzarria, fantasia, esagerazione, colpo di teatro; tutto doveva essere all’insegna della festa barocca, quale l’evento lagunare aveva dimostrato di essere.

Ovviamente, i bozzetti dei costumi dovevano essere sottoposti all’occhio esperto e all’approvazione di Marisona, e fu in uno di quei giorni che la conobbi: abitava in una vecchia casa, sopra la canonica del paese, e ci ricevette nella sua stanza da lavoro, riscaldata da una vecchia stufa a legna, che diffondeva nell’aria un piacevole, vecchio profumo di legna di pino bruciata. Era veramente una donna dall’aspetto imponente: la nostra mingherlina
Silvia sembrava ancora più piccola vicino a lei.

Le presentammo i nostri bozzetti, e lei prese a guardarli in silenzio, con occhio attento, ricoperta di frammenti di filo da cucire.

Taceva, avvicinandosi alla finestra per vedere meglio i modelli che Andrea aveva disegnato, rigirando tra le mani i vari fogli e ogni tanto aggrottando la fronte. Silenzio. Poi, finalmente, il responso: “Sì, non c’è male, si può fare qualcosa…”. Ci guardammo negli occhi con soddisfazione, poi Marisona aggiunse: “Ma occhio, ragazzi, dovete darvi da fare… e trovare le stoffe giuste”.

Detto fatto. Cominciava la fase esecutiva dell’impresa: come stabilito, Silvia ed io avremmo passato in rassegna i principali negozi di stoffe di Firenze per trovare ciò che ci serviva; è chiaro che per confezionare dei costumi di carnevale, almeno come quelli che aveva progettato Andrea su ispirazione di Silvia, erano necessarie stoffe un po’ particolari, sete, vecchi broccati, damaschi, rasi… tutto fuori dell’ordinario.

Nelle settimane che seguirono, io e lei eravamo diventati l’ossessione dei commercianti in città. Silvia era esigentissima. Quando io, preso da stanchezza, con pragmatismo tutto maschile, avrei acquistato qualsiasi cosa ci venisse proposta, lei mi tirava un calcio negli stinchi, di nascosto, e con un sorriso smagliante scuoteva la testa, rivolgendosi alla commessa: “No signorina, no… non ci siamo, vorremmo qualcosa di più… di più… come dire? Di più, ecco!”.

Un giorno, alla ricerca di un piccolo scampolo di un particolare tipo di broccato, sembrava che avessimo trovato qualcosa di interessante in un negozio nei pressi del Duomo.

Il commesso, un uomo allampanato dai modi affettati e un po’ supponenti, sulla sessantina, ci guardò dapprima con aria altezzosa, ascoltando le nostre richieste, poi, senza aggiungere altro, si ritirò nel retrobottega, uscendone poco dopo e recando tra le braccia un piccolo rotolo di stoffa ricoperto di polvere, che probabilmente giaceva nel magazzino da quanto Anita Ekberg aveva fatto visita al negozio stesso durante i vivaci anni del suo successo italiano.

Silvia fece per toccare un lembo della stoffa, ma il commesso si ritrasse con aria scandalizzata: “Eh no, signorina, ‘un tocchi, la prego, l’è una stoffa preziosissima… Quanti metri gliene occorrerebbero? Facciamo sett’-otto… è per un abito da sera? Una bella giacca da uomo da passeggio? Una gonna da cocktail?”. La mia amica represse a stento una risata; io mi morsi le labbra. “No, – disse lei un po’ intimidita, cercando soprattutto di non urtare la suscettibilità del commesso – veramente ce ne servirebbe mezzo metro… sa, ehm… per un costume da carnevale…”.

L’uomo impallidì e sgranò gli occhi: “Un costume da carnevale…? Questa stoffa per un costume da carnevale? Ma guardino, che in questo negozio si servì pure Tyrone Power con la Linda!!” – “La Linda chi?” chiese Silvia distruggendo una delle poche certezze dell’uomo. “O signorina, ma lo sanno tutti: la Linda, la mamma di Romina!”, sentenziò lui con sussiego. “A noi ce ne servirebbe solo mezzo metro”, ribadì la mia amica con una punta di sottile sadismo. Ma era la verità.

L’uomo non poté reprimere un moto di stizza: “Suvvia, vadino, ‘un mi faccian perder tempo, …mezzo metro di broccato che io tengo così da conto, e che l’è proprio adatto a fa’ una bella giacchina da omo! Ma guardino un po’…”. Queste erano le nostre incursioni nei negozi della città. Ma piano piano, riuscimmo a procurarci il necessario, che quindi passava sotto l’occhio esperto e vigile di Marisona, la quale, poi cominciava a prendere le misure e a cucire.

Nel giro di due settimane, i costumi furono pronti. Ed erano all’altezza delle nostre aspettative: Marisona sapeva il fatto suo. Non si trattava di costumi ispirati ad una maschera ben precisa o ad un soggetto particolare: era quanto di più bizzarro la nostra fantasia avesse potuto creare, ed era quanto in quegli anni andava veramente per la maggiore al carnevale di Venezia: anche a costo di apparire esagerati, ma dovevano colpire l’immaginazione,
e lasciare il segno.

Il mio era un costume di ispirazione rinascimentale, con giustacuore di raso trapuntato, maniche e pantaloni a sbuffo, di velluto nero, ed un gran mantello a ruota dello stesso colore, illuminato da squarci d’oro. Silvia, invece, avrebbe indossato una gigantesca (per le sue misure) gonna a balze rosse e viola, un abbinamento altrimenti discutibile, con un enorme cappello piumato, vagamente settecentesco, che riprendeva gli stessi colori, ed un manto di tulle che la faceva assomigliare ad una bomboniera con le gambe. Andrea, più “sobriamente” si era riservato il ruolo di un inconsueto sceicco delle Mille e una notte, tutto in viola ed argento.

Decidemmo che saremmo partiti di sabato mattina, con l’espresso delle 6,30 dalla stazione di Firenze; ognuno di noi si alzò, nella sua rispettiva abitazione; io con molta fatica vista la mia ben nota pigrizia, e dopo aver indossato i costumi, con molta cautela, per le loro ardite geometrie, ci trovammo al luogo dell’appuntamento, un caffè nei pressi della stazione. Per Silvia, proveniente, appunto, da un paesino della provincia, la sveglia era stata ancor più anticipata, ma era la più elettrizzata del gruppo. I pochi clienti che a quell’ora sostavano nel bar, e che videro entrare quei tre originali personaggi così stranamente abbigliati, ci fecero posto, scostandosi silenziosamente dal bancone, per lasciarci prendere un salutare caffè.

Pochi collegavano le nostre mise alla giornata di festa che ci avrebbe coinvolto nella città lagunare.

La stessa cosa accadde quando salimmo in treno, occupando coi volumi dei nostri costumi praticamente uno scompartimento intero.

Il tempo non si preannunciava dei migliori. Aveva piovuto tutta la notte, faceva abbastanza freddo, cosa del tutto naturale ai primi di febbraio, ed addirittura sulle prime altezze dell’Appennino, poco dopo l’inizio del viaggio, vedemmo comparire la neve.

Col mio consueto pessimismo, osservai che sarebbe stato più opportuno celebrare il carnevale in un’altra stagione. Silvia scosse la testa: “Se non ti va bene, vattene in Brasile a festeggiare il carnaval… vedrai che bel servizietto ti fanno, quando ti vedono arrivare con codesto costumino…!”.

Il viaggio, in quella prima parte dell’alba, tra un sonnellino e l’altro trascorse piuttosto tranquillamente; quando però cominciammo a sostare alla stazione di Bologna, poi a quella di Ferrara, e poi di Padova, qualcosa prese a cambiare: sino ad allora, in quello scompartimento ferroviario, sopportando le occhiate incuriosite e perplesse degli altri viaggiatori, ci eravamo sentiti quasi degli alieni. Tuttavia, man mano che il treno si avvicinava lentamente alla meta lagunare, gruppetti prima sparuti, poi sempre più numerosi di persone di tutte le età, in abbigliamento carnevalesco, salivano sul treno, caricando l’aria di un’atmosfera di elettrica attesa.

Tutti sembravano obbedire al richiamo magico di un pifferaio, forse sconosciuto, ma al quale non ci si poteva sottrarre. Senza quasi accorgercene, senza quasi renderci conto che noi stessi eravamo parte di tutto ciò, cominciammo a sorridere, e a guardarci con complicità.

Tutto stava diventando naturale, lecito, la realtà stava trasformandosi in una variopinta e vorticosa quinta teatrale. Silvia ci guardò con un sorriso vittorioso: dovevamo ammetterlo, la sua idea stava prendendo corpo in tutto e per tutto.

Il treno imboccò il ponte che collega Mestre a Venezia alle dieci del mattino: all’improvviso, un raggio di sole squarciò il cielo grigio, quasi per darci il benvenuto nella Serenissima. Scendere dal treno, avviarci per le strette e sinuose calli, attraversare ponti in pietra secolari, che sembravano aspettare solo noi, incrociare rappresentazioni di compagnie teatrali ispirate alla commedia dell’arte, ammirare centinaia di altre persone in costume, che come noi tentavano quella inconsueta e divertentissima avventura, fu tutt’uno.

Arrivati in piazza San Marco, il cuore trasecolò: il salotto buono della città era trasformato in un palcoscenico dai mille colori, dalle mille voci, qualcosa di veramente inaspettato e mai visto.

Perché il carnevale di Venezia è difficilmente descrivibile a parole: certo, anche nella nostra regione di provenienza, la Toscana, si vive, per esempio, la tradizione allegra, chiassosa e ridanciana del carnevale di Viareggio, così come quello di tante altre piccole realtà locali; in altre regioni italiane, questo periodo viene celebrato in maniera altrettanto gradevole ed inconsueta. Ma il carnevale sulla laguna ha il potere di sorprendere nel vero senso della parola, di togliere il fiato a chi si lascia trasportare, anche solo per un giorno, o addirittura anche solo per qualche ora, nella festa sfarzosa che vede per protagonisti uomini, donne, anziani, bambini di ogni età e ceto sociale.

C’è chi noleggia un lussuoso costume settecentesco presso qualche prestigiosa sartoria teatrale; c’è chi studia mesi interi, ideandolo addirittura da un anno all’altro, per confezionare il costume più bizzarro, c’è chi, semplicemente, si lascia truccare all’angolo di un campo da qualche ragazza gentile e sorridente che compie questa delicata operazione per guadagnare qualche soldo, c’è chi indossa solo un’antica bautta ricoperta di velluto…. Ma la
città intera sembra esplodere di una compiaciuta follia, quasi una cerimonia, certo un rituale secolare, che la trasforma in una vera e propria scenografia teatrale dai mille volti.

Eravamo incantati e, con stupore ed emozione, incantavamo a nostra volta: i nostri costumi, ideati dalla fantasia, realizzati anche con un pizzico di sana fatica e, a dire il vero, attingendo con entusiasmo ai nostri risparmi, si stavano rivelando un successo: fotografi provenienti da tutto il mondo ci fermavano anche per quarti d’ora interi, chiedendoci di metterci in posa davanti ad una colonna, sotto una statua, accanto ad un pozzo, sui gradini di un ponte… e la secolare città avvolgeva il nostro successo nella luce dorata di una giornata che difficilmente avremmo scordato. In quei momenti, anche le nostre ansie di studenti universitari sembravano lontane.

“Le manteau, agitez le manteau…!”, mi gridò con aria ispirata ed improbabile pronuncia un cineoperatore giapponese. Io lo guardai, e mi rivolsi ad Andrea: “Cosa vuole?”. Lui rispose, prendendomi in giro: “Roberto… meno male che ti devi laureare in francese… Vuole che sventoli il mantello… pensa che onore, questa sera sarai in Tokiovisione!”.

Ricordo che decidemmo di fare una sosta pranzo… in un fast food, sfamandoci con dei gustosi hamburger a base di conservanti e coloranti di ogni specie.

Il carnevale di Venezia è anche questo: in un qualsiasi caffè, in un piccolo supermercato, o al tabacchino, ci si può imbattere in un raffinato gentiluomo della Serenissima con bastone da passeggio e tricorno, in una sontuosa dama misteriosa, o in un vivacissimo Arlecchino che magari sta comprando un pacchetto di sigarette con filtro.

Dopo, ci riavvicinammo a piazza san Marco, per assistere all’arrivo del doge e dei suoi eleganti cortigiani e dignitari, che si avviavano, con sussiego, verso il palazzo ducale; una signora portava a spasso il suo barboncino vestito da pulcinella, mentre un’intera famiglia di puffi si imbarcava su un vaporetto verso il lido.

Stava imbrunendo, le luci della città si accendevano, ma la grandiosa festa non sembrava accennare a diminuire, anzi, dietro ogni angolo, nei campi più nascosti, le sorprese non smettevano mai. Nei pressi di una piccola chiesa, durante il nostro euforico vagare, trovammo una dolce Colombina che si dondolava con maliziosa pigrizia su un’altalena, mentre un ridondante capitan Fracassa le dedicava versi romantici in lingua veneziana.

Da una gondola, silenziosamente, scese un nugolo di paggetti che recavano in mano delle torce, e che andarono ad accoccolarsi ai piedi di una principessa orientale.

Dagli altoparlanti presenti un po’ ovunque, musica classica e moderna di ogni genere invitava alle danze chiunque avesse ancora energia da spendere in quel vortice di allegria e spensieratezza.

Noi, emozionati, sempre vicini uno all’altro quasi per un sottile timore di rimanere ammaliati tra le pagine di quella viva leggenda, ci guardavamo negli occhi, e ridevamo silenziosamente: stavamo vivendo un sogno, e ne eravamo felici come solo a vent’anni si sa essere.

Ma era arrivata anche l’ora di riprendere la strada della stazione; erano quasi le 9:00 di sera, e il nostro treno per Firenze ci aspettava, immobile, lungo il binario. Prendendo posto in uno scompartimento buio, nella stanchezza e nell’ebbrezza che provavamo per quella giornata così speciale, ci abbandonammo sui sedili, con indosso ancora i nostri costumi, un po’ stazzonati, un po’ sgualciti, il trucco che cominciava a sbavare dai nostri occhi, qualche perlina che dondolava da un filo, un coriandolo che si perdeva tra le pieghe del mantello.

“Peccato, proprio ora che viene il bello…” commentò estasiata Silvia, guardando fuori dal finestrino del treno che lentamente si avviava. Andrea si tolse le babbucce sotto misura del suo costume da sceicco, e si massaggiò le estremità: “Ragazzi, non so voi, ma la prossima volta, se torniamo, mi vestirò da mal di piedi…!”.

Il resto del viaggio, tra un sonnellino e l’altro, trascorse come in sogno; ogni tanto ci guardavamo, stanchi, quasi increduli per la giornata trascorsa, commentando quanto avevamo visto in tutte quelle ore: la magia della Serenissima, la folla, i costumi più indescrivibili…. Chi non è mai stato, almeno per una volta, al carnevale di Venezia può solo lontanamente immaginare di che cosa si tratti.

Arrivammo all’una alla stazione di Firenze, e ci salutammo davanti all’ingresso centrale, rincuorati anche dal fatto che il giorno dopo era domenica, ed avremmo potuto riposarci.

Mi ero già avviato di qualche passo per raggiungere la fermata dell’autobus, quando mi sentii chiamare dalla voce squillante di Silvia; mi girai: nell’oscurità della notte, con quel buffo costume dal lungo strascico che ancora indossava, e che innumerevoli volte, goffamente, avevo pestato, sembrava quasi una bambina. “Che c’è?”, domandai reprimendo uno sbadiglio. “Ehi, ragazzi… ma l’anno prossimo come ci si maschera?”.

Queste pagine sono dedicate al ricordo di Silvia C. M. (1962-2006) e di Andrea G. (1962-2007).

PABLO NERUDAA che servono i versi se non per quella nottein cui un pugnale amaro ci fruga,

per quel giorno, per quel crepuscolo,

per quell’angolo rotto

dove il cuore colpito dell’uomo si dispone a morire?

(Da “Ode a Federico Garcia Lorca”, 1935)

EUGENIO MONTALE

Ma ora per concludere debbo una risposta alla domanda

che ha dato un titolo a questo breve discorso.

Nella attuale civiltà consumistica che vede affacciarsi alla storia

nuove nazioni e nuovi linguaggi, nella civiltà dell’uomo robot,

quale può essere la sorte della poesia? Le risposte potrebbero

essere molte. La poesia è l’arte tecnicamente alla portata di

tutti: basta un foglio di carta e una matita e il gioco è fatto.

(Inutile dunque chiedersi quale sarà il destino delle arti.

È come chiedersi se l’uomo di domani, di un domani magari

lontanissimo, potrà risolvere le tragiche contraddizioni in cui

si dibatte fin dal primo giorno della Creazione.

(Da “È ancora possibile la poesia”,

discorso per il Premio Nobel ricevuto nel 1975)

 

PROVOCAZIONI Dario Bellezza - La tv acceca i bambini

La lotta contro gli idoli del nostro tempo passa attraverso lsmitizzazione di una falsa idea di progresso che impesta un po’ tutti: soprattutto i politici che tendono a servirsene per abbindolare elettori ingenui

Dario Bellezza

L’articolo che segue è tratto dal settimanale “Contro”, del 1979,
diretto da Cesare Lanza. A firma di Dario Bellezza,
sembra profetizzare l’avvento di quel senso di vuoto che si insinuerà
– ed oggi purtroppo ne abbiamo la certezza – nelle pieghe
più profonde del nostro Paese. (a.p.)

Che l’Italia sia ormai un paese completamente invivibile, atroce e irreale, rovinato dal consumismo, dalla degradazione ecologica, dalla perdita dei valori tradizionali, da un femminismo malinteso che semina solo odio fra i sessi e istupidisce molte donne (bastava guardare in una laida trasmissione dedicata alle donne, sul Primo Canale, una certa, odiosa, Manuela Fraire atteggiarsi a diva, scuotendo come una piccola attricetta in cerca di pubblicità i capelli, recitando la parte di un copione fisso e molto “femminile”: la femminista “intelligente” che plagia e fa proseliti grazie agli aberranti slogan che snocciola, servendosi appunto cinicamente di quell’osceno persuasore occulto che è la
TV), che l’Italia appunto sia allo stremo, alla rovina, e presto sapremo di che lacrime grondi e di che sangue il nostro povero futuro, questo lo dicono in molti, lo urlano in molti e tanti lo dicono anche male, pensando (Testori, Giorgio Bocca e Cernetti) piuttosto alla salvezza loro individuale che alla salvezza collettiva.

Ignorano che la salvezza individuale passa attraverso la salvezza collettiva. E che oggi non c’è più niente da fare: a mali estremi, estremi rimedi, come fa Khomeini. E intanto come prima mossa di un potere che tenga alla salute mentale dei suoi assistiti (perché ormai siamo un popolo di assistiti) il potere appunto dovrebbe se proprio non può abolire le due televisioni di Stato, almeno abolire tutte le altre televisioni (più di duecento) che proliferano ormai ovunque, e che hanno reso la gioventù, i bambini italiani che erano così allegri e vitali, afasici, aggressivi, cretini e passivi, pronti a passare dalla droga televisiva a quella reale: l’eroina.

Perché la TV, quando ne siano stati studiati tutti gli effetti deleteri, denunciato tutto il danno psichico, bisogna dire che rende ciechi (che poi è la verità), rende ciechi quei bambini che la seguono per dieci ore di fila, fra brutti film e orrende parate di stupidi personaggi, gente che per intrattenere il pubblico pensa che debba sempre essere più scimunito e imbecille di quello che è.

Questi bambini, dicevo, alla fine sono smunti e incapaci non dico solo di vivere, ma anche solo di parlare per chiedere, come il ragazzo, negli “Spettri” di Ibsen: “Mamma, dammi il sole!”. La verità è ormai che il Bel Paese, il paese del Sole è diventato un castello in rovina, dove falchi e sciacalli si aggirano famelici, in vedetta, per rubare quel po’ di felicità naturale che nativamente un italiano si porta con sé da qualche altro mondo da cui proviene: forse dalle braccia antiche della vecchia e grande Madre Mediterranea.

La lotta contro gli idoli del nostro tempo passa proprio attraverso la smitizzazione della falsa idea di progresso che impesta un po’ tutti, e soprattutto i politici che tendono a servirsene per abbindolare elettori ingenui che credono sia arrivata la felicità con un frigorifero in più, o con l’emancipazione della figlia che ormai non si sposa, ma si cerca solamente un “compagno”.

E se arrivasse Khomeini, una metafora intendo di Khomeini, che ci riporti tutti al velo nero? Vergogna!? Ma se la TV non si può proprio abolire, allora dovrebbe essere veramente messa al servizio dell’ideologia dominante, mi si dice, questo sì, e allora, abolite tutte le stolte frivolezze e smancerie pornografiche di cui è piena fino alla nausea (la liberazione sessuale non è legata alla pornografia; solo dei cervelli deboli possono pensarlo, e il laicismo non vuole tette e seni nudi, non sa che farsene) potrebbe completamente dedicarsi alla pedagogia, al contrario di quello che fa oggi: dedicarsi alla pedagogia significa incrementare una campagna ecologica che porti per riflesso condizionato l’italiano divoratore di immagini televisive a rispettare la Natura, la nostra grande madre. Ma gli italiani odiano la Natura e presto il nostro paese così decantato dagli stranieri nel passato sarà un deserto.

Mi chiedo sempre che uso possano fare i politici degli articoli scritti dai poeti e dagli intellettuali in genere: ogni volta che si protesta ne viene subito dopo un senso di scoramento, di frustrazione perché tutto resta come prima, immobile e intangibile ad una qualsiasi possibilità di mutamento.

Ma certo posso giustificare i politici quando si trovano gli articoli su “La Repubblica” di Arbasino: frivoli e decadenti, non fanno che occuparsi delle gambe di qualche ballerino di qualche teatro di Londra o New York, ignorando, sempre, i problemi reali di cui uno scrittore che si rispetti dovrebbe farsi promotore e vero politico, in un linguaggio piano e comunicativo per non continuare a “tradire”. E oggi anche il silenzio è tradimento, oggi bisogna intervenire, non è più possibile stare zitti: l’umanità sta avvicinandosi alla catastrofe, e non faccio certo la Cassandra o imito Carlo Cassola.

Però, appunto, anche il protestare, l’essere contro, può essere ozioso: elevare ancora una protesta per lo scempio che in Italia si viene facendo delle risorse naturali, la distruzione sistematica di boschi e natura, l’inquinamento progressivo dell’aria e delle acque, sembra puro fiato sprecato. Uno si chiede quando finirà tanto orrore, quando l’uomo finirà di concepire, in una laida mania autodistruttiva un disegno arcano e osceno: quello di rendere appunto il pianeta e l’Italia, in particolare, inabitabile.

I problemi oggi sul tappeto sono questi: non dico di accantonare la lotta e le riforme, o l’eliminazione dello sfruttamento, ma di occuparci, anche e soprattutto, di salvare il salvabile. Oggi quello che c’è da fare, di più prezioso, è sensibilizzare l’opinione della gente, di far capire che tagliare un albero, una quercia secolare, un pino è un atto criminale quanto uccidere un uomo. Né più né meno.


QUINTO ORAZIO FLACCO
La poesia è come la pittura, cioè come avviene per i quadri,ci sono poesie che ti piacciono di più se le guardi da vicino,altre che vanno guardate più da lontano.(Da “Ars poetica”, vv. 361, 17 a.C.)
Barbara Alberti - Fuori dell’eresia non c’è santità

A 28 anni dalla prima uscita per l’editore Mondadori, Castelvecchi ha pubblicato il romanzo rivoluzionario “Vangelo secondo Maria”

Barbara Alberti*

Quando ero bambina, nella selvaggia Umbria dominata dai parroci, tutto era peccato. Alla prima birbonata infantile mi dicevano “Hai fatto piangere la Madonna!”. Io invece avrei voluto farla sorridere. Mi era specialmente cara un’Addolorata campestre con le sette spade nel cuore che nessuno le avrebbe mai tolto. Più tardi, ho fatto qualcosa per Maria: le ho dedicato un poema della disobbedienza, l’ho resa lieta e sapiente. Ho scritto questo libro per far sorridere la Madonna. Ho tentato di riempire con un’ipotesi il grande vuoto del Vangelo per quanto riguarda Maria, unico personaggio maldipinto di un affresco in cui tutti, da Giuda a Pietro, sono ritratti formidabili. Solo lei è una figurina di comodo, messa lì solo per dire sì – un’intimidazione al genere femminile, nata per obbedire soffrire e tacere.

Questa Maria dice no, e Gesù non nasce.

Nel cupo villaggio di Nazarteh, ad una fanciulla tutto è proibito, a cominciare dalla scrittura. Maria ha 14 anni, e un sogno: scappare su un asino vestita da ragazzo, scoprire il mondo, andare lontano. Il Sabato alla sinagoga ascolta le storie della Bibbia, e si è montata la testa come Don Chisciotte coi romanzi d’avventura. La Bibbia è il suo cinema, Sansone e Giobbe i suoi eroi. L’uno che uccide mille nemici con una mascella d’asino – l’altro, che tiene testa a Dio.

Le figlie d’Israele si preparano alle nozze, e tessono per la casa dello sposo. Io spero che ciò le renda liete. Quanto a me, voglio tessere piuttosto la mia sorte. Le figlie d’Israele vanno a testa bassa. Io guardo negli occhi le creature di Dio, perché il mondo è nello sguardo degli uomini, e voglio vederlo (2).

Maria è curiosa, vivace, ribelle. Pensa, corre, parla, ride. Ha una coscienza. Gioacchino e Anna cercano di sottometterla a suon di legnate, ma il suo desiderio di indipendenza è sempre più vivo. Di notte scappa dal tetto dove dorme coi genitori, per nuotare al fiume sotto le stelle, lanciarsi in corsa con gli animali. È fuori di casa che impara le leggi della natura. Per queste stravaganze nessuno l’ha chiesta in sposa, e lei ne è contenta: invece di un marito sogna un maestro, che le insegni i nomi delle cose. Eliashib, il figlio del sacerdote, la ama in silenzio. Ma lei non si preoccupa, fidandosi della differenza di rango: Eliashib non oserà mai fare un matrimonio sconveniente. E invece quel ragazzo ricco, meravigliando tutti, chiede in moglie lei, poverissima.

Maria vuole rifiutare, ma suo padre la picchia duramente. Dovrà obbedire, come conviene a una donna. Per sfuggire alla frusta Maria scappa nel bosco, e lì conosce finalmente il maestro tanto desiderato: un vecchio sapiente che si impegna ad istruirla, preparandola alla fuga. Ma una volta ricaduta nelle mani del padre, si ritrova prigioniera in casa. Gioacchino l’ha venduta al primo che ha incontrato, per venti pecore.

Maria è in trappola: solo ora si accorge che non ha nemmeno chiesto il nome all’amico del bosco, né gli ha detto il suo. Eppure, spera ugualmente che venga a liberarla dal marito sconosciuto. Ma resta delusa, nessuno si presenta.

Il giorno delle nozze Maria si strappa le vesti, piange, prega invano le donne di lasciarla andare. Quando le grida di festa annunciano l’arrivo dello sposo, si lancia contro la porta a testa bassa, va a sbattere sul petto di quel marito che immagina più rozzo di suo padre: e si trova davanti l’amico del bosco. Si chiama Giuseppe, è lui lo sposo. All’insaputa di tutti, Maria e Giuseppe fanno un patto segreto: un patto durissimo, per un uomo innamorato. Il matrimonio sarà casto. Giuseppe non sarà un marito, ma un maestro. E quando non avrà più nulla da insegnarle, aiuterà Maria a partire per Alessandria, la città del sapere.

Comincia per Maria il tempo meraviglioso dell’apprendimento. Giuseppe non è marito, ma ospite liberale. La mia vita è un fresco giardino. Giuseppe le insegna la scrittura, la musica, la medicina, le lingue e gli usi d’altri paesi, a difendersi in viaggio. La istruisce per la grande avventura.

La castità fra loro è rigorosa. Sul filo della tentazione, Maria impara con ardore. Un erotismo delicato aggiunge tensione ad ogni gesto.

Siamo entrambi scrupolosi nell’osservare la castità. I nostri giacigli sono separati, e separati teniamo i corpi durante le abluzioni. Al fiume ci bagniamo nudi, per onorare la natura – ma su sponde opposte. Se la stessa acqua ci toccasse, l’assolutezza del patto ne verrebbe contaminata. Bagnati di rugiada corriamo pei nuvolosi prati (la nostra castità è lieta, un mattutino esercizio della mente).

Io credo che prima d’affrontare il mondo, ogni fanciulla dovrebbe vivere per qualche tempo con un vecchio gigante; che la porti fra le braccia e rispetti il suo sonno, e le insegni le virtù delle piante, la lingua greca e il principio della meridiana. L’altro ieri Giuseppe bevve per errore dalla mia ciotola, e me ne domandò scusa. Arrossii di piacere ch’egli rispondesse con tanto rigore al mio desiderio di non mescolare i corpi. Non sono ignara: fin da bambina so, che ciò che accade fra l’uomo e la donna è semplice. L’ho sempre visto fra mio padre e mia madre, sul tetto, nelle notti d’estate. Ma come potrei accogliere il corpo dell’uomo, così incerta del mondo? Egli mi riempirebbe tutta di sé, prima che io potessi riflettere.

Giuseppe ha compreso il motivo più segreto della mia castità: essere inviolabile.

E quindi trasformabile in un astro, un liocorno, una piccola dèa (non toccata mai, intatta: tutto è ancora possibile). La mia castità è una tentazione di immortalità.

Il loro amore cresce ogni giorno, travestendosi in mille forme, mai confessato. Non mancano i bisticci, le gelosie, come fra sposi. Quale pegno di libertà Giuseppe le regala un asino, l’asino che un giorno la porterà via. Ma ormai tutti e due credono sempre meno che Maria se ne andrà davvero. Si amano in silenzio.

Finché l’amore diventa passione, il desiderio di consumare il matrimonio è irresistibile. Maria comincia a pensare che l’amore contenga in sé ogni sapienza, e che un figlio di Giuseppe varrebbe per lei più di qualsiasi fuga. Una sera decidono di diventare davvero marito e moglie. Giuseppe, felice, si reca al fiume per le abluzioni nuziali, Maria lo aspetta col batticuore.

Ed ecco la porticina scricchiola – odore di gigli. Maria socchiude gli occhi aspettando la prima carezza. Ma li riapre, sbarrati dall’orrore: non è Giuseppe – è qualcuno di cui scorge solo l’ombra terrificante – un uomo col mantello, e in mano un’accetta pronta a colpire. Maria riesce a sfuggirgli, corre, corre… Quando trafelata si ferma, vede al centro del prato colui che l’ha spaventata: non è un aggressore, ma l’angelo dell’annunciazione dalle belle ali, col giglio in mano, la cui ombra sembrava un’arma. E le annunzia che diverrà madre del figlio di Dio. Una pioggia d’oro scende dall’alto: Maria è fecondata.

Giuseppe torna dal fiume ornato di fiori, e non trova più la ragazzina desiderosa di correre fra le sue braccia: Maria non sente più amore. Il potere le ha dato alla testa, e pretende di trattare come un servo quello che fu il suo maestro. Oltre alla passione e al sentimento, ha dimenticato di colpo il sapere e l’avventura: corre a pavoneggiarsi dalle amiche, quelle che prima si vantavano del fidanzato. La piccola ribelle è ora una vanitosa che vuol far sapere a tutti d’essere la benedetta fra le donne. Finché un dubbio non sciupa la sua felicità:

Ma perché proprio io, che sono sempre stata la più disobbediente?

Non ha finito di domandarselo che sente un sibilo alla sue spalle: è l’angelo, un adolescente come lei, antipaticissimo, un principe dei cieli seccato di avere a che fare con una contadina. Le legge nel pensiero, e le consiglia di non affannarsi a capire: non serve.

Sei robusta e coraggiosa: questo ci basta.

L’angelo le toglie l’ultima illusione di libertà, rivelandole che tutti i gesti dell’uomo appartengono a Dio, dal primo all’ultimo. Maria si sente truffata. Dunque il libero arbitrio non esiste? Che nasce a fare l’uomo, se è uno schiavo? Vorrebbe opporre il suo piccolo disegno a quello immenso di Dio. E lo provoca in mille modi per costringerlo a manifestarsi, e ragionare insieme. Ma Dio non risponde, e l’angelo le ordina una volta per tutte di rassegnarsi al suo destino.

Maria allora sale su un’altura, perché Dio la senta. Da lassù con un imbuto di foglie lo sfida a darle una risposta.

Signore, Dio degli eserciti, soffermati a parlare con una ragazza di Galilea dalla parlata stretta. Da tempo ti chiedo una risposta ma tu, distratto dai tuoi uffici, non mi hai dato ascolto. Si tratta di una cosa molto importante.

Tu dirai: e qual è questa cosa?

La mia vita.

La tua vita, dici, aggrottando le sopracciglia di lupo, la tua vita? – e i tuoi denti scintillano – Cosa conta, stupida, la tua vita?

La mia vita, per me, è tutto: anzi non è più niente senza l’esercizio dell’intelletto, di cui mi vai privando. Allora chi pregavo, io, da bambina? Quando guardavo il cielo e dicevo:

Dio, fa’che io viva

Dio, fa’che io sappia.

Tra gli angeli sapienti tu forse hai riso di me, allora. E ridi di me adesso.

Ma io non rido. E spero che la mia serietà di fanciulla t’induca a rinsavire, vecchio scomposto. Tu credi, che Iddio solo conti.

Maria invece crede che divina è la somma dei giorni operosi dopo i giorni, e l’umile scoperta.

La mia parola va limpida nei cieli, accompagnata da voli di rapaci.

Tutta la milizia celeste è lì, pronta, angeli soriani soffiano dall’alto.

Tutti i capelli dritti ha Maria, e sbatte i denti e spera di non morire di paura, prima d’aver finito.

E parla al dio invisibile, come se lo vedesse.

Ho da dirti più d’una cosa, Jahvè. Tu hai fermato la mia vita e io vengo a chiedertela indietro. Rivoglio la mia incertezza, rivoglio il mio faticoso cammino di ragazza. Il bimbo mi pesa nel ventre come un sasso, e non è tutto: tu vuoi per mezzo mio perdonare il peccato dell’origine, ovvero, confermarlo. A me serenamente pare, che quando Eva rifiutò la tua protezione che impediva il sapere, fu saggia. E vuoi, che io tradisca la sua lezione?

Io, Dio, come forse hai capito non considero la conoscenza un peccato, ma un dovere dell’uomo. E se davvero sei pentito per averci scacciati, perché non distribuisci piuttosto la sapienza? Mi parrebbe soluzione più ingegnosa dell’altra, che ci umilia. Se elimini la colpa va senza dirlo, Jah: un redentore è superfluo.

Ecco, Dio. Ti ho esposto i miei argomenti. Aspetto i tuoi.

Ma Dio non risponde. Dio non parlerà, Dio è silenzio.

Dio, tuo figlia Maria sta male. Dio, aiuto. A te nulla è impossibile. Come mi hai dato questo Dio, riprendilo. Io, non lo voglio. (Non spero certo che mi esaudisca: ma che si offenda e sia costretto a uccidermi, guastando finalmente il suo disegno- e io, troverei pace). Ma nella notte palpita un Dio assente.

Ma quando sembra vinta del tutto, Maria si ricorda degli insegnamenti medici di Giuseppe.

Al lume di luna preparai la mistura condannata dalla legge di Dio, e dalla mia. Il grumo del divino uscì dal mio corpo. Il tuo disegno è rovinato, o Nome.

Poi slega l’asino, indossa un abito di Giuseppe e fugge dal villaggio. Giuseppe dorme, Maria non lo sveglia, per non turbarlo: pensa che non capirebbe. Ma per la strada si accorge che l’asino è bardato per il viaggio, e capisce che è stato Giuseppe. E ha fatto finta di dormire per non turbare, lui, la sua fuga.

Maria va ad Alessandria sotto le rilucenti stelle, ad Alessandria con tutto il cielo contro. In groppa a un asino, vestita da ragazzo, Maria oltrepassa la collina lasciando indietro la sua gente che dorme.

Reazioni della Chiesa dopo la prima pubblicazione

Non posso vantare grandi persecuzioni. Alcune critiche stizzose, ma solo dei remoti giornalini di provincia ebbero l’ingenuità di farmele. Ricordo un articolo che si intitolava “La scimmia della letteratura italiana”. La scimmia ero io, con riferimento biblico alla scimmia come simbolo dell’Anticristo. Il Vaticano era ed è troppo astuto per rispondere direttamente alla mia Maria. È stato nei secoli il grande maestro della comunicazione, da molto prima che esistessero i giornali e la televisione. In stile impeccabilmente ecclesiale dispensarono un ammonimento occulto. La radio vaticana trasmise un’intervista alla Madonna (un’attrice rispondeva alle domande), poi pubblicata sull’Osservatore Romano con grande rilievo – dove Maria si diceva soddisfatta della sua “carriera” in una chiave materialistica piuttosto empia, e non solo a mio modo di vedere: i Radicali criticarono l’intervista, e Adele Faccio disse:

“Ma lo avete letto il libro dell’Alberti? Lì sì che la Madonna è viva, esiste, parla liberamente… ho più rispetto per la Madonna io che sono atea, di quelli che la trattano come una proprietà privata!”.

La Madonna è di tutti, anche degli ex-cattolici tormentati come me, che restano legati ai miti cristiani, e sanno che il fondamentalismo si combatte con le idee. E le idee sono sempre eretiche. Sergio Quinzio, un grande commentatore della Bibbia, aveva intanto scritto una critica entusiastica del “Vangelo secondo Maria”, ma i giornali cattolici si rifiutarono di pubblicare il pezzo, e dovette rivolgersi al Giornale, mentre avrebbe preferito una testata religiosa.

Il “Vangelo secondo Maria”, è un’allegoria, una favola – ma anche la negazione della storia, che ci nega. Soprattutto non ho demitizzato, anzi ho mitizzato, opponendo un mito ad un altro.

Cosa è stato per me questo libro

Un viaggio nella freschezza di un’adolescenza, ma anche la scoperta di una diversa, ereticale misura di religiosità (Guido Davico Bonino su “Tuttolibri”), simile a quella che suggeriscono i versi di William Blake “E allora gli uomini dimenticarono/ che ogni deità dimora nel cuore dell’uomo”.

Ma soprattutto un viaggio nella Bibbia, che ho scoperto da grande perché dalla Riforma in poi, la Chiesa la guarda con sospetto. È ben conosciuta solo nei paesi protestanti, e non era compresa nella mia educazione bigotta: ci parlavano solo del Nuovo Testamento, depurato dal suo significato rivoluzionario. L’Antico Testamento nella sua varietà e altezza profetica può essere inteso come un grande poema che inciti alla rivolta, e così lo intenderà Maria, che si misurerà con Dio, come Isaia.

Sono grata all’editore Castelvecchi per aver voluto ripubblicare questa favola sovversiva, e per avere inteso subito che non si trattava di un teorema, ma di un atto poetico ad esaltazione della libera scelta. La donna mi interessa solo se lo è fino in fondo, ovvero solo se crea. Il contrario di repressione è espressione, e una Maria reinventata ideologicamente, alla femminista, sarebbe stata inerte come nei Vangeli canonici.

E soprattutto non ho voluto fare del razionalismo: la vera ragione comprende in sé ogni immaginazione. Come ogni libro, anche questo è un’autobiografia. La Maria oppressa da mille proibizioni nella chiusa Nazareth, sono io adolescente nella chiusa Umbria.

Maria nega il peccato originale, perciò rifiuta un Redentore. E ciò da essere pensante, a prescindere dal sesso. Ma la sua rivolta è possibile solo perché, come donna, ha in sé il potere della nascita. Se la Chiesa ci ha rinchiuse, umiliate, bruciate, tenute nell’ignoranza, è perché di questa terribile libertà aveva paura. A ragione.

Ho scritto il Vangelo alla fine degli anni ’70, rivolto a donne che (si credeva) stavano prendendo in mano la loro vita. Ora a donne che la stanno perdendo. Nella moltiplicazione dei compiti, la libertà è ridiventata schiavitù, siamo sempre più lontane dalla creazione del quotidiano. Coi maschi abbiamo raggiunto la parità nella volgarità, condividiamo una catastrofe spirituale. Non ci distinguiamo da loro nell’accettazione di un modello di vita inumano. Di nuovo complici, e vittime. Ogni due giorni viene assassinata una donna: dal marito, dal padre, dall’amante.

La Chiesa è più che mai secolare e accanita nel potere. Dalle alte gerarchie non si sente una parola autentica. Solo vuoti sermoni sull’amore, che trasmettono il gelo. La persecuzione contro la donna si è estesa agli omosessuali. E oggi più che mai mi sembra bello raccontare di una ragazza che rovescia la Storia con un paradosso. E ci spinge alla rivolta, al sogno, all’impossibile – seduti sulla fine del mondo come se fosse l’inizio, rivendicando l’esercizio del libero arbitrio, provando e suscitando passione. Il mondo non finirà mai, perché le donne lo raccontano. Osare, testimoniare, resistere.

Fuori dell’eresia non c’è santità.

(2) Le parti in corsivo sono tutte tratte dal romanzo “Vangelo secondo Maria”, di Barbara Alberti, e pubblicate per gentile concessione di Castelvecchi Editore.

* Dice di sé:
Barbara Alberti. Nata in Umbria, fra angeli e diavoli. È grata alla pessima educazione cattolica, cui deve la sua ispirazione. Alcuni titoli: i romanzi “Delirio”, “Donna di piacere”, “Buonanotte Angelo”, “Povera bambina”, (Mondadori), “Memorie malvagie”, “Dispetti divini”, “Gelosa di Majakovskij”, (Marsilio), “Gianna Nannini da Siena, biografie comparate della cantante e di Santa Caterina” (Mondadori), “Il promesso sposo, biografia di Vittorio Sgarbi”, Sonzogno, “Il principe volante, biografia di Antoine de Saint Exupéry” (Playground), i saggi “Parliamo d’amore” (Mondadori), “Vocabolario dell’amore” (Rizzoli). Sceneggiatrice di cinema, il suo primo film è stato “Portiere di notte” di Liliana Cavani, l’ultimo “Melissa P” di Luca Guadagnino. Dal 1984 tiene una rubrica di posta del cuore, prima su Amica, poi su “A”. È in uscita con “Letture da treno” (Nottetempo edizioni), libera interpretazione di alcuni classici della letteratura. È madre, nonna, e casalinga. Nella mano destra porta i segni delle sue attività: il callo della penna e quello della scopa.

IZET SARAJLIPerché i critici di poesia

non scrivono poesia

giacché sanno tutto della poesia?

Sapessero, forse preferirebbero scrivere poesia che di poesia.

I critici di poesia sono come i vecchi.

Anch’essi sanno tutto dell’amore.

Quello che non sanno è fare l’amore.

(Da “Qualcuno ha suonato”, 1982)

LETTURE Francesco Alberoni - Lezioni d’amore

Nel libro “Lezioni d’amore”, edito da Rizzoli, il prof. Francesco Alberoni risponde alle duecento domande più frequenti relative ad amore, sesso e passione e alle loro implicazioni. L’obiettivo? Fornire uno strumento concreto per vivere al meglio un sentimento complesso e complicato. Di seguito dieci domande scelte dalla redazione

Francesco Alberoni

Quante volte possiamo innamorarci nella vita?

“Pochissime volte, solo quando affrontiamo dei grandi cambiamenti. Ma, voi mi direte, c’è gente che afferma di innamorarsi in continuazione, anche ogni quindici giorni. No, no, questi non sono innamoramenti, sono attrazioni improvvise, fascinazioni, infatuazioni, cotte, tutti fenomeni di breve durata che esamineremo in seguito. L’innamoramento è una vera e propria rivoluzione, un cambiamento radicale e, quindi, raro”.

Possiamo amare, voler bene, a due persone contemporaneamente?

“Possiamo essere innamorati di una persona e continuare a volere molto bene a quella con cui vivevamo prima, soprattutto se abbiamo vissuto assieme per molto tempo. E potremmo anche restarle accanto, prendercene cura. Ma di solito è impossibile perché lei non accetta il nostro nuovo amore, non sopporta di dividerci con altri. Nella coppia, anche se la passione è finita da un pezzo, ciascuno continua a pretendere l’esclusiva.

Nei paesi in cui esiste la poligamia, la donna si sposa sapendo già che arriverà una nuova moglie e, anche se non è contenta, non si ribella. Ma da noi la coppia si forma sulla base dell’esclusività e quindi, se uno si innamora di un altro, di solito, la vecchia relazione finisce con un divorzio”.

Che differenza c’è tra amore e amicizia?

“L’amicizia è fondata sulla fiducia e si costruisce poco a poco, con l’esperienza. L’amore invece nasce da un’attrazione misteriosa. L’amicizia è sicurezza, l’amore è rischio. Non puoi restare amico di uno che non ti è amico, mentre ti puoi innamorare di qualcuno che non ti corrisponde. Quando incontriamo un amico, anche dopo anni, è come se lo avessimo lasciato un momento prima; riprendiamo la conversazione come se fosse un dialogo ininterrotto. Poi siamo lieti se lui ci racconta cosa gli è successo, ma non ne sentiamo la necessità assoluta. Invece del nostro innamorato vogliamo sapere tutto ciò che ha vissuto, tutto ciò che ha fatto nel periodo in cui era lontano. Il tempo dell’amicizia è granulare, mentre il tempo dell’innamoramento è denso, continuo. L’innamorato vuol essere con l’altro ogni istante, e per sempre”.

Come ti accorgi che non è solo sesso, ma amore?

“Perché, ad un certo punto, provi un sentimento che prima non sapevi nemmeno cosa fosse: l’esclusività, il terrore panico di perdere l’amato. L’amore è sempre possessivo, è sempre geloso. Dice: “Quest’uomo è mio, questa donna è mia, e non posso sostituirli con nessun altro!”. Sei stata prima con l’uno e poi con l’altro per provare, per vedere cosa succede. Ma se era vero amore, per quanto tu abbia incominciato in modo superficiale, per gioco, se ora scopri che lui va a letto con un’altra, ti senti annientata. Quel sesso che prima ti sembrava così facile, così leggero, ora ti appare una catastrofe e lui ha un bel dirti che non era importante, perché se ami, non puoi accettare che lui scelga, volontariamente, il piacere sessuale con un’altra, invece che con te. Quel tradimento ti rode, ti avvelena”.

Bravi amanti si nasce o si diventa?

“Si diventa. Per prima cosa è importante amare. Ma non basta l’amore, occorre anche un sapere, che sia acquista grazie alla curiosità, alla consapevolezza che il corpo di ogni donna è diverso da quello di un’altra. Un uomo perciò diventa una bravo amante se vuol dare piacere alla sua donna, l’ascolta e interpreta i suoi desideri pronto a proseguire se capisce, e a ritirarsi se sbaglia. Ma fa grandissimi progressi se ha la fortuna di incontrare una donna che rinuncia alle sue inibizioni e gli parla e gli spiega come amarla nel modo giusto. Molti uomini non hanno idea di quanto sia complesso il corpo femminile, e molte donne non sanno comunicarlo al loro uomo, usando le parole. Anche le donne conoscono poco l’erotismo maschile, che è ad un tempo rozzo e fragilissimo e deve essere educato, diretto. Di sicuro non aiutano né il cinema né la pornografia, dove si vedono donne e uomini che appaiono appagati e felici anche se si sono appena conosciuti”.

È vero che la donna, quasi sempre, riesce a conquistare l’uomo di cui è innamorata?

“Se non sempre, spesso. Non dimentichiamo che la donna, già quando è adolescente, sa adorare il suo divo da lontano anche senza la speranza di essere ricambiata. E quando le piace un uomo è capace di amarlo a lungo, anche molti anni, e aspettare il momento in cui lui finalmente si accorge di lei e si innamora a sua volta. In questo periodo sa anche essergli fedele, o per disinteresse verso gli altri o per timore di perderlo. Un comportamento del genere ha grande effetto sull’uomo. Perciò possiamo dire che se una donna ama veramente un uomo, se lo vuole veramente, quasi sempre riuscirà ad averlo”.

Le donne hanno una sensibilità maggiore degli uomini?

“Si. Non c’è il minimo dubbio. Le femmine hanno una sensibilità della pelle, del corpo, una percezione degli odori, un’intuizione delle emozioni maggiore dei maschi. I maschi sono eccitati dalle forme, ma in realtà non sanno vedere la donna nella sua interezza, nella sua complessità. Spesso non vedono chiaramente nemmeno il corpo femminile. Le donne scoprono subito i difetti del corpo di un’altra donna. Gli uomini no. Inoltre le donne sono molto più selettive e valutano tutti gli aspetti dell’uomo: la bellezza, la forza, l’audacia, l’eleganza, ma anche cose come il potere o la ricchezza ed infine qualità interiori come il coraggio, la sincerità, lo spirito di avventura”.

Cos’è il fascino?

Il fascino non è un corpo, non è un volto, è il tralucere di una vita. Nel film di Scorsese “L’età dell’innocenza”, la contessa Olewska, interpretata da Michelle Pfeiffer, esercita un fascino irresistibile perché porta, nella banalità newyorkese, il segreto conturbante degli amori e delle passioni europee. Un mistero che traspare nella dolcezza fiera e dolente dei suoi lineamenti, nel suo sorriso disarmante, nel suo abbigliamento raffinato, nella sua sicurezza fra gente ostile, nel suo anticonformismo che indica altre abitudini, altri amori, rapporti proibiti. Il fascino è sempre il tralucere di un passato e di un mondo a noi sconosciuto, superiore al nostro ordine quotidiano. È il rivelarsi di questo mistero, è la seduzione di questo mistero”.

Uomini e donne tradiscono in modo diverso?

“Tutti e due di solito tradiscono quando l’altro è lontano, quando si sentono soli, quando si sentono trascurati. L’uomo lo fa senza cercare forti giustificazioni e soprattutto senza mettere in crisi tutto il rapporto. Lo relega, con estrema facilità, nella sfera puramente fisica. La donna, invece, si interroga più a fondo sul motivo del suo tradimento, rivede tutto il rapporto, non vive e non concepisce i rapporti sessuali e la relazione amorosa come se fossero compartimenti stagni”.

È vero che “in amor vince chi fugge”?

“Questo celebre verso di Ludovico Ariosto dice che in amore vince chi si fa desiderare, chi non si concede, ma anzi, respinge, suscita gelosia. A volte è vero e a volte è falso. È vero nel caso di persone competitive, che vengono eccitate, stimolate dalla presenza di un rivale o di una rivale e dalla gelosia. Molto meno vero nelle persone che hanno bisogno di amore sincero e che non sopportano la gelosia, perché queste vogliono solo che l’altro si butti nelle loro braccia e gli dica “ti amo”.

Pubblichiamo per gentile concessione dell’Editore, alcune delle domande presenti nel libro “Lezioni d’amore”, di Francesco Alberoni (Rizzoli, 2008). Riproduzione riservata.

Domenico Mazzullo - L’amore ai tempi della guerra

Il mese scorso sono stato invitato ad un raduno degli Alpini a Bassano del Grappa. Ho vissuto un’esperienza unica, indimenticabile, irripetibile. Ho conosciuto persone, giovani e meno giovani, che ancora credono in valori che noi consideriamo ormai desueti e dimenticati, obsoleti e anche un poco patetici.

Ho sentito ancora parlare, e con le lacrime della commozione, di Patria, di Italia, di Tricolore, di ricordi di guerra, di amici e commilitoni che non ci sono più, “che sono andati avanti”, come gli Alpini chiamano, non chi è morto, ma “chi è andato avanti”, appunto, per precederci, per mostrarci e illuminarci la strada, per proteggerci e difenderci, per accoglierci, quando anche noi saremo “andati avanti”.

Ho conosciuto persone semplici e meravigliose che non credevo esistessero, ma nel mio intimo speravo di incontrare una volta nella mia vita. Esseri umani speciali? No. Semplicemente Alpini.

Sono stato con loro sul Monte Grappa, ho visitato le trincee ove i nostri soldati hanno combattuto e solo morti, ho calpestato il suolo del monte sacro alla Patria, ho raccolto, a terra, dei frammenti di granata, che ora sono nel mio studio, ho respirato l’aria di quei tempi, mi sono commosso.

Nel viaggio di ritorno, in treno, ho scritto questo racconto, di fantasia. I fatti in esso narrati non sono veri, ma potrebbero esserlo. Alla scelta del lettore ritenerli veri, o no.

Matrimonio

“Facevano l’amore” da quando avevano entrambi quindici anni, Antonia ed Ernesto, ma a quei tempi, “fare l’amore” aveva un significato ben diverso da quello che ha adesso; “fare l’amore” voleva semplicemente dire, rubare qualche minuto, di soppiatto alla attenzione dei genitori, sfuggire per un tempo brevissimo allo sfiancante lavoro nei campi, nascondersi dietro un covone di fieno e, ancora con il cuore in gola per la corsa, per la paura e per la gioia di trovarsi assieme, guardarsi negli occhi l’un l’altro, stringendosi la mano e dirsi in silenzio tante cose.

“Fare l’amore” significava pensare a lui, o a lei, ogni minuto del giorno e della notte dimenticando se stessi; non desiderare null’altro, nulla di più che vedere, anche solamente per un attimo, l’altra persona; essere felici fino all’inverosimile per un sorriso, per una carezza, per un timido bacio sulla guancia, scambiato furtivamente e sprofondare in un baratro di disperazione, scendere all’Inferno, per uno sguardo imbronciato, per una parola detta male e fraintesa; per un appuntamento mancato.

“Fare l’amore” significava l’accordo segreto, la promessa scambiata reciprocamente, di pensarsi sempre, ogni sera, al tramonto del sole, e lasciare che le due anime, finalmente libere, si incontrassero e si amassero lassù, in cielo, timidamente nascoste dalle nuvole, prestatesi a protezione.

“Fare l’amore”, ai tempi di Antonia ed Ernesto, aveva un significato ben diverso da quello che ha ora. Ma Antonia ed Ernesto non riuscirono a “fare l’amore” come si fa adesso; non ebbero tempo.

Era la primavera del 1915 ed Ernesto ricevette, improvvisamente ed inaspettatamente, una cartolina gialla, come tante altre; come le tante altre che ricevettero tanti giovani come lui. Ernesto non sapeva leggere, ma capì subito cosa vi era scritto; e vi era scritta una cosa brutta, triste, dolorosa, per tutti, ma ancora più triste e dolorosa per Antonia, e per lui: avevano deciso di sposarsi in estate.

Il parroco del paese, che invece sapeva leggere e scrivere, guardò la cartolina e con aria afflitta disse ad Antonia che non vi era tempo per sposare Ernesto; doveva partire subito, era stato richiamato per andare soldato; per andare in guerra.

Ernesto partì quella sera stessa, su un treno pieno di tanti giovani come lui, poco più che ragazzi, un treno che andava verso il nord, ma nessuno sapeva precisamente dove; un treno che si chiamava con un nome nuovo, mai sentito prima: tradotta.

Gli altri ragazzi avevano con loro tante persone venute ad accompagnarli, a salutarli, a dirgli addio: padri, madri, fratelli, sorelle, fidanzate. Ernesto non aveva nessuno; nessuno era venuto a salutarlo. Solamente quando il treno era sul punto di partire, i carabinieri avevano già chiuso le porte dei vagoni ed il capostazione con il lungo, stridulo sibilo del fischio aveva già dato il segnale di partenza, Ernesto, affacciato al finestrino, vide comparire Antonia che correva con le braccia alzate, lungo la banchina e lo chiamava a gran voce.

Solo all’ultimo momento con uno stratagemma Antonia era riuscita ad allontanarsi per un attimo da casa e a correre alla stazione. Non ebbero tempo di abbracciarsi, Antonia ed Ernesto, non ebbero tempo di scambiarsi un bacio; anche solamente sulla guancia. Ma Ernesto ebbe tempo, quando il treno già si muoveva, di urlare ad Antonia: “Prepara l’abito, quando torno alla prima licenza, ti sposo, tieniti pronta”. Il treno prese velocità e sparì, e con esso Ernesto.

Ma Antonia aveva avuto il tempo di sentire bene le parole di Ernesto e si tenne pronta; preparò in fretta un semplicissimo abito da sposa, di nascosto dei genitori, e lo chiuse in una cassapanca. Aspettò.

Quell’abito semplice, e preparato in fretta, dalla cassapanca non uscì mai. Ernesto non tornò più.

Un giorno, freddo e piovoso, che Antonia non avrebbe mai più dimenticato, il parroco del paese la chiamò e con aria burbera per non piangere, ma il viso triste, le disse semplicemente che Ernesto era morto sul Carso ed ora riposava lì, per sempre.

Antonia non pianse, non disse nulla a nessuno, perché nessuno sapeva che “lei faceva l’amore con Ernesto”.

L’abito dal sposa, rimase sempre chiuso nella cassapanca. Ogni tanto Antonia la apriva, passava la mano sul bianco dell’abito, lo accarezzava e pensava ad Ernesto, lassù sul Carso.

Un giorno, però, di tanti anni fa, Antonia indossò quell’abito bianco; era il tramonto, era sola in casa, i suoi genitori erano ancora nei campi; trasse fuori, con delicatezza l’abito dalla cassapanca, lo mise indosso con cura; aggiustò davanti allo specchio, nella camera dei suoi, il velo sul capo e al tramonto, come ogni giorno di tanti prima,
pensò ad Ernesto e lasciò la propria anima libera di volare in cielo ed incontrarsi lassù, dietro il riparo delle nuvole, con quella di Ernesto. Le due anime si amarono.

Da quel giorno Antonia si considerò una vedova di guerra; come le altre. Da quel giorno, l’abito bianco da sposa non è più uscito dalla cassapanca.

Da “Appunti e Storie della Prima Guerra Mondiale”, raccolti e riordinati da Domenico Mazzullo

* Dice di sé:
Domenico Mazzullo. Medico-chirurgo, speta in Psichiatria. Psicoterapeuta. Assolutamente laico e quindi profondamente libertario. Romanticamente illuminista.

 

UGO FOSCOLOL’armonia, eleganza e perfezione della sua poesia sono frutto

di una lunga fatica, ma i concetti primitivi e l’affetto scaturì sempre

dalla subita inspirazione di profonda e potente passione.

Mercé l’attenta lettura di tutti gli scritti del Petrarca,

può quasi ridursi a certezza: – che col dimorare di continuo nelle

stesse idee, e col lasciare la mente pascersi senza posa

di sé stessa, l’intero corso de’ suoi sentimenti e delle sue riflessioni

ne contraesse un forte carattere e tono; (…) la cui composizione

da prima serviva unicamente, come dice più volte,

“a divertire e a mitigare tutte le sue afflizioni”.

(Da “Saggio sopra la poesia del Petrarca”, 1824)

Federico Pacifici - Pensavo di essere bravo invece ero bello (2ª parte)

Appunti per la sezione “all’ammerica” del capitolo dedicato ai produttori cinematografici per il volume di memorie (che chissà se mai completerò), anche romanzate

Federico Pacifici*

sognavo facevo progettavo e facevo. correvo.
costruivo un futuro?

Qualcosa imparavo e
A mia volta cominciavo ad elargire ad altri ittaliani le cose che apprendevo:
– si deve essere maleducati e arroganti con i tassisti sennò fanno come gli pare.

Traslocando in taxi dall’east village al west village presi l’unico taxi guidato da un newyorkese, il quale si rifiutò di fare una leggera infrazione per lasciarmi davanti al portone e farmi fare meno fatica. Fui severissimo con lui. Lui si avvilì molto. Dopo pochi istanti una morsa di vergogna infinita mi prese l’anima e non mi mollò fino a quando incredibile a dirsi e indicibile a crederci, ripresi un taxi. Lo guidava lo stesso signore. Quanti taxi ci siano a NY? Quanti turni? quanti tassisti? Beh, era lui. Non impallidii, gli chiesi se era lui quello che aveva trasportato pochi giorni prima un ittaliano maleducato al west village. Era lui ne sono sicuro, ma poco se ne ricordava, mi disse yes solo per cortesia. io mi scusai per il mio comportamento di qualche giorno prima. E la morsa di vergogna si allentò.
– tenere i soldi con il più piccolo all’esterno: uno fuori 100 dentro.
– non prendere la metro di notte. cazzata. l’ho presa per tre anni. e mi ci sono pure addormentato per la stanchezza.
– i taxi sono cari. cazzata costavano poco più della metro.
– la metro da casa in Chelsea al JFK esattamente al mio aereo costava 1 dollaro e 25 altro che 12 euri come a Roma.
– non si scende quando ti pare dalla parte che ti pare, ma solo dal lato marciapiede.
– a NY fa molto caldo, a NY fa molto freddo. ma le case ed i negozi sono molto riscaldati e molto refrigerati.
– nella metropoli più ex moderna del mondo le case non hanno tutte il bagno in casa anzi, molte ce l’hanno ancora in comune sui pianerottoli c’era una volta in ammerica e c’è ancora.
– i topi sono dappertutto, a casa mia che pagavo 750 dollari al mese e a casa di federica che era sua e sta sulle riviste d’architettura e pagava all’epoca 1500 dollari al mese solo di mantenance, condominio.
– che la cucina ed il frigorifero te li deve dare il padrone di casa.
– che non si dà l’elemosina, rischi di essere cazziato dal primo che passa.
– che l’alcool non si può comprare il sabato e la domenica. perché?
– che si deve bere dentro ad una busta di carta
– che sulla spiaggia non si possono consumare alcolici
– su quella di Malibù non si può nemmeno mangiare, mi sembra.
– ma io ci ho fatto l’amore.
– che non capirsi quando si fa sesso è meglio, a volte.
– che la giostra si chiama merry go round, o mary? e non so se sia maria o la gioia che girano in tondo.
– che reagire ad un NYPD ti fa rischiare talmente tanto che sono capaci di sedare una rivolta da soli. oppure sparano.
– che ci sono persone straordinariamente gentili e veri e propri mostri.
– che nessuno fa il lavoro che vuole fare e perciò tutti pur vedendoti trascinare carrelli ti chiedono quale sia il tuo lavoro e tu puoi rispondere qualsiasi cosa, attore, produttore, killer e gli americani ti credono.
– che c’è una delle più grosse comunità, per fortuna ancora disgregata, di fascisti nostalgici che rimpiangono mussolini e vivono nel ricordo della seconda guerra mondiale, dimenticando (sempre che l’abbiano mai saputo o capito) che se ne sono andati dall’ittalia perché non c’era lavoro e la II guerra mondiale l’hanno combattuta contro il nazifascismo, sacrificando le vite della prima generazione dei loro figli Americani, in quel massacro.
– che i ristoratori ittaliani sono trucidi tranne uno.
– che i cibi ittaliani che vendono io non li ho mai visti in ittalia.
– che gli eredi della mia famiglia, sono sicuro che fossero loro, in odore di mafia e qualche trascorso in galera, quando gli dissi che uno di loro era identico a zio andrea e un altro che era identico a mio fratello grande, mi diedero un appuntamento con l’esperta di genealogia della famiglia che non sapeva nemmeno esattamente da dove venissero, forse mentiva, forse pensarono che volessi dei soldi, forse. ma erano veramente le copie stampate di zio andrea e di mio fratello grande. li incontrai in uno dei più rinomati e peggiori ristoranti ittaliani dove lavorai.
lì ballavano la tarantella tutti in catena come fosse una samba al suono di faccetta nera. quando venne la televisione io mi nascosi.
che bestie i proprietari.
– che il superintendent di un palazzo è il capo, ma se fa una cazzata lo puoi punire severamente anche con il licenziamento, il mio Tito, non pensava che io sapessi che non dovevo pagare per l’installazione della cucina, quando glielo dissi impallidì, ma io lo confortai dicendogli che non c’era problema, l’avrei fatto da solo.
– che se per fortuna uno ti riconosce, nel pericolo, forse ti salva la vita, come quando i miei vicini di casa portoricani decisero di aggredirmi ed uno di loro disse in perfetto newrican: lives next door, fermando lo scempio che avrebbero fatto di me.
– che se hai un cognome israelita, qualche porta in più ti si apre, ma potrebbe anche richiudersi sul naso e in fretta.
– che è vero che lì si dà un’occasione a tutti, ma non due.
– che io due e più occasioni le ho avute
– che quanto detto prima quindi è una cazzata.
– che i produttori in ammerica se non sono ittaliani sono diversi dai produttori ittaliani, pagano sempre, rispettano tutte le regole e le regole sono poche e chiare.
– che non puoi lavorare se non hai il permesso di lavoro e non puoi avere il permesso di lavoro se non lavori: si chiama catch 22. invincibile.
– che le donne sono libere e scopano con chi vogliono loro se lo trovano disponibile, ma solo il venerdì e il sabato, che se inviti una ragazza fuori per il week-end, poi bisogna che te la scopi sennò si offende, lei quello di sabato sera c’ha e quella sera vuole scopare sennò si incazza e si offende.
– che il preservativo è obbligatorio la sera, ma non richiesto per il pompino di addio la mattina successiva.
– che i preservativi si rompono.
– che i preservativi di pelle non preservano dalle malattie.
– che due anelli sulle labbra della fica sono un optional non così bizzarro.
– che gli ittaliani sono adorati proprio perché sciupafemmine.
– che nella patria del femminismo c’è un bisogno di macho che manco te lo immagini,
– ma che se fai il macho latino reggi poco.
– che la gelosia esiste ma è come se non esistesse.
– che gli americani mangiano alle sei e mezzo di pomeriggio.
– che ti può arrivare a casa almeno una volta al mese lo sterminatore inteso come lo sterminator di bugs. e lo devi fare entrare. è meglio farlo entrare.
– che se hai una protesta da fare non puoi farla direttamente al vicino che ti disturba, ma devi farla alla proprietà
– che la proprietà può cacciare un vicino che ti disturba
– che la proprietà poi ti dice che a suonare al vicino per dirgli di abbassare la musica che stai studiando, hai rischiato la vita e te lo dice come la cosa più ovvia del mondo
– che il mio vicino di sotto quando gli dissi di abbassare la musica, sbagliando indirizzo, era quello dall’altra parte, mi rispose attraverso la porta and you what the fuck are you walking all the day long? isn’t your apartament so narrow like this one? where the fuck are you going? try to stop this fucking walking instead to fucking bother me.
– amavo camminare mentre parlavo al telefono e i passi erano 3 o 4 e sempre sulla stessa superficie. del mio piccolo appartamento e limitati alla mia stanza, in giro andata e ritorno intorno al tavolo.
– che quello di sotto aveva ragione.
– ma non riuscii mai a smettere di camminare parlando al telefono.
– che l’inquilino giusto, dall’altra parte del pianerottolo erano due, due spaventosamente belle ragazze nere che si divertivano da pazzi ad ascoltare la musica a palla e, credo, a scopare dei maschi neri di pari bellezza e che ancora me le sogno le due inquiline della musica alta.
– che quando suonai alla loro porta, mi sorrisero così tanto che quasi svenivo.
– che dalla mia finestra al 5 piano vedevo un terrazzo nel quale una volta vidi aprirsi una porta, spuntare la testa ad altezza di vita di una ragazza nera che avanzava lentamente a saltelli spinta da analoghe pressioni nel culo di un uomo infoiato. Guardai.
– sì guardai.
– che le finestra non hanno tende.
– guardai, sì.
– che non c’è silenzio a manhattan.
– che la mia homemate si scordò il ferro da stiro acceso e chissà perché quel giorno entrai nella sua stanza e lo spensi. ora staremmo ancora in prigione per strage.
– che la prigione ammericana si può vedere da china town e non è un gran bel vedere vedere due file di poliziotti attraverso le quali passano i detenuti.
– almeno questo ci sembrò.
– che quando i portoricani capiscono che sei un latino come loro senza smettere di disprezzarti ti riconoscono come un fratello e si prodigano per te.
– che le banche ti inviano a stretto giro di posta, a modo di ricevuta, l’assegno che hai emesso e che è stato incassato in al massimo un paio di giorni.
– che il commerta per me come per il manager che me lo ha presentato costa ad entrambi 100 dollari l’anno.
– che io quello di roma che è un amico, ma è soprattutto un grande ed onesto professionista, non lo pago da anni e che prima o poi dovrò farlo.
– che è in questa prospettiva che voglio essere pagato. e non lavorare più gratis.
– che in ammerica nessuno lavora gratis. Non gli è nemmeno comprensibile.
– che i camerieri ittaliani dei ristoranti ittaliani rubano talmente tanto da alzare anche 500 o 800 dollari al giorno.
– che i camerieri e le cameriere bianche o nere ammericani dei ristoranti ittaliani fanno altrettanto.
– che se non rubi sei considerato un coglione tra i colleghi camerieri ittaliani.
– che prima di fare il cameriere devi fare il busboy che consiste nel guadagnare la metà del cameriere non amministrare né toccare denaro e fare tutti i lavori sgradevoli, compreso prendersi la responsabilità delle colpe degli altri.
– io non ho fatto il busboy.
– che i manager dei ristoranti ittaliani, in genere anche proprietari di qualche ristorante in giro per l’ammerica, hanno abbandonato i master universitari per dedicarsi alla ristorazione che guadagnavano di più e non spendevano per l’università e che i loro capitali li hanno fatti (non tutti però) forse rubando e quindi sanno perfettamente come rubano i loro camerieri.
– che sono trucidi e fascisti anche se ti chiedono del manifesto e di Valentino Parlato come stia.
– che i peggiori clienti di un cameriere sono i familiari del proprietario, trucidi e maleducati, manco pagano. I figli piccoli poi, dei mostri.
– che i fascisti sono brutti, ma i fascisti di sinistra sono peggio.
– che l’america è piena di fascisti di sinistra.
– che anche l’ittalia è piena di fascisti di sinistra, ma questo l’ho imparato in ittalia.
– tutti gli ittaliani d’america sanno quello che dovrebbero fare gli altri.
– pochi fanno quel che dovrebbero fare.
– molti però si fanno il culo.
– la comunità ittaliana è vastissima, ma divisa in porzioni non comunicanti.
– che scopare scopiamo tutti, gli americani un po’ meno.
– che un viaggio in treno verso i territori indiani è meraviglioso lungo l’Hudson.
– che il lato west di manhattan è meglio, per me, del lato east, vedi il tramonto.
– che puoi campare raccogliendo la cacca del cane che porti a passeggio.
– che questo è un lavoro rispettatissimo
– io non ce l’ho fatta a raccattare la merda di cane.
– che quando nevica e a NY nevica eccome, la cacca di cane niurkese squaglia la neve e puzza e fa fumo.
– no, non ce l’ho fatta a raccoglierla.
– che i prezzi sono sempre plus tax
– che gli americani hanno la buona abitudine al paese loro di rispettare le regole quali che esse siano.
– che non c’è l’anagrafe, ma se cerchi qualcuno lo trovi subito.
– che se c’è una strada interrotta, mettono il cartello al bivio che precede, in modo che si possa cambiare strada e non sul posto dove ci si ingorga.
– che le strade di NY se pubbliche sono gratis per il cinema, se private si pagano e care.
– che anche una piazza può essere privata.
– che un cameriere lo si può riconoscere dal grasso che gli rimane incollato sotto le scarpe.
– mi è successo.
– e mi sono avvilito.
Cameriere, manager, despota. È immediato.
l’ho fatto il percorso e poi sono stato licenziato.
– che si può essere licenziati per aver sostenuto che il 10% di 100 è 10 mentre il manager del ristorante sosteneva che fosse 9. Gli ho chiesto se avesse studiato sulle istruzioni delle calcolatrici senza capirle.
– Mi ha licenziato.
– Lui è ricco.
cercavo di cambiare la mia vita, all’ammerica.
oggi andrei in spagna o in argentina.
sono andato all’america per non uccidere un produttore che mi aveva derubato del mio lavoro, ma prima l’ho denunciato e poi ho passato tre anni ad aspettare una sentenza a me favorevole visto che lui alla prima udienza aveva dichiarato: io quelle clausole non ho mai avuto intenzione di rispettarle, reo confesso quindi. Ma dopo tre anni avrei dovuto uccidere anche il giudice che gli ha dato ragione. giudice corrotto e non perché abbia preso del denaro, non lo so, ma perché corrotto in testa, bacato, malato, demente nel trarre soddisfazione dal dare ragione ad un reo confesso: il produttore aveva il diritto di non rispettare quelle clausole perché limitavano la sua libertà di impresa. disse.
e che ce le abbiamo messe a fare quelle clausole. se non per limitare la sua libertà di impresa, che altro è un contratto se non un limite alla libertà di fare i cazzi propri? Sono anni maledetto giudice bacato che cerco di dimenticare il tuo nome. Ho anche pensato di scriverti, ma a che pro, mi avresti denunciato per minacce, tanto bacato sei.
eccola la mia ammerica, trascorsa a imparare regole che ho cercato di trapiantare in ittalia con il consenso di tutti quelli che se ne infischiano.

Che bella ammerica però è stata la mia, quanto ho scopato, quanto sono stato felice quando ho cominciato a lavorare come attore e che gioia quando ho tenuto la prima sessione di Q and A in inglese, non sapevo quel che dicevo sapevo quel che avrei voluto dire, ma quanto si sono divertite quelle 1500 persone che mi hanno ripetutamente applaudito, e quanto sono stato felice quando ho cominciato a pensare in inglese, come quando studi la fisarmonica e la prima prova per capire se procedere o abbandonare è verificare se sei capace di separare le mani. ero capace.
e che gioia quando si faceva l’amore in inglese, per lo più pompini, chissà perché. e quanto sono felice di poterlo raccontare ai nipoti, senza prosopopea o presunzione, tanto i nipoti non ce li ho.
che anni quelli passati a frequentare il newrican poet café al poem slam quando qui manco si sapeva più cosa fossero le poesie, presto dimenticate dopo torvaianica. e lì in all’ammerica a non capirci un cazzo, a fare finta e un po’ a capirci.
che gioia quando il servizio sanitario locale mi curò in alphabeth city con solo 12 dollari e la dottoressa meravigliosamente bella forse tailandese mi disse che stavo bene anche quando le chiesi di uscire e lei mi disse che era sposata. la incontrai al gaypride con il marito ed il figlio entrambi belli come lei.
il gay pride sulla riva west, al tramonto.
che bello quando tornato a roma non ebbi freddo nonostante dicembre natale ed il gelo nell’anima.
Fin qui qualche appunto.
devo ancora parlare dei due attori che diversamente aggredirono il mio lavoro, del produttore che decise di uccidermi, di fatti e fattarelli ammericani, di digiuni interrotti solo il venerdì ed il sabato sera ai buffet dei party. Del meraviglioso bollito che preparai. della paura, dei rumori e degli odori.

Ma ora basta,
e sono solo all’inizio.

Concludo per il momento, lo sconclusionato racconto del tutto parziale sulla mia all’ammerica con questa impressione tratta da una mia lettera del luglio 1993. è vera:

New York d’estate puzza come Ponza ad agosto che non scaricano i cassonetti, puzza come le isole ittaliane belle e dannate dai rifiuti, puzza come il retro di un molo foraneo dove ti nascondi di notte d’estate a guardare il mare a sognare all’ammerica ed a volerci andare, magari per mano a quella cui stai parlando del mare dell’immenso mare e dell’ammerica lontana dove sei stato e non più tornato e ci vorresti tornare.

Sarebbe facile ora parlare dei due attori che diversamente affrontarono la mia vita, ma troppo famosi, troppo grande uno troppo merda l’altro. Punto

E questo l’ho scritto così, non so perché forse per godere di tutta la libertà, qualche volta se ne fa un pessimo uso, che sia questa volta? chi ha avuto la pazienza di leggere fin qui sappia che gli sono grato. ho voluto seguire l’affastellarsi dei pensieri e ricordi sprigionatisi all’improvviso, complici le prime 4 pagine del romanzo di T r c.

In genere scrivo e riscrivo, sto attento alla forma anche grafica alla consecutio temporis ma è come se mi fosse rimasto nella penna qualcosa che è uscita veloce, così come ha voluto, sporcando la carta.

È come se facessi leggere la brutta copia di un appunto.

Ma forse non è così.

È accaduto così.

*Dice di sé
Federico Pacifici. Lavoratore dello spettacolo (definizione ENPALS) (mannaggia agli acronimi)

Rudi Tarantino - Gaspara Stampa, sublime poetessa del 1500, ma...

… misconosciuta perché calunniata. Le sue rime, d’ispirazione petrarchesca, infatti, non rimandano all’idea di una cortigiana, mangiatrice di uomini, come vuole la tradizione

Rudy Tarantino*

Gaspara Stampa nacque a Padova nel 1523 da una nobile famiglia milanese. Morto il padre, la famiglia si trasferì a
Venezia. Lì la giovane Gaspara iniziò a frequentare i salotti più alla moda, incontrando letterati e potenti. Nel ’900 la poetessa fu interpretata come una donna di facili costumi per i suoi presunti amori e per gli atteggiamenti ritenuti “adulterini”. In realtà questi atteggiamenti erano sintomatici dell’epoca. Gaspara Stampa, giovanissima si trovò improvvisamente proiettata in un mondo falso e meschino dove gli intrighi, anche amorosi, la facevano da padrona.

Fra i numerosi suoi amori bisogna soffermarsi su quello per il conte Collaltino di Collalto. L’amore infinito e immenso verso il conte è, infatti, la tematica principale delle sue rime di ispirazione petrarchesca. Come ilPetrarca amava Laura, così Stampa amava Collaltino. Nell’analogia col poeta di Arezzo, però, c’è una profonda differenza. Collaltino non amava Stampa: dunque il suo amore era sofferto e non ricambiato.

Nell’ottocento, Stampa fu paragonata a Saffo per i suoi amori tormentati. Fu identificata come una vergine lacerata, straziata da un amore verso un uomo, Collaltino, impassibile e dal cuore di pietra. Nel novecento, invece, il critico Abdelkader Salza, attraverso alcune testimonianze dell’epoca, ne ribalta la figura idealizzata rilevando che la
poetessa in realtà era una cortigiana che aveva molti amanti. Questa tesi, contraddetta solo da Donadoni, e approvata da Benedetto Croce, Francesco Flora e Walter Binni getta nel fango la figura di Gaspara.

In realtà, se si analizzano le testimonianze dei contemporanei della poetessa e i componimenti della stessa, si evince che l’interpretazione romantica è quella più vicina all’identità dell’autrice. Paragonare Stampa alla Saffo non è sbagliato, anzi è meritevole perché entrambe sono vittime dell’amore, di un amore che la società condanna e afferma allo stesso tempo. Saffo per un amore considerato “illecito” ha sofferto tanto da arrivare al suicidio, Stampa per un amore “clandestino” verso un conte impassibile, cade in una grave crisi, che spinge anche lei al suicidio. Se dalle teorie ottocentesche si elimina l’elemento romanzato e romantico che circonda l’esistenza della Stampa, emerge una critica attenta alla poetica e alle vere vicende biografiche della poetessa.

La lettera scritta dalla badessa del convento di San Paolo di Milano, suor Angelica Paola de’ Negri può servire a fare chiarezza. Questa lettera fu, inizialmente, interpretata dal critico Salza come testimonianza dei facili costumi della poetessa. A nostro parere, con una più attenta analisi, la lettera testimonia, invece, la vita turbolenta de salotti dell’alta società veneta che metteranno in crisi la Stampa. La poetessa, morto il fratello Baldassare nel 1544, si rivolge alla badessa de’ Negri, che cerca di confortarla: “Ricordatevi, sorella amabilissima, che le grazie che avete, vi furono date perché vi faceste tutta spirito, ed un angiolo in carne. […] Ricordatevi che questi beni tutti se ne porta il vento, e dopo la morte altro non ne resta se non dolore e crucciato, non avendone bene usato. Queste virtù che il mondo onora non danno all’anima altro che quel poco e momentaneo contento, che ci portano le laudi degli adulatori […]. O Dio, crederò io, che la mia amabile Madonna Gasparina sarà sì poco avveduta, che non vorrà saper fare questa elezione? Vorrà rifiutare i beni celesti per li terreni?”.

La lettera, considerata testimonianza della spregiudicatezza della Stampa, in realtà, non è altro che una missiva scritta da una suora per spronare la poetessa ad abbandonare la vita mondana che l’avrebbe portata alla distruzione. Di amori illeciti e adulterini non c’è menzione. La badessa parla semplicemente di adulatori, persone che corteggiavano la poetessa per allontanarla dal suo amore per il conte. In realtà dai componimenti si evince che la Stampa ha amato solo Collaltino e non altri. Inoltre, la stessa badessa si sarebbe sicuramente rivolta alla Stampa in toni meno pacati e più irruenti se la poetessa fosse stata una famosa adultera e cortigiana. Invece, la badessa la definisce “sorella amabilissima”, (certamente scandaloso se la poetessa fosse una meretrice) e la chiama “Madonna” (ossia mia signora, ovviamente inappropriato per una donna di facili costumi, seppur dell’alta società) e la definisce “angiolo in carne” (bella tanto da essere paragonato ad un angelo, però certamente inappropriato paragonare un angelo ad una donna peccaminosa e lussuriosa).

Tutto ciò fa supporre, senza ombra di dubbio che la poetessa, anche vivendo in ambienti “malsani” dove l’adulterio era di moda, non abbia condotto uno stile di vita adulterino. D’altronde analizzando le sue poesie sembra alquanto probabile che tra rime di ispirazione petrarchesche, quindi pure, semplici, sincere dove si canta in maniera dolorosa un amore infelice, si deduce l’animo di una poetessa tormentata da un amore non corrisposto, e non certo di una cortigiana, mangiatrice di uomini. Quando, poi, il Salza, pone a conferma delle sue teorie un sonetto dell’Aretino in cui la Stampa viene descritta come una meretrice, ciò non deve trarre in inganno. L’Aretino è noto, nella storia letteraria, per aver messo in burla molti personaggi e autori, deformando anche il loro vero aspetto; per cui una “romantica” poetessa distrutta dall’amore, che diventa una cortigiana mangiatrice e ammaliatrice di uomini è proprio il classico gioco ironico usato dall’Aretino. A conferma della tesi, è sufficiente citare un sonetto composto da Benedetto Varchi quando Stampa morì nel 1554 a soli 31 anni.

Benzon, se ’l vero qui la fama narra.

Che così chiara e così trista suona;

terra è, lasso, tra noi la bella e buona

Saffo de’ nostri giorni alta Gaspara.

Onde ogni saggio, o buon di questo innarra

Secolo ancor peggiore, e in Elicona

Febo tra ’l sì e ’l no seco tenzona,

come chi suo gran mal paventi e garra.

E ben sarebbe la più viva lampa

Spenta d’Apollo e l’ più leggiadro fiore

Di virtù secco al suo maggior vigore.

O d’ogni gran valor segnata Stampa,

la cerca e ’l corvo lungo tempo scampa,

ma ’l cigno tosto e la colomba more.

In questo componimento Varchi paragona Stampa a Saffo, definendola “trista”, “bella” e “buona”. Inoltre definisce la poetessa un “leggiadro fiore di virtù” che certamente farebbe ridere se Stampa fosse stata una nota cortigiana. Inoltre, anche Giulio Stufa, in un altro sonetto, riconferma le parole usate da Benedetto Varchi.

Ben è ragion, Varchi gentil, s’avampa

Vostro pietoso con fero dolore;

Chi non sospiri e pianga entro e di fore

Se d’ogn’alto valor morta è la Stampa?

Ma, se più d’altro lume or splende e lampa,

Nel ciel, chi vinse qui le dotte suore

Di beltade e di virtù, ben dee minore

Farsi la pena ch’oggi in voi si Stampa.

Questa de’ nostri dì Saffo novella,

Pari a la greca nel tosco idioma,

Ma più casta di lei, quanto più bella

Viverà sempre in questa parte e ‘n quella.

Pur deve ogni gentil tonder la chioma

A la tomba di lei, ch’è fatta snella.

In questo componimento, Stampa viene definita da Stufa una donna di “alto valor”, che “vinse le dotte suore di beltade e virtù”, certo espressioni simbolo della castità della poetessa, che risulterebbero ridicole se la Stampa fosse nota come una donna facile. Poi, il poeta paragona la poetessa padovana a Saffo definendola, “questa de’ nostri dì Saffo novella”, quindi una poetessa distrutta dall’amore e non dominatrice in amore. Infatti, compare al verso successivo la parola “casta”: Stampa è descritta come una donna casta vittima d’amore. Tutto ciò rafforza la tesi della purezza della poetessa.

Risolto il problema biografico sulla vita condotta dalla Stampa, è opportuno soffermarsi sui suoi componimenti e notare se è lecito valutarla come un’autrice da leggere, studiare e amare oppure da dimenticare e annoverare tra la lunga schiera anonima dei minori della letteratura italiana.

Le “Rime”, scritte durante il breve arco della sua esistenza, sono, come abbiamo anticipato, di stampo petrarchesco. Bisogna ricordare, che il cardinale Pietro Bembo (Venezia, 1470 – Roma, 1547) annoverava come modello assoluto della poesia il linguaggio petrarchesco, così come per la prosa quello boccaccesco, allontanando il linguaggio dantesco per la sua vena sperimentale e, quindi, non conforme alla canonizzazione di un linguaggio letterario nazionale. Il “Canzoniere” di Stampa composto da ben 218 sonetti, dedicati all’amore per Collaltino fu pubblicato dalla sorella, Cassandra, nel 1554, anno del suicidio della poetessa. Il primo componimento, qui riportato, è una “traduzione” ad litteram del primo componimento di Petrarca. Stampa apre il suo “Canzoniere” con il seguente sonetto:

Voi, ch’ascoltate in queste meste rime,

in questi mesti, in questi oscuri accenti

il suon degli amorosi miei lamenti

e de le pene mie tra l’altre prime,

ove fia chi valor apprezzi e stime,

gloria, non che perdon, de’ miei lamenti

spero trovar fra le ben nate genti,

poi che la lor cagione è sì sublime.

E spero ancor che debba dir qualcuna:

– Felicissima lei, da che sostenne

Per sì chiara cagion danno sì chiaro!

Deh, perché tant’amor, tanta fortuna

Per s’ nobil signor a me non venne,

ch’anch’io n’andrei con tanta donna a paro?

Così, invece, Petrarca inizia il suo “Canzoniere”:

Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono

di quei sospiri ond’io nutriva ‘l core

in sul mio primo giovanile errore,

quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono,

del vario stile in ch’io piango e ragiono

fra le vane speranze e ‘l van dolore,

ove sia chi per prova intenda amore,

spero trovar pietà, non che perdono.

Ma ben veggio or sì come al popol tutto

Favola fui gran tempo, onde sovente

Di me medesimo meco mi vergogno;

e del mio vaneggiar vergogna è ‘l frutto,

e ‘l pentersi, e ‘l conoscer chiaramente

che quanto piace al mondo è breve sogno.

Nonostante il sonetto di Stampa sia molto simile a quello di Petrarca, emergono grandi differenze. Mentre in Petrarca l’elemento conflittuale dell’amore è interiore e risolto in un’attesa verso la donna amata, in Stampa già al primo verso, la poetessa annunzia un amore tragico, non ricambiato. Questo input è da ritrovare nella ripetizione voluta delle parole “meste rime” e “mesti accenti”, dove si anticipa il tema centrale del “Canzoniere”, l’amore inappagato verso Collaltino. Inoltre, se il Petrarca al dissidio tra arte poetica e amore risponde con un’interiorizzazione e con una sublimità di versi e parole accuratamente selezionate, tale dissidio in Stampa si risolve, semplicemente, nel contenuto laddove la poetessa fa emergere la superiorità femminile che vince ogni dissidio tra arte e amore. Infine, il sonetto di Gaspara funge da introduzione del “Canzoniere”, inteso però come un romanzo d’amore e certamente con fini ben diversi dal modello petrarchesco.

 

Un altro sonetto da ricordare è

Piangete, donne, e con voi pianga Amore

Poi che non piange lui, che m’ha ferita

Sì, che l’alma farà tosto partita

Da questo corpo tormentato fuore.

E, se mai da pietoso e gentil core

L’estrema voce altrui fu esaudita,

dapoi ch’io sarò morta e sepelita,

scrivete la cagion del mio dolore:

“Per amar molto ed esser poco amata

Visse e morì infelice, ed or qui giace

La più fidel amante che sia stata.

Pregale, viator, riposo e pace,

ed impara da lei, sì mal trattata,

a non seguir un cor crudo e fugace”.

Questo componimento è la dichiarazione poetica di Stampa. Ne emerge la figura di una poetessa distrutta dall’amore tanto da essere condotta ad una morte intesa come liberazione. Ritorna il topos letterario classico di Eros e Thanatos (Amore e Morte) tanto caro alla letteratura mondiale da quella greca-romana a quella moderna. In questo sonetto emerge una donna che si strugge d’amore verso un uomo che non ricambia le sue attenzioni. In realtà questo sonetto è uno di una lunga serie che rafforza la nostra tesi di una Stampa casta e certamente non adulterina; d’altronde una donna amica di tutti intende l’amore sicuramente con gioia e non pensa alla morte come rimedio finale verso un amore dedito invano a un uomo solo. Una cortigiana certamente avrebbe saputo da chi farsi consolare… Dal punto di vista stilistico questo sonetto è vicino al XCII del Petrarca, dove emerge un linguaggio colloquiale e familiare. In tutte le poesie di Stampa emerge palese il modello petrarchesco, anche se è superato da temi innovativi. Infatti, se in Petrarca la vista di Laura produce gioia e il poeta la descrive in tutte le sue fattezza fisiche, in Stampa la vista di Collaltino produce dolore e tristezza, per un amore non ricambiato e per giunta vano. Se il Petrarca si delizia di immagini metaforiche alludendo al nome dell’amata, alla poetessa padovana non resta che abbandonarsi al suo dolore e al suo canto di solitudine. È proprio questa tematica di un amore inconsolabile, non corrisposto, non capito e rifiutato che avvicina la poetica di Stampa a quella di Saffo. La famosissima poetessa greca, che, innamoratasi di un’altra donna, sceglierà nella morte la fine di un amore tormentato e inconcesso, così come la poetessa padovana sceglierà la morte come riposo di sì tanto doloroso amore.

* Dice di sé
Rudy Tarantino. Nato a Napoli il 15 ottobre 1981. Insegna italiano, latino, storia, educazione civica e geografia nel Liceo Scientifico dell’Istituto Paritario “S. Lucia” di Napoli, Colli Aminei. Tante passioni. La sua frase preferita, il detto memorabile del napoletano Giambattista Vico (tratto dalla sua autobiografia), “ho uso di sempre o leggere o scrivere o meditare”.

 

FRANCO FORTININel parlare comune, “poesia” significa due cose: per un verso è

un discorso, o ragionamento, o una comunicazione

dove prevalgono elementi di ritmo e cadenze, di ripetizioni,

di immagini che alterano i significati immediati e che

gli conferiscono, oltre ai primi, anche significati interiori. Per un altro

verso, quando noi diciamo “questa è poesia” intendiamo in genere

qualcosa di elevato e di nobile, di rassicurante o di commovente

o di rasserenante, di vivace, pungente ecc.

(Da “Intervista alla Rai”, 1993)

 

CASA BIANCA 2008 Mauro della Porta Raffo - Elezioni americane? Un vademecum ci guida tra primarie e convention

Hillary, Obama, McCain sono solo l’ultimo capitolo di una lunghissima storia. In questo speciale, un excursus sul sistema elettorale e sui leader della più potente nazione del mondo

Mauro della Porta Raffo*

Prima parte

Introduzione

Il duemilaotto è, per gli Stati Uniti d’America, anno di elezioni presidenziali come tutti i precedenti bisestili a partire dal 1792, quando George Washington si aggiudicò per la seconda volta l’ambita carica (era già stato eletto – primo Presidente – nel 1789). Il meccanismo voluto e realizzato dai padri fondatori, così come si è poi evoluto, fa sì che la campagna elettorale per la presidenza americana sia, indubbiamente, la più
lunga, faticosa e dispendiosa alla quale un aspirante capo di Stato si debba sottoporre. Difatti, per arrivare a quel fatidico “primo martedì dopo il primo lunedì di novembre”, giorno nel quale, per legge federale appunto del 1792, il popolo è chiamato alla scelta definitiva, i due superstiti contendenti (a volte, peraltro, anche più di due) dovranno aver superato numerose, difficili prove, così da raccogliere attorno al proprio nome consensi tali da sconfiggere, prima di tutto, gli avversari interni al proprio
partito, per poi battersi con il concorrente dell’altro schieramento.

Pertanto, il candidato, per affrontare con qualche concreta possibilità la lunga maratona che ha luogo, attraverso primarie e caucus, a partire da gennaio (fino al 1996 compreso, da febbraio) per arrivare alla convenzione del suo partito con concrete chance di ottenere la “nomination”, deve cominciare a farsi conoscere per tempo, tanto che, per quel che riguarda la campagna duemilaotto essa è, in effetti, cominciata in entrambi gli schieramenti già nel 2006 non essendo possibile per il disposto del XXII Emendamento una terza candidatura del capo dello Stato in carica.

I poteri del Presidente

Prima di addentrarci nella descrizione delle singole tappe nelle quali si articola questa “lunga corsa”, sarà bene ricordare che la Costituzione USA così recita all’articolo 2, sezione prima: “Il Presidente degli Stati Uniti sarà investito del potere esecutivo”.

Queste poche, magiche parole racchiudono ed esprimono tutto l’enorme potere del capo dello Stato di quella che è ormai, senza concorrenti, la più potente nazione del mondo.

Per inciso, cercando di rendere più comprensibile agli occhi del lettore il tutto, si può dire che nel Presidente americano, grosso modo, coincidono e si uniscono i poteri che in molti Paesi sono divisi tra il Presidente della Repubblica e quello del Consiglio, mentre il solo importante limite è quello della impossibilità per il capo di Stato USA di avanzare direttamente proposte di legge, essendo, tale prerogativa, propria dei membri del Congresso – senatori e rappresentanti – sui quali, peraltro, egli può agire per ottenere che avanzino progetti legislativi a lui graditi (il mezzo tecnico più frequentemente usato a tale riguardo è quello di indirizzare specifici messaggi ai due rami del Parlamento).

Come si è detto, la nomina avviene in novembre, mentre l’entrata in carica è fissata al 20 gennaio dell’anno seguente (fino alla prima elezione compresa di F.D. Roosevelt – 1932 – l’insediamento avveniva, invece, il 4 marzo).

Il mandato è per un quadriennio e, cioè, “a termine” (essendo a termine anche tutte le altre cariche elettive, da parte degli studiosi, si mette in risalto, nel sistema, l’importanza del “calendario” o, gergalmente, “dell’orologio”), il che preclude la possibilità di una sfiducia da parte del Congresso (altra cosa è l’impeachment).

Un Presidente non può essere rieletto per più di una volta e ciò a seguito di un emendamento costituzionale adottato nel 1951, successivo alla quadruplice rielezione del già citato F.D. Roosevelt, il quale, primo ed unico, aveva osato contravvenire, riproponendosi una terza e poi, addirittura, una quarta volta, alla disposizione consuetudinaria dettata da George Washington che, rifiutando una terza, sicura nomina, aveva dichiarato che nessun uomo avrebbe dovuto occupare quella carica per più di otto anni.

Una maggiore durata è teoricamente possibile solo per il vice Presidente succeduto nella qualifica di capo dello Stato, quando il periodo in cui la presidenza sia stata ricoperta in sostituzione del titolare sia inferiore ai due anni.

In conclusione, riepiloghiamo i più rilevanti poteri presidenziali. Il Presidente:

a) in materia internazionale negozia e stipula i trattati, con il consenso di almeno due terzi del Senato;

b) in materia legislativa gode del potere di raccomandazione o “impulso” (attraverso il messaggio sullo

stato dell’Unione o specifici messaggi ad hoc) e del potere di veto;

c) nomina i funzionari federali con il necessario consenso del Senato;

d) ha il comando delle Forze Armate.

Esiste la possibilità, inoltre, in casi eccezionali, di esercizio di poteri straordinari.

Il sistema elettorale: candidature, primarie, caucus, convention, nomination e sfida finale

 

Per quanto esistano, ai nostri giorni, negli Stati Uniti, due partiti politici nazionali, presenti in tutto il Paese – ovviamente, il repubblicano e il democratico – non è la struttura partitica a cercare e proporre il candidato alla presidenza, perché il meccanismo elettorale, così come è ora articolato, permette ad un qualsiasi esponente politico
di una qualche notorietà di dichiararsi autonomamente “in corsa” per la Casa Bianca, affrontando, poi, il giudizio popolare attraverso primarie e caucus.

Così, per esempio, Bill Clinton, proveniente dallo Stato politicamente periferico dell’Arkansas, nel 1992, non fu indicato dal suo partito, ma scelto dagli elettori democratici. D’altronde, sia il partito dell’Elefante (simbolo dei repubblicani, chiamati anche Grand Old Party – GOP) che quello dell’Asino (segno di identificazione dei democratici) non hanno, se non in prossimità delle elezioni nazionali, una organizzazione federale vera e propria.

Solo nel caso (ormai improbabile; l’ultima volta accadde nel 1968 tra i democratici) in cui nessun candidato si presenti alla Convenzione, al termine delle primarie e dei caucus, con una decisa maggioranza acquisita sul campo, i capi partito possono esercitare pressioni sui delegati per orientare in qualche modo il loro consenso.

In concreto, dunque, quel che succede in una prima fase è che un senatore, un governatore o un rappresentante (o anche un ex senatore, ecc.), ritenendosi all’altezza del ruolo, si autoproponga e lasci il popolo arbitro finale dello scontro che lo opporrà agli altri candidati interni al partito.

Non così era fino agli inizi del Novecento perché solo nel 1903 (e precisamente, a livello locale, nel Wisconsin) cominciò ad affermarsi il sistema delle primarie (poi, in uso per la scelta del candidato alla White House tra i repubblicani a partire dal 1912), proprio per combattere il più efficacemente possibile il precedente, totale dominio degli apparati partitici.

Poiché, comunque, il meccanismo delle primarie e dei caucus non è diffuso in tutti gli Stati dell’Unione, nei rimanenti sarà indispensabile al candidato ottenere l’appoggio dei maggiorenti locali. Peraltro, sono pochissimi gli Stati che non hanno aderito al nuovo sistema. Gli unici tre requisiti richiesti dalla Costituzione al futuro Presidente sono che abbia compiuto almeno trentacinque anni, che sia cittadino americano per nascita e che risieda negli Stati Uniti da oltre quattordici anni.

Per quanto, da sempre, si sia abituati a considerare l’elezione del Presidente USA come la più significativa espressione di voto “diretto” del popolo, nella realtà voluta dai costituenti, questo non è affatto vero perché in ogni momento (a partire dalle primarie per arrivare alla votazione di novembre) i votanti sono chiamati ad eleggere dei delegati che, a loro volta, riunendosi successivamente, si esprimono per il candidato nazionale che rappresentavano a livello locale, in occasione delle primarie e dei caucus, o per il Presidente, alla fine.

In altre parole, per fare un esempio, l’elettore democratico, nella cabina, nel 2004, non ha potuto votare direttamente per Kerry, ma per un esponente del medesimo partito impegnato, se prescelto, ad appoggiare lo stesso Kerry alla Convenzione (se si fa riferimento a primarie e caucus) o al Collegio presidenziale (che si riunisce una sola volta per la proclamazione del Presidente) a seguito delle votazioni di novembre. Nella visione costituzionale, quindi, la procedura si conclude con una elezione “di secondo grado”, mediata dai delegati.

È la Carta costituzionale stessa che si incarica di stabilire, per quel che riguarda i membri del Collegio presidenziale, che “ogni Stato nominerà, nel modo che verrà stabilito dai suoi organi legislativi, un numero di elettori (delegati) pari al numero complessivo dei senatori e dei rappresentanti che lo Stato ha diritto di mandare al
Congresso”. Malgrado le difficoltà teoriche di tale complicata procedura, per gli elettori di Kerry – per tornare al precedente esempio – avere scelto un delegato a lui collegato è stato come aver votato direttamente per lui.

Con riferimento al disposto costituzionale or ora citato, va ricordato che ciascuno Stato ha diritto alla nomina di due senatori e di tanti rappresentanti alla Camera, proporzionalmente, a quanti sono risultati i suoi abitanti nell’ultimo censimento.

Considerando che, grosso modo, si ha un rappresentante ogni quattrocento-settantacinquemila residenti e che i membri della Camera, conseguentemente, sono, ora, quattrocentotrentacinque, complessivamente, i voti elettorali presenti alla riunione finale del Collegio presidenziale assommano a cinquecentotrentotto (cento corrispondenti ai senatori, quattrocentotrentacinque ai rappresentanti e tre per il Distretto Federale di Washington), il che significa che per essere nominati presidenti si devono controllare almeno duecentosettanta voti.

Nel caso in cui – come accadde nel 1800 e nel 1824 per l’elezione rispettivamente di Thomas Jefferson e di John Quincy Adams – nessuno raggiunga il prescritto quorum, la Costituzione prevede che la decisione finale spetti alla Camera dei rappresentanti che dovrà scegliere tra i primi tre candidati che abbiano ottenuto il maggior numero di voti elettorali (e cioè di delegati al Collegio).

Resta da fare, in quest’ambito, un’ultima, importantissima annotazione: i delegati al Collegio presidenziale – che, come abbiamo detto, alla fine, nomineranno formalmente il Presidente – si devono conquistare Stato per Stato e non singolarmente.

Vediamo di spiegarci meglio: ogni stato dell’Unione, durante la campagna, è eretto in Collegio elettorale, la qual cosa significa che il vincitore per voti popolari, ad esempio, del Texas, si prenderà tutti i delegati di quel territorio, mentre il perdente (anche se di un solo voto popolare) non ne avrà nessuno. Altrettanto, naturalmente, per gli altri stati.

Ciò comporta fondamentali conseguenze: alcuni stati che hanno, per via della consistenza della loro popolazione, un maggior numero di delegati da eleggere sono nettamente più importanti di altri ai fini del raggiungimento della mitica, indicata soglia dei duecentosettanta voti – pari alla maggioranza assoluta – al Collegio presidenziale.

Sarà conseguentemente assai più utile, per i candidati, cercare di vincere negli stati più popolosi (e qui concentrare la maggior parte dei loro sforzi) piuttosto che aggiudicarsi i pochi voti elettorali che altri territori possono assegnare.

La seconda conseguenza di tale sistema è che, teoricamente, ma anche in pratica, (è accaduto nel 1824 a Andrew Jackson, nel 1888 al Presidente Grover Cleveland, nel 1876 al candidato democratico Samuel Tilden e, nel 2000, anche ad Al Gore, battuto da George Walker Bush), si possono ottenere su base nazionale più voti popolari ed essere ugualmente sconfitti.

Anche qui sarà indispensabile un esempio: supponiamo che un primo candidato si aggiudichi la maggioranza dei voti popolari in California (che nel 2004 aveva diritto a cinquantacinque delegati) per mille voti popolari in più. Egli avrà a propria disposizione tutti i voti elettorali di quell’enorme Stato.

Se il suo avversario, sempre per esempio, si aggiudicasse per diecimila voti popolari in più lo Stato del Nord Dakota (che aveva solo tre delegati, sempre nel 2004) nel computo complessivo, il secondo candidato avrebbe novemila voti popolari in più, ma soli tre delegati contro i cinquantacinque dell’altro.

Tornando alle primarie ed ai caucus (dell’origine delle prime abbiamo già detto – quanto ai caucus, si può dire siano da sempre in uso), benché la stampa parli comunemente solo di primarie, nella realtà i metodi seguiti sono, appunto, due, del tutto diversi fra loro.

Difatti, in alcuni stati, la scelta avviene attraverso una semplice riunione (il caucus) degli aderenti al partito, mentre, nella maggioranza dei casi, si ha una vera e propria votazione da parte degli elettori (questa è la primaria propriamente detta).

Inoltre, anche le primarie si dividono in due tipi. Esse sono “aperte” o “chiuse”: alle prime possono partecipare tutti gli elettori; alle seconde soltanto coloro che risultano iscritti nelle liste elettorali come simpatizzanti del partito che ha indetto la consultazione.

Per quel che concerne la consistenza numerica dei delegati di ogni singolo stato, come è ovvio, il criterio comune è quello che assegna un maggior peso agli stati più popolosi sulla falsariga del sistema previsto dalla Costituzione per la nomina dei delegati al Collegio presidenziale. La normativa che regola primarie e caucus è di competenza di ogni singolo stato.

Tradizionalmente (a tutto il 1996), il primo caucus, cronologicamente, era quello dell’Iowa, mentre la prima primaria era quella del New Hampshire. La “corsa” tra i candidati all’interno dei partiti prosegue, poi, fino all’estate e cioè fino alle convenzioni che altro non sono che i congressi nazionali dei movimenti politici. L’importanza che può avere una convenzione è profondamente diversa a seconda di come i vari pretendenti alla “nomination” si presentino ad essa.

Se, durante primarie e caucus, un leader è riuscito a conquistare la prevista maggioranza dei delegati o un numero di essi tale che possa garantirgli la vittoria, la convenzione servirà soltanto a proclamarne la scelta, ad individuare – tenendo conto dei suoi desideri – il candidato vice Presidente che lo accompagnerà nella campagna finale, a stendere il programma di partito (la cosiddetta “platform” – piattaforma).

Se, invece, nessun pretendente prevale sugli altri, la convenzione sceglierà autonomamente e i delegati – nelle altre occasioni obbligati a votare per il “loro” candidato – potranno spostarsi dall’uno all’altro fino ad arrivare alla “nomination”. Naturalmente, i “nominati” dai due partiti si affronteranno nelle elezioni novembrine “il primo martedì dopo il primo lunedì” di quel mese.

La maledizione dell’anno zero, altre curiosità e record

 

George Washington, primo Presidente degli Stati Uniti e padre della Patria, è l’unico Presidente eletto in un anno dispari. Ottenne, infatti, il primo mandato nel 1789. Dal 1792, per legge federale, le elezioni si svolgono, ogni quattro anni, nel mese di novembre “il primo martedì dopo il primo lunedì”.

Thomas Jefferson, nel 1800, riportò lo stesso numero di voti elettorali di Aaron Burr. La Camera dei Rappresentanti – che, per dettato costituzionale, in tali occasioni, quando nessuno dei candidati raggiunge la maggioranza assoluta dei delegati, ha il mandato di scegliere il Presidente tra i tre più votati – lo elesse Presidente al trentaseiesimo scrutinio, addirittura nel 1801, essendosi trascinati gli scrutini per mesi.

Per molto tempo, a partire dal 1840 fino all’elezione di Ronald Reagan nel 1980, una leggenda (detta “dell’anno zero”) accompagnava tutti i presidenti eletti o rinnovati negli anni con finale zero: nessuno di loro è arrivato al termine del proprio mandato (o dei seguenti in caso di rielezione) perché tutti morti in carica per le più varie ragioni. William Harrison, eletto nel 1840, morì di polmonite.
Abraham Lincoln, eletto nel 1860, fu ucciso. James Garfield, eletto nel 1880, fu assassinato. William McKinley, rieletto nel 1900, fu ucciso. Warren Harding, eletto nel 1920, morì di malattia. Franklin D. Roosevelt, rieletto nel 1940, morì improvvisamente nel 1945. John Kennedy, eletto nel 1960, fu ucciso a Dallas nel 1963.

Ronald Reagan, eletto nel 1980, fu vittima di un attentato per fortuna senza gravi conseguenze.

Grover Cleveland, nominato nel 1884 e poi nel 1892, è l’unico che, battuto alla prima ricandidatura (nel 1888), sia stato poi rieletto dopo un intervallo di quattro anni. Inoltre, è anche uno dei tre candidati, con Samuel Tilden (sconfitto nel 1876 da Rutherford Hayes) e Al Gore (battuto da George W. Bush nel 2000), che, per quanto abbia ottenuto un maggior numero di voti popolari – nel citato 1888 – rispetto al proprio avversario (Benjamin Harrison), fu sconfitto per voti elettorali.

Andrew Jackson (poi Presidente eletto nel 1828 e nel 1832) riportò nelle elezioni del 1824 più voti popolari e più voti elettorali di John Quincy Adams senza raggiungere però la prescritta maggioranza assoluta dei delegati. La Camera dei Rappresentanti, chiamata a pronunciarsi, gli preferì il rivale.

Gli unici quattro vice presidenti (cattivo presagio per Al Gore) assurti alla presidenza nella elezione successiva a quella nella quale avevano esercitato il vicariato sono stati John Adams (vice di Washington), Thomas Jefferson (vice di Adams), Martin Van Buren (vice di Andrew Jackson) e George Bush (vice di Ronald Reagan).

Richard Nixon (vice di Ike Eisenhower), invece, battuto nel 1960 da John Kennedy, si è poi rifatto vincendo nel 1968 e nel 1972.

Gerald Ford è l’unico Presidente non eletto dal popolo né come tale né come vice in quanto subentrò a Nixon dopo le dimissioni di quest’ultimo per lo scandalo Watergate (9 agosto 1974), essendo stato precedentemente nominato vice Presidente dallo stesso Nixon, con la prescritta approvazione del Congresso, a seguito delle precedenti dimissioni dalla carica del titolare Spiro Agnew.

In molti casi i vice presidenti subentrati a causa del decesso dell’inquilino della Casa Bianca non si sono autonomamente riproposti alle elezioni successive. Così John Tyler – subentrato a William Harrison nel 1841 – Andrew Johnson – succeduto ad Abraham Lincoln nel 1865 – Chester Arthur – succeduto a James Garfield nel 1881. Diverso il caso di Millard Fillmore non ripresentatosi nel 1852, alla scadenza del suo mandato, e, poi candidatosi come indipendente, senza molta fortuna, nel 1856.

Sono stati sconfitti nei loro tentativi, invece, fra gli ultimi vice presidenti Hubert Humphrey, già vicario di Lyndon Johnson, battuto nel 1968 da Nixon, Walter Mondale, vice di Jimmy Carter, battuto da Reagan nel 1984 e Al Gore, vice di Bill Clinton, sconfitto da G.W. Bush nel 2000.

Geraldine Ferraro, candidata alla vice presidenza con Mondale per il partito democratico nel 1984, fu la prima e, per ora, unica donna componente di un ticket (così viene definita l’accoppiata candidato-Presidente, candidato-vice Presidente) presidenziale.

John Kennedy fu, nel 1960, il primo (e per ora unico) cattolico eletto alla presidenza. Il primo candidato cattolico – sfortunato – fu, invece, nel 1928, Alfred Smith, democratico, sconfitto da Herbert Hoover. L’ultimo, John Kerry, battuto da G. W. Bush nel 2004.

Jesse Jackson, democratico, fu nel 1984 il primo candidato di colore alle primarie a livello nazionale ad ottenere un notevole successo irrobustitosi nelle successive primarie del 1988.

In un solo caso, prima di George W. Bush, il figlio di un Presidente riuscì a sua volta a divenirlo: difatti John Quincy Adams fu alla Casa Bianca dopo le elezioni del 1824 ed il padre, John, era stato in carica a seguito delle elezioni del 1796, essendo, fra l’altro, il primo a risiedere nella nuova capitale federale, Washington, nell’anno 1800.

William Jennings Bryan, che fu anche, nel 1896, a soli trentasei anni, il più giovane candidato della storia, è l’aspirante alla presidenza appartenente a uno dei due partiti nazionali sconfitto più volte nella corsa alla Casa Bianca: nel citato 1896 fu battuto, lui democratico, dal repubblicano William McKinley; nel 1900, stesso risultato; nel 1904 fu sconfitto alla Convenzione da Alton Parker e, infine, nel 1908, fu battuto per la presidenza da William Taft.

Franklin Delano Roosevelt (che non era parente se non molto alla lontana del predecessore Theodore) ha due primati: è l’unico candidato che, sconfitto una prima volta nella corsa alla vice presidenza (era associato a James Cox battuto da Harding nel 1920), divenne poi Presidente. Inoltre, è l’unico ad avere ottenuto più di due mandati presidenziali (1932, 1936, 1940, 1944) contravvenendo così alla disposizione consuetudinaria conseguente alla decisione di George Washington che, nel 1796, potendo ottenere una terza candidatura, disse che nessun uomo avrebbe dovuto esercitare per più di otto anni un mandato tanto impegnativo.

L’estremismo (democratico o repubblicano che sia) non dà luogo che a clamorose sconfitte: esempi sono il repubblicano Barry Goldwater, di estrema destra, schiacciato da Lyndon Johnson nel 1964 sotto una valanga di voti ed il democratico George McGovern, di estrema sinistra, distrutto da Nixon nel 1972.

George Bush padre è stato l’ultimo Presidente in carica ripresentatosi e non rieletto. In questo ha ripetuto l’avventura di Martin Van Buren (eletto nel 1836), come lui prima vice Presidente, poi Presidente ed infine sconfitto dopo un solo mandato.

Bill Clinton aveva brutti precedenti per quanto riguarda il suo cognome. Due candidati che si chiamavano come lui erano stati battuti: nel 1792 e nel 1808 George Clinton e, nel 1812, DeWitt Clinton.

Il primo Presidente esclusivamente democratico (prima il partito si chiamava repubblicano-democratico) fu Andrew Jackson eletto nel 1828.

Il primo Presidente repubblicano fu Abraham Lincoln, eletto nel 1860.

La presidenza più corta fu quella di William Harrison. Eletto nel 1840, restò in carica solo trenta giorni, a partire dal 4 marzo 1841, perché mori un solo mese dopo il giuramento. Si ammalò di polmonite per aver voluto pronunciare un lunghissimo discorso di insediamento a capo scoperto sotto un diluvio.

Il più giovane Presidente eletto fu John Kennedy che aveva quarantatrè anni all’atto della nomina, ma il più giovane Presidente in carica fu Theodore Roosevelt che, al momento del subentro all’assassinato McKinley, aveva solo quarantadue anni.

Gli unici due presidenti appartenenti al partito whigs eletti (William Harrison e Zachary Taylor) sono entrambi morti in carica.

I partiti politici

Per quanto, agli inizi, la vita politica americana fosse, via via, dominata da movimenti e partiti quali i Federalisti di George Washington e John Adams, i Repubblicani-Democratici di Jefferson, Madison e Monroe e, un po’ più avanti, i Whigs di William Harrison e Zachary Taylor, a partire dagli ultimi anni Venti, per quel che riguarda i Democratici, e a far luogo, per i Repubblicani, dagli anni Cinquanta dell’Ottocento, due partiti – ovviamente, appunto, il democratico e il repubblicano – hanno preso decisamente il sopravvento e si sono divisi Casa Bianca e Congresso.

Sarà opportuno, quindi, esaminarne origini e storia, senza dimenticare che, nei primi decenni del Novecento, un certo peso ebbe anche il partito sota americano che, in molte occasioni, presentò un proprio candidato alla presidenza, senza ottenere grande successo.

I Democratici

Nato verso la fine degli anni Venti del XIX secolo quale emanazione del partito democratico-repubblicano, il partito dell’Asino (questo il suo simbolo elettorale) riuscì a conquistare quasi ininterrottamente la presidenza fino al 1860, ma, alla vigilia della guerra civile, dopo la vittoria del repubblicano Lincoln, si divise in democratici del Nord e del Sud.

Al termine del conflitto, raccolta la pesante eredità della Confederazione sconfitta, il partito ritornò quasi subito ad essere competitivo ed assunse la duplice fisionomia che ha mantenuto fino agli anni Sessanta del XX secolo monopolizzando, da un lato, il voto del Sud e fungendo, altrove, da polo di attrazione per immigrati, minoranze e fautori dei diritti civili. È questa strana alleanza che ha permesso nel Novecento le presidenze di Woodrow Wilson (primo sudista eletto alla massima carica dopo la guerra civile) e Franklin Delano Roosevelt.

Il passaggio del Sud ai repubblicani in occasione della prima elezione alla presidenza di Richard M. Nixon (1968) ha alterato una situazione di sostanziale equilibrio e il partito democratico non è più riuscito, prima di Bill Clinton – se si esclude il breve periodo di Jimmy Carter (che arrivò alla vittoria soprattutto in conseguenza dello scandalo Watergate che aveva coinvolto i repubblicani) – ad esprimere una figura carismatica in grado di ottenere il favore di una maggioranza di elettori.

I Repubblicani

Il partito repubblicano fu fondato nel 1854 a Jackson da un gruppo di dissidenti democratici e whigs uniti dall’opposizione alla schiavitù e alla politica dei partiti di provenienza giudicata troppo conciliante verso il Sud. I repubblicani, inoltre, fin dalle origini, furono contrari a qualsiasi concessione ai diritti dei singoli Stati che ritenevano
dovessero essere subordinati ai supremi interessi dell’Unione.

Il primo candidato del partito alle elezioni presidenziali fu, nel 1856, John C. Frémont, facilmente sconfitto da James Buchanan. Ma già nel 1860, Abraham Lincoln, grazie alle divisioni del campo democratico e all’appoggio massiccio degli Stati del Nord, colse una inattesa vittoria.

Emerso dominatore dalla guerra civile, il partito repubblicano attrasse nella sua orbita l’oligarchia finanziaria e industriale e, tra il 1868 e il 1932 si affermò quattordici volte su sedici elezioni presidenziali. Subite due scissioni – una prima, più grave, nel 1912, che gli costò la White House, quando una fazione progressista guidata dall’ex Presidente Theodore Roosevelt lasciò il partito ed una seconda, meno significativa, nel 1924 – nel 1932 il GOP perse la Casa Bianca e subì un più che ventennale declino.

Tornò al potere nel 1952 con il generale Eisenhower e negli ultimi cinquantacinque ha occupato lo scranno presidenziale per tre decenni e mezzo.

Tradizionalmente su posizioni conservatrici in politica economica, escluso fino a Nixon dal voto del Sud e da quello degli immigrati, il partito repubblicano (il cui simbolo è l’Elefante), pur conquistando spesso – come si è visto – la presidenza, è stato, nel Novecento assai di sovente minoritario al Congresso.

In conclusione, a tutto il 2008, i Democratici hanno occupato la Casa Bianca per un totale di ottant’anni a partire dal 1828 quando Andrew Jackson sconfisse John Quincy Adams, mentre i Repubblicani, a far luogo dal 1860, allorché Lincoln batté Stephen Douglas, hanno esercitato la presidenza per novantadue anni.

I membri del partito dell’asino eletti alla massima carica da quando i due movimenti si confrontano direttamente (1856) sono stati nove e ben sedici quelli aderenti al GOP.

*Dice di sé
Mauro della Porta Raffo. Narratore e saggista, classe 1944, svolti più o meno svogliatamente mille diversi mestieri, ha intrapreso l’attività giornalistica nel 1996 su sollecitazione di Giuliano Ferrara, che lo ha ribattezzato “il Gran Pignolo” per la sua curiosità onnivora, per la propensione alla cultura erudita e la precisione dimostrata.
Per lo stile asciutto al servizio di un’informazione che di una notizia premia l’originalità e l’inedito, della Porta Raffo è collaboratore passato e presente di tutte le principali testate nazionali (“Corriere della Sera”, “Il Sole 24 Ore”, “La Stampa”, “Il Giornale”, “Il Foglio”, “Panorama”, “Oggi”, “Gente”, “Capital”, “La Gazzetta dello Sport”, “Vanity Fair”, “Il Giorno”, “Il resto del Carlino”, “La Nazione”, “Il Tempo”, “La Provincia”, “La Prealpina”).

 

ITALO CALVINOSono convinto che scrivere prosa non dovrebbe essere diverso dallo

scrivere poesia; in entrambi i casi è ricerca di un’espressione necessaria,

unica, densa, concisa, memorabile

(Da “Lezioni americane – Rapidità”, 1985)

INDICE DEI NOMI
Adams, John
Adams, John Quincy
Afeltra, Gaetano
Agnelli, Edoardo
Agnelli, Giovanni
Agnelli, Susanna
Agnew, Spiro Theodore
Alberoni, Francesco 
Allen, John
Altarocca, Claudio 
Anita, Ekberg
Anselmi, Giulio
Antoni, Carlo
Arbasino, Alberto 
Ares
Aretino, Pietro 
Ariosto, Ludovico
Aristotele 
Arthur, Chester Alan 
Asor Rosa, Alberto
Aspesi, Natalia 
Bacilli, Chiara 
Baldacci, Gaetano 
Baricco, Alessandro
Bartolomei, Pierluigi 
Bassani, Giorgio
Battisti, Lucio
Baudelaire, Charles 
Baudo, Pippo
Bava Beccaris, Fiorenzo
Bembo, Pietro
Benedetto XVI
Benvenuto, Antongiorgio
Berchet, Giovanni
Bergman, Ingrid
Berlusconi, Silvio
Biagi, Enzo
Binni, Walter
Blake, William
Blandiana, Ana (Otilia Valeria Coman)
Bocca, Giorgio
Bonaiuti, Paolo
Bongiorno, Mike
Bonnefoy, Yves
Bonolis, Paolo
Bosè, Miguel 
Bourbon del Monte, Virginia
Brancaleone, Carlo
Brera, Gianni
Brodolini, Giacomo
Bruni, Carla
Bryan, William Jennings
Buchanan, James 
Bukowski, Carles 
Burr, Aaron
Burzio, Filippo
Bush, George Walker 
Calogero, Guido
Calvino, Italo 
Caproni, Giorgio
Caracciolo, Marella
Carniti, Pierre
Carosio, Niccolò
Carrà, Raffaella 
Carter, James Earl (Jimmy) 
Castelvecchi, Editore 
Catania, Enzo
Cavani, Liliana 
Chiambretti, Piero 
Chiamparino, Sergio
Chiari, Walter
Chiusano, Vittorino 
Christian, Linda 
Christillin, Evelina
Churchill, Winston 
Ciampi, Carlo Azeglio 
Citati, Pietro 
Clerici, Gianni
Cleveland, Stephen Grover 
Clinton, DeWitt 
Clinton, George 
Clinton, William Jefferson (Bill) 
Colombo Fulvia 
Colombo, Furio 
Constant, Benjamin 
Conti, Febo 
Cordero, Erika 
Corgnati, Maurizio
Cosi, Marina 
Cox, James Middleton 
Craxi, Bettino 
Croce, Benedetto 
Crucillà, Vittorio 
Cruz, Penelope
Cuccia, Enrico 
Culicchia, Giuseppe
Cutolo, Alessandro
D’Alema, Massimo
D’Annunzio, Gabriele 
Dalla Chiesa, Carlo Alberto 
Dapporto, Carlo
Davico Bonino, Guido 
De Andrè, Fabrizio
De Angelis, Milo 
De Benedetti, Carlo 
De Cléreol, Alexis visconte di Tocqueville
De Gasperi, Alcide
De Michelis, Gianni 
de Plunkett, Patrice 
de Saint Exupéry, Antoine 
De Sica, Vittorio 
de’ Negri, Angelica Paola 
Di Collalto, Collatino 
Di Leo, Davide (Bootsa) 
Domenici, Leonardo
Donadoni, Eugenio 
Donati, Alba
Douglas, Stephen Arnold 
Durano, Giustino
Echevarría Rodriguez, Javier 
Eco, Umberto 
Eisenhower, Dwight David (Ike) 
Eliot, Thomas Stearns 
Elkann, Alain 
Elkann, John 
Elkann, Lapo 
Enriquez, Franco 
Escrivá de Balaguer, Jose María 
Faccio, Adele 
Fellini, Federico 
Feltri, Vittorio 
Ferrara, Giuliano 
Ferrario, Davide
Ferraro, Geraldine Anne 
Ficara, Giorgio 
Fillmore, Millard 
Fini, Massimo 
Finzi, Enrico 
Finzi, Matilde
Flaubert, Gustave 
Flora, Francesco 
Fo, Dario 
Ford, Gerald Rudolph 
Forssell, Lars 
Fortini, Franco 
Foschi, Franco 
Foscolo, Ugo 
Fossati, Mario 
Fracci, Carla 
Franco, Massimo 
Frémont, John Charles 
Fruttero, Carlo 
Fucini, Renato 
Galileo, Galilei 
Gallo, don Piero 
Garbo, Greta 
Garfield, James Abram 
Garibaldi, Anita 
Garibaldi, Giuseppe
Garzanti 
Gassman, Vittorio 
Gazzaniga, Gian Maria 
Gerosa, Guido 
Gesù Cristo
Gherardini, Giovanni 
Giovanni Paolo II 
Giovanni XXIII 
Givone, Sergio 
Goldwater, Barry Morris 
Gore, Alberto Arnold 
Gozzano, Guido 
Grassi, Paolo 
Grigoletti, Franco 
Grimaldi, Dada 
Guadagnino, Luca 
Guaiti, Giorgio 
Guala, Filiberto 
Habermas, Jürgen
Harding, Warren Gamaliel 
Harrison, Benjamin 
Harrison, William Henry 
Hayes, Rutherford Birchard
Heaney, Seamus 
Heidegger, Martin 
Hoover, Herbert Clark 
Humphrey, Hubert Horatio 
Jackson, Andrew 
Jackson, Jesse Louis 
Jacobbi, Ruggero
Jefferson, Thomas 
Jnifen, Afef 
Johnson, Andrei 
Johnson, Lyndon Baines 
Kant, Immanuel 
Keats, John 
Kennedy, John Fitzgerald 
Kerry, John Forbes 
Kristina Ti 
La Stella, Enrico 
Lama, Luciano 
Lami, Lucio 
Lanza, Cesare 
Lanza, Elda 
Laterza 
Leoni, Nino 
Leopardi, Giacomo 
Levi, Carlo 
Lincoln, Abraham 
Lindau 
Littizzetto, Luciana
Locatelli, Gianni 
Luttazzi, Lelio
Luzi, Mario 
Macario, Erminio 
Madison, James 
Magnaschi, Pierluigi 
Magritte, René 
Malaparte, Curzio 
Manfredi, Nino 
Mangiarotti, Marco 
Marasco, Nicoletta 
Marini, Andrea 
Martelli, Claudio 
Martinelli, Renzo 
Martini, Carlo Maria 
Martini, Claudio 
Martini, Paolo 
Martini, Simone 
Martino, Marianna 
Marx, Karl Heinrich 
Marzorati, Pier Luigi 
Mattei, Enrico 
Mauro, Ezio 
Mazzullo, Peppino 
McCain, John 
McGovern, George 
McKinley, William 
Melchiorre, Vito 
Messori, Vittorio 
Minoli, Giovanni 
Modugno, Domenico 
Mogol (Giulio Rapetti) 
Moncalvo, Luigi 
Mondadori, Leonardo 
Mondale, Waltre Frederick (Fritz)
Monroe, James 
Montale, Eugenio 
Moravia, Alberto 
Moro, Aldo 
Mussapi, Roberto
Mussolini, Benito 
Nannini, Gianna 
Nenni, Pietro 
Neruda, Pablo 
Nicoletti, Giuseppe 
Nietzsche, Friedrich 
Nixon, Richard Milhous 
Noël, Bernard 
Obama, Barack Hussein 
Oreglia, Giacomo 
Oscar Mondadori 
Osiris, Wanda 
Pannunzio, Mario 
Parini, Giuseppe 
Parker, Alton Brooks 
Parmentola, Antonella 
Passatelli, Santoro 
Pedrocchi, Luciano 
Péguy, Charles 
Pera, Marcello 
Pertini, Sandro 
Petrarca, Francesco 
Pfeiffer, Michelle 
Philipe, Gérard 
Piccinino, Biancamaria
Pirandello, Luigi 
Pizzinato, Antonio 
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Pugliese, Sergio 
Quasimodo, Salvatore 
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Quinzio, Sergio 
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Rawls, John 
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Revelli, Marco 
Riccardi, Antonio 
Rimbaud, Arthur 
Rizzoli 
Rodham Clinton, Hilary 
Rodi, Cesare 
Romiti, Cesare 
Rondoni, Davide
Roosevelt, Franklin Delano 
Roosevelt, Theodore 
Rossi, Ernesto 
Rowling, Joanne 
Sabelli Fioretti, Claudio 
Saffo 
Salvemini, Gaetano 
Salza, Abdelkader 
Santoro, Michele
Sapegno, Natalino 
Saragat 
Sarajli, Izet 
Sassu, Aligi 
Scalfari, Eugenio 
Sciascia, Leonardo
Scorsese, Martin 
Sgarbi, Vittorio 
Signori, Giulio 
Sivieri, Paola 
Smith, Alfred Emanuel (Al)
Sorgi, Marcello 
Spaccatrosi, Silvano 
Spiller, Attilio 
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Stampa, Gaspara 
Strehler, Giorgio 
Stuart Mill, John 
Stufa, Giulio 
Subsonica 
Taft, William Howard 
Taito, Mario
Taylor, Zachary 
Tilden, Samuel Jones 
Toaff, Elio 
Tognazzi, Ugo 
Torti, Giovanni
Tortora, Enzo 
Totò (Antonio De Curtis) 
Trentin, Bruno 
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Ungaretti, Giuseppe 
Valentini, Carlo 
Valli, Bernardo 
Valverde, José Maria 
Van Buren, Martin 
Varchi, Benedetto 
Veltroni, Vittorio
Veltroni, Walter
Vespa, Bruno 
Vianello, Raimondo 
Vico, Giambattista 
Viglianesi, Italo 
Vignali, Raffaello 
Vittadini, Giorgio
Viviani, Cesare 
Washington, George 
Wilson, Woodrow 
Yourcenar, Marguerite 
Zanzotto, Andrea 
Zoppelli, Mario 
Zucconi, Guglielmo
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