Edizione n. 6

INTRODUZIONE Cesare Lanza - Un bagliore di speranza

Sono passati tre giorni dal risultato elettorale, è giovedì 17 aprile, e stiamo per andare in stampa. Quando l’Attimo arriverà a destinazione, saremo nel pieno delle varie battaglie per la nomina dei presidenti della Camera e del Senato, per la composizione del quarto governo Berlusconi e delle sue prime, attesissime mosse.

Mi sembra corretto affidare ai nostri lettori qualche riflessione scritta “prima” di queste importanti scelte. Non voglio essere condizionato dalle notizie sugli intrighi e sui compromessi legati da sempre, inevitabilmente, agli accordi su chi e come gestirà il potere politico nei prossimi cinque anni.

Mi definisco, e sono considerato da chi mi conosce, un iper pessimista. Forse vi sorprenderà, e, vi assicuro, sono sorpreso io stesso, di trovare almeno un notevole elemento di soddisfazione nel risultato elettorale. Questo: mi sembra che l’elettorato, ovvero milioni e milioni di italiani, abbiano seguito convincimenti forti per arrivare ad un primo traguardo importante: un verdetto chiaro.

Mille volte ho scritto, negli ultimi lustri, che alla radice della confusa decadenza del nostro Paese ci fosse un’inspiegabile (per me) e grottesca radice: una vocazione a fare “altro”, a prescindere, anziché il proprio dovere. Il magistrato che vuole fare, o, comunque, fa il politico. Il politico che contesta la giustizia e in qualche modo vuole sostituire o contesta l’autonomia della magistratura. L’imprenditore che, anziché pensare all’impresa, flirta con i vari poteri che in qualche modo possano facilitargli, anche scorrettamente, successo e guadagni.

Il lavoratore che, anziché svolgere il suo compito con senso di responsabilità, decide di entrare disinvoltamente in scioperi devastanti, infischiandosi dei diritti degli altri. L’impiegato allo sportello che tortura, con i suoi umori e le sue incapacità, i poveracci obbligati, in file disumane, ad ottenere ciò che spetta loro di diritto: chiunque in Italia indossi una divisa, o detenga un minimo di potere, si sente, automaticamente, autorizzato a comportarsi con arroganza, senza rispetto per il prossimo suo – che dovrebbe servire con umiltà e devozione.

Il banchiere che toglie il sostegno a chi ne ha onestamente bisogno per regalare crediti immensi a ladroni senza scrupoli. Il conduttore televisivo che vuole insegnare al Papa che cosa debba fare o no. Il sacerdote che non rispetta la missione per la quale ha dedicato l’anima sua al Dio in cui crede, si concede tranquillamente le esperienze sessuali che gli sarebbero vietate e mette perfino al mondo un figlio, senza neanche la dignità di un minimo, indispensabile gesto: spretarsi.

Il giornalista che anziché informarmi (anche su dati elementari, un nome esatto di una persona o di una strada, l’ora di un avvenimento, di un appuntamento… la ricostruzione di un fatto di cronaca) cede alla tentazione prioritaria di stordirci con le sue non richieste e poco apprezzabili opinioni personali, su qualsiasi tema. Potrei continuare a lungo, perché il veleno di questa confusione è diffuso e trasversale, fino alla comicità, anche irrilevante, ma significativa: ad esempio, per sorriderne, cito tutti (o quasi) gli italiani appassionati di calcio, me compreso, che ritengono di poter essere il miglior allenatore possibile della Nazionale di calcio; e le “veline”, le belle ochette invitate a sentenziare nei salotti televisivi su qualsiasi importante questione nazionale, di cui nulla sanno e ancor meno capiscono.

Non è più una società rispettabile, quella italiana, ma un circo equestre di ultima categoria, un suk, un bazar, un luna park, un ghetto invaso dalla monnezza e dal pressappochismo. Ebbene, dal risultato elettorale è uscito, dopo il caos del 2006, inaspettatamente un verdetto chiaro. C’è un centrodestra che, se vuole e se ne ha la capacità, ha la possibilità di governare senza tentennamenti e senza contraddizioni e compromessi. E c’è all’opposizione un partito riformista che, se vuole e se ha la capacità, può vigilare sulla condotta del governo e prepararsi, strutturarsi per la prossima sfida.

Dal Parlamento e dal Senato sono stati spazzati via l’estrema destra e l’estrema sinistra: una punizione che può avere aspetti negativi, ma il verdetto è limpido e questo, comunque, è ciò che vuole il nostro Paese – disgustato da troppe contraddizioni: nell’ultima legislatura abbiamo perfino assistito a chi, nel governo, contribuiva a varare leggi certo discutibili e subito dopo andava in piazza per contestarle!

In Italia, nell’aprile dell’anno di grazia 2008, non funziona nulla. Esiste la possibilità, per il nuovo governo, di arrivare ad una svolta. A mio parere, il primo dovere verso i giovani è un segnale chiaro che dia conto della buona intenzione di tornare ad un criterio selettivo insostituibile: la meritocrazia. Basta con spintarelle, raccomandazioni e inciuci. Basterebbe questo per dare forza alle residue speranze di un’opinione pubblica disorientata, smarrita, sfiduciata. Dopodiché, si potrebbero affrontare con altro spirito gli immensi problemi che ci affliggono.

L’elenco è noto: scuola e università a pezzi, malasanità, criminalità dilagante, giustizia lacerata e contraddittoria, disoccupazione, trasporti da terzo Mondo.
Durante la campagna elettorale abbiamo sentito buone intenzioni, promesse esaltanti e programmi sulla carta persuasivi. Gli elettori, piaccia o no, hanno scelto in maniera limpida. Ora ci aspettiamo che i politici al governo ci diano segnali chiari per ricostituire un pur minimo rapporto di fiducia, indispensabile per far funzionare una società democratica: la dimostrazione che non pensino prioritariamente ad interessi particolari, ma al bene della comunità.

Dispiace dirlo, ma a destra e sinistra non è stata certo questa la sensazione percepita dagli italiani, negli ultimi lustri. Ora c’è un bagliore di speranza: solo un bagliore, ma un bagliore chiaro; solo questo abbiamo e solo in questo, per non arrenderci all’idea che siamo ormai ineluttabilmente un circhetto devastato dall’immondizia, possiamo e – forse – dobbiamo credere.

Cesare Lanza

 


LUIGI STURZO
La Costituzione è il fondamento della Repubblica.Se cade dal cuore del popolo, se non è rispettata dalle autoritàpolitiche, se non è difesa dal governo e dal Parlamento, se èmanomessa dai partiti verrà a mancare il terreno sodo sul qualesono fabbricate le nostre istituzioni e ancorate le nostre libertà.(Da “Discorso al Senato della Repubblica”, 27 giugno 1957)

DICEARCO DI MESSINA
La politica non consiste in tenere una carica, in assumereun’ambasceria, in affannarsi a parlare e scrivere per raggiungerela tribuna degli oratori (…). Politica invece fa chi è socievole eumano e vuole il bene della sua città, e se ne prende cura perdavvero, anche se non veste la montura, eccitando icompetenti al governo, guidando chi ha bisogno,e incutendo pudore agli scellerati.(Da “Tripolitico” VI sec. a.C.)
COPERTINA Cesare Lanza - Margherita Agnelli: Le donne fronteggiano la realtà e creano sogni

Margherita Agnelli: “Il microcredito non è filantropia, è un elemento costitutivo della finanza globale e favorisce in maniera efficace uno sviluppo economico e sociale durevole”

Cesare Lanza

Avere la possibilità di intervistare Margherita Agnelli de Pahlen induceva ad un’inevitabile tentazione giornalistica: parlare della sua prestigiosa famiglia e approfittare di una buona occasione per approfondire i retroscena delle cronache relative alle battaglie per l’importante eredità lasciata dall’Avvocato.
La tentazione è stata spazzata via, subito, dalla scelta dichiarata di Margherita: nessuna domanda, e neanche generici accenni, sulla sua vita personale e sulla chiacchieratissima vicenda, che ormai ha assunto anche delicati aspetti processuali. Ritengo che per i lettori dell’Attimo (una rivista slegata, anche per la sua periodicità bimestrale, da necessità e obblighi riferiti all’attualità quotidiana) possa risultare interessante un’intervista incentrata sulle attività della signora Agnelli, protagonista di un settore innovativo, e relativamente poco conosciuto, dello sviluppo economico: il microcredito.

Signora Agnelli, da circa sette anni opera nel settore del microcredito, attraverso il Blue Ochard (fondo d’investimenti con sede a Ginevra, di cui è socio fondatore). Come ha conosciuto questo settore?

“Ho discusso e discuto molto con gli amici e i parenti sui bisogni sociali e sulle realtà sociali, i problemi dei rapporti Est–Ovest, il capitalismo contro il comunismo, la dialettica Nord–Sud e, improvvisamente, il lavoro con i microimprenditori mi ha indicato un modo nuovo per uscire da tutte le ideologie in conflitto. Già nel 1997 mi ero avvicinata alla realtà del microcredito. Nel 2001, quando mi sono trasferita a Ginevra, ho conosciuto Jean-Philippe de Schrevel e Melchior de Muralt e sono subito stata entusiasta del progetto di Blue Orchard.

Adesso Blue Orchard è una realtà: siamo cresciuti e contiamo su 20 collaboratori rispetto ai 2 con cui avevamo iniziato. Possediamo un ufficio a Ginevra, uno a New York e uno a Lima. Abbiamo un capitale di 700 milioni di dollari in gestione e con questo finanziamo circa 100 microbanche in 33 mercati emergenti. Blue Orchard ha indirettamente aiutato il finanziamento di diversi milioni di microimprenditori”.

Può spiegare, brevemente, in cosa consiste il microcredito?

“Per iniziare, vorrei precisare in cosa non consiste il microcredito, ovvero chiarire che la microfinanza non è filantropia: è un altro elemento costitutivo della finanza globale e favorisce in maniera veramente efficace uno sviluppo economico e sociale durevole per i clienti del microcredito. Il microcredito è uno strumento di sviluppo economico che permette l’accesso ai servizi finanziari alle persone in condizioni di povertà ed emarginazione.

La difficoltà di accedere al prestito bancario a causa dell’inadeguatezza o della mancanza di garanzie reali e delle microdimensioni imprenditoriali, ritenute troppo piccole dalle banche tradizionali, non consente a queste attività produttive di avviarsi e svilupparsi libere dall’usura. I programmi di microcredito propongono soluzioni alternative per queste microimprese e in un certo senso sono paragonabili ai prestiti d’onore”.

A chi si rivolge il microcredito?

“Innanzitutto vorrei ricordare alcune cifre: il 43% della popolazione del mondo vive senza assistenza sanitaria di base, il 18% senza corrente. Il 13% è affamato o malnutrito, il 14% non sa leggere. Il 18% lotta per vivere con 1 dollaro al giorno; il 53% con due dollari al giorno. Ogni anno, più di 1.120 miliardi di dollari sono destinati alla spesa militare e solo 100 miliardi in aiuti allo sviluppo. Il 6% più ricco della popolazione possiede il 59% della ricchezza del mondo. In sintesi ci sono 4 miliardi di persone che vivono con due dollari al giorno e metà di loro con ancora meno. È a queste persone che ci rivolgiamo, siamo consapevoli che quello che facciamo nome di Blue Orchard vuole ricreare il motivo che ha reso attraente l’idea di un frutteto, una serra; è l’idea di imparare a usare il sistema di irrigazione goccia a goccia in uso nei nostri giardini”.

Cosa l’ha spinta ad operare, concretamente, in questa direzione?

“Ho creduto da subito in quella che è la forza del microcredito, ovvero che garantendo l’accesso al credito a persone che non ne avrebbero la possibilità, si rispetta la dignità, in quanto sfugge, se gestito correttamente, a dinamiche assistenzialiste, rispetta le preferenze dei beneficiari, valorizza le potenzialità creative offerte dai contesti locali e migliora le capacità di gestione di coloro che vi hanno accesso. Non bisogna dimenticare, infatti, che la microfinanza è un mercato in crescita. Ho compreso inoltre che il microcredito oggi ha una funzione sociale che, da una parte, garantisce l’investitore e dall’altra funge da motore di sviluppo, creando una serie di microimprese familiari attive, che portano valore nelle comunità locali, ma il cui beneficio si riflette positivamente anche a livello di paese. Infine, due fattori significativi che, da sempre, mi spingono a credere nel microcredito:

– Il primo: il 90 % dei destinatari di microcrediti sono donne. Infatti, spesso, quando l’estrema povertà rappresenta la realtà quotidiana di una famiglia, gli uomini trovano grande difficoltà nell’affrontare questa condizione e tendono così a disintegrarsi o sprofondando nell’alcool, oppure abbandonando le famiglie. Le donne vengono lasciate sole con i figli, che non possono abbandonare. Sono quindi le donne che fronteggiano la realtà, creano un sogno e sono loro a tesserlo nelle proprie vite anche solo con 100 dollari. Non bisogna dimenticare che alcune di queste donne non hanno mai visto o toccato del denaro nel corso della loro vita precedente. Credo che permettere alla creatività dell’animo femminile di esprimersi porti una “cultura di pace”, poiché l’animo delle donne
è più pragmatico e vicino a una economia reale.

– Il secondo: i clienti non hanno altro modo di garantire il credito, se non la parola data e la solidarietà del gruppo di lavoro creato. Non è difficile garantire anche per un altro compagno di lavoro quando si appartiene allo stesso villaggio, ci si conosce da sempre e si hanno gli stessi obiettivi. In questo modo si crea un circolo virtuoso su un mutuo sostegno, tanto che, in alcuni paesi il giorno fissato per la restituzione del prestito all’istituzione o alla non è che una goccia in mezzo all’oceano, ma per le microbanche e il microcredito ciò rappresenta un’enorme potenzialità. Il banca che l’hanno concesso, si trasforma in un giorno di festa; l’intero villaggio si riunisce e festeggia perché tutti capiscono che quel denaro ritornerà in circolazione. La persona liberata dal debito passerà
quel denaro a quelli che ancora lo aspettano e così via.

Questa sensazione di gioia, di dignità e libertà è ciò che permette al flusso della vita di scorrere ed è precisamente questa la chiave per il crescente successo della microfinanza”.

Negli ultimi anni è stata spesso in Bosnia e in altri paesi in via di sviluppo. Che immagini porta con sé da quei posti?

“Sono stata in questi anni in Bosnia, in Serbia e in Montenegro e ho visto come l’operatore della banca di microcredito, che lavora sul campo, non è solamente la persona che si occupa della restituzione del debito, ma prima di tutto si preoccupa di incontrare le donne, di organizzarle in gruppi, di sviluppare progetti economici praticabili, incoraggia e istruisce, quando è necessario, e quasi sempre riesce a interpretare le richieste degli assistiti. Un progetto a cui sono molto legata si è sviluppato in Bosnia. Un progetto dove la creatività, la tenacia e le doti manageriali di una donna si sono sostenuti ed integrati a vicenda. Ci troviamo in una città rurale a circa 1 ora da Sarajevo.

Le “clienti” del fondo Blue Orchard sono due donne, madre e figlia che sono riuscite in una arco temporale di tre anni a sviluppare un business di successo nel settore della pasticceria. La storia ha inizio nel periodo del conflitto: le due donne fuggono in Austria presso dei parenti, mentre il marito resta in patria a combattere. Al termine del conflitto ritornano a casa e trovano una situazione disastrosa: il marito invalido (mutilato) e che quindi non può più lavorare, la loro abitazione distrutta. Devono far fronte a tale emergenza e la figlia ha una idea.

La madre in paese era conosciuta per al sua abilità nel preparare le torte per le varie occasioni di festa (dai matrimoni ai battesimi) ed era questo diventato un suo compito quasi “sociale”. Questa passione si arricchisce di ulteriore esperienza grazie alle nuove ricette imparate durante il soggiorno in Austria.

Nasce quindi l’idea di far diventare questa passione/idea un lavoro vero e proprio. Si recano quindi dalla persona che si occupa di microcredito a Sarajevo (collegato a Blue Orchard) e con lui sviluppano un vero e proprio business plan, dall’approvvigionamento degli ingredienti, alla loro conservazione, alla cottura delle torte alla consegna a domicilio nella vicina Sarajevo. In soli due anni di lavoro, le donne hanno restituito tutti i prestiti ottenuti che le hanno permesso di costruire una vera e propria pasticceria artigianale con una produzione di tutto rispetto, una vera e propria piccola impresa. All’inizio erano solo loro a lavorare: ora hanno 3 forni, 6 dipendenti ed un camioncino con il quale la figlia si occupa della consegna quotidiana dei dolci in città”.

Quali sono le priorità su cui intervenire?

“Partendo dal presupposto che i tradizionali strumenti filantropici hanno in buona parte dimostrato la loro inadeguatezza, perché “fonti esauribili di energia”, una delle priorità è quella di trovare una soluzione del problema nel lungo periodo che deve avere le caratteristiche di una “fonte rinnovabile”, in grado di autoalimentarsi anziché esaurirsi nell’uso.

Uno degli obiettivi è quindi lo sviluppo socialmente sostenibile, in grado di creare profitto per gli investitori e, allo stesso tempo, valore per i clienti del microcredito dando così luogo a uno sviluppo sociale significativo. Il tutto però necessita di un cambiamento culturale a tutti i livelli: è importante assumersi la responsabilità che deriva dal fatto di abitare nei paesi ricchi e non vedere più il profitto e l’impegno sociale come fattori antitetici, ma, al contrario, come leve di un medesimo circolo virtuoso, in grado di sostenersi a vicenda nella costruzione di uno sviluppo sostenibile. Infine, per quanto riguarda le donne, offrire loro i mezzi per elevarsi fuori dalla povertà significa trovare un modo efficace di strutturare una realtà in via di sviluppo e di rispondere a una necessità vitale di un numero incalcolabile di persone”.

 

 

LUIGI PIRANDELLO
Perché, quando il potere è in mano d’uno solo, questo uno sad’esser uno e di dover contentare molti; ma quando i moltigovernano, pensano soltanto a contentar se stessi,e si ha allora la tirannia più balorda e più odiosa:la tirannia mascherata da libertà.(Da “Il fu Mattia Pascal”, 1903)
GEORGE ORWELL
Sapere dove andare e sapere come andarci sono due processimentali diversi, che molto raramente si combinano nella stessapersona. I pensatori della politica si dividono generalmente indue categorie: gli utopisti con la testa fra le nuvole,e i realisti con i piedi nel fango.(Da “Profilo di sir Richard Acland”-“Gli anni dell’Observer”, 1942-1949)
ATTUALITÁ R.d.A. - Donnie Brasco, l’infiltrato che azzerò la mafia newyorkese Vincenzo Zeno Zencovich - Alla Corte di Lord Bingham INTERVISTE Matteo Lo Presti - Emirati Arabi-Italia, parla l’ambasciatore Abdulhamid Abdulfatah Kazim

“Il rispetto degli accordi internazionali e i diritti umani sono fondamento della pace tra i popoli”

 Matteo Lo Presti*

E’ difficile che un bambino sogni di diventare ambasciatore. Quando e perché ha pensato di dedicarsi alla vita diplomatica?

“Negli Emirati Arabi Uniti non è difficile per un bambino sognare di diventare ambasciatore o ministro, perché la strada è aperta. A tutti sono offerte le condizioni per affermarsi con la propria personalità, abilità e titoli di studio. Lo stato degli Emirati, dalla sua fondazione, ha posto l’uomo al centro dell’attenzione dei governi, ha fatto sempre in modo che migliorasse il suo livello culturale, scientifico, sociale considerando non il denaro o le risorse naturali,  ma l’uomo la vera ricchezza del paese. Inoltre ha permesso alle nuove generazioni, uomini e donne, di diventare leader nei vari settori, aprendo la possibilità ai giovani di assumere incarichi importanti nella vita pubblica del governo e in altri settori della pubblica amministrazione. Abbiamo, nel governo attuale, quattro ministri donne e inoltre circa il 22% del consiglio federale nazionale è composto da donne.

Ho pensato di entrare nella carriera diplomatica da quando frequentavo il liceo, perché ho mostrato, sempre, un grande interesse per tutto ciò che accadeva intorno a noi, soprattutto per gli eventi politici. Inoltre, ho letto sempre molto i saggi e i memoriali dei grandi uomini politici, i libri di storia antica e contemporanea, seguendo con interesse gli avvenimenti di ciascun’epoca.

Dopo la scuola superiore mi sono iscritto all’università, alla facoltà di scienze politiche, poi sono entrato a lavorare al Ministero degli affari esteri, con diversi incarichi, fino a quello di ambasciatore del mio Paese qui in Italia. Ho sempre avuto la passione di diventare ed essere un diplomatico di successo, per offrire il mio servizio alle nazioni nel mondo”, rappresentando il mio paese al meglio, lavorando con devozione, garantendo e curando sempre gli interessi del mio paese.

Quali sono le virtù e le abilità che un ambasciatore deve mettere in campo per meglio svolgere la sua attività?

“Lavorare come ambasciatore è un incarico particolare, che necessita di personalità e di caratteristiche e titoli utili per aver la capacità di rappresentare il proprio paese nel migliore dei modi, per creare buoni rapporti con la nazione nella quale si presta il proprio servizio. Il principale compito di un ambasciatore è sempre di proteggere gli interessi del proprio Paese presso il Paese ospitante, promuovere, rafforzare, sviluppare i rapporti bilaterali in tutti i campi: politico, economico, commerciale e culturale. Quindi è opportuno creare sempre più larghi contatti, a tutti i livelli, tra i rappresentanti politici, gli uomini d’affari e del mondo dell’informazione, con particolare interesse a rafforzare tali rapporti.
Un ambasciatore attivo non deve essere impegnato solo dietro la sua scrivania, in un ruolo di routine d’ufficio dentro l’ambasciata, ma deve invece uscire, per costruire ampi rapporti con le autorità pubbliche dello stato ospitante, presso i ministeri, enti locali, ecc.”.

Lei viene da un paese che ha antiche tradizioni di civiltà: quali sono gli elementi culturali che meglio caratterizzano il suo Paese?

“Lo stato degli Emirati Arabi Uniti ha un patrimonio ricco e diversificato, ed ha alle sue spalle una storia molto antica: gli insediamenti umani nomadi, gli accampamenti nel deserto, la fauna naturale, oltre ad una profonda tradizione sociale, la musica, la letteratura, la poesia e ad un antico artigianato locale, assai originale. Oggi sono numerose le manifestazioni e gli eventi culturali, artistici scientifici, organizzati e sponsorizzati dalle istituzioni pubbliche e dagli enti privati, al fine di arricchire il presente, rivivendo la tradizione, incoraggiando e stimolando sempre nuovi talenti”.

Milioni di persone provenienti da tutto il mondo visitano il suo paese che offre suggestive condizioni d’ospitalità e d’accoglienza rispettosa di tutte le culture: Dubai la città più famosa degli Emirati Arabi Uniti è un modello per una possibile città del futuro.

“Ritengo che gli Emirati Arabi Uniti, in generale, e Dubai, in particolare, abbiano realizzato un concreto sviluppo in un arco di tempo, relativamente, breve dalla fondazione dello stato federale nel 1971. E continua ancora, con un’attenzione precisa allo sviluppo tecnologico mondiale come mezzo per ottenere sempre migliori risultati e creare il terreno ideale per attirare gli investimenti stranieri. La costruzione di infrastrutture, servizi, alberghi, ospedali, istituti universitari fa degli Emirati uno dei paesi più all’avanguardia nel mondo.

Dubai possiede gli elementi per essere una città proiettata nell’innovazione, non solo per i servizi che offre, ma anche perché garantisce le giuste regole per la sicurezza e la stabilità del Paese. Tutto ciò crea un ambiente ideale per il turismo, gli investimenti, il commercio e la finanza. Bisogna, inoltre, ricordare la convivenza pacifica e la solidarietà che rappresentano una delle caratteristiche della società emiratina, nel quale convivono più di 160 nazioni provenientida tutto il mondo, che esercitano il loro culto religioso in libertà, nel rispetto dei loro diritti: un modello di società da prendere in considerazione in tutti i paesi del mondo”.

I paesi del Golfo persico sono al centro delle attenzioni internazionali per la loro grande potenza economica e per il ruolo che svolgono nel processo di rafforzamento della pace in medio Oriente: quali sono le linee guida della politica estera del suo Paese?

“L’orientamento della politica estera dello stato degli EAU ha regole rigorose e principi chiari che si basano sempre sul rispetto reciproco e su buoni rapporti bilaterali, sia con i Pesi vicini, senza interferire negli affari interni di altre nazioni, sia creando rapporti saldi nel mondo nell’interesse comune, per sviluppare una collaborazione internazionale atta a risolvere le controversie pacificamente. Tutto questo si svolge nel rispetto degli accordi e delle leggi internazionali, appoggiando i diritti umani, per la realizzazione della sicurezza e della pace, ampliando i rapporti verso una sana alleanza tra i popoli”.

Nella cultura del dialogo tra i popoli si usa sostenere “quando incontri un viandante non chiedergli da dove viene, chiedigli invece qual è la meta del suo cammino”. È un’utopia pensare che i nostri figli possano vivere in un mondo di pace?

“I nostri bambini possono vivere in un mondo di pace, se la pace rappresenta l’obiettivo primario. Noi viviamo in un mondo in cui ci sono grandi ostacoli alla pace, in cui regnano l’odio e i malintesi, in cui non sappiamo capire l’altro. Nascono così grandi drammi come la guerra, il terrorismo, la povertà. Occorre quindi collaborare e dialogare, discutere su questi temi con la massima serietà per arrivare ad una soluzione radicale di questi problemi. Torniamo allora un’altra volta al principio del vivere costruendo una solidarietà internazionale, che ha come risultato la pace. Gli Emirati Arabi Uniti, realmente, rispetto a questo, sono un esempio di convivenza civile e multiculturalità”

Da qualche anno vive in Italia: cosa le piace del nostro Paese? Che cosa le crea curiosità e che cosa, come ambasciatore, le piacerebbe chiedere ad un italiano per avere la spiegazione più utile?

“L’Italia è un Paese di grande civiltà antica, nel quale si avverte l’odore della storia; ho avuto modo di apprezzare i suoi monumenti, considerando anche lo sforzo per la loro conservazione e cura: una cosa unica al mondo. Oltre ai beni culturali in Italia c’è anche una natura magica: dalle montagne innevate, alle coste frastagliate con le bianche spiagge fino al verde della pianura.

Devo dire che ho apprezzato molto la capacità italiana nel saper preservare nel tempo i monumenti ed allo stesso modo garantire la protezione dell’ambiente, degli spazi verdi, delle bellezze naturali, dimostrando così la maturità e la buona cultura del popolo italiano che, ritengo debba, comunque, aprirsi ancor più al mondo esterno oltre le frontiere europee.

Per quanto riguarda la mia curiosità nei confronti dell’Italia, noto sempre con stupore quanto gli italiani amino la vita, cerchino di goderla fino in fondo e di trarne il massimo vantaggio. Gli italiani sono un popolo ottimista, che ama il bello ed è incline a scegliere gli oggetti migliori per i propri acquisti, a prenotare le vacanze migliori e, più in generale, a spendere il proprio denaro per il “qui ed ora”, senza troppo curarsi del futuro, vivendo attimo per attimo ciò che di bello riserva la vita.

Quello che mi piacerebbe chiedere per soddisfare la mia curiosità è, certamente, come riescono gli italiani a conciliare questa loro natura in un certo senso “godereccia” con i problemi economici e la crisi che l’Italia sta vivendo in questo momento storico così particolare. Come riescono dunque ad essere ancora così ottimisti?”.

Quali sono i rapporti tra i nostri due paesi e quali sono le prospettive di collaborazione e in quali settori economici e culturali?

“Gli Emirati Arabi Uniti hanno rapporti storici, forti e privilegiati con l’Italia, che hanno conosciuto, recentemente, un ulteriore sviluppo in tutti campi. Promuovere i rapporti bilaterali, specialmente in campo economico e commerciale è uno dei temi principali in tutte le attività del governo e del settore privato negli Emirati. A tale proposito possiamo notare la crescita degli scambi commerciali tra i due paesi, negli ultimi anni: ha raggiunto i quattro miliardi di euro nel solo 2007. Questa crescita ha aumentato il numero di società italiane presenti negli Emirati con un incremento fino a 235 nuove società e con un volume di investimenti tra i due paesi pari a circa 3,8 miliardi di euro.

Nel 2006 si è constatato un giro d’affari superiore del 28% in confronto al 2005. Questi numeri sono la dimostrazione del buon andamento economico-commerciale tra i due paesi. Possiamo considerare questo un modello ottimale di rapporti basati sulla cooperazione e l’interesse reciproco. L’ambizione degli Emirati Arabi Uniti e dell’Italia è quella di rafforzare i rapporti di scambio e la cooperazione in tutti i settori. Ci auguriamo che questi rapporti possano essere unici, in riferimento al progresso e all’evoluzione reciproca, per rappresentare un esempio forte e duraturo di pace e prosperità”.

La cultura araba è legata molto all’attenzione verso gli animali, dai falconi, ai cammelli, alla passione per i cavalli: può spiegare perché questi preziosi animali sono parte viva della vostra vita sociale?

“Negli Emirati consideriamo l’animale una presenza importante del passato e del presente nella nostra civiltà e nella nostra vita sociale. In particolare nel nostro passato prima della scoperta del petrolio, quando la vita era semplice, abbiamo utilizzato molti di questi animali, in particolar modo il cammello, in quanto a quel tempo era l’unico mezzo di trasporto: la famosa “nave del deserto”. Il cammello ha avuto, sicuramente, un ruolo determinate nella vita del Beduino di quel tempo, una fonte di vita per la popolazione ed una misura di ricchezza per le tribù. Chi possedeva il maggior numero di cammelli era considerata la più ricca delle tribù.

Per quanto riguarda il cavallo arabo, è certamente un animale legato alla nostra tradizione. Era usato come mezzo di spostamento in guerra, vista la sua forza e velocità, ma era anche molto apprezzato e famoso, nel mondo, per la sua eleganza e rara bellezza. Altro animale di grande considerazione nella nostra tradizione è l’aquila – e così il falcone – simbolo di forza, ha sempre avuto un ruolo di grande rinomanza tra le popolazioni di quell’area e, nel passato, era addestrata per la caccia di volatili e conigli selvatici. Oggi questo animale, che rappresenta una parte di storia della nostra tradizione, ha dato forza alla fondazione di club e associazioni per proteggere e conservare la razza e la tradizione presso le generazioni future, con l’organizzazione di manifestazioni che prevedono lo svolgimento di gare nell’arco di tutto l’anno. In tal modo si incoraggiano i giovani a mantenere sempre vivo, anche con lo sport, le usanze e i costumi del passato degli Emirati arabi. Il nostro Paese è stato accolto da tutti con grande apprezzamento e ha sempre inteso preservare nel tempo, e con ogni mezzo, la sua ricca tradizione, facendola conoscere in tutto il mondo”.

1) Abdulhamid Abdulfatah Kazim nasce a Dubai nel 1957. Dopo la laurea in Scienze politiche e aver completato gli studi di specializzazione negli Stati Uniti, intraprende la carriera diplomatica: nel 1982 è terzo segretario presso il Ministero degli esteri degli Emirati Arabi Uniti, nel dipartimento generale per gli Affari politici. Il suo percorso diplomatico continua, come console presso l’ambasciata degli Emirati Arabi a Jakarta. Nel 1996 viene trasferito a Washigton DC, dove è nominato ministro plenipotenziario. Fino al 2003 è a Londra; ritornato negli Emirati Arabi, viene trasferito a Roma, dove ottiene, nel 2005, il primo mandato diplomatico come ambasciatore degli Emiarti Arabi Uniti all’estero.

*Dice di sé.
Matteo Lo Presti nato a Spilimbergo (Pordenone) nel 1944: dal padre siciliano ha ereditato il gusto prepotente per la libertà e dalla madre friulana il sapore onesto per il rigore e la solidarietà umana. Cresciuto a Genova ha studiato al Liceo Colombo lo stesso frequentato da Fabrizio De Andrè ed Enzo Tortora. Laureato in filosofia, ha imparato da Pietro Nenni e Sandro Pertini cosa valgano nella vita giustizia e libertà. Giornalista da tanti anni: Cesare Lanza suo direttore al quotidiano “Il Lavoro” gli ha insegnato a non avere paura delle notizie e del potere.

ALCIDE DE GASPERICi sono molti che nella politica fanno solo una piccolaescursione, come dilettanti, ed altri che la considerano e tale è

per loro, come un accessorio di secondarissima importanza.

Ma per me, fin da ragazzo, era la mia carriera, la mia missione.

(Da “Lettere dalla prigione”, 6 agosto 1927)

BELPAESE? Federico Filippo Oriana - Politica facci sognare! La legislatura della svolta

Tecnologia, infrastrutture, concretezza, modernità, logica del fare e non del veto, imprenditorialità, spazio ai giovani: sono tutti sviluppi possibili presenti nel DNA degli italiani

 Federico Filippo Oriana*

Il tema che mi richiede il direttore Cesare Lanza è, null’altro, che il naturale seguito del mio articolo, dell’edizione di febbraio della rivista, nel quale trattavo dei mali italiani, del rischio di declino strutturale, dei possibili esiti di quest’interminabile crisi. Infatti, se la politica – come io fortissimamente credo – null’altro è (cioè dovrebbe essere) se non un servizio pubblico al popolo – esattamente come la scuola, la sicurezza, la viabilità – un nuovo governo e un nuovo parlamento devono essere visti solo come un’opportunità ai fini del benessere della gente. E poiché, più precisamente, la politica è il “servizio dei servizi”, in quanto tutti li coordina e ne costituisce il presupposto giuridico-organizzativo, una nuova stagione politica deve essere valutata (e sollecitata), solo ed esclusivamente, in questa chiave di opportunità per i problemi e le speranze della nostra vita associata.

Naturalmente lo svolgimento del tema sulle priorità e le linee essenziali di una nuova azione politico-governativo-parlamentare, dipende molto da quale sarà il nuovo governo, dato di cui non dispongo nel momento in cui rilascio questo articolo. E questo se, da un lato, mi espone ad un rischio e all’indeterminatezza, dall’altro, però, rende più oggettivo e, come dire, più “patriottico” e meno politicienne quello che dirò.

Per non cadere in una visione “costruttivistica” e, quindi, provinciale, che non tiene conto delle regole e dei meccanismi vigenti a livello mondiale, in questa particolarissima fase storica (che definirei di globalizzazione zoppa), è obbligatorio partire dall’esame dei casi rappresentati dagli altri Paesi assimilabili al nostro.

Intanto tutte le success stories recenti sono basate sulla bassa fiscalità: pensiamo all’Irlanda e alla stessa Spagna. Nel primo caso si è messo in atto, sin dagli anni ’70, un sistema fiscale basato tutto sull’esenzione fiscale per le imprese, volto a favorire, in particolare, i nuovi insediamenti: oggi, però, l’Unione Europea non consentirebbe a un paese-membro di varare un sistema di quel tipo e se l’Irlanda può ancora (parzialmente) averlo è per concessioni legate al suo storico sottosviluppo col quale si è presentata alla Comunità Europea nel 1973. Quanto alla Spagna, il suo vero vantaggio è di essere partita senza debito pubblico, per la mancanza di un sistema diwelfare con il quale è entrata nella democrazia dopo la fase franchista. Tutte le risorse – in particolare quelle internazionali ed europee – si sono potute, quindi, indirizzare allo sviluppo economico – nel caso spagnolo fondato, basilarmente, su turismo, edilizia e infrastrutture – facendo affidamento su una sobrietà di vita e uno spirito di sacrificio della popolazione che in Italia non esiste più dagli anni ’50 (e che infatti aveva generato allora il cosiddetto “miracolo economico”): per usare una parafrasi di tipo cesareo, agli spagnoli è stato dato l’aratro e non il pane.

Come possiamo allora noi, con il carico di un debito pubblico mostruoso, ad uscire dal circuito perverso che ci sta attanagliando almeno dal 1992: alte tasse, meno sviluppo economico, quindi meno entrate fiscali, maggior deficit e debito pubblico, aumento delle tasse per fronteggiarlo, e via così? Non si può, a mio avviso, in questo momento, fare un rinvio semplice alla “curva di Laffer”, ossia “gettiamo il cuore oltre l’ostacolo” e diminuiamo la pressione fiscale generale, questo determinerà sviluppo e lo sviluppo aumenterà le entrate dello Stato più che compensando così le minori tasse, e consentendo ulteriori diminuzioni tributarie e nuovo sviluppo con un circolo virtuoso.

Si sarebbe potuto (e dovuto) fare così molti anni fa, ma ora è impossibile perché entrati nel sistema dell’euro il rapporto deficit-Pil e debito-Pil è controllato minuto per minuto e, zavorrati, come siamo, da un debito immenso e da un sistema pubblico pletorico e costosissimo (oltre che inefficiente), non si può sperare di ottenere l’autorizzazione a un ennesimo sperindio dall’Europa, né di avere la certezza che funzionerebbe in assenza di difficilissimi interventi di abbattimento della spesa corrente e del debito. Cioè che gli effetti positivi della diminuzione delle tasse (sia in termini d sviluppo che di maggiori entrate tributarie) arriverebbero prima della definitiva destabilizzazione del sistema.

La mia “ricetta” al riguardo è fondata su tre punti.

1) Diminuzione selettiva delle imposte. Intendo l’eliminazione di alcuni tributi particolarmente inutili e/o dannosi come:

a) l’Irap, sostanzialmente una duplicazione dell’Iva che grava su tutto il sistema produttivo ed economico italiano, un’imposta folle, non accettata e non compresa dagli investitori internazionali (e come potrebbero visto che non la comprendiamo noi?) e che spinge a non lavorare, non investire e non assumere dipendenti;

b) l’Ici almeno sulla prima casa, un’imposta espropriativa perché, contro il dettato costituzionale, non legata ad alcuna capacità contributiva, ma solo all’abitare, ossia ad un diritto fondamentale del cittadino, e duplicativa dell’imposizione perché colpisce redditi già tassati, come il risparmio col quale si è acquistata la casa;

c) l’imposta di successione, che costa allo Stato più di quanto non renda e che è anch’essa duplicativa dell’imposizione, perché le sostanze che vengono lasciate da chi se ne va erano già state tutte tassate al momento della loro formazione.

In questo ambito di riequilibrio qualitativo del sistema tributario andrebbe rivista, profondamente, la fiscalità immobiliare, devastata da Prodi-Visco-Bersani:

I) reintrodurre l’Iva, la tassa europea per tutto quello che è produzione, laddove Visco l’ha sostituita con l’imposta di registro;

II) diminuire l’imposizione sui canoni di locazione per chi mette un alloggio in affitto con una “cedolare secca” al 20%;

III) unificare il peso della tassazione dell’acquisto della casa tra chi compra da società o impresa e chi acquista da privato (oggi, assurdamente, è favorito, in molti modi, l’acquisto da privato quando d’altro lato si vorrebbe –a parole- favorire la riqualificazione impiantistica ed energetica del patrimonio edilizio del Paese e la qualità abitativa, anche come momento essenziale della qualità della vita e di crescita civile e culturale della comunità).

Disporre di una fiscalità edilizio-immobiliare di sviluppo e non depressiva potrebbe significare – per l’emergenza abitativa esistente in particolare nei grandi centri, per l’elevatissimo contenuto occupazionale del settore e il suo stesso ruolo nelle entrate dello Stato (è il maggior contribuente del Paese), per l’attenzione degli investitori internazionali che dopo il Visco-Bersani hanno smesso di acquistare in Italia, oltre che per il suo apporto al Pil complessivo (pari con l’indotto al 12%) – già una parziale soluzione dei mali italiani.

Per tutte le altre tasse/imposte, comprese le aliquote Irpef, io, invece, contro i miei interessi personali non prevedrei alcuna diminuzione che rischierebbe di non risolvere nessun problema e di peggiorare invece che migliorare la situazione complessiva: insomma, per tornare alla parafrasi di Giulio Cesare, anche gli italiani hanno oggi più necessità di aratro che di pane perché loro e i loro figli abbiano ancora pane in futuro.

2) Aggressione alla spesa corrente. Nessuna politica tributaria, per quanto moderna e lungimirante, può risolvere una emergenza deficit-debito, che ci rende perdenti ormai da decenni, senza un intervento risoluto e risolutivo sulla spesa. Se fossi io il nuovo premier, una delle primissime cose che farei sarebbe la soppressione di tutti gli enti pubblici inutili e il loro trasferimento al ministero dell’Economia, o ad un’azienda speciale neocostituita. L’elenco di questi è disponibile, provvedimenti di soppressione ne sono stati fatti, ma gli enti sopravvivono sempre a se stessi per il problema del personale e delle cause giudiziarie che restano in piedi per anni: questo blocco si può risolvere garantendo a tutti i dipendenti lo stipendio pieno fino alla pensione (o fino ad un’altra attività che si trovassero, ma con il divieto assoluto, penalmente sanzionato, di svolgere un secondo lavoro) e trasferendo tutte le cause -attraverso una successione universale nella personalità giuridica che si può realizzare con un decreto-legge di poche righe – ad un nucleo speciale presso il ministero dell’Economia o ad una società che dovrebbe essere costituita tutta con personale già in forza agli enti disciolti.

Cioè di 1000 enti pletorici, nazionali e locali, farne uno solo, con compiti esclusivamente liquidatori e con massimo 50 dipendenti. Qualcuno penserà: ma se i dipendenti restano a casa con lo stipendio pieno dov’è il risparmio? Qualsiasi imprenditore, però, sa che ogni impiegato in un’azienda si porta dietro una montagna di costi aggiuntivi, dai locali in cui è sistemato, al telefono, alle manutenzioni, le pulizie ecc. Tutti gli immobili resi liberi dagli enti inutili – compreso quello, bellissimo, del Cnel a Villa Borghese – dovrebbero essere subito restituiti, se in affitto, o venduti sul mercato se di proprietà del Demanio, con un altro vantaggio, non secondario, per le pubbliche finanze.

3) Innalzamento dell’età pensionistica. Se si vuole guardare in faccia la realtà e dire la verità, esiste un solo modo per coniugare incremento degli importi delle pensioni esistenti ad un livello di decenza, garantire la sostenibilità finanziaria dei trattamenti pensionistici sul lungo periodo e contenere la spesa pubblica in termini possibili ed è il deciso aumento dell’età pensionabile.

Anche qui lo dico contro i miei interessi, perché sia il sottoscritto, sia mia moglie abbiamo raggiunto da più di un decennio i vent’anni della contribuzione minima per ricevere la pensione allo scoccare dell’età minima, che da allora, però, è andata sempre avanzando. Quindi proporre che questa soglia sia spostata ancora più in là, e decisamente, vuol dire tout court perdere definitivamente molti soldi (è chiaro che a 70 anni hai in ogni caso da vivere 10 anni in meno che a 60), ma è una strada senza alternative, pena la rovina di questo Paese che non riusciremmo a consegnare integro alle future generazioni.

Bisogna riconoscere, visto che la matematica non è un’opinione, che il sistema è in grado di pagare pensioni decenti per 15-20 anni e se adesso si vive fino a 90 anni è giusto che si vada in pensione a 70 anni come prima si andava a 60 quando si poteva arrivare a 80. A questa regola, che dovrebbe essere generale, per uomini e donne, si dovrebbe fare eccezione solo per i malati, le persone che sono costrette ad andare in pensione, anche se non vorrebbero (penso agli ufficiali delle Forze armate e dell’ordine), e i cosiddetti lavori usuranti. Senza che, però, si debba e possa abusare di questo concetto, che dovrebbe essere strettamente limitato ad attività particolarissime (come, ad esempio, il lavoro in miniera) perché per il resto, come diceva Cesare Pavese, “lavorare stanca”, e il logorio può determinarsi in tante attività, anche con il “colletto bianco”.

Avviato a soluzione il grave handicap finanziario dell’Italia, tutto il resto diventa possibile e l’elenco delle cose da fare è così lungo e, sostanzialmente conosciuto, da non meritare tante parole. Penso alla ricerca scientifica da valorizzare, all’università da avvicinare quanto prima e quanto più possibile alle logiche della competizione e del mercato, alla produzione di energia (per la quale occorre costruire centrali nucleari e termovalorizzatori a go-go), alle grandi infrastrutture comunicative da realizzare a cominciare dalla TAV e dal Terzo valico ferroviario appenninico Genova-Milano, ai nodi autostradali di Milano, Genova, Firenze, Salerno-Reggio Calabria, al corridoio autostradale tirrenico tra Civitavecchia e Rosignano, al sistema autostradale veneto. E penso ai grandi contenitori ricettivi che occorreranno per il flusso turistico da Cina e India, che sarà sempre in aumento per tutto questo secolo e oltre. E alle problematiche marittime, così trascurate in un Paese al centro del Mediterraneo e al sistema ora definito Cinterraneo (Cina-India-Mediterraneo), comprendente Asia, Medio Oriente, Europa per il quale transita l’85% delle merci da e per l’Italia e il 55% di tutte le merci del mondo. A queste è correlata anche l’implementazione di un adeguato sistema di difesa marittimo, sia di prossimità (brown waters) che di proiezione oceanica (blue waters), con una Marina militare alla quale non vanno lesinate, come accade ora, risorse essenziali.

Qualità, uso intelligente del territorio, tecnologia, infrastrutture, realizzazione degli immobili necessari per le esigenze del vivere e dell’operare, concretezza, modernità, logica del fare e non del veto, imprenditorialità, spazio ai giovani: sono tutti sviluppi possibili perché presenti nel DNA profondo degli italiani quando sanno liberarsi delle pastoie burocratico-ideologiche-sindacali. Esiste realmente la possibilità di un nuovo miracolo italiano: ma questo cammino non potrà neppure essere avviato se non saranno assunte subito quelle misure iniziali di risanamento della finanza pubblica e di minor oppressione della stessa su chi crea la ricchezza del Paese che ho sommariamente indicato.

*Dice di sé.
Federico Filippo Oriana. Avvocato immobiliarista, Presidente dell’Aspesi – Associazione nazionale società immobiliari, operatore giuridico-economico nel comparto immobiliare, appassionato di problemi istituzionali, internazionali e della difesa. Non è sportivo e non ha hobby, se non leggere e scrivere (non per “épater le bourgeois”, ma perché è vero…).


ALEXIS DE TOCQUEVILLE
Fra le cose nuove che attirarono la mia attenzione durante ilmio soggiorno negli Stati Uniti, una soprattutto mi colpì assaiprofondamente, e cioè l’eguaglianza delle condizioni (…).Compresi subito, inoltre, che questo fatto estendela sua influenza anche fuori della vita politica e delle leggi edomina, oltre il governo, anche la società civile:esso crea opinioni, fa nascere sentimenti e usanze e modificatutto ciò che non è suo effetto immediato.(Da “La democrazia in America”, 1840)

 

 

DANTE ALIGHIERI

Ora, siccome il nostro argomento riguarda l’ordinamento civile,

anzi la fonte e il principio di ogni giusto ordinamento civile,

e siccome ogni realtà riguardante la vita civile è soggetta

al nostro potere, è evidente che il presente argomento attiene

primariamente non alla teoria, ma alla pratica. Inoltre, poiché

nell’attività pratica il principio e la causa di tutte le azioni è il

fine cui tende in ultimo l’operazione – questo infatti costituisce il

primo movente per il soggetto agente –, ne consegue che la

specifica modalità delle azioni ordinate ad un fine va desunta

esclusivamente dal fine stesso. Infatti la modalità nel tagliare il

legno per la costruzione di una casa è diversa da

quella per la costruzione di una nave.

(Da “De Monarchia”, 1312-13)

 

PROFILI Tinto Brass - Così parlò il regista più discusso

“Il cinema, è il mio giardino delle delizie. Il linguaggio è l’elemento più importante di un film. Oggi c’è una deriva contenutistica, che non fa più distinguere la barzelletta sul marito cornuto dalla novella di Boccaccio”

Tinto Brass*

Tinta

“Tinta, mia moglie, mi ha dato cinquanta anni di felicità. Faceva anche la segretaria d’edizione, e sul set, la chiamavano, spesso, segretaria di erezione, perché veniva anche a controllare come venivano le scene… Sento la sua mancanza, è morta due anni fa, era, veramente, la mia dolce metà, io mi sento dimezzato. È venuto a mancare quello che era il motore della mia vita, parafulmine della mia esistenza, fonte delle mie ispirazioni, la droga dei miei sogni, il crogiuolo delle mie certezze, il cancellino dei miei dubbi, e soprattutto il fiammifero della mia lussuria, perché con lei il dovere coniugale è sempre stato un piacere coniugale, per cinquanta anni.

Quindi ne ho sentito la mancanza, ne sento la mancanza ancora adesso. So che mi addormento, di sicuro, con una specie di smorfia di tristezza sulle labbra, perché allungo la mano, là dove ero abituato a trovare un culo che non trovo più, e avverto questo senso di vuoto. Ma mi auguro, spero, che lei sia contenta. In definitiva devo riuscire ad elaborare il lutto, e a trasformare questa nostalgia, rabbia, tristezza per la sua morte in un fatto creativo, un nuovo progetto, che può essere sia estetico, sia amoroso, chi lo sa…”.

Parigi

“Parigi è stata la città dove mi sono trasferito, appena laureato, perché tutto quello che riguardava la donna, detto in francese, aveva un suono più accattivante. Ero senza quella che sarebbe stata la mia futura moglie: non aveva accettato di venire a Parigi senza sposarsi. Dopo due mesi che ero là, le ho detto “ma ti sposo, dai vieni, basta che tu vieni a Parigi con me”. È venuta a Parigi ed è là che l’anno soprannominata “Tinta”, perché i francesi sono un po’ pigri. Io ero Tinto e, per semplificare le cose, lei Tinta. Lavoravo alla Cinémathèque Française, che era una specie di Louvre del cinema, 50/60mila pellicole, bellissimo periodo, bellissima esperienza, conoscendo tutti i mostri sacri di una volta: ricordo Jean Renoir, figlio di Auguste Renoir, pittore, e da lì ho preso alcuni fondamenti di quello che sarà poi il mio cinema.

Ci raccontava, per esempio, del padre che gli chiedeva, di fronte al quadro famoso “La zattera” di Géricault, “perché ti piace questo quadro?”. E lui, un po’ impacciato “ma non so bene la storia… cosa rappresenta”, e Auguste Renoir rispondeva: “ma chi cazzo se ne frega della storia! È un’armonia, una bellissima armonia di linee e colori, è quello che fa un bel quadro. E basta questo per darti delle emozioni”. Che è stata, poi, una costante del mio cinema. È il linguaggio, il significante, le armonie delle forme, specie negli ultimi film, proprio delle forme, quello che è il vero contenuto, il significato di un’opera. Ho conosciuto anche i surrealisti come Gatti, e poi i vari Rossellini, di cui sono diventato, a Parigi, assistente, poi aiuto e con lui sono tornato in Italia”.

Lina Merlin

“Si è chiusa una vicenda triste, iniziata nel ’48 e conclusa nel ’58. Per dieci anni, noi giovani, vivevamo sotto l’incubo della chiusura dei casini, delle case di tolleranza. La Merlin aveva lanciato questa campagna. Noi eravamo tutti minorenni. Avevamo 16 anni, le ruffiane ci accettavano, e facendo finta che eravamo maggiorenni, ci facevano entrare nel casino.

Ma era un’ossessione, perché si continuava a parlarne. Poi si rinviava. Tutti temevamo di non riuscire a fare in tempo a godere di questo privilegio. Ovviamente, poi, nel ’58 furono chiusi. Ricordo, all’epoca, Dino Buzzati, scrisse un articolo sul “Corriere della Sera” che non ho mai dimenticato: “La chiusura dei casini è una perdita per la cultura erotica, pari all’incendio della biblioteca di Alessandria d’Egitto…”.

Forse andrebbero riaperti. Ma il problema è, essenzialmente, di ordine pubblico, perché bisognerebbe dare il permesso di soggiorno, riconoscere il diritto, a queste ragazze dell’est che vengono ad esercitare la professione. Che poi è una professione come un’altra. L’operaio vende un braccio, il calciatore una gamba, la puttana la vagina. Non ci sono differenze d’altro genere. E quindi, penso che, forse, andrebbero riaperte”.

Il giardino delle delizie

“Bosch, “Il giardino delle delizie” è un mio punto fisso. Ogni tanto, cito, alcuni frammenti, alcuni dettagli, di questo quadro anche nei miei film. C’è nell’ “Urlo”, per esempio, un gruppetto di donne, posizione alla pecorina, con dei maschi intorno, e nel buco del culo hanno dei mazzetti di fiori. L’immagine è molto poetica. Io sono di formazione figurativa più che narrativa. Sono nato a Venezia, mio nonno era pittore, collezionista. Ero bombardato da immagini, l’arredo urbano, le chiese, i quadri. È quello, veramente, che mi ha formato e a cui sono particolarmente legato. La pittura, dunque, quella di Bosch, ma anche i surrealisti…

Vedo che chi sa leggere meglio i miei film, sono, in realtà, critici d’arte figurativa o addirittura pittori, architetti. Bisogna riconoscere – questo è un altro insegnamento che ho portato con me da Parigi – che il significante, il linguaggio è l’elemento più importante, di un film, per me. Poi c’è stata questa deriva contenutistica pazzesca, quella che faceva, per esempio, dire a Pasolini, che “non si sa più distinguere la barzelletta sul marito cornuto dalla novella diBoccaccio”. Raccontano la stessa cosa, ma è il modo, è il linguaggio quello che fa la differenza. E io sono rimasto fermo, così, al primato della forma del linguaggio”.

Stefania Sandrelli

“Stefania è stata una grande, è una grande donna. Con lei ho fatto “La chiave”, nel 1983. Lo avevo proposto a tutte le attrici del cinema italiano. Da Sophia Loren, attraverso Ponti – che mi disse “Ma cos’hai, sperma nel cervello”, non capiva – a Silvana Mangano, ma Dino non ne voleva sapere, Lisa Gastoni, la Antonelli. Ma tutte, per un motivo o per un altro hanno rifiutato. Lei, così, naturalmente trasgressiva, e generosa, e sensuale vera, donna vera, mi ha detto “Perché no? Lo faccio”. E mi ricordo che era stata molto bella la lavorazione. Ogni tanto mi piace mimare, soprattutto quando si ha a che fare con un attrice così in carne, l’azione che deve fare l’attore, il partner.

Per esempio: “Adesso, Branciaroli, ti bacia sul collo”. Allora, le andavo vicino e la baciavo sul collo. E le si scioglieva. Era di una sensualità totale ed era molto bello. Mi faceva piacere. Ho avuto un attimo di perplessità il giorno che, finito il film, montato, ho fatto una proiezione a Cinecittà: lei si è guardata, in silenzio, e poi è scappata via. Ed io ho pensato: “Cazzo! Vuoi vedere che si è incazzata, si è offesa”. Poi le ho telefonato, le ho detto: “Stefania che è successo?”. E lei “No, niente. Ero assolutamente convinta, contenta… sono orgogliosa di aver dimostrato che so recitare anche col culo”.

Bollo censura

“Questa è una lunga vicenda, che mi ha accompagnato per tutta la vita. Qualcuno ha detto che ho avuto più problemi di censura io, che Niki Lauda incidenti sui circuiti di Formula uno. Dal primo film “Chi lavora è perduto”, anzi, all’epoca s’intitolava “In capo al mondo”: era il 1963 e la legge sulla censura era diversa da quella di oggi, che può intervenire solo sull’osceno e il buon costume; allora s’interveniva proprio sul merito. Nel film raccontavo il disagio e la rabbia di un giovane rispetto al mondo, così come gli si presentava agli occhi. Quindi avevano detto che era contrario alla famiglia, alla patria, alla costituzione, alla religione, all’esercito, a tutto. E mi dissero “lo rifaccia, Brass, lo rifaccia”. Io, invece, puntiglioso, sapevo di avere ragione, e contavo, anche, su degli escamotage simpatici, dell’Italia. Era, intanto, nato il primo governo di centro-sinistra, il quale voleva dare qualche segno di cambiamento. Per cui, mi aveva detto il nuovo ministro, che credo fosse, Corona: “Guarda, metti un altro titolo. Facciamo finta che sia un altro film e te lo passiamo”. E così è stato. Da “In capo al mondo” è diventato “Chi lavora è perduto”. Non ho tagliato niente ed il film è passato. Ma da allora in poi, ogni film ha avuto dei problemi di censura o di magistratura. Dalla magistratura, alla fine, devo dire, sono sempre stato assolto, perché si instaurava un dialogo, riuscivo a farmi capire. Caso clamoroso è stato quello di “Caligola”, per il quale ho dovuto passare tutti e tre i gradi di giudizio.

Solo in Cassazione sono riuscito a dimostrare, al magistrato, che non potevo esser considerato responsabile per un film, per il quale avevo girato 180mila metri di pellicola, e ne erano stati estrapolati 4mila dalla produzione per fare il montaggio… dunque con quei 180mila metri di pellicola, potevo fare chissà quanti film diversi. Era chi aveva fatto il montaggio, responsabile del film e quindi perseguibile penalmente. Portavo alcuni esempi per rendere più chiaro il concetto. Loro mi dicevano “ma lei quelle scene le ha girate”. “Sì, le ho girate. Anche un fabbro crea un pugnale o un coltello, ma non per questo è considerato un assassino. Anche il ginecologo mette due dita nella fica della donna, ma mica per quello è un perverso”. E finalmente hanno capito. Il montaggio è un momento fondamentale, fondante, determinante per poter attribuire la paternità di un film.

In genere, le ragioni della censura, sono quelle dei cerberi e dei cani da guardia del potere. Ed è anche abbastanza umiliante fare il censore. Star là, a misurare tra i peli pubici, la temperatura della morale, quello che è permesso e quello che non è permesso. Non si capiscono le ragioni… Adesso, oramai, sono ridotte al buoncostume, ma anche là… vale soprattutto per la televisione, perché dare un divieto ai 18 anni, significa non permettere che il film vada in televisione. E questo è un argomento che, essendo in campagna elettorale, non si può affrontare… Quando parlo di una deriva censoria… viviamo in uno stato che è stato uno stato di diritto, ma sta, lentamente, scivolando in uno stato pedagogico, quindi etico, quindi teocratico, quindi, sotto sotto, totalitario, per cui c’è un’atmosfera censoria che aleggia tra i benpensanti. Non sono permesse le pubblicazioni delle intercettazioni telefoniche, i film vietati ai minori di 18 anni non possono passare in televisione, vogliono abolire i film porno anche di notte, vogliono prendere provvedimenti contro le puttane e chi va a puttane. Sono tutte forme censorie. E sono i cerberi, i guardiani del potere quelli che pongono questi divieti, queste proibizioni”.

Aldo Moro

“Veramente di politica, mi sono sempre occupato per fatti legati all’etica, alla morale. Mi ricordo, però, che all’epoca ero stato avvicinato da qualcuno di una rivista chiamata “Metropolis” e mi aveva chiesto non la militanza, ma di accostarmi a questi movimenti… e, nell’intervista, gli dissi: “Ma io non so chi siete, come la pensate, come scopate, che film vi piacciono. Per me sono tutta un’astrazione questi vostri comunicati, pieni di parole, ma non mi danno l’idea di chi, esattamente, siete come esseri umani” ed era quello che mi interessava sapere. Per cui ho sempre preso le distanze. Certo, il fatto è stato clamoroso, grave, quasi incredibile, però siamo passati anche attraverso quello.

Pensavano che fossi sensibile alle ragioni dell’antipotere, della contestazione. Sono appena stato a Parigi, per via dei miei film erotici. E lì hanno detto: “i film di Brass, più che erotici, sono eretici”, nel senso che c’è un atteggiamento lontano dalla vulgata comune, anche sul sesso, per esempio. Ed erano eretici anche all’epoca. Il film “L’urlo” del ’68, sul sessantotto, non era stato accolto chissà come… era stato proibito per sette anni, perché c’erano battute che spiazzavano questi integralisti, a modo loro. C’era, appunto, una battuta, durante l’occupazione di un villaggio, di Tina Aumont, bellissima, grandissima attrice, forse la donna più bella con cui ho avuto a che fare su un set, che violentata da queste soldataglie, sanguinando si avvicinava ad una fontana, per lavarsi, e dice “ma che me ne frega a me della guerra, se continuo ad avere difficoltà di orgasmo”. E questo faceva incazzare i giovani dell’epoca, che pensavano che non fossi politically correct. E se c’è una cosa che detesto, la vera censura è il politically correct, la par condicio, e cose del genere. Sono tutti sistemi che impediscono alla gente di dire come la pensa, esprimersi in libertà”.

Nanni Moretti

“Lui è bravo. Devo dire che mi ha sorpreso. L’hanno scorso come direttore del Festival di Torino, mi ha invitato… è stata una telefonata curiosa. “Sono Nanni Moretti”, gli dico “Sì, sei Fiorello”, sai che imita Moretti. “No, no, sono proprio Moretti”. Siccome c’erano stati degli scazzi, avevo detto che trovavo i film di Moretti lassativi, con una funzione da purga, mi aveva sorpreso che lui mi invitasse. Faceva una retrospettiva dei film dei primi anni sessanta, ed era presente, tra gli altri, anche il mio. Poi, devo dire che al Festival, c’è stato un dibattito molto simpatico, dove lui ha ammesso che il mio film gli era piaciuto più di tutti, perché invecchiato meno. Perché le mie curiosità sono, sempre, state quelle linguistiche: e il linguaggio non ha età. Ed è stato simpatico, perché ha cercato di giustificare certe mie prese di posizione. Al che gli ho detto “Guarda che i lassativi, a volte, si prendono anche a fin di bene”. Lo apprezzo, dunque, e l’ho ringraziato, pubblicamente, perché è stato simpatico. Gli ho anche detto che sarei andato a vedere il film, non era ancora uscito, “Caos calmo”, per giudicarlo come attore erotico, ma non l’ho ancora visto”.

Incendio alla Thyssen

“Gli incidenti sul lavoro sono scandali infiniti. Si ripetono costantemente ogni giorno, con un effetto molto grave, quello dell’assuefazione: uno si abitua a vedere questo stillicidio di morti, come se fosse un fatto assolutamente normale, naturale, con cui si debba convivere. È un po’ lo stesso discorso che si ripete con la guerra. Ormai passano tante immagini violente, brutali, di massacri… che la gente non ha più quella reazione di rifiuto, di scandalo di fronte a fatti di questo genere, che invece dovrebbe avere per poter por fine a questi fenomeni. E una cosa molto triste e molto dolorosa”.

Claudia Koll

“Ho visto, qualche sera fa su Sky, “Così fan tutte”, e devo dire che Claudia Koll era davvero una bravissima attrice. Ho visto con gran piacere il film: non è invecchiato affatto. Lei faceva, in modo delizioso, questo ruolo di donna frivola, che rideva, sorrideva, trasgrediva – era basato sull’opera di Mozart e Da Ponte, e citava un suo ritornello “La fedeltà delle donne è come l’araba Fenice, che ci sia nessun lo dice, dove sia nessun lo sa” – e lei, devo dire, erasplendida, perfettamente calata nel ruolo, nella parte, come attrice, fisicamente… ed anche la lavorazione è stata piacevolissima. Mai visto, mai sentito che fosse a disagio.

Per cui sono rimasto molto colpito da quando ha avuto questa specie di folgorazione sulla via di Damasco… io non so, non mi intendo di fede, sono tranquillamente ateo, o per dirla con Voltaire “sono ateo, grazie a Dio”, o per dirla in veneziano “sono ateo, sperando che Dio non se ne accorga”. Ma insomma, non ho di queste problematiche, quindi non so cosa le sia successo. Mi è capitato di incontrarla ad una trasmissione televisiva, lei mi ha visto ed è andata via. Evita, perché probabilmente, teme che i fotografi possano riprenderci insieme. Dunque non so e non voglio, ma devo dire che interpreta questo ruolo di donna ispirata molto bene, così come faceva molto bene la donna frivola, all’epoca”.

Il femminismo

“Sono stato aggredito dalle femministe, quando ho fatto “Paprika”, perché la frase di lancio diceva “Tinto Brass riapre le case chiuse”. C’era, un giorno, un dibattito a Napoli, e loro sono entrate con dei gran rotoli nascosti, che poi hanno aperto e c’era scritto “Morte a Tinto”, una cosa che avevano fatto anche con Fellini. E la Banotti era salita sul palco, dove c’ero io con la Moana Pozzi ed altri, e mi hanno rovesciato addosso un cesto di ghiande. Le ghiande sono, per essere chiari, il cibo dei porci. E poi una mi ha dato un cazzotto, mi ha fatto volare gli occhiali. Erano delle virago, le “uomine” le chiamavano a Napoli. E mentre loro mi menavano, c’era Tinta, mia moglie, in prima fila che mi diceva “Faglielo vedere, tiralo fuori, faglielo vedere che scappano…”.

Io le chiamavo le femmine isteriche, perché erano forme di isterismo… e le femministe storiche sono state smentite dalle femministe di oggi. Camilla Paglia riconosce, per esempio, che sia pienamente legittimo che una donna faccia la puttana. Ho scritto una lettera aperta a Monica Lewinsky, che ho trovato geniale. Questa che invade la sede del potere per fare sesso, invece che per fare guerra o far condannare a morte. E tutte si sono scagliate contro di lei, soprattutto queste maitresse-à-penser, che le dicevano tutto e il contrario di tutto, che era una maiala, una porca, una sentimentale, un’ingenua, una stupida, salvo che dirle quello che avrebbero dovuto dirle, che avrebbero voluto tutte essere al posto suo, nella sala ovale.

Faccio una precisazione: sono molto più popolare tra il pubblico femminile, che tra quello maschile. Quando cammino per strada sono le donne, le prime, che mi vengono a chiedere l’autografo, una fotografia. Le donne sanno che io le amo, innanzitutto, in modo incondizionato. Mi piacciono comunque, sempre: capricciose, frivole, sentimentali, umide… e anche qualcos’altro. Mi piacciono. Anche il film che sto preparando adesso “Ziva” è un omaggio al femminile, all’intelligenza e alla vitalità femminile come unica speranza per salvare il mondo. Perché, ormai, credo poco in tutte le rivoluzioni e nella riproposizione, costante, di tutti i vecchi miti maschili. E credo che, se c’è una speranza, è nel mondo femminile. E credo che questo lo percepiscano le donne. Lo sanno. Vedo il modo in cui mi accolgono. Non sono mai sprezzanti. E poi nei miei film, faccio della donna la vera protagonista, non un elemento surrettizio per rendere più popolare il film. La donna è la protagonista, poi ci sono un po’ di uomini attorno, che, quando s’innamorano, si rivelano per quello che sono, stupidi, patetici, molto spesso stronzi. Perché non accettano questa autonomia, indipendenza, intraprendenza femminile”.

Rocco Siffredi

“È un mito. Malaparte aveva detto che il vero vessillo dell’Italia non era il tricolore, ma l’uccello in erezione. E lui lo rappresenta al massimo. È molto simpatico, molto intelligente. Avevo tentato di fare dei film con lui, prima che lo facessero i francesi come la Breillat. Hanno fatto dei brutti film, e non per colpa sua, ma per la mentalità contorta, chiacchierona, intellettuale, dei francesi, che hanno trattato l’argomento così come non andava trattato. Avevo cercato di fare un film con lui, proprio uno di questi ultimi, ma ho avuto la difficoltà di farlo accettare ai produttori, qui in Italia, che pensavano non fosse il caso. E invece è bravo, professionale, non ti delude mai”.

Il burqua

“Quella è una cosa che proprio non capisco, da cui mi tengo alla larga. Leggo dai giornali che, quando ci sono dei momenti d’apertura, dopo le guerre, improvvisamente, appaiono dei miei film in paesi dove non erano mai stati presentati. Evidentemente, ci sono delle forme di occultamento, di repressione della femminilità che fanno parte di una cultura che non conosco e non condivido, e da cui sono lontano mille miglia. Una cultura che non mi interessa conoscere, per il fatto che costringe una donna a travestirsi in questo modo… non come al carnevale di Venezia, dove il travestimento è usato per compiere delle trasgressioni… Dovrei cercare di capire quali sono le motivazioni storiche di cose di questo genere e, comunque, cercare di capire come mai si continua ad assistere a tali fenomeni”.

I figli, l’amore, il Vaticano…

“Ecco, questo è un tema centrale. Ho due figli, un maschio, una femmina e tre nipoti. Però aver dato alla sessualità solo una funzione riproduttiva è un crimine che è stato perpetrato dalla chiesa e da tanti intellettuali che si sono adagiati su questa posizione. La sessualità ha, almeno, due funzioni: quella procreativa e quella ricreativa. Non esiste che, un ragazzo e una ragazza, la prima volta, vanno insieme per procreare, vanno per scopare, per fare sesso. Poi su questo sesso, su questa attrazione fisica può nascere anche il sentimento, l’amore. Che cosa è in definitiva l’amore? Sfatiamo, una volta per tutte, queste chiacchiere così ridicole che si sentono in giro: l’amore è un sentimento che si esprime con il linguaggio del sesso. Se non c’è sesso, non si può parlare d’amore. Sarà affetto, amicizia, simpatia, altre cose. L’aver confuso il sesso riproduttivo con quello ricreativo ha creato tutti questi tabù, paure, fobie. Per cui tanti, che fanno sesso senza procreare, proprio perché sono posti tutti questi paletti, norme, comandamenti, divieti, si sentono in colpa. E sentendosi in colpa – ed è il meccanismo forte della chiesa – vanno in cerca, per essere assolti, di quelle stesse autorità che hanno posto i divieti.

Questo non aveva capito Stalin. Quando il Vaticano entrava al fianco delle potenze e Stalin chiedeva “quante armate ha il Vaticano?” e gli dicevano “nessuna”, rispondeva “allora non ce ne frega un cazzo”. Non aveva capito che il Vaticano aveva questo potere di moral suasion. Questo coacervo di norme, divieti, comandamenti viene conservato perché tutte le autorità preferiscono avere a che fare con gente frustrata, complessata, piuttosto che con gente sessualmente serena”.

Wojtyla

“Già capivo poco il precedente, Wojtyla. Cioè, lo capivo politicamente, era anche abile, bravo. L’attuale, proprio non lo capisco. Io ho un bellissimo progetto, che non ho ancora fatto, e non smetterò di far cinema fino a quando non riuscirò a farlo. Ed è sulla famiglia Borgia. Papa Alessandro, il Valentino, Lucrezia… Era un grandissimo Papa, non c’è dubbio. Ma era anche un Papa che diceva “io non posso credere a Dio, perché sono un politico”. Ed è ancora un potere politico. Tanto è vero, che negli interventi politici, parlo di Papa Wojtyla, soprattutto, uno può riconoscere delle ragioni forti, profonde, storiche. Quello che non condivido, non capivo e continuo a non capire, anche in Papa Wojtyla, era, in questa perfetta architettura che è la religione cattolica, la questione della morale sessuale, che è il punto debole, stranamente, proprio perché si rifà a quell’idea della sessualità procreativa. Parlano di sublimazione, che vuol dire cancellazione, degli istinti naturali. Per questo hanno paura di quegli istinti naturali che sono assolutamente innocenti. Non c’è colpa nel fare sesso. Bisogna inculcarlo il sentimento della colpa.

Sgarbi, un giorno, ha fatto un mio profilo, bellissimo. Trattava questo tema, e diceva, sì, che sono stato attaccato, che hanno chiesto la scomunica a divinis. Io parlo di sesso che è amore. “Non c’è nessuno più vicino a Dio di Tinto, perché Dio è amore”. Ed è una battuta che c’è nel mio primo film. Due andavano a fare l’amore in cima ad un campanile, la ragazza faceva un po’ la reticente e lui diceva “Dai coccola, che siamo più vicini a Dio, qua. Dio è amore, non lo sai?”.

Caterina Varzi

“Il bello è lo splendor del vero. Si chiama Caterina Varzi ed è la protagonista del film che mi accingo a girare, “Ziva”. È stato un incontro molto curioso. L’ho conosciuta, la prima volta, in qualità di avvocato. Era venuta per farmi firmare un contratto per un dvd, che poi non si è fatto. In realtà, si è trasformato in un altro progetto, più ambizioso, in cui lei interveniva anche come psicanalista, perché lei è una psicanalista junghiana, della scuola di Aldo Carotenuto. Ed è lì che è nata una reciproca seduzione: lei per la persona Tinto Brass, man mano che andava spogliandola dagli stereotipi del personaggio, per enuclearne l’anima, gli junghiani hanno questo pallino fisso. Io, per l’espressività ardente, splendida, del suo volto inconsueto e bellissimo, cangiante vivo, come i riflessi della gibigiana sotto i ponti di Venezia, sempre pieno di vivacità.

Per l’aspetto intrigante, delle sue domande intelligenti, e soprattutto, per la conturbante sensualità del suo corpo di donna vera, non artificialmente rifatta, man mano che andavo spogliandola dai panni e dai vezzi della strizzacervelli, per enuclearne l’eros. Non so se Caterina abbia trovato la mia anima, alla fine di questa operazione. Io son certo di aver trovato in lei la conferma alle mie primissime intuizioni. Quella di averla vista come protagonista di “Ziva”, il film che sto preparando. Si svolge su un isolotto, durante la seconda guerra mondiale, nel 1940: lei è la guardiana del faro, sola, perché il marito è andato in guerra, e il mare le ributta sulla battigia e sugli scogli dei cadaveri, ma anche tre naufraghi, uno dopo l’altro. Un marinaio veneziano, un paracadutista inglese e un graduato nazista, scoglionato, ma scoglionato, letteralmente, perché aveva anche perso i coglioni. E lei accoglie questi tre naufraghi, li cura, li nutre e li ama, e cerca, contemporaneamente, di recuperarne questa umanità mortificata dagli orrori della guerra, cercando di convincerli di smettere di combattere.

Tanto è vero che tutto è commentato dalla bellissima poesia canzone di Boris Vian “Le deserteur”. Alla fine, la guerra termina, il marito ritorna, capisce subito la situazione, i naufraghi anche, ognuno torna a casa sua, e lui racconta a Ziva che era successa a lui la stessa cosa, che era stato fucilato, raccolto da una contadina magiara, che lo aveva curato, assistito, e amato. Così come aveva fatto lei con i tre naufraghi. Questo è un discorso sull’amore, ma anche unapologo sulla intelligenza e la vivacità femminile, ed è un pamphlet violento contro la guerra. Solo nel femminile, pongo la speranza che si possa abolire, per sempre, la guerra e renderla un tabù vero.

Tinto Brass

“Questo sono io, con riflesso, negli occhiali, una delle mie ossessioni, sulla quale ho anche scritto un libretto “Elogio del culo”. Il mio senso della vita vorrei dirlo con la battuta di un mio film, che era “Il disco volante”. Vedo che piace più adesso che quando l’ho girato, quarant’anni fa. C’è una scena dove si vede Sordi, nei panni di un intellettuale di provincia, impiegato alle poste, che recita alla Monica Vitti, in macchina, un po’ scosciata, dei versi dell’antologia di Spoon River. “Dare un senso alla vita può portare alla follia, ma una vita senza senso è una barca che anela al mare, eppure trema”. E Monica Vitti lo interrompe e gli dice “Dimme porca, che mi piace di più!”.

*Dice di sé.
Nato da una severa famiglia di origine russa (il padre, nonostante l’educazione anarchica, fu molto rigido), si trasferì giovanissimo a Venezia, dove si laureò in giurisprudenza. È un grande e famoso regista: in Francia è considerato un maestro indiscutibile, i giudizi in Italia sono controversi e hanno suscitato cento polemiche. Per presentarlo, basterebbe l’ironia di una sua frase: “Coi miei film io non procuro soltanto erezioni, ma anche e soprattutto emozioni.” E tuttavia la prima volta che destò scandalo e subì le ire della censura non fu per qualche scena di nudo troppo spinta, ma per aver raccontato, con umori anarchici, i disagi di un giovane che stenta ad integrarsi nella società.


(Le esternazioni sono tratte da un’intervista andata in onda al “Senso della vita”, programma di Canale 5, condotto da Paolo Bonolis, nell’aprile del 2008).

CAMILLO BENSO, CONTE DI CAVOURL’umanità è diretta verso due scopi, l’uno politico,l’altro economico. Nell’ordine politico essa tende a modificare

le proprie istituzioni in modo da chiamare un sempre maggior

numero di cittadini alla partecipazione al potere politico.

Nell’ordine economico essa mira evidentemente

al miglioramento delle classi inferiori, ed a un miglior riparto

dei prodotti della terra e dei capitali

(Da “Discorsi parlamentari”, 1863)

ARISTOTELE

 

Delle “monarchie” noi siamo soliti chiamare “regno” quella che

si propone l’interesse comune. Chiamiamo aristocrazia

il governo di pochi, sia che comandino gli uomini più valenti,

sia che questo governo si proponga il maggior bene dello Stato

e dei suoi membri. Quando poi il popolo governa nell’interesse

comune, questa forma si chiama – col nome comune

a tutte le costituzioni – politeia.

(Da “Politica”)

 

AMARCORD Giuseppe Pennisi - Puccini, un anniversario che si celebra solo a Lucca,
New York e Roma

In un’epoca in cui il cinematografo stava rimpiazzando l’opera lirica come principale spettacolo di massa, il celebre compositore fu tra gli ultimi ad innovare il modo di concepire la musica

Giuseppe Pennisi*

Quando questa edizione de “L’Attimo Fuggente” sarà pubblicata, sarà trascorsa circa la metà de “l’anno pucciniano” (il 22 dicembre 2008 ricorrono i 150 anni dalla nascita del compositore). Al di fuori di Lucca e di Torre del Lago (dove il compositore è nato ed ha vissuto), oltre che di Roma e di New York, se ne saranno accorti in pochi. Anche nel ristretto mondo di chi che segue la musica ed in particolare “la musa bizzarra ed altera” (come l’opera lirica fu definita, accuratamente, da Herbert Lindenberger).

Non c’è una sbornia analoga a quella del 2005, “l’anno mozartiano” (350 anni dalla nascita del compositore): allora teatri e sale da concerto vennero invasi di lavori di Wolfgang Amadeus, l’intero Festival estivo di Salisburgo è stato dedicato alle sue 22 opere per il
teatro in musica, ne è quasi risultata una reazione di rigetto – da parte del pubblico, prima che dei direttori artistici. Mentre delle 22 opere di Mozart solo poco più di una mezza dozzina sono rappresentate correntemente (e soltanto una frazione del resto della vastissima produzione di Mozart viene normalmente eseguita in sale da concerto), cinque dei dieci lavori di Puccini per il teatro sono o di repertorio o comunque nei cartelloni abituali di enti e fondazioni che, come quelli italiani, seguono, sotto il profilo organizzativo, il metodo della “stagione”.

Altri tre (“Il trittico”, “La fanciulla del West” e “La rondine”) compaiono con una certa frequenza sui palcoscenici, pur se non con l’assiduità di “Manon Lescaut”, “Bohème”, “Tosca”, “Madama Butterfly”, e “Turandot”. Di rarissima, rappresentazione scenica soltanto le due opere giovanili: “Le Villi” e “Edgard”. In un’epoca in cui il cinematografo stava rimpiazzando l’opera lirica come principale spettacolo di massa, Puccini fu l’ultimo dei maggiori compositori italiani non solo ad innovare nel modo di come concepire e fare teatro in musica, ma anche a riscuotere successo in tutto il mondo, tanto da essere un vero autore internazionale. Alcuni dei suoi capolavori (“La fanciulla del West”, “Il Trittico”, “La Rondine”) sono stati commissionati non da teatri italiani, ma stranieri, come il Metropolitan di New York, il Karltheater di Vienna e l’Opéra di Montecarlo. Oggi i compositori americani di successo – negli Usa è in corso un revival dell’opera – si riallacciano direttamente a Puccini, tanto nella scrittura orchestrale e vocale quanto nella drammaturgia.

In Italia, per il teatro d’opera, i decenni d’attività di Puccini coincisero con la fine della fase in cui trionfò la lirica commerciale (esperienza unica nel panorama europeo). La “musa bizzarra e altera” non era una riserva dei mecenati o dei palchettisti-sostenitori provenienti dall’aristocrazia e dall’alta borghesia, ma uno degli spettacoli popolari per eccellenza; in tutte le città italiane si costruivano o si ammodernavano teatri che si sostenevano, quasi interamente, con i proventi da biglietteria; nelle città maggiori più teatri operavano in concorrenza, anche sotto il profilo dei prezzi e della qualità (a Milano ad esempio le stagioni della Scala contenevano un numero limitato di titoli, ma le rappresentazioni erano di alto livello; al Dal Verme ed al Manzoni si offrivano, a prezzi contenuti, cartelloni più estesi con titoli di solito molto conosciuti, inframmezzati, di tanto in tanto, da novità di giovani). L’iniziativa imprenditoriale dei grandi impresari (che aveva caratterizzato la prima metà dell’Ottocento) era stata sostituita da quella dei grandi editori (quali Ricordi e Sonzogno) e dalle loro rivalità; mentre all’inizio del XIX secolo gli autori trattavano direttamente con gli impresari (e dovevano spesso seguirne i capricci in tema di scelte di libretti e di interpreti) , alla fine del secolo gli editori fungevano da intermediari tra compositori e impresari; si affermavano le normative nazionali e le convenzioni internazionali sui copyright. Vigeva un sistema di mercato – ma di mercato autoregolato dalla concorrenza-competizione-cooperazione (pure collusione) tra editori. In tale mercato autoregolato stava entrando la politica.

Il punto di svolta può essere considerato, convenzionalmente, il 1921 quando la proprietà del più noto teatro italiano, La Scala, a causa di una gravissima crisi finanziaria, passò dai privati al Comune che la costituì in un Ente autonomo comunale, sotto il controllo dello Stato, che ne avrebbe assicurato il finanziamento annuale. Gli altri teatri lirici, maggiori e minori, seguirono la stessa sorte in seguito sia all’avanzata del cinema, sia al “morbo di Baumol” (dal nome dell’economista americano che lo ha teorizzato) secondo cui arti sceniche a tecnologia fissa perdono, gradualmente, ma inesorabilmente competitività in quanto non possono fruire della riduzione di costi conseguente il progresso tecnico. In questa fase di transizione visse ed operò Puccini.

Non partecipò a politica attiva (anche se nel 1919, per sfuggire alla accuse di filogermanesimo, aveva musicato un “Inno a Roma” su testo di Fausto Salvatori- lavoro che lui stesso definì “una bella porcheria”). Al pari d’Igor Stravinskij, Puccini era un impolitico, ma, in tempi turbolenti (come quelli attorno alla Prima guerra mondiale), aspirava ad una politica che fornisse un quadro di pace e di serenità in cui si potesse comporre. Dopo Puccini, la politica diventò centrale nella vita musicale italiana. Fu senatore del Regno, su proposta di Mussolini, per poco più di due mesi – dal 18 settembre 1924 alla morte, il 29 novembre 1924. Il suo unico incontro con Mussolini (nel 1923) sollecitato per esprimere “alcune sue idee sul teatro lirico nazionale da erigersi a Roma”, fu breve e brusco – troncato da un netto “non ci sono denari” da parte del Capo del governo.

A Mussolini, peraltro, Puccini aveva presentato un progetto lungimirante: l’istituzione di un Teatro lirico nazionale (sovvenzionato dallo Stato) a Roma ed il supporto pubblico per stagioni d’opera italiana all’estero (allora dominavano il repertorio tedesco e francese). Diversi anni dopo Mussolini varò 16 enti lirici di cui uno (Firenze) dedicato alle riscoperte, uno alla musica contemporanea (Venezia) e gli altri al repertorio, anche se il Teatro Reale dell’Opera a Roma aveva un vincolo speciale nella messa in scena di lavori di nuovi autori contemporanei, preferibilmente. Un programma che era il frutto di un compromesso tra le varie tendenze alla corte del Duce (i tradizionalisti guidati da Mascagni e gli innovatori capeggiati da Malipiero), ma che finì con essere duraturo: plasma ancora oggi l’architettura del sistema.

Quale il lascito? Da un lato, come scrive uno dei maggiori studiosi di Puccini, Julian Budden, “con “Turandot” la tradizione dell’opera italiana, che durava da più di tre secoli, giunse alla sua conclusione”. Da un altro, però, Puccini fu il solo compositore italiano, a cavallo tra il XIX e XX secolo, ad essere realmente internazionale, a superare il melodramma ed altre forme d’opera italiane, innescando in esse elementi tanto francesi quanto tedeschi ed anche asiatici.

In “La fanciulla del West” si avverte la lezione di Wagner, in “La Rondine” quella di Strauss, in “Turandot” quella di Debussy. La sua eredità, più che in Italia, fu nel resto del mondo: un nuovo modo di concepire il teatro in musica venne compreso soprattutto da Benjamin Britten e dai compositori americani della metà del novecento – quali Carlisle Floyd, Thea Musgrave, Robert Ward, Jack Beeson, Kirche Meechem- e da quelli che stanno mietendo successi in questo primo scorcio di XXI secolo – quali André Previn, Gerald Barry, Nicholas Maw, John Adams, Thomas Pasateri, Dominick Argento. Ed ovviamente, il loro “zio” putativo Giancarlo Menotti.

In base ai programmi già in corso di realizzazione per l’“anno pucciniano”, l’unica lacuna di rilievo, è la messa in scena della prima edizione di “Madama Butterffly” (quella che crollò alla Scala nel 1904 – di solito si rappresenta la quarta edizione, riveduta e corretta per l’Opèra di Parigi nel 1906) con un Pinkerton apertamente offensivo nei confronti dei giapponesi, una Cio-Cio-San, piccola ma generosa prostituta che rifiuta il denaro offertole dall’americano, nonché la suddivisione dell’opera in due soli atti. Un’edizione critica, a cura di Julian Smith, è stata allestita (nel 2000) dalla Welsh National Opera e da allora appare frequentemente nei teatri stranieri, ma solo di tanto in tanto in quelli italiani.

Lucca e Torre del Lago sono l’epicentro delle celebrazioni, alla cui preparazione lavorano da anni il Comitato nazionale per le celebrazioni pucciniane, il Centro studi Giacomo Puccini e la Fondazione festival pucciniano. Quattro gli eventi più significativi:

a) l’inaugurazione, a metà giugno, del nuovo Grande teatro a Torre del Lago (una struttura fissa ad

anfiteatro, all’aperto, per 3200 posti con, nel suo ambito, un auditorium al chiuso per circa 500 spettatori);

b) la rappresentazione, nel corso dell’anno, di tutte le dieci opere di Puccini tra il Teatro del Giglio di Lucca

ed il nuovo Grande teatro, nonché di gran parte della musica sacra, strumentale e per voce e tastiera;

c) un convegno internazionale di studi che inizierà a Lucca, ma proseguirà a Milano e a New York;

d) un concerto al Teatro del Giglio il 22 dicembre, la data della nascita che, grazie alle tecnologie della

comunicazione e dell’informazione, verrà visto ed ascoltato anche da milioni di spettatori in tutto il mondo.
Interessanti alcune caratteristiche di tipo economico e finanziario:

a) la costruzione del nuovo Grande teatro (un costo di 17 milioni di euro) è finanziata, quasi interamente, da

enti locali (Regione, Provincia, Comune) e da sponsor (Enel, Poste, Fondazione Monte dei Paschi di Siena e

molti altri);

b) la biglietteria copre già il 43% dei costi di gestione del Festival pucciniano di Torre del Lago (luglio-

agosto di ogni anno);

c) il programma musicale sarà affiancato da una serie di mostre (ad esempio Puccini e la sua terra; Puccini

ed il suo tempo) allo scopo di effettuare anche un’operazione di “marketing territoriale”. Dato che le opere

di Puccini vengono rappresentate, con successo, in tutti i continenti, gli enti locali, il Centro studi e la

Fondazione festival intendono cogliere l’occasione del centocinquantenario per incoraggiare i pucciniani ed il

turismo culturale, in generale, a visitare i luoghi dove il compositore è nato ed è cresciuto ed ha passato

diversi anni della sua vita adulta.

Giacomo Puccini avrebbe preferito Roma o Milano (oltre, ovviamente, a Torre del Lago) come sede principale italiana per le celebrazioni della ricorrenza dei 150 anni dalla sua nascita? All’estero, senza dubbio, la sua città favorita era New York, che gli commissionò le due opere più innovative (“La fanciulla del West” e “Il Trittico”); nella stagione in corso, al solo Lincoln center sono in programma quattro dei suoi lavori – “Bohème” in due teatri, il Metropolitan e la City opera.

Puccini non amava, particolarmente, Milano anche se vi ebbe la formazione musicale. Gli ricordava delusioni e tasche spesso vuote. Critiche severe della “Milano-che-può” al suo rapporto coniugale (ma non sposato né di fronte a Dio né di fronte allo Stato – oggi si direbbe un Dico) con quella Elvira che diventò, successivamente, la sua gelosissima moglie. I suoi successi vennero al Regio di Torino, al Teatro reale di Roma ed al Metropolitan di New York, non alla Scala– dove la prima di “Madama Butterfly” fu un fiasco ed “Il Trittico” venne accolto con freddezza. In breve, il tempio lirico del Piermarini lo applaudì (soprattutto grazie a Toscanini) dopo che era andato nell’aldilà. Ed in occasione dell’anno pucciniano non lo ha neanche trattato molto bene. Si era parlato di pensionamento dell’allestimento de “La Bohème” firmato circa 45 anni fa da Franco Zeffirelli per la Scala, ma lo si vedrà, ancora in luglio, con un cast pensato per attirare pubblico straniero (la bacchetta è affidata a Gustavo Dudamel).

È andata in scena una nuova produzione de “Il Trittico”, che mancava dal 1983, che dovrebbe essere ripresa dal Teatro real di Madrid, che lo ha co-prodotto. Non si sono fatte economie: per il lavoro (che richiede un vasto organico, circa 40 solisti, ed un coro di voci bianche) è stato ingaggiato Luca Ronconi con la sua squadra favorita per scene e costumi, è stato invitato Riccardo Chailly per guidare l’orchestra e si sono scritturate le migliori voci su piazza. È l’omaggio principale della Scala alla ricorrenza. Gli esiti non sono stati affatto lusinghieri. Il lavoro comprende tre atti unici complementari e contrastanti: “Il Tabarro”, un grand-guignol di passione, sesso, e sangue nel proletariato parigino all’inizio del novecento; “Suor Angelica”, tragedia di maternità occultata in un convento alla fine del Seicento; e “Gianni Schicchi”, farsa nella Firenze del 1299. È un poema sinfonico in tre movimenti; un “agitato” (“Tabarro”), un “largo” (“Suor Angelica”) e uno “scherzo” (“Gianni Schicchi”) . Nel primo e nel terzo atto, si avvertono echi di tango e di valzer, di slowfox e di jazz cabarettistico; nel secondo, il gran sinfonismo post-wagneriano e l’atonale. Nonostante la Scala abbia uno dei palcoscenici più moderni al mondo, Ronconi ha optato per un impianto unico, con un grande squarcio, da cui trapelano qualche cenno a Parigi, una statua della Madonna, litografie di Firenze, l’immagine di Dante.

In “Suor Angelica”, infine, l’intero palcoscenico è occupato da una scultura sdraiata di donna (un’altra Madonna? La femminilità ferita?). Nessun riferimento al visivo dell’epoca, nonostante i rossi tramonti di Monet dovrebbero accompagnare “Il Tabarro”, l’azzurro dei cieli dei macchiaioli “Suor Angelica” ed i preaffaelliti (visti con ironia) “Gianni Schicchi”. Didascalica la recitazione, nel senso di basata sulle didascalie di Giovacchino Forzano per le prime rappresentazioni (nel 1918 a New York e 1919 a Roma, il 1922 alla Scala), tranne che in “Suor Angelica” a ragione dell’ingombrante scultura. Uno spettacolo da dimenticare (nonostante il buon versante musicale) se possibile, da correggere prima di esportarlo. Ha raccolto 15 pagine di critiche serrate (alcune al limite della protesta quasi diffamatoria) su www.operaclick.com , il sito dei e per i melomani italiani.

Roma era nel cuore di Puccini. E Puccini è nel cuore di Roma, come indicato dal tutto esaurito per le 15 repliche della “Tosca”. L’allestimento di Franco Zeffirelli ricalca quello che, per oltre tre lustri, si replica, con successo, al Metropolitan: una visione colossal di una Roma, al tempo stesso, barocca, sensuale e perversa, con una ricostruzione dettagliata dei luoghi dei tre atti (Santa Andrea della Valle, Palazzo Farnese, Castel Sant’Angelo). È fedele, minuziosamente, al libretto ed accattivante per il pubblico. Curatissima la recitazione. Ha debuttato nel ruolo Martina Serafin, soprano austriaco, famosa per le sue interpretazioni di Strauss e Wagner. Costruisce una Tosca molto simile a quella che Zeffirelli diresse a Londra nel 1964 con Maria Callas (pure in quanto i costumi si assomigliano). Marcelo Àlvarez è un Cavaradossi generoso, con un timbro chiaro, una gestione accurata del registro di mezzo e la capacità di tenere a lungo i “do”. Sotto il profilo orchestrale, l’aspetto più importante è la capacità di Gelmetti e dell’orchestra nello scavare nella scrittura musicale.

Un successo analogo ha avuto “La fanciulla del West”, la cui prima, questa stagione, è stata l’8 aprile. È un’opera concepita per il Metropolitan che sfoderò un cast d’eccezione (Arturo Toscanini, Emmy Destinn, Enrico Caruso). La scrittura sia orchestrale, sia vocale è quanto di più complesso composto da Puccini: coniuga lo stile della “giovane scuola” italiana con Wagner (l’accordo di Tristano) e con le innovazioni apportate da Debussy e Strauss. Si rappresenta, relativamente, di rado per le difficoltà orchestrali e vocali che implica. L’Opera di Roma l’ha riportata in scena dopo quattro lustri. È un nuovo allestimento, in sinergia con la Los Angeles Opera e concepito per girare il mondo. La regia, le scene ed i costumi di Giancarlo Del Monaco s’ispirano ai film western in technicolor, stile anni 40: ricostruzioni minuziose dell’ambiente, ottima recitazione da parte di circa 20 solisti, combattimenti emozionanti, tormente di neve, sparatorie, veri cavalli montati dai due protagonisti (Daniela Dessì e Fabio Armiliato) dissolvenze. Insomma, una messa in scena tradizionale, ma piena di trovate intelligenti ed innovative.

La parte musicale è il vero successo della “prima” (teatro gremito) salutata da applausi e richieste di bis, una delle quali (l’aria “Ch’ella mi creda”– scritta su esplicita domanda di Enrico Caruso), accolta da Fabio Armiliato. Gianluigi Gelmetti dirigendo un’edizione rara scoperta negli archivi di Casa Ricordi esalta lo spirito wagneriano della partitura, come indicato tra l’altro dalla durata complessiva (intervalli esclusi) – due ore e 30 minuti, invece delle 2 ore e 10-20 minuti delle maggiori edizioni discografiche – e dall’accento sull’intrecciarsi dei circa 70 temi musicali; l’orchestra risponde con entusiasmo. Daniela Dessì è una Minnie dalla vocalità estesa e generosa (canta pure scendendo da cavallo con carabina in mano); affronta egregiamente una parte tutta puntata sul declamato, che scivola in brevi ariosi senza concederle una sola romanza. Complimenti a Silvano Carroli, il quale alla sua non giovane età è uno sceriffo perfetto sia scenicamente sia vocalmente. Buoni i numerosi caratteristi: cow-boys, minatori, indiani, funzionari del servizio postale. Si annunciano, come per “Tosca” repliche addizionali, riprese nella capitale e tournée anche in Italia anche prima del termine dell’”anno pucciniano”.

La terza proposta del Teatro dell’Opera di Roma è un nuovo allestimento di “Madame Butterfly” nella messa in scena di Renzo Giaccheri e Hai Yamanouchi, che in agosto si vedrà alle Terme di Caracalla. Nella capitale non mancano altre iniziative. L’Orchestra sinfonica di Roma ha presentato un’edizione scenica di “Bohème” con un cast di rilievo a prezzi ultrapopolari. L’Istituzione universitaria dei concerti ha dedicato una serata a musiche rare pucciniane. La “Piccola lirica” al teatro Flaiano ha in programma per diversi mesi una “Tosca” ridotta a 90 minuti con un solo intervallo, e strumentazione per pochi orchestrali e live electronics In effetti, tenendo conto de “Il Trittico” andato in scena al teatro dell’Opera nel 2002 e “Manon Lescaut” e “Turandot” ascoltate la stagione scorsa, tutte le opere più rappresentate di Puccini sono state messe in scena nella capitale nel giro di pochi anni – e quattro nel centocinquantesimo dalla nascita.

*Dice di sé.
Giuseppe Pennisi è docente stabile di economia alla Scuola superiore della pubblica amministrazione. Melomane, collabora in materia di opera lirica al mensile “Musica”, al settimanale “Il Domenicale”, al quotidiano “Milano Finanza” ed ai quotidiani telematici www.operaclick.com, www.ilvelino.it ,www.l’occidentale.it


GIORGIO GABER
Mi scusi presidente, ma questo nostro stato,che voi rappresentate mi sembra un po’ sfasciato.È anche troppo chiaro agli occhi della gente che tutto ècalcolato e non funziona niente. Sarà che gli italiani per lungatradizione son troppo appassionati di ogni discussione.Persino in parlamento c’è un’aria incandescentesi scannano su tutto e poi non cambia niente.(Da “Io non mi sento italiano”, 2003)
COSTUME Elda Lanza - Signori si diventa! Parola mia

Molti disastri sono stati compiuti in nome del galateo: persone educate si sono inventate docenti di una materia che sembra facile, ma che è, invece, radicata nell’arte civile di sopportarsi a vicenda

Elda Lanza*

Un manipolo di sconsiderati, una sera di qualche tempo fa, ha mandato in onda su una delle reti ammiraglie televisive, di seconda serata, una trasmissione dal titolo:Signori si nasce. Nel parterre della trasmissione c’era un principe vero che ha sposato una bellissima modella nel tempo diventata principessa; una showgirl in odore di matrimonio principesco (andato in fumo); signore e signorine di neoborghesia post-bellica, economica e professionale. Una tavola apparecchiata secondo il galateo deicatering, in una confusione di regole e sregolatezze; il servizio al tavolo affannosamente disimpegnato da un “maestro”,  speriamo traduzione di maître, sul quale non tutti erano d’accordo. Lo spettacolo era stato allestito per dare risalto alla riedizione di un volumetto di galateo, per salotti radical chic, scritto vent’anni fa da un giornalista.

(Avete notato quanto spazio e quante parole si sprecano in televisione per i libri scritti da giornalisti? Hony soit qui mal y pense).

Questa messinscena doveva affermare le regole della società privilegiata contro la spudoratezza proletaria di un libro, uscito in quei giorni e edito da Mondadori: Signori si diventa. Scritto da me, quasi una sconosciuta sui banchi delle librerie. Quando Mondadori, testo alla mano, mi ha proposto questo titolo, che non voleva essere una provocazione ma una semplice constatazione di cultura civile e sociale, a nessuno di noi è balenato il dubbio di considerarci rivoluzionari.

Nel libro non cito una delle direttrici dei due collegi più esclusivi d’Europa che hanno contribuito alla mia crescita; a loro devo molto e molto devo alla mia famiglia che mi ha consentito di nascere e crescere “signora”. Ho citato Norbert Elias.

Chi era Norbert Elias? Dall’edizione Il Mulino: “Tra i maggiori sociologi del nostro secolo, scomparso nel 1990. Tra i suoi libri, oltre “La civiltà delle buone maniere”, primo volume dell’opera “Il processo di civilizzazione”, anche una “Teoria dei simboli”. Chi ha studiato filosofia, psico-sociologia, in anni precedenti, lo ricorda come straordinario maestro di cultura e di impegno civile. Il riferimento a Norbert Elias offre quindi al lettore informato un’indicazione precisa dell’impostazione voluta: un testo di buone maniere, scritto con leggerezza e ironia, come lui insegnava, nel solco di un processo di civilizzazione tutt’altro che risolto. Non un galateo da salotto.

Giancarlo Livraghi, nel suo raffinatissimo sito (http://gandalf.it) ha così commentato il mio libro:

“È un libro interessante perché insieme a un’interpretazione attuale delle “buone regole” (che è sempre bene conoscere anche se scegliamo di non rispettarle) contiene commenti vivaci, spesso divertenti, su altri aspetti del comportamento cortese e civile – e sulle cose, magari “di moda” o apparentemente appropriate, che civili e gradevoli non sono. La struttura del libro è insolita e curiosa. Non c’è un indice analitico, perché tutto il testo è  ordinato in ordine alfabetico per argomento, da abito a Watsu. Come per sottolineare il fatto che è anche (se non soprattutto) un libro di consultazione. Anche se per lo stile scorrevole e spiritoso, può essere piacevolmente letto dalla prima alla duecentoventiduesima pagina.

Ci sono osservazioni, attinenti al tema, che vanno oltre la semplice nozione di “buone maniere”. Per esempio queste, sull’avere attenzione agli altri:

Chi sono gli altri? Quelli che hanno un colore di pelle diverso dal nostro. Che non parlano la nostra lingua. Che praticano una religione diversa. Quelli che tengono a una squadra sportiva che non è la nostra. Che abitano in città, in luoghi lontani dai nostri. Quelli…

Non solo, anche il padre e la madre sono “altri”, persone diverse da noi. I fratelli, i compagni di scuola, gli amici, i compagni di lavoro, i superiori e gli inferiori. Quelli che incontriamo in metropolitana o in una coda a uno sportello. Quelli che sono in auto in fila indiana davanti o dietro di noi.

Questi e altri ancora sono i “diversi” da noi. Quelli verso i quali dobbiamo avere attenzione. Rispetto. Tolleranza.

Il futuro si misura anche dalla capacità di ciascuno di essere tollerante.

Fra le tante voci divertenti c’è quella dedicata ai baci che comincia così:

I baci più noiosi e inopportuni sono quelli (ottanta, li ho contati) che si scambiano durante uno spettacolo televisivo presentatori e ospiti. Poiché non nascono da pensieri affettuosi e positivi, tradiscono l’imbarazzo di essere credibili.

E conclude con questa osservazione:

Non c’è un’età in cui è lecito il primo bacio: è una curiosità non un peccato. Quindi, sul primo bacio, è inutile mentire. Non è necessario contarli né elencarli con nomi e situazioni, ma le donne evitino di giurare che quella è la prima volta (gli uomini non ci credono mai); e gli uomini ci risparmino la solita frase:”Non ho mai provato una sensazione così profonda!”.

Un manuale intelligente sulle buone maniere del vivere civile deve anche saper deridere e smontare le regole e le convenzioni che non servono – o che peggiorano le cose. E questo libro lo fa”.

Ho voluto citare questo commento perché lo considero una testimonianza molto rassicurante: Livraghi è l’autore geniale, tra gli altri, di un libro di successo su “Il potere della stupidità”.

Monsignor Giovanni della Casa, il padre del primo galateo con questo nome, sarebbe stupefatto di sapere che, dopo cinquecento anni, si ragioni ancora del suo manuale, attribuendogli regole che lui non ha mai scritto. Il suo Galateo (composto tra il 1552 e il 1555, dato alle stampe nel 1558, e dedicato a monsignor Galeazzo Florimonte), non era un prontuario di semplici regole di comportamento, ma un insieme di arguti suggerimenti a un giovanetto sulle manovre da seguire per fare carriera nella vita sociale. Una testimonianza ironica acuta e sorprendente della vita di corte cinquecentesca, in equilibrio tra la consolazione dei piaceri e il timore della morte. Una saggezza essenzialmente pratica al servizio dell’uomo destinato al successo.

Temo che in nome del galateo siano stati compiuti molti misfatti, perché la materia sembra facile, a portata di mano di chiunque sappia mangiare il pollo con le posate. Nei fatti le regole di convivenza che conosciamo hanno radici profonde nella cultura e nell’arte civile di convivere, risultato di un lento e spesso rivoluzionario processo culturale. Regole che hanno subito l’evoluzione della società, della politica, dell’economia, della tecnologia, dell’alimentazione, del salotto: guardando al futuro.

Oggi a ciascuno è offerta l’opportunità di scegliere liberamente la società nella quale vivere, lavorare, esistere. Perché dovremmo immaginare scandaloso che un uomo qualsiasi, nato dovunque e dovunque cresciuto, raggiunto un certo livello sociale per propri meriti, o per abilità e fortuna, non sia in grado di imparare a mangiare il pollo con le posate invece che con le mani?

Perché le regole si imparano. Se giustificate dal processo culturale che le determina. Dalla propria necessità di appartenenza. Dal proprio bisogno di comunicazione. Si imparano se il traguardo è alto e l’impegno è forte. Si imparano se si capisce che al vero signore si chiedono scelte soprattutto civili.

Il galateo è un principio di relazione.

In una società non più codificata, dove ognuno se la faceva con i propri simili per non pagare le spese, oggi si può scegliere dove stare e con chi. Chi ricorda la strofetta: al contadino non far sapere come è buono il cacio con le pere, che sembra una tiritera da buongustai? Era invece una regola sociale nel medioevo: i contadini servi, vivendo in una fascia socialmente distaccata e senza possibilità di comunicazione, non dovevano sapere quanto fossero graditi quei prodotti ai loro padroni per non essere tentati di imbrogliarli. Una tiritera che era regola economica e sociale, a dimostrazione del fatto che ogni sfera sociale se la faceva strettamente con i propri simili e non usciva dal guscio per non rimetterci.

Nell’Inferno di Dante – Canto Decimo – Farinata degli Uberti chiede sdegnosamente all’inaspettato e sconosciuto visitatore: “Chi fur li maggior tui?…” . Cioè: di chi sei figlio, sei mio pari? La cosa è chiara: una volta si viveva e si moriva nella stessa fascia sociale in cui si era nati, e ognuno era figlio di… uscirne era uno scandalo che a volte poteva costare la vita. Oggi a ciascuno è lasciata libertà di scegliere con chi confrontarsi imparando le regole delle proprie scelte. Ad alcuni è persino consentito scegliersi i genitori.

Il galateo è un fatto di cultura.

Non ci sarebbero dubbi o incertezze sul posto del tovagliolo o sul servizio a tavola, se invece di imparare le regole su testi incerti o in famiglia, si consultasse la storia dell’evoluzione dei costumi, considerare in qualche modo come il principio di questo percorso.

Seguire per esempio nella storia le evoluzioni del tovagliolo attraverso i secoli gli usi e gli abusi del bon vivre, da copri piatto per segnare il posto vuoto (ancora in uso al tempo del Goldoni: il piatto da tovaggiol1, che noi oggi definiamo “coperto”); sistemato sulla spalla destra per usarlo facilmente con la mano sinistra; straordinariamente pieghettato da artisti che trasformavano il tovagliolo in simbolo di ricchezza per la tavola, da porre quindi oltre il piatto per ammirarne l’abilità e la bellezza, e non per usarlo; simmetrico oggi rispetto all’apparecchiatura che mette al centro il piatto con coltello cucchiaio e bicchieri a destra, forchetta tovagliolo e piattino del pane a sinistra. Il tovagliolo, preferibilmente piegato a libro con l’apertura verso l’esterno per essere aperto agevolmente con la mano destra e steso sulle ginocchia, ha un solo posto a tavola, a sinistra del piatto, oltre la forchetta e mai sotto o sopra le posate. Tenendo conto che alla tavola si richiede di essere simmetrica, ordinata e mai in nessun caso scomposta, dall’inizio del pranzo alla fine: togliere il tovagliolo da sotto le posate provoca disordine e disarmonia.

Altrettanti percorsi potrebbero essere rivisitati a proposito del centrotavola, dal surtout ai fiori con candele delle tavole di rappresentanza. A proposito del servizio, dal trinciante al servitore, dal servizio alla francese al servizio alla russa, magari passando per le scuole e le accademie, in Italia e all’estero. Perché la modernità non può essere senza valori etici e senza passato.

Il galateo è una forma evoluta di comunicazione.

Nei corsi di programmazione neurolinguistica si studia anche la comunicazione non verbale, quel tipo di comunicazione che si esprime attraverso gesti, espressioni, mediazioni.

Il galateo consente di comunicare tra simili attraverso gesti, espressioni e mediazioni secondo un codice che regola i comportamenti. In una tavola o in un salotto o in altra situazione pubblica o privata gli individui comunicano e si riconoscono attraverso l’applicazione di quei codici, e poco importa se li hanno appresi con il latte materno o impegnandosi da adulti allo scopo di farsi riconoscere: il risultato è identico, se l’applicazione delle regole è corretta.

Il galateo è un traguardo sociale.

La società dalla fine dell’ultima guerra mondiale ha dato un’interpretazione diversa alla convivenza, ai ruoli singoli e collettivi, alle abitudini e alle funzioni che compongono ed esprimono il nostro modo di vivere attuale. Le norme di comportamento che in nome della civilité si erano affermate nelle classi superiori come fenomeno sociale e mondano – o come forma di convivenza sociale – oggi rappresentano la trasmissione di modelli a cui riferirsi, consentendo una pianificazione delle aspirazioni e persino dei risultati. In questa società ampliata, in cui non si conoscono e non si misurano i confini che accolgono il diverso, è sempre più forte la spinta verso l’alto, verso il sistema al quale si tende a somigliare, a farne parte, anche soltanto per imitazione. Oggi alla portata di tutti.

Il galateo è un processo collettivo di civiltà.

“La civiltà delle buone maniere” di Norbert Elias è uno studio interessante sul concetto di buone maniere nella storia: analizzate attraverso i comportamenti individuali e collettivi che ciascuna epoca ha prodotto. Elias intende la civiltà come necessità di essere sensibili verso la terra che ci ospita, l’unica eredità di cui abbiamo certezza. Connessa ai modi in cui attraverso i gesti quotidiani l’individuo si mette in rapporto con gli altri. In questo stato di grazia, che un tempo si definiva cortesia e oggi civiltà, ha profonde radici la democrazia.

Il galateo non è una moda.

L’arte del convivio ha origine da tavole sontuosamente imbandite con ospiti che si servono di cibi portati alla bocca con le mani. Mille anni più tardi ci ritroviamo a mangiare con le mani, in piedi, davanti a tavolini disadorni, e poco puliti, di un self-service. Com’è successo che siamo arrivati a considerare una qualità la moda di mangiare con le mani?

Dalle tavole del medioevo, attraverso la ricercatezza opulente del rinascimento, la lussuosa eleganza settecentesca, il rigore dell’ottocento e le evoluzioni tecnologiche del ventesimo secolo, nel terzo millennio un mondo nuovo alla storia e ai ricordi ha inventato il finger-food. Il cibo da mangiare con le mani, l’ultima idea americana dello star bene insieme mangiando.

L’aforisma di Brillat-Savarin (pubblicato la prima volta nel 1825) “…si è quel che si mangia…” contiene una fastidiosa verità. Non si può frequentare ogni giorno un bar o un self-service, nutrendosi di costolette riscaldate al microonde o di insalate miste, in mezzo alla rumorosa presenza di altri avventori, semplicemente riferendosi alla rapidità del servizio. Tale condotta è il riflesso di alcune caratteristiche generali della società, ma contemporaneamente è anche la misura di adattamento dell’individuo a una soluzione scomoda e sgradevole.

È stato calcolato che alla fine del secolo scorso, due pasti su tre sono stati comprati o consumati fuori casa. Le aziende, le scuole, gli asili hanno mense a disposizione. I bar si sono trasformati in fastfood. I ristoranti sono considerati una risorsa economica, specie nelle ore dei pasti pomeridiani. Il take-away è un modo di comperare cibo pronto da consumare dove quando e come si vuole, anche facendo altro.

Il cibo e la nostra scelta di come affrontare il problema ci rivelano il cambiamento. Ma è il modo in cui ci adattiamo al nuovo stile di vita che ci definisce come individui. È quello che siamo.

Abbiamo accettato e seguito altri cambiamenti di rotta, senza restarne contaminati. Anche nell’abbigliamento, nell’arte, nella cultura: non soltanto per quello che mangiamo e come. Lo stile di una persona si rivela nella sua capacità, di fronte alle mode che cambiano, di conservare il gusto del gusto. Il piacere della propria personalità, delle proprie scelte.

Per ritornare alla tavola, il piacere dei cibi preparati con semplicità e la cura della cucina casalinga. Della ricerca dei sapori autentici, familiari. Della tavola che unisce la famiglia e gli amici, per star bene insieme mangiando, apparecchiata con ordine e armonia. Dei gesti che si imparano da piccoli, ma che non è vietato cercare di imparare anche da adulti, come se ognuno fosse maestro di se stesso nel ruolo che si è scelto.

Possiamo certamente rinunciare ai pizzi e agli orpelli, orgoglio delle nostre madri, teneramente assistite da vecchie tate o da generazioni di servitù competente. Possiamo certamente variare i menu e lo stile delle nostre tavole, accogliere proposte moderne più pratiche e confortevoli per i nostri ritmi. Ma possiamo scegliere di considerare inaccettabile, per noi, che lo star bene insieme mangiando consista nello star pigiati in un bar o in qualsiasi luogo pubblico o privato, scegliendo da vassoi di plastica cibi vagamente etnici, avvolti in fagotti di carta o di pasta, da portare alla bocca con le mani tra una gomitata e l’altra.

Non è una questione di mani. Le persone educate usano le mani, a tavola, assai più di quanto sanno fare quelli che usano troppo e a sproposito il coltello. Ci sono cibi che si portano alla bocca senza l’uso delle posate, con un gesto di naturale semplicità. Con l’eleganza e lo stile di chi ne ha consuetudine e non s’imbarazza.

Il finger-food, come altri modelli di comportamento, non è una nuova regola di galateo, né una qualità della vita: è soltanto una moda.

“Le belle maniere rendono sopportabile la mancanza di virtù”. Non ricordo chi l’abbia scritto, ma immagino che fosse un uomo colto e insopportabile. Comunque divertente. Di Umberto Eco, invece, è la famosa battuta: “Ci si può liberare da una cattiva educazione”.

Ne sono convinta. Se l’educazione appartiene al mondo evolutivo di crescita e di cultura dei bambini, affidata quindi alla responsabilità della famiglia e degli educatori, le buone maniere, il viver civile appartengono all’adulto, che ne è il solo responsabile. Come se l’adulto fosse in questo senso educatore di se stesso.

E l’unica risposta al quesito: “Signori si nasce o si diventa?” – che imbarazza chiunque si accinga a parlare di buone maniere – è che le regole sono indispensabili alla convivenza civile in una società che ha obiettivi di sopravvivenza. Quello che consideriamo galateo moderno è un insieme di regole per questo mondo. Che conserva i propri riti, le proprie ambizioni, la nostalgia di tradizioni superate, per taluni l’orgoglio di appartenenza a un ceto privilegiato, obiettivi e traguardi tecnologici economici e sociali. Regole in parte scritte e tramandate, in parte dettate da nuove esigenze. Ma è nella scelta di questi comportamenti che si distingue il “vero signore”, al quale oggi si concede di convivere apertamente con chiunque voglia, ma non di gettare un sacchetto di plastica in mare.

Davvero siamo disposti a lasciare a quelli “nati signori” tutta la responsabilità che il futuro pretende? Chiedo scusa per la presunzione: ma dopo due ore e mezzo di trasmissione, all’una di notte, ho deciso di non aver scritto un semplice testo di buone maniere, ma un capolavoro. Di sopravvivenza alla stupidità.

Perché signori si diventa: parola mia!

1) In: “Le massere”, atto I, Carlo Goldoni, 1755.

*Dice di sé
Elda Lanza. Si considera un’autentica dilettante: il suo investimento è la passione.

Gaia de Pascale - Slow travel, ovvero il lusso di perdere tempo

Sedersi su una panchina in faccia al mare o nel centro di una piazza, di un parco e per una volta “stare”, mentre tutto il resto passa avanti ai nostri occhi

Gaia De Pascale*

Minime sorprese quotidiane

“Anni di solitudine gli avevano insegnato che i giorni, nella memoria, tendono a uguagliarsi, ma che non c’è un giorno, neppure di carcere o d’ospedale, che non porti una sorpresa, che non sia, controluce, una rete di minime sorprese”.

Così si legge in un racconto di Borges intitolato, non a caso, “L’attesa”. Il fatto che in queste pagine l’attesa che stringe il protagonista sia quella di una morte per mano assassina – tra un minuto, un giorno o anche mai – aggiunge pathos, ma non toglie verità a un’affermazione tanto scontata e apparentemente lineare quanto complessa da assumere come pratica di vita. Tornando al viaggio, solitamente una tale rete di minime sorprese comincia a delinearsi, se lo fa, nell’inesorabile countdown verso il ritorno a casa.

È proprio allora, quando non c’è più niente da fare perché il rientro è lì, sigillato sulla data di un biglietto aereo, e magari già convalidato dal check-in, che tutto improvvisamente appare nuovo, e straordinario, e unico. Anche i duty free dell’aeroporto possono allora trasformarsi in luoghi attraenti, e i sandwich avvolti nella plastica al bar delle partenze avere il sapore dolceamaro di una nostalgia a venire, che ancora non ha peso né forma, ma già si insinua sottopelle, piano piano, sintomo appena percepibile del rimorso per qualcosa che è stato consumato troppo in fretta.

La fretta, di nuovo. È ancora lei che ci impedisce di camminare controluce, sempre col sole alle spalle per non rischiare niente, nemmeno una fotografia bruciata. È lei che ci fa vedere il mondo come una superficie liscia e piana, mentre in realtà è tutto un susseguirsi di angoli e spigoli, svolte che costringono a un continuo scantonare, a farsi rapire dalla sorpresa del prossimo angolo di strada, o dal disordine che può nascere semplicemente da un’insegna che ha perduto una lettera, e con essa il suo senso, la sua confortante funzione di indicazione: di un posto, di un’ora, di un compito ben preciso da svolgere nel complicato assetto del labirinto-città.

Le cose che si conoscono (o che si crede di conoscere) troppo bene, si sa, non si vedono più.

Eppure Steve Cohen e Pauline Kenny, i fondatori della prima grande community per viaggiatori slow, hanno cominciato la loro avventura di pionieri dello slow travel proprio con l’intento di raccogliere informazioni su un diverso modo di soggiornare all’estero o nel proprio Paese.

Un modo molto più “domestico” e “casalingo”, in cui la prima regola è evitare gli alberghi e prediligere l’affitto di case o appartamenti. In questa maniera non solo non si scappa dalla familiarità con luoghi e persone, ma al contrario un simile senso di appartenenza viene ricercato come un valore aggiunto in grado direndere il viaggiatore realmente parte integrante di una realtà.

Un simile atteggiamento è anche un importante scudo contro il pregiudizio. Perché quando si è fuori di casa, e tutto dovrebbe dischiudersi con la forza dirompente dell’inaspettato, il timore più o meno inconscio di rimanere spiazzati dall’imprevisto porta a catalogare e a classificare, e insomma a fissare ogni minimo evento o incontro in una catena di tipi e stereotipi che banalizza il reale, e banalizzandolo lo livella e lo schiaccia su una sola dimensione, che è poi la dimensione della noia e della monotonia del vivere.

Nel breve tempo, questi meccanismi di difesa scattano ancora più prepotentemente, perché non c’è nulla capace di destabilizzare l’individuo quanto la parola che non viene compresa, o il gesto che rimane puro movimento del corpo, senza la possibilità di essere interpretato secondo una logica – che è poi quella occidentale – che si pretende essere universale, valida ovunque e con chiunque.

Così, neanche a dirlo, i francesi sono snob, gli africani ballano bene, in montagna si respira aria pura, il mare d’agosto è da evitare, prima di partire è sempre bene controllare olio e gomme, e noi ci tuffiamo nell’altrove con pinne e salvagente, perché non si sa mai, salvo poi lamentarci del fatto che costretti a galleggiare il fondo non si vede, e la superficie sembra avere davvero da tutte le parti la stessa tonalità di blu.

Come uno stereogramma, il viaggio può portare un ammasso ipnotico e confuso di puntini di cui non si coglie il senso, o meravigliose figure tridimensionali che ci si spalancano dinanzi all’improvviso, con tutta la potenza epifania di una rivelazione. E non conta poi molto se siamo dall’altra parte del pianeta o sotto casa, se stiamo bighellonando con l’aria un po’ flaneur e un po’ fannullona in un quartiere periferico della nostra città o se ci siamo spinti nell’altro emisfero a vedere cosa si prova a poggiare i piedi sul tropico del Capricorno.

Ha ragione Franck Michel a definire l’altrove “il settimo senso”1 identificandolo con una capacità ricettiva dell’individuo, un’attitudine e una predisposizione alle cose piuttosto che un affastellarsi disordinato di mete e visite a questo o quel monumento, questo o quel panorama mozzafiato.

Il fatto è che gli stereogrammi non si vedono, se si è troppo distratti o troppo rapidi o troppo presi dal desiderio di annunciare a un determinato pubblico che finalmente qualcosa ha preso forma, lì in mezzo, tra linee e colori che danno le vertigini e un vago senso di nausea finché non si fanno veliero, fiore, lampada a olio.

Il fatto è che per visualizzare la seconda e la terza dimensione, bisogna forzare gli occhi, e magari farli lacrimare, come quando appoggiamo un foglio di carta apparentemente bianco e vuoto a una lampadina, e all’improvviso compaiono tracce di altre scritture e di altri supporti che ci precipitano verso storie di cui ignoravamo l’esistenza.

Il viaggiatore è forse, in fondo, solo il custode di una scrittura crittografata: tutto un decifrare parole offuscate, o rese troppo nitide da quegli schermi che ci dividono dalla realtà – occhiali e lenti scure come filtro che, più ci ripara dalla luminosità del mondo, più ci allontana irrimediabilmente da esso.

Il protagonista del racconto di Borges si era accorto che “il sapore della bevanda, il gusto del tabacco, la crescente linea d’ombra che guadagnava il cortile, [erano] stimoli sufficienti”. Senza uscire dal chiuso della sua stanza, Alessandro Villari aveva imparato a partire.

Il lusso di perdere tempo

Sorseggiare una tazza di caffè, appoggiati al bancone di un bar; pranzare in un ristorante o seduti ai tavolini all’aperto di qualche locale di una qualsiasi città: quante volte è capitato a ciascuno di noi, magari anche tutti i giorni. Ma quante volte, fuori per lavoro o per studio, trascinati dal frenetico ritmo dei nostri impegni, o semplicemente abituati a correre una corsa non sempre così necessaria, abbiamo rinunciato alla scelta, quella vera, in favore di un abitudinario modo di essere, in favore di una pigra casualità pronta a sommergere qualunque altro desiderio.

Scegliersi il locale, inseguirne l’atmosfera e i richiami, i tempi e i mondi che rievoca, le culture, le tradizioni. Respirarne l’odore, impregnarsi del suo passato, lasciarsi andare all’incanto suscitato dal luogo, dalla sua architettura e dal suo arredo. O semplicemente sedersi su una panchina in faccia al mare, o nel centro di una piazza, di un parco, di una stazione che miscela partenze e arrivi nelle voci meccaniche degli annunci del solito ritardo, e per una volta “stare” mentre tutto il resto passa, avanti ai nostri occhi, risucchiato da logiche da osservare col sereno distacco di chi si riprende il diritto di non aver niente da “ fare”, solo sedersi in mezzo al viavai confuso del XXI secolo.

Tutto questo viene, sempre più frequentemente, considerato un lusso. E lo è, intendiamoci. Ma non il lusso così come lo interpreta il senso comune, non la banale possibilità di spendere denaro in cose inutili riservata a pochi. Spesso, se non sempre, non è infatti una questione di prezzi. È una questione di tempo. E basta infatti sfogliare appena il vocabolario per rendersi conto che “lusso” non è solo lo “sfoggio di ricchezza”, ma anche, più in generale, “prendersi il piacere, la libertà, permettersi di fare qualcosa”. Verrebbe da dire: prendersi il tempo, ilproprio tempo. O, per usare un’espressione che ci è particolarmente cara, prendersi il gusto di.

Gusto del cibo, ovviamente, e quindi di uno dei mezzi più piacevoli e indicati per entrare in contatto con l’alterità di un luogo mai visitato prima. Ma anche, più in generale, gusto di vivere, di capire, di comunicare: di assaporare il reale con avidità e pazienza, standone appena un po’ fuori, in quel punto in cui è possibile guardare le cose nella loro interezza, senza esserne veramente esclusi, senza esserne pienamente parte.

Se, infatti, anche nel quotidiano è auspicabile mettersi talvolta in “stand by” e recuperare le capacità dell’osservatore, di colui che si separa dal fluire delle cose quel tanto che basta per riuscire a vederne l’insieme, nelle condizioni di “eccezionalità” che scaturiscono dal trovarsi fuori dalle proprie abitudini questa sorta di “alienazione” dovrebbe essere quasi un imperativo: perché al di là dei nostri limiti si aprono le porte della socializzazione, si spalancano gli usci dell’identità. Attraversare queste soglie, allora, più che di un lusso assume l’aspetto di un diritto – il diritto proprio alla “presa”, al possesso di qualcosa di così piccolo, e impalpabile, da non potersi più smarrire, da tenersi dentro ben oltre gli arrivi e i ritorni, o i ciclici incipit di un bisogno di andare checontinua, nonostante tutto, ad appartenerci ancora. E questo qualcosa è il momento in cui abbiamo strappato i veli dell’impermeabilità, in favore di un desiderio di scavare, pazientemente, dentro quelle ore che ticchettano libere nei quadranti dei nostri orologi, e che lasciamo girare e girare insieme a tutto il resto mentre ce ne stiamo lì, con una bibita e un giornale, cullati dal piacere di un lusso conquistato, di un nuovo diritto acquisito.

“Entrare”: ecco il vero movimento del viandante, il verbo a cui aggrapparsi e con il quale sostituire definitivamente il ripetitivo comandamento del “fare”; entrare in quegli interstizi in cui, raggiunta la giusta dose di distacco e straniamento, si possono ancora spalancare le possibilità di un esotico fuori controllo – non in quanto spaventoso o angosciante o perdutamente lontano, ma semplicemente in quanto imprevedibile, non preventivato.

Questo, in definitiva, è lo scambio: non un appuntamento prefissato, ma qualcosa che semplicemente accade, mentre abbandonati alla quiete ci regaliamo, per una volta, la possibilità di osservare gli altri mimetizzandoci nell’andirivieni di un quotidiano dal quale vorremmo ridurre le distanze, facendoci invisibili, passeggeri in incognito che si insinuano nei varchi lasciati liberi dal tempo istituzionalizzato.

Questo è l’incontro, e continuare a promuoverlo è contemporaneamente un lusso, un diritto e un dovere. È prendersi il piacere di giocare a dilatare le ore anziché subirne gli ordini, nell’attesa che qualcuno arrivi, e si presenti: il volto inimmaginabile dell’altro o, più probabilmente, il volto finalmente messo a nudo del sé.

Il momento giusto (diario di viaggio a Palenque)

Nel sito archeologico di Palenque la natura travolge qualunque cosa. Ha travolto il sito stesso, per molto, molto tempo, nascondendolo per quasi un millennio alla vista, proteggendolo, avvolgendolo in un tappeto di foresta tropicale. Il maestoso passato Maya, che si è costruito i suoi templi in cima ad alte piramidi, è stato trattenuto dal grembo fitto di alberi coperti di epifita, piante che crescono su altre piante, flora che si duplica e che si moltiplica, che si avvolge su se stessa senza posa.

La cosa impressionante, poi, è che anche ora che tutte queste pietre sono venute alla luce, non c’è comunque frattura. Tutto s’incastra perfettamente, sembra che anche gli edifici siano sorti a un certo punto così, qualche seme portato dal vento, e poi la crescita. Senso armonico del “pieno”, di contro al vuoto di altri celebri siti messicani, quali Monte Albàn o Mitla.

È qui, dentro questa vertigine di verde, che è situata la tomba di Pacal il Grande, attrattiva per turisti di tutte le nazionalità, e per antropologi e archeologi di ogni corrente e scuola di pensiero.
Tra tutti, mi sembrano particolarmente significativi gli appunti di James Clifford nel suo “Diario di viaggio a Palenque”. Lo studioso americano, portavoce di un modo ibrido di concepire l’antropologia, tra ricerca e letteratura, inserisce nel suo poderoso testo “Strade” questo particolarissimo “diario di bordo” contraddistinto dalla felicità della narrazione2.

Sono frammenti – frammenti temporali che tratteggiano l’arco di una giornata, dalle 7,15 alle 17,30 – quasi a voler subito dire, a scanso di equivoci, che a quel continuum di piante, visitatori, e infine storia che caratterizza il sito archeologico della città del Chiapas, non si può che contrapporre il procedere a tentoni, per segmenti, di una scrittura che si appoggia continuamente sui vuoti.

E così, tra riflessioni e affascinanti descrizioni della traboccante vitalità di un luogo in cui tra bambini che fanno colazione con banane e tortillas, indiani lacandoni che preparano le bancarelle di souvenir, immancabili turisti che ronzano facendosi inghiottire dalla foresta con le loro magliette colorate, quello che comunque riesce a emergere è la presenza chiassosa e impertinente delle numerosissime specie di uccelli.

Uccelli veri, e altri che sono un miraggio, un’allucinazione, il segno di domande che non possono non riecheggiare tra pietre che hanno visto trascorrere i millenni: “Breve allucinazione: le centinaia di foto all’ora (al minuto?) generate da queste pietre… come una moltitudine di uccelli si alzano in volo, si disperdono. Dove vanno?” Chi le raccoglierà? A quale racconto saranno destinate? E soprattutto, quale degli infiniti, possibili momenti, avranno immortalato?

James Clifford ne è ben conscio: un “viaggiatore indipendente” come lui, e che dunque come lui si muove per studio e ricerca, è percorso dalla sindrome del voler esserci in ogni momento, coprendo con la sua presenza tutta la traiettoria di una rovina, dalla sua scoperta alla sua turisticizzazione.

Ma non si può. Non è possibile abbracciare nella sua interezza una realtà storica fatta da un numero infinito di relazioni, incontri e scontri.

Il pieno di Palenque è un pieno di rocce e foglie verdi, di cieli che scompaiono e riappaiono tra i rami di un “quasi-troppo” che potrebbe farsi ossessione, come essere per un attimo pietra o pianta, o l’impronta della mano di quel bimbo che quasi duemila anni fa, aiutando forse suo padre nei lavori di scavo, ha voluto lasciare la sua firma. In un pieno così, l’isolamento (spaziale e temporale) non è semplicemente pensabile.

Tutto questo, Clifford lo sa benissimo, come sa benissimo che la scoperta delle rovine di Palenque è stata, ed è, una progressione continua di rivelazioni e nostalgie: disvelamento di un segreto a discapito di un attimo di silenzio, o di uno sguardo privilegiato sulla via Lattea.

Natura, cultura, e un luogo che diviene paradigmatico della nostalgia inevitabile del viaggiatore “raffinato”, quello che cerca la solitudine e nel suo snobistico scantonare dagli altri punta continuamente alla riproduzione di un mondo che non c’è, che forse non c’è mai stato. No, non esiste il momento perfetto per il viaggio, per quanto grande sia la sua portata culturale ed erudite le motivazioni di chi lo intraprende.

C’è solo un momento, il nostro momento. Quello di una nebbiolina che sale fitta dal terreno umido dopo un acquazzone, o di un improvviso silenzio che restituisce alla foresta la sua voce – o più verosimilmente quello fatto di “turisti, custodi, operai, camion dell’INAH, campesinos che trascinano roba intorno” e che fanno parte, come il più esclusivista dei viaggiatori, della mancanza di varchi lasciata da questo nostro presente eternamente in fieri.

1) Franck Michel, “Altrove, il settimo senso. Antropologia del viaggio”, Milano, MC, 2001.
2) J. Clifford, “Diario di viaggio a Palenque”, in “Strade”, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, pp. 272-291.

* Dice di sé
Gaia De Pascale. Nata a Genova nel 1975, è dottore di ricerca in Analisi e interpretazione dei testi italiani e romanzi. Collabora con varie case editrici in qualità di redattrice free lance e consulente. Studiosa di letteratura e di antropologia, oltre ad una serie di articoli su riviste, ha pubblicato nel 2001, per Bollati Boringhieri “Scrittori in viaggio. Narratori e poeti italiani del novecento in giro per il mondo”.

Pubblichiamo per gentile concessione dell’Editore, uno stralcio dal libro “Slow travel – Alla ricerca del lusso di perdere tempo”, di Gaia De Pascale (Ponte alle Grazie, 2008). Riproduzione riservata.

NICCOLÒ MACHIAVELLIA uno principe, adunque, non è necessario avere in fatto tuttele soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle.

Anzi ardirò di dire questo, che, avendole et osservandole

sempre, sono dannose, e parendo di averle, sono utile:

come parere pietoso, fedele, umano, intero, relligioso, et essere;

ma stare in modo edificato con l’animo, che, bisognando

non essere, tu possa e sappi mutare el contrario.

(Da “Il principe”, 1513)

Silvia Pingitore - Amor


AMOR

 

Silvia Pingitore*

Niente lagnanze mediterranee che parlano di terre sapori

acque azzurre o piccanti. Roma non ce l’ha una terra

o un mare vero, e le piazze, pure troppo larghe,

non bastano per le nostre memorie di gioventù.

Siamo milioni, coi nostri grilli per la testa e gli appuntamenti

in ogni dove. E le nuvole neanche sanno custodirli i segreti,

nell’aria dipinta e inquinata che si beffa del traffico.

Il cielo è l’unica cosa che ti perseguiterà per tutta la

vita, e se te ne vai devi non averlo amato per non soffrire.

E ti sembra scontato che abbia un colore,

finché non vieni qui. Questa specie di bianco

non lo ritrovi nella tavolozza dei ricordi.

È l’insieme di tutti i colori, ma qui non c’è sfumatura

sulle cose, e i palazzoni di vetro ti risbattono in faccia il

nulla, in un abbaglio quasi nauseante.

Il quasi nero della strada, il quasi grigio delle nuvole.

Non c’è senso in questi alberi, né vita sui loro rami.

Solo una banda di piccioni in strada,

manco dei pennuti speciali per l’occasione.

Pennuti polari, magari, qualcosa di esclusivo

e incantevole, e invece niente, perché

neanche è un paese del nord, questo.

Dove lo si colloca il Belgio?

Sotto l’ombrello, signori miei.

È l’unico luogo che gli compete.

E per te, non più arancione e azzurro e violetto tendente

al blu, frullati in quella cromia assurda

che ti si rifletteva nelle pupille.

Non scappi, caro il mio brillante cervello in fuga.

Perché se metti Roma allo specchio

non puoi che leggere Amor.





*Dice di sé:
Silvia Pingitore, autrice del romanzo “Via Ripetta 218”, (Giulio Perrone Editore) è nata a Roma nel 1984. Nel 2004 ha vinto il “Premio Moravia” per un breve racconto su Roma, nel 2006 e nel 2007 il premio letterario “Poche storie”, nel 2008 la borsa di studio “Robert Schumann” per emigrare a Bruxelles (e non nasconde la nostalgia per Roma) con uno stage di giornalismo presso il comitato editoriale del Parlamento europeo.




PLATONE

Di fronte a tali episodi, ad uomini siffatti che si occupavano

di politica, a tali leggi e costumi, quanto più, col passare

degli anni, riflettevo, tanto più mi sembrava difficile dedicarmi

alla politica mantenendomi onesto

(Da “Il solista – Lettera VII”)




WALT WHITMAN

Spesso abbiamo stampato la parola Democrazia.

Eppure non mi stancherò di ripetere che è una parola

il cui senso reale è ancora dormiente, non è ancora stato

risvegliato, nonostante la risonanza delle molte furiose tempeste

da cui sono provenute le sue sillabe, da penne o lingue.

È una grande parola, la cui storia, suppongo,

non è ancora stata scritta, perché quella storia deve ancora

essere messa in atto.

(Da “Prospettive democratiche”, 1871)

 

SCIENZA Domenico Mazzullo - Pillole della felicità, segreti e bugie

Decenni di studi e di evidenze cliniche dimostrano la grande, risolutiva e insostituibile efficacia dei farmaci antidepressivi

Domenico Mazzullo*

Con straordinaria, puntuale, precisa e inquietante simultaneità, da qualche settimana, è apparsa su tutta la stampa, quotidiana e periodica, una campagna di critica e denigrazione nei confronti degli psicofarmaci in generale e, in modo particolare, nei confronti degli antidepressivi, con speciale riferimento al Prozac, capostipite di una nuova generazione di antidepressivi, divenuti di uso e consumo diffuso in tutti i paesi dalla seconda metà degli anni ‘80: gli SSRI, inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, che hanno rappresentato, a partire da quegli anni, una nuova frontiera, o meglio un nuovo fronte, nella lotta che, in tutto il mondo, si combatte contro la depressione, una malattia temibile ed estremamente diffusa, vorrei dire sempre più diffusa, sia perché è meglio  conosciuta e quindi più riconosciuta e diagnosticata, sia perché è, effettivamente ed ineludibilmente, in aumento, interessando fasce sempre più ampie della popolazione, con una straordinaria prevalenza in età, quelle adolescenziali e giovanili, che prima, erroneamente, erano considerate indenni da questa patologia.

I titoli degli articoli sono inquietanti e, più o meno, sono tutti dello stesso tono scandalistico e perentorio: “il Prozac e gli altri farmaci antidepressivi non servono a nulla e la loro efficacia non andrebbe oltre un semplice effetto placebo. Per guarire dalla depressione non c’è bisogno di ricorrere a trattamenti chimici”.

Questa è la conclusione cui sarebbero giunti i ricercatori di una università anglosassone, quella di Hull e, guarda caso, proprio nel dipartimento di psicologia di questa, ripresa e riprodotta su riviste scientifiche e che avrebbe dato luogo alla campagna critica e denigratoria di cui sopra.

Con tutto il rispetto per i ricercatori e per le conclusioni delle loro ricerche, che in ogni caso non condivido assolutamente, e che contrastano fortemente con decenni di studi e di evidenze cliniche, dimostranti esattamente il contrario, ossia la grande, risolutiva, insostituibile efficacia dei farmaci antidepressivi nel trattamento della depressione, credo che chi compie certe ricerche e giunge a tali “rivoluzionarie” conclusioni, dovrebbe richiamarsi al principio fondamentale di ogni medico, primum non nocere, ossia in primo luogo non nuocere e, nel rispetto di una elementare norma di deontologia medica, dovrebbe essere cauto nel pubblicare e consegnare alla stampa affermazioni di questo tipo.

Ritengo che chi ricerca in questo campo, dovrebbe esercitare una elementare quanto semplice prudenza e autocritica, valutando le conseguenze di tali affermazioni, che lungi dall’essere confermate e condivise, possono creare nei pazienti una legittima incertezza, un pericoloso sconcerto ed una dannosa sfiducia nei confronti dei medici e nei farmaci da questi utilizzati.

In questo caso, come purtroppo in altri, sempre più frequenti e diffusi, mi sembra, piuttosto, che il desiderio di fare notizia, di creare sconcerto e di rispondere forse ad esigenze di protagonismo, o, ma non vorrei crederci, di benefici economici, abbia il sopravvento e sia privilegiato, sul fondamentale interesse per i pazienti, che andrebbero invece tutelati e curati nel loro interesse fondamentale, la salute.

Nel mio piccolo di psichiatra clinico, già da subito, ho potuto toccare con mano, lo sconcerto provocato dalla notizia pubblicata dai giornali, alla luce del subisso di telefonate che ho ricevuto, dai pazienti in cura presso di me con antidepressivi, allarmati e preoccupati, per quanto hanno letto sulla stampa, a proposito della presunta inefficacia ed inutilità degli antidepressivi.

Come psichiatra posso affermare, e credo che tutti i colleghi possano concordare, che il destino dei pazienti depressi è radicalmente, drammaticamente mutato in senso positivo, da quando sono stati utilizzati i farmaci antidepressivi. Moltissime vite sono state salvate e le inaudite, insopportabili sofferenze provocate dalla depressione sono state curate, abolite e soppresse da questi farmaci antidepressivi di cui, oggi, si vorrebbe negare l’efficacia. Credo che chi parla così, chi si avventura in queste ardite, quanto fallaci osservazioni, non abbia mai visto la vera depressione sconvolgere le vite di chi ne è affetto, o peggio, non abbia mai provato su di sé, nemmeno per pochi minuti, i morsi della depressione, non abbia mai visto tornare il sorriso sui volti contratti dal dolore dei propri pazienti, o non abbia mai vissuto l’esperienza di essere liberato dall’angoscia attanagliante, grazie alla efficacia dei farmaci antidepressivi, appunto.

I milioni di pazienti sofferenti in tutto il mondo, curati e guariti dalla depressione per mezzo dei farmaci, possono testimoniare, molto meglio di uno studio statistico dell’istituto di psicologia della università di Hull, l’efficacia dei farmaci antidepressivi. Il Prozac, uno degli antidepressivi chiamati in causa, è divenuto famoso in tutto il mondo come la “pillola della felicità”. Ho sempre, violentemente, stigmatizzato questa denominazione e questa assurda pubblicità per un antidepressivo, non certo l’unico e non certo il primo, ma uno dei tanti. La felicità, a mio parere, non esiste e non può certo essere conseguita attraverso una pillola, ma se chiamiamo “felicità” il guarire dalla depressione, allora il termine di “pillola della felicità” spetta di diritto non solo al Prozac, ma a tutti gli  antidepressivi che ci sono e che ci saranno, preziosi, indispensabili ausili, per guarire dalla depressione, a dispetto di tutti i pareri contrari.

Si è voluto ridurre l’azione degli antidepressivi ad un “effetto placebo”. Come psichiatra che cura la depressione con gli antidepressivi, ma che è anch’egli sofferente di depressione e si cura con gli stessi antidepressivi, posso affermare con certezza la loro efficacia, la loro affidabilità e la loro insostituibilità nella terapia di questa dolorosissima patologia.

Se anche un solo paziente depresso, che potrebbe giovarsi di questi farmaci, dovesse essere distolto dall’utilizzare questa terapia, suggestionato dalle conclusioni di tali ricerche, così proditoriamente ed imprudentemente pubblicate, gli autori di queste dovranno sentirsi direttamente responsabili.

Ma come è mai possibile, si chiederanno naturalmente i lettori, che in un campo che dovrebbe essere scientifico e quindi detentore di una verità universalmente riconosciuta, quale appunto è quello della medicina, i pareri e le convinzioni possano essere così dissimili da far pensare che ci si muova nell’ambito della fede piuttosto che in quello della scienza?

Prima di tutto dobbiamo considerare che la medicina è sì una disciplina scientifica, ma di una scienza applicata e quando la scienza lascia l’ambito della teoria e scende nella pratica, allora le stesse verità non sono più assolute, ma divengono opinabili e discutibili, soggette ad umane interpretazioni. Nell’ambito poi della medicina che ha raggiunto traguardi di grande scientificità, la psichiatria è la branca, se così si può dire, meno scientifica di tutte, avendo come campo di ricerca e di applicazione la psiche, che ancora, da parte di molti, si fa fatica ad accettare, sia il prodotto, l’espressione della nostra attività cerebrale.

Ancora facciamo fatica a rinunciare al dualismo cartesiano, alla suddivisione da Cartesio introdotta in res cogitans e res extensa, psiche e corpo, quasi fossero due entità nette e distinte, due esistenze separate e contenute l’una nell’altra, con una psiche, assimilabile per analogia, all’anima dei credenti, racchiusa in un corpo mortale.

Anche noi psichiatri, paradossalmente, siamo corresponsabili di questo equivoco, significando, il termine “psichiatra”  etimologicamente “medico della psiche” e continuando ad adoperare impropriamente, per esempio, il termine equivoco di “malattie psicosomatiche”, ossia malattie di origine psichica, ma che si evidenziano e si esprimono, a livello corporeo. È evidente, quindi, che in un campo della medicina, così poco ancora definito e così “fluido”, ahimè, ricco del proliferare di teorie spesso tutt’altro che scientifiche, vi sia largo spazio per interpretazioni e letture diverse, della stessa realtà psichica, che, proprio per la sua stessa natura e complessità, sfugge e si rifiuta di essere racchiusa e conchiusa in una definizione, o unadiagnosi univoca.

Proprio il problema della diagnosi, fondamento di ogni pratica medica, è il punto più dolente e più controverso della psichiatria, non potendo essa contare, a differenza delle altre specialità mediche, su esami strumentali, o di laboratorio che indirizzino, corroborino, sostengano o smentiscano, diagnosi che invece devono svolgersi ed esaurirsi solamente sul piano clinico, su ciò che il medico osservatore vede, o gli è espresso, denunciato e raccontato dallo stesso paziente, con tutta quindi la soggettività di chi osserva e deve decidere solo ed esclusivamente in base a questo.

Va da sé, quindi, che ancora più complesso e aleatorio si fa il quadro, quando si tratta di fare ricerca statistica, ad esempio, sui miglioramenti prodotti da un farmaco utilizzato in un certo numero di pazienti campione, dovendo tradurre, semplifico al massimo, in numeri esatti, concetti poco quantificabili quali quelli di un miglioramento clinico nella sintomatologia della depressione.

Come posso quantificare in termini numerici, il miglioramento soggettivo che un paziente depresso prova con l’uso di un farmaco? Come posso confrontare questo miglioramento con quello di altri pazienti analoghi, che assumono lo stesso farmaco, per ottenere una comparazione statistica? Questo solo per citare alcuni degli innumerevoli problemi che tale metodica comporta. Non deve stupirci quindi il fatto, per noi psichiatri ben noto, purtroppo, che molteplici ricerche, sullo stesso tema, possano portare a risultati diametralmente opposti, illudendoci infantilmente, con queste valutazioni statistiche, di possedere delle certezze scientifiche, che invece certezze proprio non sono e meno che meno scientifiche.

E questo è ancor più serio e più grave, in un tempo in cui la cultura medica e quella psichiatrica in particolare, si stanno spostando sempre di più verso una dimensione ed una valutazione statistica delle patologie, rinunciando, purtroppo, ad un ragionamento clinico, unica base e sostegno, a mio parere, di ogni sapere medico. Non mi stupisce per nulla, quindi, che una ricerca statistica sull’efficacia dei farmaci antidepressivi, confrontati con un placebo, può aver dato risultati diametralmente opposti a quelli di tante altre ricerche analoghe, ma soprattutto con quella che è un’irrinunciabile e non trascurabile esperienza clinica d’ogni medico e dei pazienti, tantissimi, che hanno usufruito e si sono giovati di questi farmaci antidepressivi.

E proprio questa ultima considerazione si oppone alla critica che da tante parti viene sollevata, sulla inattendibilità di queste ricerche, in quanto sponsorizzate dalle case farmaceutiche tese, per evidenti cause economiche, a propagandare gli effetti positivi dei farmaci. Se questo è plausibilmente vero, infatti, è pur vero che qualsiasi farmaco, prima di essere autorizzato e introdotto in commercio, è sottoposto ad un numero enorme di neutrali valutazioni sulla sua efficacia, tollerabilità, innocuità, affidabilità e possibili, o probabili, effetti collaterali; inoltre, non dimentichiamo che il riscontro clinico che ogni medico personalmente attua sui farmaci da lui utilizzati, difficilmente può essere influenzato dalla propaganda farmaceutica. E bisogna anche dar atto alle case farmaceutiche che la costosa e impegnativa ricerca da esse condotte sui farmaci, ha permesso a noi medici di poter godere di sempre nuovi e più efficaci farmaci, per contrastare e combattere le malattie.

Non comprendo poi perché la stessa critica non sia rivolta alle case farmaceutiche che producono e mettono in vendita, non certo con prezzi inferiori, i cosiddetti “farmaci omeopatici” o “fitofarmaci” o “prodotti di erboristeria”, rimedi tutti appartenenti alla sempre cosiddetta, “medicina alternativa”, così di moda in questi tempi e di cui non è stata dimostrata scientificamente ancora nessuna validità ed efficacia, con buona pace dei loro entusiasti sostenitori.

Ma un’altra considerazione è forse ancora più importante a questo proposito: da questa ricerca si evincerebbe che sarebbero le depressioni gravi quelle maggiormente sensibili alla efficacia degli antidepressivi, mentre quelle lievi sarebbero invece meno sensibili alla efficacia degli stessi, paragonabile a quella di un placebo. Sorge, a questo punto, il problema della diagnosi e nello specifico della diagnosi di depressione, appunto, che se è difficilmente equivocabile per le forme più gravi della patologia, risulta invece, paradossalmente, ma non inspiegabilmente, più complessa e ambigua per le forme più lievi, non sempre facilmente distinguibili, come “depressione” e quindi patologia, dalla normale “tristezza”, che, seppur dolorosa e sofferta, rientra nei sentimenti normali dell’essere umano.

Mentre, infatti, vi può essere un errore per difetto, nel sottostimare l’incidenza della depressione, non riconoscendola come fenomeno patologico, altrettanto vi può essere una sovrastima di questa, considerando come forme lievi di depressione e quindi da curarsi, quelle che sono malinconie e tormenti dell’animo, che seppur gravemente dolorosi, non costituiscono una patologia e non sono quindi da curarsi. Non esiste purtroppo, come dicevo prima, un limite netto e agevolmente riscontrabile, se non con grande esperienza ed empatia nei confronti del paziente e si rischia, cadendo in errore, di non curare, ritenendoli fisiologicamente malinconici e tristi, pazienti che invece sono depressi, ma anche di curare pazienti fisiologicamente tristi, ma non depressi.

Ovviamente ritengo il primo errore molto più grave e pericoloso del secondo, anche perché le persone fisiologicamente tristi, ma non depresse, non risultano sensibili ai farmaci antidepressivi e non migliorano con questi, come invece avviene visibilmente ed indubbiamente con i pazienti veramente affetti da depressione. Ecco quindi spiegato, a mio parere, il risultato della ricerca in discussione. Se tra i pazienti affetti da depressione cosiddetta lieve, vi erano invece persone non depresse, ma fisiologicamente tristi, queste, erroneamente diagnosticate come depresse, risultavano, naturalmente,insensibili ai farmaci.

Volendo lanciarmi in un paradosso, si potrebbe, ipoteticamente, affermare che quando vi è un dubbio diagnostico riguardo ad un paziente, nel quale sospettiamo una depressione lieve, ma non riusciamo ad escludere una fisiologica tristezza, la somministrazione di farmaci antidepressivi, come criterio ex adiuvantibus, scioglierebbe il dubbio. Il miglioramento del paziente a seguito della somministrazione di farmaci deporrebbe per la depressione patologica, la insensibilità ai farmaci e quindi il mancato miglioramento, deporrebbe per una fisiologica tristezza. Per fortuna, nella maggior parte dei casi, non è necessario ricorrere a questi criteri, perché il colloquio sereno con il paziente, l’osservazione, ma soprattutto l’empatia e l’esperienza clinica, sono sufficienti a permetterci una diagnosi con rassicurante certezza.

A questo proposito e non vuole essere assolutamente un discorso Cicero pro domo sua, è perentoriamente indispensabile che la diagnosi di depressione, con conseguente prescrizione di farmaci, venga fatta solo ed esclusivamente dallo speta psichiatra, unico a possedere la competenza necessaria per formulare questa diagnosi, apparentemente semplice, ma in realtà difficile e irta di trabocchetti e la competenza, nonché l’esperienza clinica per prescrivere farmaci antidepressivi, certamente efficaci, ma che non sono tutti equivalenti e sovrapponibili tra loro, avendo ognuno di questi caratteristiche specifiche che li rendono più o meno adatti per ogni singolo paziente.

Spero che i medici di base, una volta “generici”, non me ne vogliano. A loro, in quanto primi interlocutori del paziente, spetta il compito di sospettare una patologia depressiva, inviando il paziente dallo speta, ma non di iniziare, o intraprendere autonomamente una terapia, che potrebbe risultare errata, non appropriata e quindi deludente nei risultati.

E con questo, consapevole di uscire leggermente dal tema e di entrare a gamba tesa in una polemica che è sempre aperta, ma nell’esclusivo interesse dei pazienti, ritengo e affermo che, a mio parere, qualunque forma di terapia e quindi anche non farmacologica, ossia nello specifico una psicoterapia condotta da uno psicologo, debba essere subordinata e successiva ad una precisa diagnosi e ad una indicazione specifica compiuta da uno psichiatra. Si eviterebbero così psicoterapie inutili, a volte dannose, ma soprattutto si avrebbe la certezza di diagnosi precoci in pazienti che solo successivamente si manifesteranno esplicitamente come psicotici, dopo una lunga psicoterapia richiesta e praticata per disturbi iniziali della malattia, erroneamente non diagnosticati e scambiati come solamente nevrotici.

Di depressione si è parlato poco in passato. Si parla, forse, troppo oggi e, forse, a sproposito. Con la superficialità, l’approssimazione e spesso la genericità di cui certi giornalisti sono capaci, in qualunque fatto di cronaca di crimine, spesso sviluppatosi nell’ambito della famiglia e caratterizzato dall’omicidio e, a volte anche dal suicidio, viene invocata la depressione come patologia di cui l’omicida era da tempo sofferente e per questo in cura con psicofarmaci, lasciando quindi facilmente intendere o sospettare essere la depressione responsabile dell’omicidio, assieme ai farmaci adoperati per curarla.

Vorrei precisare che il paziente depresso casomai si uccide, ma rarissimamente uccide gli altri e, per quanto riguarda gli antidepressivi, erroneamente ritenuti, da alcuni, capaci di indurre al suicidio, come equivocamente ed erroneamente si trova scritto nel foglio illustrativo (bugiardino) di alcuni di essi, è necessaria una volta per tutte una spiegazione.

La depressione è una gran brutta malattia che spinge chi ne soffre a desiderare la morte per essere liberato dalla sofferenza che essa provoca. I pazienti depressi molto gravi, quelli maggiormente a rischio di suicidio, spesso sono talmente inibiti ed immobilizzati dalla stessa depressione che pur desiderandolo, non sono materialmente in grado di mettere in atto i propri propositi suicidi. Quando si inizia una terapia farmacologica atta a guarirli, i primi giorni di terapia sono quelli più pericolosi e questa è cosa che noi psichiatri conosciamo molto bene, in quanto i primi effetti della terapia sono rappresentati da una riduzione dell’inibizione e del conseguente immobilismo del paziente, che però continua e continuerà ancora per un poco ad essere depresso e quindi con una intenzionalità suicida, fino a che anche la depressione non sarà migliorata.

In questo lasso di tempo, seppur breve, il pericolo di suicidio è, paradossalmente, aumentato, in quanto il paziente meno inibito, ma, tuttavia, ancora depresso, è in grado di attuare ciò che prima non era stato in grado di fare. In questo breve intervallo, necessario perché i farmaci riducano la depressione, il rischio di suicidio è aumentato e la sorveglianza deve essere continua, fino a che il miglioramento delle condizioni cliniche non scongiuri definitivamente il pericolo. Tutto questo è quanto viene espresso molto male nel bugiardino, quando si dice che questi farmaci inducono al suicidio. Mi piace concludere questo articolo con una frase di Philippe Pinel (1745-1826) il grande psichiatra illuminista, fondatore della psichiatria francese e direttore dal 1792 del manicomio di Parigi:

“Occorre stare in guardia e non mischiare discussioni metafisiche, o alcune disquisizioni degli ideologi, con la scienza che consiste di fatti attentamente osservati”.

I pazienti, riconoscenti, ringraziano.

*Dice di sé
Domenico Mazzullo. Medico-chirurgo, speta in psichiatria. Psicoterapeuta. Assolutamente laico e quindi profondamente libertario. Romanticamente illuminista. d.mazzullo@tiscali.it, www.studiomazzullo.com 

Tiziana Stallone, Domenico Mazzullo - Anoressia, malattia di oggi, malattia di sempre

Il problema non è solo di immagine o di inseguimento di falsi miti; seguendo questa strada si rischiano grandi delusioni, inevitabili,
quando si accettano ipotesi suggestive, ma senza valore scientifico

Tiziana Stallone, Domenico Mazzullo*

Nadia pesava ventinove chili, quando l’abbiamo conosciuta. Sul comodino della clinica, presso la quale si era ricoverata, di sua volontà, c’erano il suo diario di scuola e un pacchetto di caramelle senza zucchero. “Vedete?” Ci ripeteva sfogliando le pagine del suo diario. “In questa foto pesavo quarantacinque chili, allora ne avevo persi solo quindici, non avevo ancora l’anoressia”. Più avanti, nel corso del nostro colloquio, Nadia ci mostrò dei fogli, protetti da una cartellina.

“Queste sono le mie abbuffate della scorsa estate, le facevo di notte, per passare il tempo. Di giorno, poi, dormivo”. E noi, scorrendo quella lunga lista di cibi ingurgitati in solitudine, ognuno trascritto in bella copia, con righello, pennarello colorato e con affianco le rispettive calorie, cercavamo di non far trapelare il nostro sgomento e la nostra sofferenza.

Nadia aveva perso due anni prima il padre, da allora era iniziata la sua ossessione per il cibo e le calorie. Sapeva in che percentuale carboidrati, grassi e proteine dovevano essere assunti nella giornata. Possedeva decine di testi spetici di nutrizione.
Conosceva a memoria i valori nutrizionali riportati sulle etichette di centinaia di alimenti. Le abbuffate, ripetute e ripetitive, ossessive e studiate nei dettagli, erano per lei una droga e riempivano la sua vita; per concedersele, si sottoponeva a giorni e giorni di rigido digiuno.

Stella è una laureanda in economia e commercio, bionda, con pelle chiarissima, guance rosate e paffute che la fanno sembrare poco più che bambina. Infantile e tenera anche nel suo modo di porsi, di gesticolare e di arrossire alle nostre domande. È timida, introversa, insoddisfatta del proprio aspetto fisico. Tra le sue paure più angosciose, quella di annoiare, di non avere sufficienti argomenti di conversazione. Tra i suoi propositi, quello di migliorarsi nel fisico, in questo modo, almeno, anche se non le dovesse venire nulla da dire, la bellezza la proteggerà, rendendola più interessante, più sicura. Per questo Stella, che non arriva a quarantacinque chili per un metro e sessantacinque di altezza, si sottopone a diete restrittive rigidissime che, però, non riesce a sostenere. A tali diete seguono le abbuffate, le corse in bagno, l’eccitazione, l’estasi, e poi, profonda e cupa, la frustrazione di sentirsi, oltre che inadeguata, incapace e priva di volontà.

Quando oggi si parla di anoressia, termine sempre più frequente, di facile lettura nei quotidiani e di facile ascolto nei mezzi di comunicazione audiovisivi, e che ritorna spesso nei dialoghi tra genitori di adolescenti, la mente vola a immagini sconcertanti di giovani decedute per la magrezza estrema non più compatibile con la vita, di modelle che rincorrono una magrezza non più umana, per corrispondere sempre di più a canoni estetici non naturali e artificialmente indotti, frutto di una stupida, quanto pericolosa moda dei tempi; all’immagine, sconcertante, offensiva e di pessimo gusto, della modella francese Isabelle Caro, utilizzata dal fotografo Oliviero Toscani, per un basso e volgare scopo pubblicitario, ammantato dell’onorabilità di un servizio sociale, e si fanno commenti, si scrivono articoli, si organizzano dibattiti, si chiama in causa, si colpevolizza, ci si indigna verso gli attuali canoni estetici, e non solo, imposti da una società del cosiddetto benessere e consumistica, che detta e impone regole, a volte mortali.

Non che questo non sia vero, ma l’anoressia non è solo ed esclusivamente questo. Non è solo un problema della società attuale con le sue deviazioni e le sue irragionevoli incoerenze e ridurla a questo, ad un problema di immagine, di educazione, di inseguimento di falsi miti, imposti e accettati è, a nostro modesto parere, un grande equivoco, pericoloso, molto pericoloso, in quanto ci permette di illuderci, che solo imponendo nuovi modelli, solo proibendo i modelli precedenti, solo facendo scomparire e abolendo le taglie minime degli abiti, come, talora, si è fatto, il problema possa essere risolto e accantonato.

Non è così, purtroppo, e seguendo questa strada si rischia di andare incontro a grosse delusioni, inevitabili, quando si accettano, superficialmente, per buone, ipotesi suggestive ed in linea con lo spirito dei tempi, ma destituite di valore scientifico.

Allora riteniamo necessario e indispensabile, prima di tutto, fare chiarezza sull’argomento e sgombrare il campo da equivoci, incertezze e imprecisioni pericolose.

Anoressia: la parola deriva dal greco ed è composta di òrexis=appetito e il prefisso an privativo, quindi letteralmente mancanza di appetito e già qui nascono i primi errori ed equivoci, in quanto non sempre le pazienti ed i pazienti anoressici mancano di appetito, appunto.

È necessaria una distinzione fondamentale, senza la quale non è possibile procedere oltre: esistono, e bisogna distinguerle, due forme diverse di anoressia, rispettivamente, l’anoressia primaria e l’anoressia secondaria. Trattasi di una distinzione importante, indispensabile ed inalienabile, se non vogliamo incorrere nell’equivoco di facili ed erronee generalizzazioni, di pseudo-spiegazioni psicologicamente omnicomprensive, che nella intenzione di spiegare tutto, non spiegano niente, confondendo le idee di chi, invece, avrebbe bisogno di concetti chiari ed esaustivi, soprattutto per saper intervenire appropriatamente e tempestivamente.

L’anoressia primaria o primitiva, non conseguente, quindi, a nessun’altra patologia, è legata ad una struttura particolare di personalità, che si esplica e si esprime con molteplici caratteristiche e peculiarità, tra le quali il disturbo del comportamento alimentare. Essa si configura come la forma di anoressia più eclatante e visibile, nonché pericolosa e a volte, purtroppo, anche mortale. Forse un po’ di storia può risultare utile ad una maggiore comprensione.

La prima descrizione clinica della anoressia primaria, o anoressia nervosa, risale al 1689, quando il medico inglese Richard Morton pubblicò il primo resoconto di due pazienti, un maschio di 16 anni ed una femmina di 18, che rifiutavano di alimentarsi, pur in assenza di altre malattie organiche. Nel 1873, quasi contemporaneamente e all’insaputa l’uno dell’altro, il medico Charles Lasegue a Parigi e il medico William S. Gull a Londra, descrissero ed illustrarono la patologia come noi oggi la conosciamo, denominandola rispettivamente anoressia isterica il primo, eanoressia nervosa il secondo, riferendosi entrambi all’anoressia primaria.

Lo sviluppo di una psichiatria scientifica in Europa, soprattutto in Germania e in Francia, dette grande impulso alla conoscenza di questa patologia, approfondendosi l’investigazione e la descrizione degli aspetti psicopatologici di questa, soprattutto per opera di grandi psichiatri quali Emil Kraepelin, Bumke, E. Kretschmer in Germania e Jean-Martin Charcot, Gilles de la Tourette, Pierre Janet in Francia.

Una parentesi importante nella storia dell’anoressia nervosasi aprì nel 1914 e fino al 1930. Nell’anno dello scoppio della Prima guerra mondiale, infatti, il medico e fisiologo Simmonds ipotizzò che la sintomatologia, fosse da attribuirsi ad un’insufficienza pituitaria grave, spostando, così, il campo di indagine, dal piano prettamente psichico e psicopatologico a quello, ancora una volta, organico.

Questo periodo di “sonno” per la psicopatologia della anoressia nervosa, a favore dell’endocrinologia, durò approssimativamente fino al 1930, quando uno studio condotto da Berkman su 117 pazienti anoressiche, risvegliò finalmente e ancora una volta, l’interesse per la psicopatologia di questa affezione.

Gli ultimi, importanti contributi sono da attribuirsi all’opera di Hilde Bruch, Arthur H. Crisp e Gerald M. F. Russell, cui dobbiamo il nuovo impulso fornito allo studio della psicopatologia della anoressia nervosa che, come categoria diagnostica, è stata inserita fin dal 1968 nella seconda edizione dello statunitense Manuale diagnostico statistico dei disturbi mentali (DSM-II) e continua ad essere presente nelle edizioni successive, con i dovuti aggiornamenti, fino all’attuale edizione. Abbiamo omesso, consapevolmente e intenzionalmente, e ci assumiamo la responsabilità di questa omissione, il contributo della psicoanalisi, perché, a nostro modesto parere, è ascientifico e fuorviante, come d’altra parte in altri ambiti e capitoli della psichiatria.

Nella quarta edizione del Diagnostic and statistical manual of mental disorders (DSM-IV), l’anoressia nervosa è definita come un disturbo in cui il paziente rifiuta di mantenere il peso corporeo al di sopra, o al livello del peso minimo normale per età e statura, ha un’intensa paura di aumentare di peso e dà eccessiva influenza alla forma del corpo e al peso corporeo, nella valutazione della propria autostima. L’anoressia nervosa è caratterizzata da un grave disturbo dell’immagine corporea, dalla ricerca della magrezza e dal rifiuto di ammettere la gravità della condizione legata al basso peso corporeo. Le donne in età fertile devono avere l’assenza di almeno tre cicli mestruali consecutivi. La prognosi è variabile: si passa dalla guarigione spontanea ad un estremo meno fortunato, caratterizzato da un decorso con riacutizzazioni e remissioni, fino al decesso.

Discorso molto complesso, e certamente non giunto a conclusione, è quello sulla eziologia, sulle cause della anoressia nervosa, per le quali sono state formulate ipotesi molteplici, che spaziano dallo psicologismo più radicale ed esasperato, all’assoluto organicismo, ma più probabilmente, nella patogenesi dell’anoressia nervosa sono implicati fattori psicologici, sociali e genetici. Si è, genericamente, ipotizzato che le giovani anoressiche vivano un conflitto relativo alla transizione tra adolescenza ed età adulta, altrimenti e più drammaticamente una sorta di terrore e di rifiuto di abbandonare un amorfo e rassicurante periodo prepuberale, per trasferirsi in una dimensione postpuberale, con tutto ciò che essa comporta, soprattutto in riferimento alla sessualità. In passato si è lavorato molto per cercare le cause dei disturbi alimentari all’interno delle famiglie, ma nessuna ricerca ha dimostrato differenze significative nel vivere e relazionarsi, in famiglie con un membro affetto da anoressia nervosa rispetto ad altre famiglie.

Caratteristiche fondamentali del paziente che soffrirà, soffre o ha sofferto di questa patologia sono, ben precise, delineate e si ripetono, con costanza, in ogni caso: personalità rigida e perfezionista, determinata, pretesa di alte prestazioni, tendenza ad autocolpevolizzarsi, se queste prestazioni non vengono raggiunte, senso del dovere estremo, pretesa di un rigido autocontrollo in ogni aspetto della propria esistenza, in modo particolare del proprio fisico e, conseguentemente, anche dell’alimentazione, atteggiamento fortemente sessuofobico, paura delle responsabilità che l’età adulta comporta, desiderio di controllo su tutto ciò che li circonda, umano e materiale, paura delle novità e degli imprevisti, consequenziale organizzazione rigida della propria vita, secondo schemi precostituiti ed immutabili, schiavizzazione dei propri familiari che vengono coartati e obbligati attraverso ricatti, soprattutto affettivi, rapporti con gli altri solo apparentemente profondi, ma in realtà superficiali, perché a nessuno viene concesso di penetrare a fondo e conoscere la propria intimità, spesso, ma non sempre, paura dello sporco, sia in senso fisico, sia soprattutto morale, con pratiche auto-punitive, se si commettono trasgressioni, ordine ossessivo, attenta cura del proprio abbigliamento mai trasandato, o trascurato, autoimposizione di una estenuante attività fisica quotidiana, egocentrismo e spesso atteggiamenti paradossalmente seduttivi, tesi a captare l’attenzione e la benevolenza degli altri, non propensione alla maternità. Risulta, quindi, un quadro di personalità molto complesso, che rimane invariato anche quando si guarisce dalla anoressia sensu stricto.

È opportuno precisare e ribadire che, erroneamente, l’anoressia nervosa primaria viene considerata un disturbo del comportamento alimentare, essendo quest’ultimo solo l’anello finale di una catena eziologica che prende origine da una precisa struttura di personalità del paziente anoressico. È importante rammentare, ancora una volta, che anoressia, letteralmente mancanza di appetito, è termine sicuramente inadatto per queste pazienti, che combattono continuamente per il controllo della sensazione di fame.

L’alimentazione del paziente anoressico è rigida, calcolata, programmata, con ideazione ossessiva riguardo al cibo e al computo delle calorie introdotte e consumate è, spesso, radicata la convinzione di alimenti “tabù”, che nasce dalla lettura di articoli raccolti da riviste di divulgazione, poi rielaborati, reinterpretati, distorti ed assunti come dictat. L’assunzione di alimenti ad alto valore proteico, quali carne, pesce, formaggi e legumi è spesso mantenuta, mentre gli alimenti ricchi di carboidrati, come pane, pasta e patate o di grassi, l’olio da condimento, sono banditi. Le abitudini alimentari di chi soffre di anoressia sono monotone, ripetitive. I pasti sono consumati in maniera “rituale”: nello stesso luogo, alla stessa ora, da soli o alla presenza di familiari e persone considerate “di fiducia”. Talvolta, alla vigilia del pasto, ci si prepara con cura, pettinandosi ed indossando gli abiti migliori.

Gli alimenti ingeriti sono spesso trascritti, annotati ossessivamente, assieme alle calorie. Per questo, il programma di educazione alimentare dell’anoressia nervosa è lungo e difficile, e dovrebbe essere volto a scardinare lentamente, per mezzo di argomentazioni logico-cliniche, le abitudini alimentari errate. Nel corso di questo lavoro, il nutrizionista non può prescindere dalla guida di uno psichiatra di riferimento, nonché dal calarsi nella logica di chi soffre di anoressia, percependone i timori legati al cambiamento delle abitudini alimentari. I piani di trattamento dietoterapici, dovrebbero essere assolutamente soggettivi, confidando nel concetto che sia opportuna ed utile non tanto una dieta formalmente perfetta, quanto piuttosto una dieta accettabile ed accettata. Nessuna dieta imposta, frettolosa e asetticamente costruita, quindi, ma al contrario elaborata e concordata assieme a chi soffre di anoressia.

Si “guarisce” dall’anoressia, ma non si “guarisce” dalla personalità anoressica, che rimane, comunque, tale anche quando le problematiche più direttamente legate alla alimentazione sono risolte e scongiurato il pericolo di vita.

Esiste, poi, un’anoressia secondaria, successiva e conseguente ad altre patologie, siano esse fisiche, o psichiche. Tra le prime possiamo ricordare l’anoressia conseguente a malattie infettive, neoplastiche, degenerative. Tra le seconde la responsabilità fondamentale spetta di diritto alla depressione, in tutte le sue forme, endogena, reattiva, endoreattiva, post-partum, senile ecc., ma è presente, anche se in forma minore, nella psicosi schizofrenica ed in alcune personalità psicopatiche. A tutte queste forme il termine letterale di anoressia = mancanza di appetito spetta di diritto ed è perfettamente appropriato, in quanto tutte sono caratterizzate da questa mancanza, più o meno grave e duratura di appetito.

Con motu proprio ed una scelta del tutto personale, che può essere senza dubbio criticabile e non condivisa, possiamo ascrivere a questa forma di anoressia secondaria, anche tutti gli episodi, sempre, purtroppo più frequenti oggi, di comportamenti alimentari alterati e patologici, tesi e miranti alla ricerca di una magrezza, o meglio detto, di una forma corporea, che corrisponda ai canoni estetici del tempo e che permetta di uniformarci e appiattirci su questi, trovando in questa uniformità, un motivo di rassicurazione, di identificazione personale, di gratificazione estetica, di incorporazione in un gruppo.

Va da sé che questo atteggiamento è particolarmente suggestivo e pericoloso, proprio nelle età adolescenziali e giovanili, quando è più forte e più cogente la necessità di appartenere ad un gruppo, di trovare in questa appartenenza la nostra identità e rassicurazione esistenziale, la certezza di apprezzamento da parte degli altri, verificandosi, così, il paradosso secondo cui la nostra specifica identità non risulti da un’individualità cercata, vissuta e sofferta, ma dalla appartenenza ad una comunità, nella quale veniamo accettati ed entriamo a far parte.

E se i modelli estetici della società sono quelli di una magrezza innaturale ed estrema, ricercata, pubblicizzata, esposta, modello di riferimento ed obbiettivo da raggiungere, ecco spiegata come diretta conseguenza, la ricerca strenua, affannosa, autolesiva, di ottenere e verificare in noi quei canoni di bellezza imposti da un’idiota e pericolosa moda e costume.

Ecco, anche, spiegato il fenomeno, purtroppo sempre più diffuso, di adolescenti e giovani donne, soprattutto, ma si stanno facendo strada anche gli uomini, che per aderire a questi modelli iniziano ad imporsi restrizioni alimentari assurde, incongrue e pericolosissime in un’età di sviluppo, spesso autogestite, autoprescritte, desunte e tratte dai soliti periodici e giornali, specifici e non, che pur di vendere non si pongono minimamente il problema dei danni potenziali e reali che possono provocare, in persone spesso immature, insicure e fortemente influenzabili.

Per non parlare poi di quei medici, sedicenti dietologi, che prescrivono regimi alimentari assurdi e irrazionali, associando a questi, anche in persone normopeso o in lieve sovrappeso, farmaci, spesso sotto forma di preparazioni galeniche, contenenti miscugli assurdi di sostanze diuretiche, antidepressivi quali la fluoxetina e anoressizzanti, associandoli naturalmente a benzodiazepine per contrastare gli effetti eccitanti di queste ultime. Consideriamo questapratica pericolosissima e criminale sia per l’uso di sostanze anoressizzanti, sia per l’utilizzo assolutamente improprio ed inadeguato di psicofarmaci, che andrebbe riservato solo allo psichiatra, unico competente per una diagnosi ed una conseguente terapia psicofarmacologica.

In questa terza ed ultima forma di anoressia secondaria, il termine letterario di anoressia, nel senso etimologico di mancanza di appetito, è improprio e fuorviante in quanto, ben lungi dal mancare di appetito, queste giovani persone, sono vittime di una fame atroce e giustificata dalla assurda privazione di apporto alimentare autoimposta, o, ancor peggio, prescritta da qualcuno, con assoluta e pericolosissima incompetenza. Ma la fame sofferta è meno potente, come forza cogente, del desiderio di raggiungere gli obbiettivi prefissati. Spesso in queste giovani persone i periodi di digiuno forzato sono interrotti da crisi improvvise ed imprevedibili di bulimia, veri e propri raptus alimentari, con consumo incontrollato, compulsivo ed estremo di grandi quantità di cibo ed inevitabili, successivi sensi di colpa e di autoriprovazione che culminano, a volte, con vomito autoprovocato, uso di lassativi, diuretici, enteroclismi.

Per questa forma secondaria di anoressia è valida, utile, doverosa e indispensabile un’intensa attività, singola e collettiva, di educazione e di rieducazione, diciamo culturale e sociale, tesa a sconfiggere, a reprimere, ad impedire modelli estetici stupidi, innaturali e pericolosissimi per menti ancora in evoluzione, o comunque fragili e fortemente influenzabili, prive ancora di quello spirito critico che permette di distinguere tra ciò che è bene e ciò che è male, tra sano e malato, tra intelligente e sciocco. In questo percorso, si inserisce anche la riabilitazione nutrizionale, con la presa di coscienza delle gravi conseguenze che gli errori nutrizionali possano avere sulla salute e del fatto che non vi sia alcuna bellezza nella magrezza e nella malattia.

Chiudiamo ribadendo, ancora una volta, che per non correre il rischio di troppo facili generalizzazioni e interpretazioni imprecise e fallaci, con conseguenti proposte di soluzioni inadeguate, dobbiamo tener ben distinte e separate l’anoressia primaria o nervosa, dalla anoressia secondaria, legata a fattori di costume e all’inseguimento di canoni estetici estremi e improponibili, quando giovani adolescenti soprattutto, per piacere ed essere accettati dal gruppo, si sottopongono a diete restrittive, drastiche e pericolose, dalle conseguenze spesso drammatiche ed irreparabili. Mentre questa ultima può essere considerata come frutto e specchio dei tempi presenti, dominati e oppressi da una “cultura dell’apparire” e quindi come un fenomeno di costume attuale e tipico del momento, l’anoressia nervosa, in quanto patologia, è sempre esistita, in tutte le epoche storiche, anche quando i canoni estetici femminili erano opposti a quelli attuali, vedi ad esempio l’imperatrice Sissi moglie di Francesco Giuseppe e la stragrande maggioranza delle sante della Chiesa.

Per questo motivo, nell’anoressia secondaria, e solo in questa, è importante e doveroso esercitare una pressione su chi, con leggerezza, o con dolo, stabilisce ed impone modelli estetici estremi. Nulla a che vedere con le problematiche di personalità caratteristiche invece della anoressia nervosa, in conflitto perenne, soprattutto, con la sessualità.

Paradossalmente si potrebbe dire che le pazienti affette da anoressia nervosa non desiderano apparire, anzi desiderano scomparire, se possibile… e a volte ci riescono; le altre, invece, desiderano, all’opposto “apparire” adeguate, in sintonia e in conformità ai dettami della moda vigente.

*Dice di sé
Tiziana Stallone. Biologo e dottore di ricerca in anatomia umana, svolge la libera professione di nutrizionista clinico. Le sue passioni: lavoro, musica, cinema, viaggi, alberi e cimiteri. tiziana.stallone@virgilio.it
Domenico Mazzullo. d.mazzullo@tiscali.it, www.studiomazzullo.com

BLAISE PASCALCi s’immagina Platone e Aristotele tutti paludati nei loro abiti

da pedanti. Erano uomini di mondo come gli altri, che ridevano

coi loro amici. (…) Quando hanno scritto di politica,

l’hanno fatto come per porre delle regole in un ricovero

di pazzi. E se hanno mostrato di parlarne come fosse una gran

cosa, è stato perché essi sapevano che i pazzi a cui parlavano

credevano di essere re e imperatori. Essi entrano nei loro princìpi

per moderare la loro follia e renderla più innocua.

(Da “I Pensieri”, 1670)

Franco Avenia - Il marchese, la moglie, l’amante, ecco la chiave scientifica di un memoriabile delitto

Una storia di altri tempi, ma attualissima. Un amore sofferto che diventa tragedia per i Casati Stampa, famiglia dell’antica nobiltà romana

Franco Avenia*

Di recente sono stato chiamato come consulente per la trasmissione televisiva “Delitti”, in onda su History Channel, in cui si è tentato di ricostruire le dinamiche psicosessuologiche alla base del duplice omicidio e suicidio messo in atto, nel 1970, dal Marchese Camillo Casati Stampa.

Il tragico avvenimento destò un grande scalpore, non tanto per la sua efferatezza o per la notorietà del protagonista – uno degli uomini più ricchi ed in vista del tempo – ma per le complesse trame sessuologiche subgiacenti. Molti suggerirono spiegazioni dell’accaduto e di quanto lo aveva preceduto. La più accreditata fu quella proposta dallo psicoanalista Emilio Servadio. A tutta prima, anche a me sembrò la più credibile, ma leggendo e rileggendo quanto fu scritto al tempo ed approfondendo l’argomento mi sono trovato a percorrere un itinerario esplicativo diametralmente opposto.

Il fatto

Il 30 agosto 1970, nella residenza romana del marchese Camillo Casati Stampa di Soncino, vennero trovati morti il marchese, di 43 anni, la moglie Anna Fallarino, di 41 anni, e l’amante della marchesa, il giovane Massimo Minorenti, di 25 anni. Dopo una breve ricognizione della polizia, fu chiaro che il marchese aveva ucciso a colpi di fucile da caccia i due amanti e poi si era suicidato. All’inizio, sembrò il classico dramma della gelosia, ma subito dopo emerse una realtà torbida e difficilmente spiegabile: il marchese era solito offrire la propria bella moglie a sconosciuti, perché si accoppiassero sessualmente con lei in sua presenza. Fotografava, inoltre, la moglie in pose oscene e la mostrava, così ritratta, ad amici e conoscenti.

Casati aveva speso un miliardo per annullare il precedente matrimonio e sposare la Fallarino. Poi l’aveva data continuamente ad altri uomini, osservandola e fotografandola durante gli amplessi. Improvvisamente però esplose la sua gelosia che finì in tragedia. Perché?

I personaggi

Camillo Casati Stampa discende da una nobile e ricchissima famiglia. Da bambino era molto viziato e solito ad eccessi improvvisi di collera, che non lo abbandonarono per tutta la vita. Da adulto si divideva, sostanzialmente, tra la mondanità, la caccia e l’enigmistica.

Nel 1950, il marchese sposa Letizia Izzo, una ballerina da cui l’anno successivo avrà una figlia. Otto anni dopo, si separerà presso la Sacra Rota dalla prima moglie e nell’aprile del 1959 sposerà civilmente Anna Fallarino. Durante la prima notte di nozze, il marchese offre i favori della moglie ad un cameriere del lussuoso albergo dove alloggiano, ed assiste al loro amplesso.

Anna Fallarino nasce in una famiglia poverissima di Benevento. Abbandonata a 3 anni dalla madre, che scappa con l’amante, vivrà fino all’adolescenza nella città natale, per abbandonarla a 16 anni, trasferendosi a Roma in cerca del successo e della ricchezza. La sua aspirazione è il cinema. Farà solo la comparsa in un film di Totò. A trarla dall’indigenza e la mediocrità sarà Peppino Drommi, facoltoso ingegnere, che sposerà lo stesso anno in cui il marchese Casati porterà all’altare la prima moglie. Bella e prorompente, la Fallarino sarà una delle prime donne a farsi inserire protesi mammarie, i cui resti di silicone saranno evidenti sul suo cadavere, riverso nella poltrona, nel pomeriggio del 30 agosto 1970.

Massimo Minorenti, quando muore, ha 25 anni. Proviene da una modesta famiglia romana. È uno studente universitario che frequenta la Roma dei Parioli con aspirazioni da playboy. Dopo esser stato preso nella rete dei coniugi Casati, sembra innamorarsi della bella Anna, da cui è ricambiato. La loro storia, iniziata con il tacito assenso del marchese, che si compiace dei racconti erotici della moglie, si concluderà nel sangue.

La prima interpretazione

Le vicende del marchese Casati e della moglie Anna Fallarino sono in apparenza di facile lettura se si usa il senso comune: un marito perverso induce la moglie ad accoppiarsi con altri uomini, traendone godimento, ma, quando si accorge che lei si è innamorata di uno di questi, viene preso da una gelosia incontrollabile e distruttiva che lo conduce alla tragedia. L’interpretazione di tali dinamiche, che fu data a suo tempo dallo psicoanalista Emilio Servadio, ci proponeva, però, una spiegazione più approfondita: il marchese – con una marcata tendenza alvoyerismo – viveva un’inconsapevole omosessualità che si realizzava attraverso l’identificazione con la moglie. In altre parole, quando la marchesa aveva rapporti sessuali con altri uomini, il marito – identificandosi con lei – era come se ad esser posseduto fosse lui stesso. Ciò era ovviamente condito da una profonda umiliazione, che il marchese accettava con altrettanto godimento, in quanto strutturalmente masochista.

A scatenare la tragedia era stata la relazione della Fallarino con il Minorenti, in quanto Casati “…si era trovato – così sosteneva Servadio1 – di fronte alla sensazione di non dominare più la situazione… ed il masochista è un uomo che non tollera deviazioni dalla linea che ha tracciato per il suo godimento”. Una siffatta interpretazione, rispettabile, ma poco probabile, appare di fatto infondata, in quanto non fa altro che etichettare comportamenti, in modo che il tutto sia coerente, senza spiegarcene, però, le dinamiche profonde, le uniche che possono darci conto di quanto accaduto.

È ovvio che qualsiasi interpretazione non può che muovere dagli elementi noti e che quelli, forse, più importanti, come l’infanzia dei due, i loro rapporti con i genitori, le loro esperienze adolescenziali, ecc., non sono che sommariamente a nostra disposizione. Ma una ricostruzione più congrua e motivata può essere possibile. E tale ricostruzione parte proprio dalla lettura del senso comune: un dramma della gelosia, come è sotto gli occhi di tutti…, ma che cela dinamiche inesplorate.

Il triangolo: la vera “chiave dell’enigma”

Prima di tornare a parlare della gelosia, è però importante sottolineare un elemento caratteristico di questa storia, che si manifesta, continuamente, e che proprio per la sua presenza costante assume un valore non solo simbolico, ma strutturale: il triangolo, la “chiave dell’enigma”, come dice Servadio.

Andiamo a ritroso nel tempo, individuando tutti i rapporti triangolari della vicenda.

Il primo, il più noto, il più evidente, è costituito da Casati, dalla Fallarino e dal giovane Minorenti. Il secondo, è rappresentato dal marchese, dalla moglie e da ciascun uomo che si accoppiava con lei. Il terzo è quello che s’intreccia tra la Fallarino, il suo primo marito Drommi ed il marchese (Casati e la Fallarino iniziarono ad essere amanti quando lei era ancora sposata con Drommi). Il quarto – e forse più illuminante – è il triangolo tra Casati, Drommi e Rubirosa, che si manifesta in una famosa rissa a Cannes, nel 1958, dove molti – come scrive Corrado Augias2 – individuano il momento in cui scoccò la scintilla d’amore tra Anna ed il marchese.

È, infatti, questo episodio che lega triangolarmente i tre uomini, ad aprire la scena al più antico e significativo triangolo: quello edipico. In un grande albergo di Cannes, in Costa Azzurra, durante una serata mondana, il playboy Porfirio Rubirosa, dopo aver a lungo corteggiato la Fallarino, le posa una mano sulla spalla nuda. L’allora marito Drommi, dopo averlo diffidato dal continuare con il suo atteggiamento troppo confidenziale e vedendosi ignorato, gli sferra un pugno. Rubirosa si difende e reagisce. Aquel punto, il marchese Casati si scaglia con violenza verso il playboy, colpendolo ripetutamente e con violenza, scatenando una furibonda rissa. Il playboy Porfirio Rubirosa tenta d’insidiare la Fallarino ed il marito si ribella. Fin qui tutto normale. Ma perché il marchese si scaglia con furia (torneremo su questi accessi di rabbia) contro l’intruso?

La dinamica edipica

Casati entra, improvvisamente ed inconsapevolmente, in un triangolo edipico con Drommi e la Fallarino, di cui lui è il terzo elemento: il figlio, che si schiera con il padre per difendere la madre. Il marchese è, infatti, già coinvolto emotivamente e desidera la procace Anna, una donna (figura vicaria della madre) che è di un altro (il padre-primordiale). Tutta la storia dei coniugi Casati si snoderà poi su questa falsariga: un triangolo edipico che si ripeterà fino alla tragedia.

Con molta evidenza Casati proietta sulla Fallarino la figura materna, di cui è innamorato e che desidera carnalmente, ma che non può possedere proprio perché rappresenta simbolicamente la madre. Probabilmente, durante la prima infanzia il marchese ha avuto occasione di vedere i propri genitori durante un amplesso, o in situazioni molto spinte o – al minimo – iperaffettuose. Ciò ha rafforzato in lui la proiezione libidica nei confronti della madre, accendendo il desiderio, ma al tempo stesso è scattata una rigida censura che ha coartato con forza tali desideri, impedendo la conversione della pulsione libidica in sentimenti teneri.

Una dinamica, probabilmente sopita, che si è riattivata quando ha conosciuto la Fallarino. Tra l’altro, va ricordato che la Fallarino rimase incinta del marchese e che a seguito di un aborto divenne sterile. L’impossibilità di avere figli da lei potrebbe aver scatenato o rinforzato le pulsioni edipiche con i relativi tabù, identificandola con la madre con cui non si può generare.

Con questa donna fortemente desiderata, ma che rappresenta simbolicamente la madre, Casati non ha, dunque, la possibilità di avere rapporti sessuali diretti, ma solo per interposta persona, replicando la scena primaria, in cui ha assistito o immaginato di assistere ad un accoppiamento dei genitori. La loro sessualità diviene transitiva, ha bisogno di un oggetto intermedio per realizzarsi.

Quando la Fallarino si accoppia con un altro uomo, il marchese rivive ciò che ha visto accadere o immaginato, morbosamente, tra i suoi genitori; prova una fortissima eccitazione, ma è il limite massimo oltre il quale non può spingersi, perché al di là scatta il tabù dell’incesto.

Casati offre la moglie agli altri, la mostra fotografata in pose e atteggiamenti sensuali, ed in questo nega la parte affettiva, esclusiva del rapporto, negando a se stesso il tenero legame con la madre (conseguenza della non maturata conversione della pulsione libidica in sentimenti teneri). Una decisa separazione tra affettività e sessualità che gli consente di mantenere in equilibrio la triangolarità edipica. Per difendersi dai suoi desideri incestuosi ha, infatti, bisogno di negare l’affettività nei confronti della madre: stesso meccanismo che lo aiuterà nel rapporto con la Fallarino.

Egli ama la moglie, come ha amato la madre, ma quando si accende il desiderio sessuale questo amore viene negato, scotomizzando il rapporto, sdoppiando la figura: una parte che ama ed è riamata, un’altra che fa sesso e che è odiata. Un odio che si tramuta in vendetta, umiliando la propria donna (madre), offrendola come una prostituta al primo che passa, mostrandola oscenamente ritratta agli amici. Le dinamiche del bambino Casati sono in realtà frequenti: la madre che ama e da cui è ricambiato, si accoppia con il padre: lui prova una forte eccitazione ed un forte desiderio, ma per sopportarli deve negare che quella sia la propria madre, verso cui nutre un sentimento d’amore. È come se fosse un’altra donna, odiata e disprezzata.

Quando, da adulto, scatterà con la Fallarino il triangolo edipico, il marchese la offrirà ad altri uomini per poter rivivere l’eccitazione originaria, senza possederla direttamente come nell’infanzia, senza infrangere il tabù dell’incesto. Egli, pertanto, s’identificherà con gli altri uomini provando piacere (come a suo tempo fece con il padre), non potendo interagire sessualmente con lei in modo diretto.

Tra l’altro, pagherà gran parte di questi uomini, trasfigurando il loro ruolo in strumenti che non provano piacere, perché il piacere è solo suo: di chi – seppur in forma mediata – si accoppia veramente con la propria donna. Ecco, dunque, che il processo d’identificazione si manifesta, ma non – come sostenuto da Servadio – con la Fallarino, dando sfogo ad un’omosessualità latente, bensì con gli uomini che la posseggono, unica possibilità concessa dal suo Super Io di congiungersi carnalmente con lei.

Il voyeurismo di cui tanto si parlò dopo la tragedia non rappresenta, allora, una “spinta visiva” tipica del bambino, non superata nell’età adulta – come riteneva Servadio –, ma soltanto la modalità originaria in cui si è deformato il triangolo edipico: il “mezzo tecnico” – potremmo dire – attraverso il quale è possibile vivere le fantasie edipiche, accoppiandosi mediatamente con la figura vicaria della madre, la modalità captativa ed elaborativa della scena primaria.

La tragedia

Ma come si è arrivati alla tragedia?

È noto che il marchese aveva manifestato quel giorno propositi suicidi3. Poi improvvisamente, prima di togliersi la vita, ha compiuto la strage. Il legame affettivo – oltre che sessuale – creatosi tra la moglie ed il giovane Minorenti lo aveva prostrato. Sempre restando nella prospettiva edipica, si era ricomposto il rapporto madre-padre, un legame che Casati aveva negato cambiando partner alla moglie e spesso pagandoli. Ma ora era ben vivo davanti ai suoi occhi. Tutti i meccanismi di difesa, di scotomizzazione, di deviazione, messi in atto, non erano più efficaci.

Il marchese si ritrovava solo, di nuovo escluso4. Ciò lo aveva depresso e svuotato d’ogni energia9. Il suo lungo peregrinare per strade traverse, colme d’ingannevoli compromessi inconsci, era arrivato alla fine. Tutti gli sforzi di superare il padre nella lotta per la conquista della madre si erano mostrati inutili. Il dramma della sua vita si mostrava di nuovo in tutta la sua schiacciante forza. La sconfitta, da sempre annunciata, non era più differibile. Egli, dunque, si accinge a suicidarsi e vuol farlo davanti a loro: per punirli; per punirli con la più orribile delle pene per i genitori: assistere alla morte del figlio.

Ma a questo punto entrano in gioco due fattori: gli improvvisi accessi di rabbia, a cui Casati va soggetto, e la complicità tra gli altri due protagonisti. Per quanto riguarda i primi, sappiamo che il marchese era solito lasciarsi andare a momenti di vera furia, una furia infantile, altamente distruttiva. Tali accessi d’ira, di rabbia, rapprendano, chiaramente, uno stato regressivo in cui le pulsioni aggressive si manifestano fuori dal controllo razionale.

Di certo, in quel pomeriggio, in quella situazione, il marchese entrò in uno stato regressivo che liberò le sue pulsioni distruttive. L’innesco poi, rappresentato dal secondo dei due fattori, fu vedere insieme la Fallarino e Minorenti, e percepirli uniti e complici. Una complicità che si manifesta nella rinuncia volontaria dei due amanti al loro rapporto. La Fallarino, infatti, in un estremo e tardivo tentativo di recuperare il rapporto con il marito, gli preannuncia che è disposta a lasciare il giovane Minorenti. Ma ciò non fa che rinforzare nella mente del marchese l’idea della loro complicità e la loro figura di genitori che concordano la decisione giusta per tacitare i gli irosi capricci del proprio bambino. Servadio, nella sua interpretazione, sostiene che Casati fosse masochista e non sentendosi più l’architetto delle sue trame trasformò il suo masochismo in risposta sadico-aggressiva. La verità è che il marchese non era affatto masochista – tutto il suo modo protervo d’agire mostra il contrario –, egli infatti non soffriva umiliandosi per i tradimenti da lui orditi, ma al contrario umiliava e feriva la moglie nel farla accoppiare con gli altri uomini.

L’epilogo della tragedia si compie, dunque, quando il marchese al cospetto dei due rivive a pieno il suo dramma edipico, si sente sconfitto, regredisce e, nella sua furia infantile, distrugge ciò che non può controllare, ciò che lo fa soffrire, ciò che lo mette di fronte alle suo pulsioni più oscure. Ma distruggendo ciò, l’oggetto d’amore di tutta la sua vita, uccidendo madre e padre gli si spalanca l’abisso della solitudine e della colpa. A questo punto, l’unica possibilità è fuggire nell’oblio della morte.

Le vittime

Anche se può sembrare che Camillo Casati abbia reso vittime gli altri due protagonisti della tragedia, a ben guardare è possibile dire che sia la bella Fallarino, sia il giovane Minorenti siano stati piuttosto vittime di se stessi. La prima della sua smisurata ambizione e dell’ansia di riscatto sociale, il secondo della smania di protagonismo e dell’attrazione esercitata su di lui dai miti patinati degli anni ‘70.

Anche Casati è vittima. Egli è infatti posseduto da un’ossessione edipica che lo domina dal profondo, senza difesa o possibilità di riscatto, e che lo trascinerà verso la tragica fine, incontro alla liberazione.

Questa è una storia d’altri tempi. Si erano appena spenti i clamori del ’68 e già si affacciavano gli anni di piombo, mentre Edvige Fenech si spogliava nelle sale cinematografiche; Paolo Villaggio ci raccontava le improbabili vicende del ragionier Fantozzi sulle pagine dell’Europeo e Lucio Battisti cantava Emozioni per i neoromantici.

Nel mondo iniziavano a volare i Boeing 747 e la terra ci sembrò più piccola. La Cina entrò a far parte dell’Onu e Willy Brandt aprì all’est europeo, riconoscendo l’altra parte della Germania al di là del muro. Una ventata di unità e di riavvicinamento tra i popoli che svanì subito. Di lì a poco il colonnello Gheddafi cacciò gli italiani dalla Libia, gli inglesi sparsero sangue di irlandesi innocenti nel Bloody Sunday, in Medio Oriente scoppiò la guerra del Kippur. Fatti noti che appartengono alla storia, come la storia dei singoli uomini appartiene a loro stessi ed alla loro memoria. Ma le dinamiche che li muovono nel quotidiano agire appartengono a tutti noi, e con esse, pertanto, dobbiamo sempre confrontarci. Perché – ci piaccia o no – tracciano a fondo il percorso degli umani destini.

1) Dall’intervista rilasciata da Emilio Servadio all’Europeo, 1970.
2) Corrado Augias, “I segreti di Roma”, Mondadori, Milano, 2005, pag. 344
3) Nell’ultimo biglietto scritto dal marchese Casati alla moglie, si legge: “Amore mio, vita mia, perdonami, ma quello che farò lo debbo fare. Addio, mia unica gioia passata”.
4) Il 7 agosto, a poco più di venti giorni dalla strage, il marchese Casati scriveva: “…che schifo quello che mi ha fatto Anna…pensavo che fossimo l’unica coppia legata veramente, e invece…”
5) Il 24 agosto, sei giorni prima della tragedia, il marchese Casati annotava nel suo diario: “Io sto letteralmente morendo internamente e ho perso tutto…”

*Dice di sé.
Franco Avenia. Direttore della “Rivista di Sessuologia”.

 

 

PAUL GINSBORGLa democrazia ha molti nemici in attesa tra le quinte, politici e

movimenti, per il momento costretti a giocare secondo le sue

regole, ma il cui intento reale è tutt’altro (…). Conquisteranno

molto spazio, se non riformeremo rapidamente le nostre

democrazie. E non c’è ambito in cui questa riforma sia più

necessaria che in seno alla stessa Unione Europea.

(Da “La democrazia che non c’è”, 2006)

LETTURE Stefano Caprioli - In principio fu Bobby Solo

Era il Festival di Sanremo del 1964 e l’Elvis nazionale fu costretto, per via di una crisi di panico a ricorrere al playback. Quell’anno segnò l’inizio di una querelle senza fine

Stefano Caprioli*

Il primo vero taglio alle orchestre live in televisione fu, probabilmente, perseguito all’interno del glorioso festival della Gondola d’oro, a Venezia, negli anni ‘70. Io ero un bambino e abitavo a ridosso del mitico e fatiscente, già allora, Palazzo del cinema del Lido. Una banda di ragazzini che chiedeva autografi a Dalida, Iva Zanicchi, Marcella, sperando di entrare, furtivamente, per assistere alle prove. Qualche volta ci riuscivamo e sprofondavamo nelle poltrone del teatro, per non farci vedere dagli uomini della sicurezza. Erano gli anni in cui passavano James Last, Eumir Deodato, il primissimo Battiato e il maturo Claudio Villa.

Ad un certo punto le orchestre sparirono e arrivarono le basi musicali, cosicché gli artisti cominciarono ad esibirsi su base o in full playback. Era una necessità, poiché l’elettronica aveva modificato, a tal punto, gli arrangiamenti musicali che diventavano irriproducibili da un’orchestra di ritmi leggeri, come si chiamava allora.

Sparirono i luccichii dei brass, retaggio rithm’n blues di fine anni ‘60, scomparvero i 4+4 di Nora Orlandi e l’unica musica dal vivo che sopravvisse, ancora un po’, fu quella di “Senza Rete”, gloriosa trasmissione Rai in diretta dall’Auditorium di Napoli.

Sono gli anni bui del Sanremo vinto da sconosciuti: Gilda (Ragazza del sud, 1975), Mino Verniaghi (Amare, 1979). Bisogna aspettare il 1990 per rivedere l’orchestrona, e proprio a Sanremo. Anzi, per essere precisi, al Palafiori di Arma di Taggia. E qui cascò l’asino…

Gli arrangiamenti musicali, ormai, avevano fatto a meno, per troppi anni, di strumenti, per così dire, tradizionali, viole e violoncelli avevano lasciato il passo a tastiere e campionatori elettronici.

La storia insegna che non bisogna mai tornare indietro, ma conservare la memoria del passato per poter crescere e continuare il percorso evolutivo. Nel frattempo erano spariti gli orchestratori, le canzoni venivano, e vengono tuttora, costruite interamente in studio: risulta, quindi, molto difficile la trasposizione live con un’orchestra totalmente diversa dalle sonorità usate per l’incisione. Il risultato è che questi enormi e costosi apparati musicali non riflettono più il prodotto discografico e soprattutto l’interprete. I discografici allora adottarono un espediente che tutt’oggi vive nella kermesse sanremese, e non solo: il sequencer.

Avete presente quei maestri che dirigono con una gran cuffia? Dentro quella cuffia parte un “click”, subito dopo parte una buona parte della base musicale con le sonorità più tecnologiche alle quali l’artista non vuole rinunciare. Quel “click” serve a sincronizzare l’orchestrona che completa il brano, diciamo, “precotto”. Quello che sentiamo attraverso i nostri televisori, quindi, altro non è che un ibrido tra una parte preregistrata e un’altra dal vivo. Nella parte registrata, molto spesso, sono presenti anche cori o seconde voci. In alcuni brani, la parte precostruita è così nutrita da costituire più del 50% dell’intero brano.

Il direttore d’orchestra, quindi, ha l’unico onere di far partire tutta la baracca. Una bella novità fu portata da Paolo Bonolis nella sua edizione di Sanremo 2005: le performance, chiamate anche “duetti”, brani eseguiti interamente dal vivo, con un arrangiamento strumentale e vocale creato appositamente per quell’evento. Una della serate veniva usata per stravolgere il brano musicale a piacimento dell’artista, coinvolgendo altri artisti. Ricordo con piacere l’esibizione di Alessandro Preziosi con Nicky Nicolai, o quella di Antonella Ruggiero con le chitarre acustiche di Maurizio Colonna e Frank Gambale.

Quell’idea brillante deve essere, a mio avviso, portata avanti come valida alternativa alla versione ufficiale dei brani e come ottima occasione, da parte dell’artista, di mettere in luce le proprie caratteristiche, non soltanto vocali. Basta quindi con l’intervistina di rito prima del brano in promozione, rigorosamente, in playback.

Basta con le orchestre pesanti ed anacronistiche che appaiono per pochi giorni l’anno proponendo versioni hollywoodiane di brani che, spesso, vengono schiacciati sotto il peso di tanta enfasi. Lasciamo più spazio alle idee musicali estemporanee! Tanto, poi, i CD ufficiali li sentiamo abbondantemente alla radio e attraverso i video musicali che inondano alcuni canali televisivi tematici.

Ricordo, ancora, con piacere qualche anno fa, quando mi trovai ad essere direttore musicale di “Domenica In”, artisti come Neffa, Tiziano Ferro, Giorgia, Lucio Dalla, gli Articolo 31, cantare dal vivo, in trasmissione, brani del loro repertorio e non, proponendo una forma di spettacolo insolito e molto gradito dal pubblico, che premiava con ascolti record la musica in tv. Ancora una volta le scelte editoriali erano di Paolino Bonolis e dei suoi illuminati autori.

Ricordo, infine, con immensa nostalgia il famoso duetto Mina-Battisti nell’edizione 1970 della trasmissione “Senza Rete”: uno cantava le canzoni dell’altro. C’era ironia, intensità e magia. Scartiamo dal cellophane questi nostri artisti, dunque, ed educhiamo le nuove generazioni al piacere della musica come emozione e non solo come prodotto commerciale.

*Dice di sé
Stefano Caprioli. Pianista, compositore di numerose colonne sonore, amante della buona cucina e del buon bere. Gli amici più stretti da sempre gli consigliano di affiancare, a quella di musicista, l’attività di cabarettista e imitatore. Non è escluso che prima o poi gli accada di farlo, davvero.

TUCIDIDEE ora faremo le nostre proposte per la salvezza della vostra

città, perché vogliamo dominarvi senza fatiche, conservarvi sani

e salvi, nel vostro e nel nostro interesse, perché voi, invece

di subire le estreme conseguenze, diventereste sudditi e noi ci

guadagneremo a non distruggervi.

(Da “Storia”)

Francesco Canino - Laura Bosio, narratrice dell’anima

Una delle maggiori scrittrici italiane, ad un anno dal romanzo “Le stagioni dell’acqua”, rivela: “Non so se esista la facilità di scrittura. Per me scrivere significa lavorare molto, vincere resistenze, correggere con accanimento”

Francesco Canino*

La stazione di Vercelli dista poche centinaia di metri dal centro storico. Imboccando la strada che passa davanti all’imponente e duecentesca basilica di Sant’Andrea, ad un certo punto la via si restringe e si arriva all’ex Chiesa di San Marco. Un insolito silenzio avvolge la piazzetta di fronte alla piccola abbazia, edificio dalla storia complessa e tormentata: le sue ampie navate gotiche sono state trasformate, nel corso dei secoli, da luogo di culto a deposito di legname, poi in stalle e cavallerizze, fino a diventare, per lungo tempo, mercato coperto.

La metamorfosi non è ancora finita, ma l’abbandono per fortuna sì. L’ex chiesa medievale è tornata a vivere qualche mese fa, quando, nella navata principale è stata installata “L’Arca”, un spazio espositivo ipertecnologico, e, al suo interno, è stata organizzata “Peggy Guggenheim e l’immaginario surreale”, la prima delle tre mostre allestite in città dopo l’accordo firmato dal comune di Vercelli e la Fondazione Guggenheim. Fino a metà marzo, oltre quarantamila persone hanno potuto ammirare cinquanta quadri della collezione Peggy Guggenheim di Venezia e New York, tra cui opere di pionieri del surrealismo come Marc Chagall, Giorgio de Chirico, Pablo Picasso e ancora Joan Miró, Salvador Dalí, René Magritte.

Archiviato l’ordinato caos dei turisti in fila (riprenderà in autunno con una mostra su Pollock), per ora resta quello dello starnazzante shopping per negozi fintamente bon chic bon genre (con le commesse che ti accolgono accigliate, ti assillano col “posso esserle utile?”, “cerca qualcosa in particolare?”, “che taglia porta? Una L vero?” e ti sommergono di inutili birignao).

La passerella antracite di cubetti di porfido porta dritto in piazza Cavour, sempre affascinate coi portici quattrocenteschi e la Torre dell’Angelo, illuminata dall’ultimo spicchio di sole al tramonto. In piazza Cavour ci si sente protetti. Sotto la panciuta statua del Conte, dei ragazzi fumano una sigaretta: poco più in là due poliziotti stanno appoggiati alle portiere aperte della macchina di servizio e un tizio in un bar sorseggia annoiato quel che resta di un bicchiere di pessimo vino rosso. Riconosco subito la sua figura in lontananza. L’incedere è elegante, come ricordavo. Il leggero soprabito aperto si muove a ritmo della camminata, il tubino nero in raso di seta dà al portamento ancora più fascino. Una semplice spilla a forma di fiore illumina un rever del capospalla.

Incontro Laura Bosio nella piazza che è un po’ il salotto della città, la sua città. Lei a Vercelli è nata e ci ha vissuto fino a venticinque anni, quando, con in tasca una laurea in Lettere moderne conseguita all’università Cattolica (con una tesi sulla storia del cinema), è approdata a Milano: ha da prima insegnato e, dopo aver coltivato a lungo la passione per la scrittura, ha iniziato a collaborare con le più importanti case editrici italiane, scoprendo talenti e diventando lei stessa (complice l’incontro con Giuseppe Pontiggia) scrittrice di successo.

Voce appena sussurrata, carattere riservato, parlata che incanta, abbiamo provato a conoscerla meglio e a farci raccontare questo suo ultimo (frenetico) anno, trasportata in giro per l’Italia da “Le stagioni dell’acqua”, il suo ultimo romanzo, edito da Longanesi, che l’ha, definitivamente, consacrata come una delle scrittrici italiane contemporanee di maggior successo. Un libro in cui il protagonista è il riso, descritto come una pianta dalle radici fluttuanti e, tutto sommato, fragile che riesce però a sopravvivere nei secoli, ad adattarsi al clima e a superare gli eventi che ne minano l’esistenza. Quasi una metafora della vita dell’uomo. Ecco chi è (almeno in parte) la “narratrice dell’anima”.

Esattamente un anno fa, il 26 aprile del 2007, usciva nelle librerie “Le stagioni dell’acqua”, il suo ultimo romanzo, quello che l’ha fatta conoscere al grande pubblico. Senza indugiare troppo sul successo di vendite o sulle ottime critiche ricevute, vale la pena di provare a tracciare un breve bilancio dell’anno appena trascorso. Che peso hanno avuto questi dodici mesi? Sono stati più o meno intensi rispetto a quelli che sono venuti dopo la pubblicazione degli altri suoi libri?

“L’intensità dell’emozione è la stessa che ho provato per l’uscita di tutti i miei libri. La pubblicazione di un libro, per quanto voluta, per quanto desiderata, ti espone e ti rende più fragile. Ma l’intensità degli impegni e della risposta per “Le stagioni dell’acqua” è stata, indubbiamente, superiore: sono stati dodici mesi pieni e belli, per un libro a cui sono particolarmente affezionata”.

Viene da chiedersi se non ci si annoia a parlare e riparlare di un libro, a sentire le stesse domande? Oppure si trovano sempre nuove sfumature per raccontare un libro e, dunque, può far piacere perché è come parlare e raccontare di una parte di sé?

“Non ho tenuto il conto di quante presentazioni ho fatto, il numero è comunque elevato. Alla fine un po’ di stanchezza subentra, a poco a poco se ne prende distanza, magari si sta già pensando, o lavorando, a un nuovo libro, che porta altrove. Però non parlerei di noia. Le persone, i luoghi, gli ambienti sono ogni volta diversi e questo stimola nuove risposte e anche nuove domande, sul proprio lavoro e su di sé”.

Ripensando a quest’ultimo anno così, di getto, mi dice un momento, un luogo e una persona che le sono rimasti impressi?

“Di getto, forse, la biblioteca di Santhià (cittadina in Provincia di Vercelli ndr), colorata, luminosa. Alla fine dell’incontro si avvicina una ragazza che aveva già letto il libro. Mi dice: “Lei parla della pelle scura delle donne che lavoravano nelle risaie. Mia nonna, però, mi raccontava che si spalmavano in viso una pasta bianca, per proteggersi dal sole e che le loro facce erano spettrali”. Un’immagine forte, peccato non averlo saputo prima”.

Scrutando ancora un po’ nell’album dei suoi ricordi, si può facilmente immaginare che uno spazio sia riservato al premio “Strega”, al quale il suo romanzo ha concorso lo scorso anno entrando nella cinquina finale.

In passato lei ha vinto premi prestigiosi come il premio “Bagutta”, opera prima, e il premio “Moravia”, ma, nell’immaginario collettivo, partecipare allo “Strega” significa essere annoverati tra i grandi della cultura italiana: solo pensare che lo abbiano vinto, tra gli altri, Flaiano, Levi, Eco, Maraini fa emozionare.
Sensazioni e ricordi?

“È stata un’esperienza importante, non c’è dubbio, con incontri che non dimentico: quelli con Anna Maria Rimoaldi e i suoi collaboratori nella casa di Maria Bellonci, per esempio, o con gli altri candidati a San Leucio, sopra Caserta, la ex Ferdinandopoli, illusione settecentesca di una città industriale “operosa e giusta”. Non mi dispiaceva che l’avventura cominciasse lì, da un’utopia. Era come se il frastuono si allontanasse, temporaneamente dalla porta. Della serata finale al Ninfeo di Villa Giulia, a Roma, ricordo invece un po’ di inevitabile caos”.

Veniamo a “Le stagioni dell’acqua”. È ambientato nella tenuta Torricella, un’immaginaria cascina dalle parti di Mortara, tra le risaie della campagna vercellese. La Torricella è il fulcro attorno al quale ruotano le vite e le storie dei protagonisti, che sono quasi tutte donne: c’è la protagonista (senza nome), che è la narratrice, c’è Bianca la vecchia proprietaria della Torricella, e Orientina la suora senza braccio. Le donne sono sempre le figure portanti e centrali dei suoi libri, in particolare in questo perché, come lei scrive in campagna tutto si femminilizza.

“È impossibile parlare della risaia senza parlare delle donne. Basta pensare che le mondine sono state pioniere di uno degli scioperi più importanti della nostra storia sociale, quello per la conquista delle otto ore di lavoro. Lo testimonia anche uno dei loro canti più celebri: “Se otto ore vi sembran poche provate voi a lavorar e proverete la differenza di lavorare e comandar…”. Durante le ricerche per il romanzo, mi è capitato spesso di incontrare donne come quelle che sono entrate, di diritto, nelle mie pagine. Comunque, mi piace raccontare le donne: essendo una donna, mi illudo di sapere di cosa parlo, almeno un po’…”.

Sempre a proposito di donne c’è una frase molto bella nel libro: “Le donne hanno lasciato in queste terre il potere sovversivo della loro natura: il calore delle donne, la vitalità delle donne, l’irregolarità delle donne”.

“Le donne, le mondine, ma non solo, sono state una presenza forte nelle risaie. Conoscerle, parlare con alcune di loro è stato determinante per il romanzo”.

“Le stagioni dell’acqua” è un romanzo, ma è anche un saggio nel quale racconta la storia millenaria del riso, di come è arrivato nelle nostre terre e di quale sia la realtà della vita nelle risaie, sempre troppo poco raccontata. A parte il film “Riso amaro” e, per citare un libro, “La chimera” di Sebastiano Vassalli, di questo affascinante mondo capovolto, dove il cielo si riflette nella liquida geometria degli specchi d’acqua si sa poco. Accennava prima alla ricerca che c’è alla base di questo libro…

“A monte di questo romanzo c’è stato un lavoro molto lungo. Ho raccolto materiale per oltre un anno e mezzo, sono stata con mio padre in giro per le campagne del vercellese alla ricerca di persone che mi raccontassero vecchi aneddoti, fatti e modi di vivere di un tempo che, forse, non c’è più”.

Ha confessato che nemmeno lei conosceva molto delle “terre d’acqua”, pur essendo vercellese e, nel libro, ad un certo punto la protagonista ammette tutta la sua “ignoranza” in materia di riso e risaie quando sul treno non sa rispondere alle domande del suo dirimpettaio. In qualche modo la scrittura di questo romanzo è stata per lei un ritorno alle radici, un riappropriarsi della sua terra?

“Avevo in mente di scrivere un romanzo sul tema del lavoro, un tema così centrale nelle nostre vite, e così cruciale in questo periodo. Poi mi si è presentato il lavoro del riso e il romanzo ha preso, in parte, un’altra strada. Sono nata a Vercelli, terra, appunto, di risaia, ma i miei non avevano a che fare, direttamente, con la campagna, e venticinque anni fa mi sono trasferita a Milano. Del riso, di quel lavoro così duro e insieme così unico, in fondo sapevo poco, e ho sentito il desiderio di avvicinare quel mondo, di conoscerlo meglio, di scoprirlo. E probabilmente di scoprire anche qualcosa di me”.

“Le mondine hanno tolto i piedi dall’acqua, e per che cosa? Per andare a metterli sotto casse di supermercati, banconi di call center e scrivanie di uffici liquidi che solcano l’etere e inchiodano alla sedia a rotelle?”. La questione del precariato, quella della dignità del lavoro, del futuro dei giovani sono affrontati con accenti di appassionata critica. Sembra che questo tema la tocchi particolarmente.

“È così. Il mondo del lavoro è molto cambiato e ci sono terribili ricadute, terribili contraddizioni. In questo romanzo ho soltanto sfiorato l’argomento in un paio di pagine, ma quello del lavoro è, appunto, un tema cruciale e sempre di più anche gli scrittori, o i registi, lo stanno affrontando”.

“Le stagioni dell’acqua” è, tra le altre cose, un viaggio secolare alla scoperta di come il riso è arrivato nelle nostre zone, ma gli agganci all’attualità sono un altro elemento centrale. Penso ad esempio a quello dell’immigrazione. La Torricella ospita donne e uomini di svariate nazionalità, tra cui cinesi, rumeni e sudamericani e c’è una bellissima scena in cui lei descrive un “pranzo meticcio” dove “poteva succedere l’impossibile”. Lei parla dei mondariso cinesi. Oggi che ruolo hanno gli immigrati in queste terre? Viene da chiedersi, se la nostra campagna riuscirebbe ad andare avanti senza la forza lavoro straniera.

“Gli immigrati sono diventati necessari, soprattutto i cinesi. Da una decina d’anni le risaie sono invase da un “riso matto”, il crodo, su cui la chimica non può nulla perché, colpendolo, colpirebbe anche il riso sano. Per liberarsene non c’era che ricorrere alle vecchie mondine. Per un po’ le donne esperte hanno rimesso i piedi nell’acqua, ma sono ritornate presto alla meritata pensione. I giovani che hanno risposto alla chiamata si sono ritirati, battuti sul campo, dopo poche ore di lavoro. Gli unici disponibili sono stati i cinesi, per lo più uomini.

Lavorano in risaia da luglio ad agosto, scarse le assunzioni dirette. Alcuni si fermano a dormire nelle cascine, sempre più spopolate per la meccanizzazione del lavoro e per l’abbandono progressivo delle campagne, andando di nuovo ad abitare le tante stanze chiuse dove un tempo vivevano decine, centinaia di persone. Altri preferiscono sistemarsi nei paesi o nelle città vicine, dove, a giornata di monda finita, danno una mano in laboratori di pelli e di vestiti. Eh sì, una strana forma di globalizzazione del lavoro…”.

Nel romanzo si nota un uso insistito delle parentesi.

“Non l’avevo preordinato, è stata un’esigenza interna alla scrittura di questo romanzo. Sentivo il bisogno di uno spazio per riflessioni, citazioni e chiose che non appesantissero la narrazione, più mie che dell’io che racconta”.

Facciamo un passo indietro. Se le dico “Il direttore della biblioteca” cosa le viene in mente?

(Ride).

“Il primo racconto che ho scritto per la rivista letteraria “Paragone”.

Su cui scrisse, tra gli altri, anche Pier Paolo Pasolini. Si ricorda di cosa tratta quel racconto e quante volte lo ha riscritto prima di consegnare la stesura definitiva?

“Certo, parla di un uomo alle prese con l’irruzione, in una vita sempre più solitaria, del suo passato amoroso. Più che riscriverlo, l’avevo a lungo corretto, limato. “Scrivere è correggere”, aveva detto una volta Sartre, rammaricandosi che la cecità glielo impedisse”.

La svolta per Laura Bosio è arrivata dopo l’incontro con Giuseppe Pontiggia, di cui ha frequentato la scuola di scrittura. Ha definito l’insegnamento dello scrittore lombardo “problematico, divagante, mai normativo, un’esperienza decisiva”. Ma sapeva già prima di voler fare la scrittrice?

“Ho sempre scritto, fin da bambina, ma ho tardato ad “autorizzarmi”. Nessuno ti autorizza a scrivere: lo devi decidere da solo, ogni volta come se fosse la prima. L’insegnamento di Pontiggia per me è stato determinante, mi aiutato ad avere una consapevolezza che non avevo”.

Quando ha iniziato a scrivere la sua finalità era la pubblicazione o, come tanti, ha pensato che tutto sarebbe rimasto archiviato nel cassetto o nella memoria del computer?

“Non scrivo mai pensando alla pubblicazione, ma questa finalità è implicita. Non si scrive solo per sé, bisogna riconoscerlo. Del resto la letteratura ha presupposto fin dalle origini un pubblico, quello degli aedi omerici o della lirica corale o della tragedia. Oggi il rapporto tra scrittore e pubblico è diventato molto complesso, per svariate ragioni. Ci sono mezzi nuovi e nuove modalità. Ma la letteratura ha conservato idealmente il suo carattere espressivo, transitivo”.

La sua principale attività, a parte la scrittura, è quella di consulente editoriale. Lavora per Guanda Editore, ma si destreggia, da anni, tra letture, giudizi, copywritingediting, e ha collaborato con le più importanti case editrici italiane. Quanti manoscritti legge mediamente in un anno, quanti sono immediatamente da cestinare e quanti da salvare?

“Leggo molti, moltissimi manoscritti, e preferisco non contarli. Quelli da salvare, purtroppo, sono pochi, per ragioni obiettive, evidenti. Ma la possibilità di sbagliare esiste, eccome”.

Come fa a giudicare un libro? Non ha paura di sbagliare e di accantonare un libro che poi, magari per un’altra casa editrice, potrebbe diventare un grande successo?

“C’è un funereo elenco di “rifiuti” che riguarda i più grandi autori del novecento, da Mallarmé a Proust, da Joyce a Tolkien, che, dopo il parere negativo del suo editore, chiuse in un cassetto “Il signore degli anelli” fino a che, riesumato per le pressioni degli amici, venne pubblicato in 3.500 copie! Una cosa è sicura: maggiore è la qualità di un testo e maggiore è la severità con cui lo si affronta, la foresta di esitazioni e di dubbi da cui è avvolto chi lo legge per primo. Il lettore, però, non decide la pubblicazione: la decide l’editore, tenendo conto degli orientamenti dei suoi lettori, ma anche di altre considerazioni”.

Mi dice tre libri dei quali avrebbe voluto essere la editor?

“Sono tanti i libri che, per ragioni diverse, mi attirano e dei quali avrei voluto essere una editor, non saprei indicarne solo tre. C’è però un libro, una scoperta tardiva, che ho letto da poco con entusiasmo, “Le botteghe color cannella” di Bruno Schulz”.

Prima ha citato Sartre, secondo cui “scrivere è correggere”. Lei invece ha detto una bella frase che potrebbe essere un bel messaggio ai tanti che vorrebbero diventare scrittori. “Non so se esista la “facilità di scrittura” e comunque io non ne ho esperienza. Per me scrivere significa lavorare molto, vincere resistenze, correggere con accanimento, migliorare con insistenza, forse per raggiungere un’impossibile perfezione stilistica, che io considero anche etica”.

Non è un paradosso che in Italia ci siano pochi lettori, ma un’enorme quantità di persone che scrivono e che spesso pagano per pubblicare i loro manoscritti?

“Certo, se tutti quelli che scrivono comprassero almeno un libro all’anno… Non voglio dare consigli a nessuno, ma rimando semplicemente a quello che ha scritto Pontiggia in un capitolo del suo libro “Prima persona”: “Evitare di scrivere come scriverebbe un altro (lo farebbe meglio). Evitare di pensare che tutto è già stato detto da lui. Pensare invece il contrario: niente di quello che vorresti dire è mai stato detto prima. Se poi sia vero lo deciderà il testo (e il tempo). È importante comunque non abdicare. Ciò che oggi sconcerta non sono le ambizioni smisurate, sono le ambizioni modeste… Ambizione, concentrazione, lavoro.
E se il risultato non persuade? Si ricomincia, con pazienza. Dimenticavo questa dote essenziale”.

*Dice di sé.
Francesco Canino. Nato a Torino ventisei anni fa, laureando (per la gioia di mamma) in Scienze Politiche, con una tesi sulla “metamorfosidell’intervista”. Amerebbe scrivere un libro su Bettino Craxi e sul suo ruolo di innovatore nella comunicazione politica italiana. Collabora con i settimanali della Mondadori, “Tu” e “Confidenze”.

 

HENRY BROOKS ADAMSLa politica, nella pratica, quali che siano le idee che professa,

è sempre l’organizzazione sistematica dell’odio.

(Da “L’educazione di Henry Adams”, 1964)

 

SAUL ALINSKY

 

Il potere non è solo quello che possiedi realmente,

ma quello che i nemici pensano tu abbia.

(Da “Rules for Radicals”, 1971)

CASA BIANCA 2008 Mauro della Porta Raffo - Elezioni americane? Un vademecum ci guida tra primarie e convention

In questo speciale, un excursus sul sistema elettorale e sui leader della più potente nazione del mondo

Mario della Porta Raffo*

Seconda parte

Il vice Presidente

La vice presidenza è carica di non poco conto, sia per ragioni costituzionali (il vice è il naturale successore del presidente in caso di morte o dimissioni e presiede di diritto il Senato, anche se vota solo in situazioni di parità), sia per motivazioni squisitamente partitiche, perché il nominativo, la provenienza politica e geografica del vice Presidente sono assai importanti per il completamento della squadra (ticket) da mettere in campo.

Anche qui, quasi tutto discende dal risultato delle primarie e dei caucus che hanno preceduto le convenzioni, perché se il candidato presidente è dotato di un buon numero di delegati la scelta in merito alla vice presidenza è praticamente di sua esclusiva competenza e può anche precedere la convention. Se, invece, la convenzione ha operato al di là e al di fuori dei risultati elettorali preliminari, la decisione sarà presa dai boss che controllano l’apparato.

In un caso come nell’altro, comunque, il candidato alla vice presidenza sarà normalmente di centro se l’aspirante presidente è collocato a destra o a sinistra dello schieramento politico; dovrà essere del sud se l’altro è del nord; dovrà rappresentare le istanze popolari se il leader è borghese o viceversa, alla ricerca del mix migliore da proporre all’elettorato.

Nella ormai lunga storia degli Stati Uniti d’America, in molte occasioni (ben otto causa mortis ed una per dimissioni) il vice è subentrato nella massima carica istituzionale e non sempre si è dimostrato all’altezza della situazione. Se ciò è avvenuto e se ben pochi dei vice presidenti si ricordano per qualcosa di rimarchevole è anche perché, difficilmente, il candidato alla presidenza accetta di mettersi accanto individui di grande personalità che ne possano oscurare la fama, preferendo normalmente figure mediocri o di scarso peso, per quanto rappresentative, di una qualche istanza, sociale o geopolitica che sia.

Nella leggenda americana il vice presidente è “colui che vive ad un battito di cuore dal potere” (ed il cuore che batte e che si può fermare è, ovviamente, quello del presidente), mentre, nella vita di tutti i giorni, la sua è “la carica più priva di potere reale degli interi Stati Uniti”.

Il terzo uomo

L’avventura elettorale del miliardario texano Ross Perot nel corso della campagna per la presidenza degli USA del 1992 (poi ripetuta con minor successo nel 1996) è stata vissuta dai giornali, dalla radio e dalla televisione e, quindi, dal grande pubblico, come qualcosa di assolutamente inedito, sorprendente ed irripetibile. (Non così, di poi, nel 2000, la candidatura del verde Ralph Nader in seguito ripropostosi autonomamente anche nel 2004).

Nella realtà, guardando alla storia delle elezioni presidenziali, in molteplici altre occasioni, fin dall’inizio, i candidati alla massima carica sono stati più di due e molti, tra questi terzi incomodi, hanno ottenuto risultati ben più brillanti di quanto abbia fatto Perot.

Tralasciando il periodo che va dalla fine del settecento ai primi dell’ottocento, quando, per la situazione politica non ben stabilizzata e per il sistema elettorale diverso, i pretendenti erano spesso addirittura quattro o cinque, e venendo al momento in cui, verso la metà dell’ottocento, si sono andati affermando i due partiti, (il democratico ed il repubblicano) tuttora egemoni, troviamo le candidature autonome dell’ex presidente Martin Van Buren, nel 1848, presentatosi in pratica come indipendente, e, nel 1856, dell’altro ex presidente Millard Fillmore.

È nel novecento, comunque, che si hanno le più grandi battaglie a tre per l’investitura popolare a partire dal 1912, anno nel quale Teodoro Roosevelt, già presidente in carica dal 1901 al 1909, decide, non avendo ottenuto la nomination dal proprio partito il repubblicano che gli preferisce il capo della Casa Bianca uscente William Taft, la fondazione di un movimento “progressista” nazionale guidando il quale consegue il massimo risultato elettorale di un “terzo uomo” di tutta la storia USA. Teodoro Roosevelt, difatti, precede di gran lunga Taft ed ottiene vittorie in parecchi stati, tanto da riportare ottantotto voti elettorali contro otto. Purtroppo per lui, come spesso accade fra due litiganti, presidente viene eletto il democratico Woodrow Wilson. Successivamente, altri buoni risultati furono ottenuti da Robert La Follette nel 1924; da J. Strom Thurmond ed Henry Wallace (addirittura un “quarto uomo”!) nel 1948; dall’ex governatore dell’Alabama George Wallace, nel 1968, e, da ultimo, dal senatore John Anderson nel 1980.

Per la precisione, La Follette ottenne tredici delegati nazionali e George Wallace ben quarantasei con quasi dieci milioni di voti concentrati, ovviamente, negli stati del sud. Sarà forse bene chiarire, a questo punto, che sempre, in ogni elezione presidenziale americana, nella realtà, i candidati sono qualche decina in rappresentanza delle più varie ideologie e tendenze. È di tutta evidenza che i risultati ai quali pervengono questi signori possono avere, al massimo, rilievo locale, stante l’evidente scarso seguito nella nazione anche in conseguenza del fatto che devono combattere contro apparati partitici nazionali sia pure non sofisticati quali quelli dei democratici e dei repubblicani.

I partiti politici nazionali e l’elettorato

Come si è già detto nel corso della trattazione, è a partire dalla seconda metà dell’ottocento che, a livello nazionale, negli Stati Uniti, si affermano, definitivamente, i due partiti tuttora dominanti.

Per cercare di comprendere le diverse istanze ideologiche che li dividono si deve, necessariamente, fare riferimento alla politica quale noi europei la conosciamo e così è possibile indicare nel partito democratico una posizione, grosso modo, di centro sinistra, più aperta alle necessità sociali, e in quello repubblicano, di centro destra, una più decisa propensione all’individualismo, alla negazione di ogni tipo di assistenzialismo, all’esaltazione delle capacità dell’individuo il più svincolato possibile da leggi e pastoie burocratiche.

Ad un osservatore poco avvertito queste potrebbero apparire, semplicemente, quali posizioni rispettivamente “progressiste” e “conservatrici”, ma nella realtà partitica americana i due concetti si accavallano, si superano, si sovrappongono e così non è difficile (specie negli stati del sud, storicamente a prevalenza democratica) trovare aderenti al partito di Clinton e Kerry fieramente conservatori, come è possibile, specie sulle due coste oceaniche, scoprire esponenti repubblicani decisamente aperti alle più moderne istanze sociali.

Fatto è che, comunque, nella battaglia presidenziale, i due movimenti cercano di presentare candidati che si collochino verso il centro dello schieramento per catturare i voti degli indecisi che sono sempre la maggioranza visto che ben pochi sono gli americani impegnati politicamente.

Quando, per ragioni contingenti, i due partiti si presentano con una squadra troppo spostata su posizioni radicali (a destra come a sinistra) vanno incontro ad una vera disfatta elettorale, come accadde ai repubblicani quando presentarono Barry Goldwater, contro Lyndon Johnson, nel 1964, ed ai democratici, con George Mac Govern, contro Richard Nixon, nel 1972.

Una considerazione di rilievo è, poi, necessaria a proposito del meccanismo elettorale perché, mentre ogni individuo maggiorenne ha diritto al voto, negli USA, perché questo diritto possa essere concretamente esercitato, ci si deve iscrivere alle “liste elettorali”, il che consente materialmente di votare (chi non si dichiara disposto, iscrivendosi, al voto, non può esercitare un diritto al quale, evidentemente, non riconosce significato).

Per inciso, al momento dell’inclusione nelle liste il cittadino può dichiararsi “democratico”, “repubblicano”’, simpatizzante di un qualsivoglia altro movimento minore o “indipendente”, la qual cosa avrà importanza, come visto, nella partecipazione al voto nel corso delle primarie “chiuse”, già trattate in precedenza. In tutta la storia delle elezioni presidenziali, ben poche volte e solo in caso di grande contrapposizione, come per esempio tra Kennedy e Nixon nel 1960 o di G. W. Bush e Kerry nel 2004, il numero degli elettori effettivamente recatisi alle urne ha superato il sessanta per cento degli aventi diritto e tale situazione, lungi dall’essere vissuta come sintomo di protesta da parte del popolo, è, invece, vista come segno di accondiscendenza e di assenso alle decisioni altrui
contro le quali non si intende protestare.

Volgendo per un attimo lo sguardo alle elezioni per la Camera e per il Senato (delle quali tratteremo ampiamente più avanti) nonché a quelle locali, si può ricordare come, a partire dall’epoca del secondo Roosevelt dal cosiddetto “New Deal” (salvo un brevissimo intermezzo nel periodo di presidenza di Eisenhower e, dopo, più lungamente, Bill Clinton “regnante”), il partito egemone nel paese sia, costantemente, risultato quello democratico, capace, a livello periferico, di raccogliere molti più suffragi.

Ciò non ha impedito ai repubblicani di aggiudicarsi a più riprese la Casa Bianca. Questo probabilmente perché il “materiale umano” offerto dal partito dell’elefante è stato frequentemente migliore e tale da indurre anche convinti democratici a votare per il candidato repubblicano (una vecchia storiella del sud fa dire ad un elettore democratico: “Se voto per il presidente repubblicano, mio nonno si gira nella tomba, ma se votassi per un senatore o uno sceriffo di quel partito ne uscirebbe!”).

L’impeachment

Ad oltre vent’anni di distanza dallo scandalo del Watergate, che costò a Richard Nixon la presidenza degli Stati Uniti d’America e lo costrinse (agosto 1974), primo ed unico, alle dimissioni dall’altissima carica per evitare l’incriminazione, ormai certa, di fronte al Congresso, si è tornati a parlare di “impeachment” a partire dal 1994 fino ad arrivare allo scandalo Lewinsky, a proposito del Presidente Bill Clinton e dei suoi, veri o presunti, problemi con la giustizia. Sarà, quindi, utile qualche precisazione in merito a questo istituto, specifico del sistema politico istituzionale americano.

L’impeachment (letteralmente: accusa, incriminazione) è una procedura costituzionale nella quale si concretizza il potere giudiziario del Congresso degli Stati Uniti. Tale procedura non è specificamente prevista solo per la presidenza del paese, ma può riguardare anche semplici funzionari federali.

L’iter processuale è il seguente: la Camera dei rappresentanti formula le accuse che devono riguardare “casi di corruzione, tradimento o altro delitto e crimine importante”. Successivamente, il Senato, a seguito di una particolare trafila, emette il suo giudizio che, se è di condanna, implica la destituzione dalla carica e l’interdizione dai pubblici uffici.

La legge prevede, più specificamente, che di fronte alla Camera vengano, prima, presentate accuse precise e che si proceda, poi, alla nomina di una speciale commissione d’inchiesta, sulla cui relazione si svolgerà la discussione in aula. Se la votazione conseguente è favorevole all’impeachment, vengono formulati i capi di accusa che sono trasmessi al Senato che “deve” procedere.

Al momento fissato per la discussione, potendo naturalmente l’accusato essere presente e difendersi, lo stesso Senato si costituisce in Alta Corte. Nel caso in cui l’imputato sia il capo dello stato, la presidenza dell’organo viene abbandonata dal vice presidente federale che, come visto, normalmente ricopre la carica e viene assunta, pro tempore, dal presidente della Corte suprema federale (ovviamente, la stessa cosa accade se l’accusato è il vice presidente stesso). La decisione finale viene presa a porte chiuse.

La procedura illustrata è resa estremamente complicata e difficile dal fatto, fondamentale, della necessità di una maggioranza di due terzi nella eventuale decisione di condanna del Senato.

Per inciso, va qui notato che in quasi tutte le costituzioni dei singoli stati dell’Unione esistono norme analoghe per l’impeachment dei politici e dei funzionari locali. Storicamente, per limitare la nostra attenzione ai casi che hanno coinvolto, prima di Clinton (che se la cavò abbastanza facilmente) in prima persona un presidente, la procedura completa è stata usata solo una volta nei confronti di Andrew Johnson, nel 1868.

In tale occasione il Senato respinse i due primi articoli di impeachment con lo scarto, rispettivamente, di uno e di due voti, sicché il processo, come vuole la legge, fu rinviato sine die ed il presidente si salvò per il rotto della cuffia. Contrariamente a quel che da più parti si ritiene, Richard Nixon non fu sottoposto a questa procedura per il Watergate perché, proprio per evitarla, si dimise ed ottenne il “perdono giudiziale presidenziale”, da parte del suo successore Gerald Ford, un mese dopo.

Breve glossario della politica americana

Caucus: “Consiglio ristretto” secondo Maldwyn Jones è uno dei sistemi con i quali vengono prescelti i candidati alla presidenza (l’altro è quello delle “primarie”). Il vocabolo, per alcuni, deriverebbe dal tardo greco “kaukos”, che significa “boccale”, e indicherebbe il fatto che le riunioni, così chiamate, si svolgevano originariamente nei saloons e nelle bettole. Sorto nei primi decenni del secolo scorso, il meccanismo in questione è tuttora vigente in alcuni stati. Il più famoso caucus è quello dell’Iowa che, tradizionalmente, inaugura la campagna elettorale in febbraio (quest’anno, in gennaio). Nella sostanza si tratta di una riunione ristretta agli attivisti del partito che in questo modo scelgono i delegati alla convenzione.

Convention: la Convenzione nazionale è il momento conclusivo verso il quale tende tutto il sistema dei caucus e delle primarie e altresì l’unico congresso dei due partiti, che, quindi, si riuniscono, al massimo livello, ogni quattro anni, in estate, per scegliere il candidato alla presidenza ed il suo vice, nonché per discutere ed approvare la “piattaforma” elettorale e cioè il programma del partito.

Dark horse: è il candidato inizialmente sconosciuto che, improvvisamente, ottiene un sorprendente successo (lo stesso Clinton, allora quasi ignoto governatore dell’Arkansas, quando nel 1992 riuscì a raggiungere imprevisti consensi nelle primarie e nei caucus di “inizio corsa”, fu definito “cavallo scuro”).

Front runner: è, invece, il candidato da battere, colui che si porta in testa alla maratona elettorale e che conduce la corsa verso la nomination.

Mid term elections: espressione che indica le elezioni che si tengono a metà del mandato presidenziale (quindi, a metà del termine). A livello nazionale riguardano tutti i rappresentanti la cui Camera si rinnova totalmente ogni due anni ed un terzo dei senatori, il cui mandato è di sei anni e che, a partire dal 1913 prima erano nominati dalle Assemblee degli stati di provenienza debbono presentarsi agli elettori, appunto, un terzo alla volta.

Nomination: è l’investitura ufficiale che un partito dà al proprio candidato alla presidenza nel corso della convention nazionale.

Platform: è il programma elettorale del movimento politico, nel quale sono espresse le sue posizioni sulle questioni più importanti in discussione nel paese.

Primaries: le “primarie” la cui origine è relativamente recente visto che furono tenute per la prima volta nel 1903 nello stato del Wisconsin sono elezioni pubbliche dei delegati alle convenzioni. A seconda degli stati e dei loro regolamenti, possono essere “aperte” (è consentito il voto non solo agli elettori del partito registrati come tali, ma anche a quelli negli altri movimenti o agli indipendenti), o “chiuse”, che sono la maggioranza, nelle quali votano solo i citati elettori del partito in questione dichiaratisi tali. La più famosa primaria resta quella del New Hampshire che è la prima in ordine di tempo nel calendario elettorale (si svolge in febbraio – nel 2000 a gennaio – subito dopo il caucus dell’Iowa).

Running mate: è il compagno prescelto dal candidato alla presidenza; in caso di vittoria sarà il vice presidente.

Term: così è definito il mandato, a termine perché quadriennale, del presidente. Tutte le cariche pubbliche elettive negli Stati Uniti sono a termine (non è previsto, quindi, per esempio, l’istituto della “fiducia” e, conseguentemente, quello della “sfiducia”) e la teoria, a tale riguardo, parla di “importanza dell’orologio”.

Ticket: l’accoppiata dei candidati alla presidenza e alla vice presidenza.

Turnout: è la percentuale d’affluenza alle urne, tradizionalmente molto bassa se paragonata a quelle europee (raramente si avvicina e, a maggior ragione, supera il 60% degli aventi diritto al voto).

I ministri e il gabinetto

La Carta costituzionale americana denomina “funzionari preposti ai vari dipartimenti dell’esecutivo” quelli che in Europa vengono chiamati ministri. Nell’uso comune, poi, a questi personaggi viene attribuito il titolo di “segretario” (e, per esempio, il Ministro degli esteri è denominato “Segretario di stato”).

Così come avviene per tutti gli alti funzionari di stato, la loro nomina è di competenza del presidente e, teoricamente, sottoposta al consenso del Senato, ma, mentre quest’ultimo specie se dominato dal partito avverso a quello del capo dello stato è assai fiscale nei propri controlli, quando si tratti di nominare dirigenti o giudici federali, nella fattispecie, trattandosi, per i ministri, di stretti collaboratori del presidente, il consenso è quasi sempre pacifico e l’indagine sui nomi proposti e sul loro passato del tutto formale. (Anche se, ultimamente, tale idilliaca situazione ha subito qualche robusto scrollone). Conseguenza della rigida applicazione del principio della separazione dei poteri è che la scelta avviene al di fuori del congresso e che, nel caso, invece, si decidesse di nominare ministro un senatore od un rappresentante questi dovrebbe immediatamente rassegnare le proprie dimissioni dalla camera di appartenenza.

Così come li nomina seguendo solo la propria volontà, altrettanto facilmente il presidente può licenziare ministri, senza alcuna giustificazione pubblica, essendo essi responsabili solo nei suoi confronti.

Per quanto la carica di “segretario” sia di particolare rilievo, è sempre valido quanto si evince dal famoso episodio riguardante Abraham Lincoln il quale, in disaccordo con tutti i membri del suo gabinetto, si trovò così a riferire l’andamento della riunione appena conclusasi: “Sette voti contrari, uno favorevole (il mio): la proposta è approvata!”.

Il gabinetto ministeriale, per fare un esempio, all’epoca di Bill Clinton, era composto da quindici membri, ma, nel corso della storia, è arrivato ad avere anche solo cinque componenti, ai tempi di George Washington. Oltre ai ministri, comunque, altre strutture si sono andate creando nel corso degli anni, tutte tese a contribuire alle fortune del presidente ed al buon andamento del governo fornendo all’inquilino della Casa Bianca aiuto e collaborazione. Così abbiamo: l’Executive office, il White house office, il Bureau of the budget, il Consiglio economico, il Consiglio per la sicurezza nazionale e via elencando.

Le elezioni per il Congresso

Ma come si svolgono le elezioni per il Congresso? Per prima cosa precisiamo che quest’ultimo è formato dalle due assemblee elettive nazionali: la Camera, costituzionalmente considerata organo rappresentativo del popolo dello stato federale nella sua totalità, ed il Senato, espressione, invece, dei singoli stati membri.

Partendo da questo assunto è comprensibile che la composizione dei due rami del parlamento sia ben differenziata. I rappresentanti (deputati, nel gergo politico europeo) sono eletti in collegi uninominali ripartiti in ragione del numero degli abitanti di ciascuno stato, quale risulta dall’ultimo censimento e, ad ogni stato, ne è garantito almeno uno. Il mandato è limitato a due anni, il che costringe i membri della Camera ad essere in perenne campagna elettorale, sottoposti come sono a rinnovo sia in concomitanza con le elezioni presidenziali, sia con quelle di “medio termine” (che si svolgono a metà del mandato per la White House).

Gli elettori sono gli stessi per tutte e due le camere (coloro che le leggi ritengono maggiorenni), mentre i candidati all’ufficio di rappresentante devono avere almeno venticinque anni, essere cittadini degli Stati Uniti da almeno sette e risiedere, al momento del voto, nello stato che rappresentano. Per la durata del mandato è fatto loro divieto (e, naturalmente, anche ai senatori) di ricoprire cariche dipendenti dal governo centrale.

I membri del Senato sono eletti in ragione di due, per ciascuno stato e restano in carica sei anni. Essendo cinquanta gli stati, sono, ovviamente, cento i senatori che si riuniscono sotto la presidenza del vice presidente federale in carica. Quanto ai rappresentanti, eleggono, di contro, un proprio presidente chiamato “speaker”, scelto invariabilmente nelle fila del partito di maggioranza.

I membri del Senato sono divisi in tre classi, di numero pressoché uguale, in modo da consentirne il rinnovo per un terzo ogni biennio. In origine, la costituzione prevedeva che fossero designati dalle assemblee locali di ciascuno stato. Solo a seguito dell’entrata in vigore di uno specifico emendamento costituzionale (1913), si arrivò all’elezione diretta.

Particolari regole prescrivono i requisiti richiesti: l’età minima è di trent’anni, la cittadinanza deve essere posseduta da almeno nove e la residenza nello stato che si intende rappresentare deve sussistere al momento dell’elezione. La votazione, fissata ogni biennio in novembre, quindi, prevede sempre il rinnovo totale della Camera dei rappresentanti nonché quello di un terzo del senato.

Rapporti tra presidenza e Congresso

A seguito delle “elezioni di medio termine” del novembre 2006, sconfitti elettoralmente i repubblicani, dopo dodici anni di predominio nell’ambito congressuale, ci si trova ad avere un congresso in mano al partito avverso al presidente. Ora, ci si deve chiedere se e come ciò sia possibile mentre a Washington continua a “regnare” pur sempre il presidente Bush.

Non è forse vero, come i media hanno sempre affermato, che l’inquilino della Casa Bianca è, tra tutti i capi di stato, quello con i più ampi poteri? E se così è, cosa può temere da una maggioranza parlamentare a lui avversa? Nella realtà storica, una situazione simile si è riproposta più volte ed il presidente, in questi casi, veniva e viene paragonato, immaginificamente, ad un’anitra zoppa per la sua impossibilità di “volare” libero da ogni pastoia.

La ragione, quindi, di una eventuale, temuta ingovernabilità può essere ricercata nella radicalizzazione estrema delle posizioni, tale da far ritenere possibile, da una parte e dall’altra, l’uso di tutti quei mezzi costituzionali previsti, assai raramente usati e mai, comunque, in maniera programmatica – che consentono al congresso di limitare l’azione del presidente ed a quest’ultimo di bloccare l’attività legislativa delle camere.

La costituzione americana, come è noto, preclude al presidente la possibilità di proporre progetti di legge che, invece, possono essere presentati solo da rappresentanti e senatori. Peraltro, il capo dello stato ha superato, da sempre, tale difficoltà di carattere propositivo, attraverso il “potere di raccomandazione o di impulso”, indicando, con messaggi ad hoc o nel Discorso sullo stato dell’unione, quei provvedimenti che riteneva più urgenti e necessari
trovando, poi, qualche eletto pronto a far propria la sua proposta, attraverso un progetto di legge ad essa conseguente.

Ciò è, evidentemente, ancora possibile agli esponenti della minoranza repubblicana, ma la maggioranza, se decisamente schierata contro Bush, potrebbe bloccare sine die, senza speranza, ogni sua indicazione, con un voto contrario. Nel contempo, tra i poteri costituzionali del presidente è pur sempre previsto quello di veto alle leggi emanate dal congresso che egli non ritenga utili o conseguenti alla sua linea politica.

Contro il veto, le camere possono reagire con un nuovo voto, a maggioranza qualificata di almeno due terzi. Poiché il partito democratico, per quanto vittorioso, non si sogna neppure di arrivare a tale livello, ecco che ogni azione legislativa congressuale rischia di essere in tal modo vanificata. È così che, pur nella contrapposizione descritta, sembra assolutamente indispensabile che le due parti operino d’accordo, cercando e trovando un modus vivendi che permetta al paese di superare felicemente un periodo storico altrimenti decisamente difficile.

La Corte suprema

La Corte suprema degli USA è l’unico organo giudiziario espressamente previsto dalla costituzione americana che, accanto ad esso, elenca “quelle corti minori che il congresso potrà, di tempo in tempo, creare e costituire” (ed, ovviamente, se del caso, sopprimere, in mancanza di una espressa garanzia costituzionale, concessa, quindi, solo alla corte stessa).

Risulta, quindi, del tutto evidente che, nella mente dei partecipanti alla convenzione, dalla quale trasse origine la costituzione degli Stati Uniti, la Corte suprema doveva essere il più alto tribunale federale cui era affidato il compito prevalente di una uniforme applicazione del diritto in tutti gli USA ed una funzione equilibratrice, di garanzia del corretto andamento del meccanismo federale, ma c’è di più, poiché un’ulteriore prerogativa spettante alla stessa corte consiste nella cosiddetta “judicial review” e, cioè, nel controllo di costituzionalità delle leggi, siano esse statali o federali cosicché la Corte suprema finisce con il cumulare, grosso modo, quelli che sono i compiti della Corte di cassazione (inesistente negli Stati Uniti) e di quella costituzionale.

È questa seconda la funzione privilegiata sulla quale si è costituito il notevole potere dell’organo che è considerato l’autentico interprete della costituzione scritta il che ha consentito, attraverso una giurisprudenza evolutiva o addirittura creatrice, ad un testo approvato oltre due secoli orsono di continuare ad essere all’altezza delle necessità.

Secondo il dettato della Carta, i giudici appartenenti alla Corte suprema devono essere nominati (come gli alti funzionari statali) dal presidente, con il consenso del Senato, e, a garanzia della loro indipendenza, la stessa legge istitutiva prevede che il nominato goda della “inamovibilità” (è, pertanto, in carica a vita) e della “intangibilità del trattamento economico” (l’indennizzo, secondo per entità solo a quello del capo dello stato, non può essere diminuito per nessuna ragione né tassato).

Pertanto, il giudice federale, al riparo da ogni possibile influenza così del parlamento che del presidente, una volta nominato è libero di esprimere le proprie indipendenti valutazioni. Attualmente, il numero dei giudici è fissato in nove, compreso il presidente.

P.S. L’importanza della Corte suprema nella vita politico-istituzionale degli Stati Uniti non fu storicamente, immediatamente, colta dai suoi membri e, tanto meno, dai suoi primi presidenti. È solo con la nomina di John Marshall, poi in carica dal 1801 al 1835, che ci si rese conto dell’importanza dell’azione della corte. Marshall, nominato dallo sconfitto John Adams, la mezzanotte dell’ultimo giorno di permanenza in carica quale presidente, fu l’esponente del movimento federalista che più incise sulla politica americana proprio perché per trentacinque anni a capo della Corte suprema, alla quale seppe dare consistenza e rilievo al di là dell’immaginabile.

Dice di sé*
Mauro della Porta Raffo. Narratore e saggista, classe 1944, svolti più o meno svogliatamente mille diversi mestieri, ha intrapreso l’attività giornalistica nel 1996 su sollecitazione di Giuliano Ferrara, che lo ha ribattezzato “il Gran Pignolo” per la sua curiosità onnivora, per la propensione alla cultura erudita e la precisione dimostrata.
Per lo stile asciutto al servizio di un’informazione che di una notizia premia l’originalità e l’inedito, della Porta Raffo è collaboratore passato e presente di tutte le principali testate nazionali (“Corriere della Sera”, “Il Sole 24 Ore”, “La Stampa”, “Il Giornale”, “Il Foglio”, “Panorama”, “Oggi”, “Gente”, “Capital”, “La Gazzetta dello Sport”, “Vanity Fair”, “Il Giorno”, “Il resto del Carlino”, “La Nazione”, “Il Tempo”, “La Provincia”, “La Prealpina”).

 

NIKITA SERGEEVIC? KHRUS?C? ËVGli uomini politici sono uguali dappertutto. Promettono

di costruire ponti anche dove non ci sono fiumi.

(Da “Conferenza di Glen Cove (USA)”, ottobre 1960)

THE LAST LECTURE Randy Pausch - Morirò presto, ecco il mio senso della vita

Ricordate: i muri esistono affinché noi possiamo dimostrare quanto ci teniamo a superarli. Non cedete!

Randy Pausch

Il professor Randy Pausch, della Carnegie Mellon University, esperto di realtà virtuale, dopo aver scoperto di avere un cancro che gli lascerà pochi mesi di vita, decide di ritirarsi dall’insegnamento per stare più tempo con la sua famiglia, ma prima di congedarsi, tiene un’ “ultima lezione” di commiato. Ne nasce uno straordinario caso: il giornalista Jeffrey Zaslow, del Wall Street Journal, presente alla lezione, riporta sul prestigioso quotidiano alcuni stralci del discorso di Pausch e, allo stesso tempo, un filmato amatoriale di quell’ultima lezione viene scaricato su You Tube ( http://it.youtube.com/watch?v=9xwuOVTiky0 ).

Il successo è strepitoso. Il numero di visitatori aumenta, di giorno in giorno, in maniera esponenziale, arrivando a sfiorare i quattro milioni di contatti.

Il caso diventa anche un libro edito dalla casa editrice Hyperion, a firma proprio di Jeffrey Zaslow, il primo ad aver colto la prepotente forza delle parole di Pausch. Distribuito in Italia da Rizzoli, “il libro è un modo – come afferma lo stesso Pausch – per proseguire ciò che è partito da quella lezione”.

Di seguito proponiamo alcuni estratti dell’ormai celebre lectio (a.p.).

Buonasera a tutti. È magnifico essere qui. Questa serie di conferenze un tempo si chiamava “L’ultima conferenza: se aveste un’ultima conferenza da fare, di che cosa parlereste?” E io ho pensato: “Accidenti, finalmente avevo centrato l’argomento e loro le cambiano nome!”.

Bene, eccoci qui. Nel caso in cui ci fosse qualcuno che è capitato qui per caso e non conosce la mia storia, mio padre mi ha insegnato che quando c’è un grosso problema bisogna affrontarlo. Nelle mie Tac compaiono una decina circa di tumori al fegato e il dottore mi ha detto che mi restano dai tre ai sei mesi di buona salute. Considerato che me l’ha detto un mese fa, i conti sono presto fatti. Ho i medici migliori al mondo. Le cose stanno così. Non possiamo cambiarle. Possiamo soltanto decidere in che modo reagiremo alla situazione. Non possiamo cambiare le carte che ci sono date, possiamo soltanto decidere come giocare la prossima mano. Se non vi sembro depresso o cupo come pensate che dovrei essere, mi dispiace deludervi (…).

Va bene… allora, di una cosa non parleremo oggi. Non parleremo di cancro, perché ho già parlato a lungo di questo e davvero non mi interessa parlarvene. Se avete qualche integratore a base di erbe o qualche altro rimedio, vi prego di starmi alla larga.

Non parleremo anche di altre cose che sono più importanti dell’esaudire i sogni della vostra infanzia. Non parleremo di mia moglie e non parleremo dei miei figli, per esempio, perché sono bravo, sì, ma non così bravo da poterne parlare senza scoppiare a piangere. Pertanto, molto semplicemente, accantoneremo questo argomento, che è molto più importante. (…).

D’accordo, ma allora di che cosa parliamo oggi? Parliamo dei miei sogni d’infanzia e di come li ho realizzati. Da questo punto di vista sono stato molto fortunato. Parleremo di come credo di aver reso possibili i sogni altrui e, in una certa qual misura, degli insegnamenti che se ne possono ricavare. Sono un professore, pertanto dovrebbe essere possibile ricavare qualcosa che consenta ai vostri sogni di realizzarsi. A mano a mano che si diventa grandi, si può scoprire che “permettere ai sogni altrui di realizzarsi” è ancora più gratificante.

Dunque, volete sapere quali erano i sogni della mia infanzia? Prima di tutto vi premetto di aver avuto un’infanzia davvero molto felice. Sì, sul serio, non sto scherzando. Ho frugato nell’archivio di famiglia e la cosa che mi ha davvero colpito è che non sono riuscito a trovare nessuna foto di me bambino nella quale io non stessi sorridendo. E questo di per sé è già molto gratificante.

Sapete, c’era molto per cui sognare ad occhi aperti. Sono nato nel 1960. Avevo otto o nove anni e se guardavo la televisione potevo vedere l’uomo sbarcare sulla Luna.

A quel punto capite bene che ogni cosa è possibile. Ecco, questo non dovremmo dimenticarlo mai. L’ispirazione e la possibilità di sognare sono immense.

Quali erano i miei sogni d’infanzia? Potrete anche non essere d’accordo con il mio elenco, ma si tratta dei seguenti: sperimentare l’assenza di gravità, giocare nella Lega nazionale di football, scrivere una voce della World book enciclopedia (beh, sì, presumo che i secchioni si individuino subito, non è così? ), essere Captain Kirk…

C’è qualcuno tra voi che ha avuto questi stessi sogni quando era bambino? No, alla Carnegie Mellon University no di sicuro! Volevo anche essere uno di quei tipi che vincono i pupazzi giganti al luna park, e volevo diventare uno degli imagineer della Disney (coloro che pianificano e realizzano le attrazioni dei parchi giochi, n.d.r).

Ecco, ve li ho elencati in ordine sparso, anche se a esclusione forse del primo, sperimentare l’assenza di gravità, di sicuro erano sogni di difficile realizzazione. Credo che sia molto importante avere sogni precisi (…).

Ok, passiamo al football.

Il mio sogno, come vi ho detto, era giocare nella Lega nazionale di football, ma probabilmente ho avuto molto più da questo sogno che non si è realizzato che da tutti quelli che invece si sono realizzati.

Avevo un allenatore. Firmai con lui a nove anni. Ero il più piccolo della Lega, e avevo un allenatore, Jim Graham, che era alto quasi un metro e novanta e aveva giocato da linebacker con i Penn State. Era un colosso ed era della vecchia scuola. Intendo proprio vecchia… il primo giorno di allenamento eravamo tutti spaventati a morte da quel gigante. Lui arrivò… ed era senza pallone. Come avremmo mai potuto allenarci senza pallone? Allora un ragazzino si fece avanti e gli disse: “Senta coach, mi scusi, ma non c’è il pallone”. E il coach Graham: “È vero. Ma ditemi un po’, quante persone ci sono in campo?”. E noi in coro: “Undici per squadra, ventidue in tutto”. “Esatto. E quante persone alla volta toccano il pallone?”. “Una sola”. “Giusto. Quindi noi inizieremo da quello che fanno gli altri ventuno”.

Sì, è propria una bella storiella, perché parla delle cose fondamentali, le cose basilari, le cose che contano. È importante concentrarsi su queste, le cose fondamentali, perché tutto ciò che è superfluo e inutile non serve a niente.

L’altra cosa importante legata al coach Jim Graham riguarda l’allenamento. Mi stava sempre addosso, sempre. Mi faceva sgobbare e lavorare senza sosta: “Sbagli questo, ripeti. Sbagli anche quell’altro. Fallo ancora. Torna indietro e ricomincia. Me lo devi… dopo l’allenamento fai le flessioni” e così via. Un giorno, al termine dell’allenamento, uno degli altri coach mi si avvicina e mi dice: “Il coach ti ha lavorato ben bene, non è così?”. Io rispondo di sì, e lui chiosa: “Si tratta di un buon segno. Quando sbagli qualcosa e nessuno ti dice più niente, significa che ormai hanno rinunciato”.

Questa è una lezione che ho imparato e ho ricordato per tutta la vita: quando fai qualcosa di sbagliato e nessuno si prende la briga di dirti qualcosa, significa che è meglio cambiare aria. Chi ti critica lo fa perché ti ama e ti ha a cuore (…).

Sono molto contento che il football sia stato parte della mia vita. Anche se il desiderio di giocare nella Lega nazionale di football non si è realizzato, pazienza. Probabilmente ci sono cose che contano di più. Se poi guardiamo a quello che stanno facendo nella NFL…. non sono più così sicuro che si stiano comportando bene…

Bene, uno dei modi di dire che ho acquisito lavorando per l’Electronic Arts, che mi piace moltissimo ed è in relazione a quanto ho appena raccontato è questo: “L’esperienza è ciò che ottieni quando non sei riuscito a ottenere ciò che volevi”. Penso che sia assolutamente deliziosa.

L’altra cosa che posso dire del football, come di qualsiasi altro sport o attività che facciamo praticare ai nostri figli, che si tratti di football o di calcio, di nuoto o di qualsiasi altra cosa, è che questo è un esempio di quello che io definirei l’apprendimento indiretto. In realtà noi non vogliamo che i nostri figli imparino a giocare a football.

Sì, insomma, è carino che io abbia queste tre punte e che so come fare blocco e così via…, ma noi mandiamo i nostri figli a imparare cose molto più importanti di queste. Spirito di squadra, spirito sportivo, perseveranza, eccetera. Tutti questi apprendimenti indiretti sono importantissimi. Anzi, bisognerebbe aprire bene gli occhi, stare sempre all’erta e coglierli ovunque, perché sono ovunque.

Passiamo adesso all’altro desiderio, diventare autore di una voce della World book encyclopedia. Quando ero bambino, su una mensola di casa nostra c’era la World book encyclopedia… per le matricole devo precisare che si tratta di un’enciclopedia in versione cartacea! Bene, c’erano queste cose che chiamavamo libri. Dopo che sono diventato per così dire un’autorità in fatto di realtà virtuale, ma non poi così importante, mi sono trovato al livello di coloro ai quali la World book encyclopedia avrebbe potuto chiedere di scrivere un articolo. E infatti mi chiamarono e io ho scritto un articolo! Questa è Caitlin Kelleher e se andate nella vostra libreria locale, dove conservano ancora copie cartacee della World book encyclopedia, se cercate alla voce virtual reality troverete il mio articolo. Tutto ciò che posso dire è che, effettivamente, essendo stato scelto per diventare un autore della World book encyclopedia, posso assicurarvi che Wikipedia è una fonte perfetta di informazioni per voi, perché conosco il controllo di qualità delle vere enciclopedie! (…)

Bene. Possiamo passare al desiderio successivo. Essere un imagineer. Ecco, questo era proprio difficile. Credetemi: sperimentare l’assenza di gravità è niente rispetto a diventare un imagineer! Quando avevo otto anni la mia famiglia aveva attraversato tutto il Paese per andare a Disneyland. Non so se avete visto il film “National Lampoon´s Vacation”… è stato un po’ come in quel film. Fu una vera odissea. (…) Eccomi lì, dicevo. Pensavo che quello era davvero l’ambiente più fantastico che io avessi mai visto e invece di pensare: “Voglio assolutamente visitarlo”, dentro di me pensavo: “Voglio assolutamente costruire cose così”. E così ci investii tutto il mio tempo, mi laureai, presi un dottorato al Carnegie Mellon, pensando che tutto ciò mi qualificasse al massimo a fare qualsiasi cosa. Poi spedii caterve di lettere con domanda di assunzione alla Walt Disney Imagineering, e loro mi mandarono le più dannate lettere di “vai-pure-all’inferno” che io abbia mai ricevuto.

Sì, insomma, erano lettere del tipo: “Abbiamo preso in seria considerazione la sua domanda, ma al momento non abbiamo disponibile alcuna posizione che possa richiedere le sue particolari qualifiche”. Immaginate un po’: ricevere lettere così da un posto che è famoso in tutto il mondo per i suoi spazzini che puliscono le strade… Beh, per me fu un po’ un brutto colpo.

Ricordate, però: ogni ostacolo, ogni muro di mattoni, è lì per un motivo preciso. Non è lì per escluderci da qualcosa, ma per offrirci la possibilità di dimostrare in che misura ci teniamo. I muri di mattoni sono lì per fermare le persone che non hanno abbastanza voglia di superarlo. Sono lì per fermare gli altri. Bene, con un “avanti veloce” spostiamoci al 1991: all’università della Virginia mettiamo a punto un sistema denominato “Realtà virtuale per cinque dollari al giorno”. Si trattava di una di quelle cose assolutamente spettacolari.

Quell’anno, da junior academic, ero terrorizzato. C’era Jim Foley… sì, voglio proprio raccontarvi questa storia. Foley conosceva il mio consigliere undergraduate, Andy van Dam. Io dovevo tenere la mia prima conferenza ed ero assolutamente nel panico. Ebbene, quell’icona vivente della user interface community viene da me e senza preavviso alcuno mi abbraccia come un grande orso, e mi dice: “Questo è da parte di Andy”. Ed è stato allora che ho pensato per la prima volta: “Forse posso farcela! Forse faccio parte del suo mondo”.

Questa è la storia e fu un successo tanto più inverosimile se si pensa che all’epoca per costruire una realtà virtuale occorreva avere come minimo mezzo milione di dollari. Tutti si sentivano demoralizzati perché i soldi non c’erano, mentre noi avevamo messo insieme, pezzo dopo pezzo, un sistema con circa cinquemila dollari in componenti, costruendo un sistema VR perfettamente funzionante. E la gente impazziva, si entusiasmava, pensava che il nostro fosse un bis del grande exploit del garage dell’Hewlett Packard, e cose così.

Insomma, ero lì a fare una conferenza, e il pubblico della sala pareva letteralmente impazzito. Durante la fase finale delle domande del pubblico, un tipo di nome Tom Furness, all’epoca un pezzo grosso nel campo della realtà virtuale, prende il microfono e si presenta. Io non sapevo che aspetto avesse, ma il suo nome lo conoscevo eccome! Mi rivolge una domanda e quando a me tocca rispondere gli dico: “Lei è Tom Furness? Prima di rispondere alla sua domanda, mi può dire se possiamo pranzare insieme domani?”. Fu così che, dopo un paio di anni, Imagineering lavorava a un progetto di realtà virtuale, assolutamente top secret.

Ancora negavano l’esistenza di un’attrazione con la realtà virtuale e già il dipartimento pubblicità mandava in onda spot in televisione. Insomma, Imagineering si era davvero appassionata alla cosa.
Si tratta dell’attrazione di Aladino, quella nel quale si vola su un tappeto volante, con un display sulla testa, una cosa nota come gator vision. Non appena iniziano gli spot alla televisione, mi chiedono se posso dare qualche informazione al Segretario della Difesa sullo stato della realtà virtuale. Sì, proprio così: Fred Brooks e io siamo stati convocati per informare il Segretario della Difesa.

Questa per me è stata una scusa fantastica: ho chiamato Imagineering, ho detto loro quello che dovevo fare e ho chiesto che mi dessero del materiale, perché quello che stavano mettendo a punto era il miglior sistema di VR del mondo. Loro si sono tirati indietro. Al che io ho ribattuto: “Ma allora, tutto il patriottismo dei vostri parchi è soltanto una farsa?”. A quel punto hanno ceduto. Mi comunicano, però, che il dipartimento delle Public relation è nuovo e non ha materiale per me, quindi devo prendere contatti direttamente con il team che ha eseguito il lavoro.

Bingo! Ecco quindi che mi ritrovo a telefono con un tipo di nome Jon Snoddy, una delle persone più impressionanti che io abbia mai conosciuto. Lui mi manda delle carte, parliamo brevemente al telefono e io ad un certo punto gli dico: “Senta, mi troverò dalle sue parti per una conferenza, che ne dice se ci incontriamo e pranziamo insieme?”.

Il che, come tutti sapete, tradotto significa: “Le sto mentendo, le dirò che ho un’ottima scusa per capitare dalle sue parti, quindi non sia troppo in ansia, mi piacerebbe andare da Neptune a pranzo con lei”. Jon mi risponde: “Certo!”, e così trascorro circa 80 ore a parlare con tutti gli esperti di realtà virtuale del mondo, chiedendo loro che cosa vorrebbero, se potessero avere accesso a questo incredibile progetto. Poi mi compilo un bell’elenco, lo imparo a memoria – il che, come sanno tutti quelli che mi conoscono, è davvero incredibile, perché io non riesco mai a ricordare nulla, ma non è che potevo andare lì a dirgli con una vocina sottile “Aspetti, domanda numero 72”… – e per le due ore che durò quel pranzo, Jon deve aver pensato di essere alle prese con una persona fenomenale, perché tutto ciò che stavo facendo, in definitiva, era convogliare le idee di Fred Brooks, di Ivan Sutherland, di Andy Van Dam, e di Henry Fuchs e così via… è facile passare per persone brillanti quando si scimmiottano le persone brillanti!

Insomma, alla fine del pranzo con Jon, lasciò cadere quella che nel gergo del business si chiama “La domanda”. Gli dico: “Ben presto inizio un sabbatico”. E lui mi chiede: “Che cosa?”. Un bell’inizio davvero di uno scontro di culture… Così gli espongo la possibilità di andare a lavorare con lui. Soltanto che lui mi risponde che sì, sarebbe una buona idea davvero, se si esclude il fatto che io lavoravo per raccontare cose alla gente, mentre loro lavoravano mantenendo i segreti. Poi, però, aggiunge qualcosa degno di Jon Snoddy davvero: mi dice che ci avremmo potuto lavorarci sopra, e la cosa mi piace immensamente.

Un’altra cosa che ho imparato da Jon Snoddy – potrei andare avanti anche più di un’ora a raccontarvi ciò che ho imparato soltanto da Jon Snoddy – è questa: impara ad aspettare tutto il tempo che serve e la gente ti sorprenderà davvero. Mi ha spiegato che quando si è davvero stufi marci di qualcuno o si è arrabbiati con lui, significa solo che non si è concesso loro abbastanza tempo. Dategli più tempo e vedrete che quasi sempre vi stupiranno. Quando me lo disse, questa cosa mi colpì moltissimo. Me la sono sempre tenuto a mente e credo che avesse perfettamente ragione (…).

Ricordo che quando finalmente andai all’Imagineering, la gente mi chiedeva: “Non pensi che le tue aspettative siano troppo alte?”. E io rispondevo: “Hai visto il film “Charlie e la Fabbrica di cioccolato? Willy Wonka e la Fabbrica di Cioccolato?”. Quando Gene Wilder dice al piccolo Charlie che sta per regalargli la fabbrica di cioccolato e gli fa: “Bene Charlie, ti hanno mai raccontato la storia del bambino che all’improvviso ottenne tutto ciò che desiderava?”. E Charlie spalanca gli occhi e dice: “No, che cosa gli è capitato?” E Gene Wilder gli risponde: “Ha vissuto per sempre felice e contento”. Ecco, lavorare per il progetto di virtual reality di Aladino è stata un’opportunità che capita soltanto ogni cinque carriere… e lo confermo. È stata un’esperienza che mi ha cambiato per il resto della mia vita (…).

Bene, questi che vi ho raccontato erano i miei sogni d’infanzia. Non male. Sento di esserne soddisfatto (…).

A questo punto l’unica domanda possibile è in che modo posso far sì che si realizzino i sogni d’infanzia altrui. E ancora una volta la risposta è questa: sono contento di essere diventato un professore. Quale posto migliore esiste, infatti, per soddisfare i desideri dell’infanzia? Forse lavorare da EA, non so… sì, sicuramente questa sarebbe un’ottima seconda scelta.

Tutto ciò ha avuto inizio quando mi sono reso effettivamente conto di poterlo fare, perché un giovanotto di nome Tommy Burnett, venne da me quando ero all’Università della Virginia e mi disse di essere molto interessato a unirsi al mio gruppo di ricerca. Così iniziammo a parlare e lui a un certo punto mi dice: “Ho un sogno sin dall’infanzia”. È facile riconoscerli quando ti dicono queste cose. Io allora gli rispondo: “Sì, Tommy, qual è il tuo sogno dell’infanzia?”. Lui prosegue: “Voglio lavorare al prossimo film di Guerre Stellari”. Dovete chiaramente ricordare in che epoca accadeva tutto ciò… dove è Tommy? Tommy è qui tra noi oggi. Tommy, che anno sarà stato? Il tuo secondo anno di università? Beh, intorno al 1993. Al che gli dico: “Tommy, guarda che, probabilmente, non faranno altri film della serie”. E lui ribatte: “Ti sbagli, li stanno facendo”. Tommy ha lavorato con me per molti anni prima della laurea e poi come membro del mio staff. Poi io sono venuto qui al Carnegie Mellon, e tutti i membri del mio team mi hanno seguito dalla Virginia al Carnegie Mellon fuorché Tommy, perché ha ricevuto un’offerta migliore. Ha lavorato davvero a tutti e tre i nuovi film di Guerre Stellari! Al che io gli dico: bene, è splendido, ma credo che realizzare i sogni di uno solo alla volta non sia propriamente efficiente. Chi mi conosce bene sa che sono un vero maniaco dell’efficienza. Così mi chiedo, non possiamo farlo in massa? Non posso far sì che la gente lavori in modo tale da poter vedere realizzati i propri sogni d’infanzia?

Pertanto ho creato un corso specifico. Sono venuto qui al Carnegie Mellon e ho dato vita a un corso denominato “Costruzione di mondi virtuali”. È un corso molto semplice. Quante persone qui tra il pubblico vi hanno preso parte? Ok, quindi alcuni di voi ne hanno un’idea. Per coloro di voi che un’idea non l’hanno, le cose sono molto semplici. Ci sono una cinquantina di studenti scelti tra i vari dipartimenti dell’università. Del tutto casualmente sono assortiti per formare team di quattro persone, e prendono parte a tutti i progetti, uno dopo l’altro. Ogni progetto ha la durata di sole due settimane, pertanto ogni studente fa qualcosa, costruisce qualcosa, la mostra, poi io cambio a caso i gruppi ed egli ricomincia insieme a tre colleghi nuovi.

Tutto questo accade ogni due settimane, pertanto nel semestre del corso si completano cinque progetti. Il primo anno che ho tenuto questo corso, sono andato molto di fretta, perché volevo constatare se eravamo effettivamente in grado di farlo (…). Ho assegnato loro un primo incarico e quando sono tornati da me dopo due settimane esatte mi hanno lasciato davvero a bocca aperta. Quello che avevano fatto andava talmente oltre le mie aspettative e la mia immaginazione… in sostanza, io avevo riprodotto i processi in uso nei laboratori dell’Imagineering, ma senza avere idea se si potessero realizzare con studenti non ancora laureati, e con strumentazioni e apparecchiature così insufficienti.

Insomma, sono venuti da me con il loro primo progetto… era talmente spettacolare che dopo dieci anni di insegnamento mi sono ritrovato senza un’idea su come proseguire, che cosa far loro fare in seguito. Di conseguenza mi sono rivolto al mio mentore. Ho telefonato ad Andy Van Dam e gli ho detto: “Ho dato loro un incarico di sole due settimane e loro sono tornati da me con un progetto che se l’avessero realizzato in un semestre intero non basterebbe che assegnassi tutti A, il voto più alto. “Maestro”, che cosa mi consiglia di fare?”. Andy ci ha pensato su un minuto, poi mi ha risposto così: “Domani vai in classe, li guardi negli occhi e dici: “Ragazzi, è andata abbastanza bene, ma io so che potete fare molto di più”. Beh, vi dirò: quello è stato davvero il consiglio giusto (…).

Se c’è una cosa che mi è stata insegnata sin da quando ero piccolo è condividere, e quindi mi sono detto che dovevamo assolutamente fare vedere quanto avevamo realizzato. Dovevamo organizzare un grosso show per la fine del semestre. Così abbiamo prenotato quest’aula, la McConomy. Ho tanti bellissimi ricordi legati a quest’aula. La prenotammo non perché pensavamo di poterla riempire, ma perché aveva le uniche apparecchiature audiovisive dell’università (…).

Ma una cosa è sicura: quello è stato l’avvenimento dell’anno per il campus. La gente si metteva letteralmente in coda per poter entrare. È stato molto gratificante e gli studenti hanno avvertito una sensazione di grande entusiasmo nell’allestire una dimostrazione-spettacolo per gente che ne andava entusiasta. Ecco, io credo che questa sia una delle cose migliori che si possano insegnare a qualcuno: la chance di dimostrare che cosa si prova facendo entusiasmare il prossimo. Si tratta di un vero dono, un dono meraviglioso. Noi cerchiamo sempre di coinvolgere il pubblico, che si tratti di dargli un bastone fluorescente o un pallone gonfiabile o ancora di farlo guidare È davvero molto cool! (…)

Abbiamo parlato dei miei sogni. Abbiamo parlato di come aiutare il prossimo a realizzare i propri sogni. Da qualche parte, lungo il cammino di ognuno, deve esserci qualcosa che ci consente di realizzare i nostri sogni.

Questa che vedete è mia madre, nel giorno del suo settantesimo compleanno. Io sono qui, alle sue spalle, sono stato appena catapultato fuori… Questo invece è mio padre, sulle montagne russe il giorno del suo ottantesimo compleanno. [Mostra una diapositiva del padre sulle montagne russe]. Qui si vede che non soltanto era coraggioso, ma aveva anche talento perché quello stesso giorno ha vinto quel grosso orso. Mia padre era così pieno di vita. Ogni cosa per lui era un’avventura. (…)

Ma la storia migliore che posso raccontare di mio padre è un’altra. Purtroppo mio padre è mancato poco più di un anno fa. Mentre sistemavamo le sue cose – aveva combattuto nella Seconda Guerra mondiale, nella battaglia di Bulge – abbiamo trovato una Stella di bronzo al Valore. Mia madre non ha mai saputo di questa medaglia. In cinquanta anni di matrimonio non è mai saltata fuori. Mia mamma… Le madri sono quelle persone che ti amano anche se tu tiri loro i capelli…

Ho due splendide storie anche su mia madre. Quando io ero qui a studiare per prendere il mio dottorato, preparandomi a una cosa che si chiama “Teoria qualificativa” – che posso assicurarvi essere la seconda cosa peggiore della mia vita, dopo la chemioterapia – mi lamentavo con lei di quanto fosse difficile questo esame, e di quanto fosse spaventoso. Lei si inclinò verso di me, mi diede un buffetto sulle spalle e mi disse: “Sappiamo bene come ti senti, tesoro, ma ricorda, tuo padre alla tua età combatteva contro i tedeschi”. Una volta preso il mio dottorato, mia madre adorava presentarmi dicendo: “Questo è mio figlio, è un dottore, ma non quel genere di dottore che aiuta la gente”.

Queste diapositive sono un po’ scure, ma quando ero al liceo decisi di dipingere la mia camera. Avevo sempre desiderato un sottomarino e un ascensore…e la cosa più incredibile di tutto ciò è che i miei mi permisero di dipingerli! Non si arrabbiarono per questo. Ed è ancora lì, come l’ho lasciata io. Se andate nella casa dei miei genitori la troverete proprio così. A chiunque sia qui presente ed è un genitore, raccomando una cosa sola: se i vostri figli vogliono dipingersi la loro camera, lasciate che lo facciano, fatemi questo piacere personale. Andrà tutto bene. Non preoccupatevi del prezzo al quale un giorno potrete rivendere la vostra casa.

Quali altre persone ci aiutano oltre ai nostri genitori? I nostri insegnanti, i nostri mentori, i nostri amici, i nostri colleghi (…). So che moltissime persone nel mondo hanno avuto pessimi superiori, ma io non sono dovuto passare attraverso nulla del genere. Sono molto grato a tutte le persone per le quali ho lavorato. Sono state assolutamente incredibili (…).

Ricordate: i muri esistono affinché noi possiamo dimostrare quanto ci teniamo a superarli. Esistono per separarci dalle persone che non vogliono davvero vedere esauditi i loro desideri d’infanzia. Non cedete. L’oro migliore è quello che giace in fondo ai barili di merda.

Quando qualcuno vi dà la sua opinione, abbiatela cara e usatela… Siate grati e dimostratelo… Non lamentatevi… Lavorate più duramente… Siate bravi in qualcosa: vi rende persone di valore… Lavorate sodo… Trovate in ogni persona ciò che c’è in lei di meglio. Aspettate, non importa quanto ci vorrà. Nessuno è malvagio. Tutti hanno un lato buono, basta saper aspettare e prima o poi salterà fuori… Siate pronti. La fortuna è quel momento in cui la preparazione incontra l’opportunità.

Concludendo, oggi vi ho parlato dei miei sogni d’infanzia, di come far sì che i sogni degli altri si realizzino, e di alcune delle lezioni imparate nel corso della vita.

Ma avete scoperto qual è la vera finta? Non è come realizzare i propri sogni, ma come vivere. Se vivrete nel modo giusto, il karma si prenderà cura di sé. I sogni verranno da voi. E avete capito anche la seconda finta? Questo mio discorso non era per voi, ma per i miei figli. Grazie a tutti, buonanotte.

INDICE DEI NOMI
Adams, Henry Brooks
Adams, John
Afshar, Fari
Alighieri, Dante
Alinsky, Saul
Àlvarez, Marcelo
Anderson, John
Antonelli, Laura
Argento, Dominick
Aristotele
Armiliato, Fabio
Articolo
Aumont, Tina
Augias, Corrado
Banotti, Elvira
Barry, Gerald
Battiato, Franco
Battisti, Lucio
Baumol, William Jack
Beeson, Jack
Bella, Marcella
Bellonci, Maria
Benso, Camillo conte di Cavour
Berkman, David
Bingham, Thomas Henry
Black, Sonny (Dominick Napolitano)
Bobby Solo (Roberto Satti)
Boccaccio, Giovanni
Bollati Boringhieri
Bonanno, famiglia
Bonolis, Paolo
Borges, Jorge Luis
Borgia, Lucrezia
Bosch, Hieronymus
Bosio, Laura
Branciaroli, Franco
Brandt, Willy (Herbert Ernst Karl Frahm)
Brass, Tinto Giovanni
Brass, Tinta (Carla Cipriani)
Breillat, Catherine
Brillat-Savarin, Jean Anthelme
Britten, Benjamin
Brooks, Fred
Bruch, Hilde
Budden, Julian
Bumke, Erwin
Burnett, Tommy
Bush, George Walker
Buzzati, Dino
Caligola
Callas, Maria
Campbell, Naomi
Caro, Isabelle
Carotenuto, Aldo
Carroli, Silvano
Caruso, Enrico
Casati Stampa, Camillo
Chagall, Marc
Chailly, Riccardo
Charcot, Jean-Martin
Chester, Carole
Clifford, James
Clinton, William Jefferson “Bill”
Cohen, Steve
Colonna, Maurizio
Craxi, Bettino
Crisp, Arthur H.
Dalí, Salvador
Dalida (Iolanda Cristina Gigliotti)
Dalla, Lucio
Da Ponte, Lorenzo
De Andrè, Fabrizio
de Chirico, Giorgio
de la Tourette, Gilles
de Muralt, Melchior
de Schrevel, Jean-Philippe
Debussy, Claude Achille
De Gasperi, Alcide
Deep, Johnny
Della Casa, Giovanni
Del Monaco, Giancarlo
De Laurentis, Dino
Deodato, Eumir
Dessì, Daniela
Destinn, Emmy
de Tocqueville, Alexis
Dicearco di Messina
Drommi, Peppino
Dudamel, Gustavo
Eco, Umberto
Eisenhower, Dwight David
Elias, Norbert
Fairchild, Arthur Eric
Fallarino, Anna
Farinata degli Uberti
Fenech, Edwige
Ferrara, Giuliano
Ferro, Tiziano
Fillmore, Millard
Flaiano, Ennio
Florimonte, Galeazzo
Floyd, Carlisle
Foley, Jim
Ford, Gerald
Ford Coppola, Francis
Forzano, Giovacchino
Francesco Giuseppe
Fuchs, Henry
Furness, Tom
Gaber, Giorgio
Gambale, Frank
Gastoni, Lisa
Gelmetti, Gianluigi
Gemignani, Elvira
Géricault, Jean-Louis-Théodore
Gheddafi, Mu‘ammar
Giaccheri, Renzo
Gilda (Rosangela Scalabrino)
Ginsborg, Paul
Giorgia (Todrani)
Goldwater, Barry Morris
Graham, Jim
Guanda Editore
Guggenheim, Peggy (Margherite)
Gull, William
Hale, Brenda Marjorie
Hoffmann, Leonard Hubert
Hope, James Arthur David
Il Mulino
Il Valentino (Cesare Borgia)
Izzo, Letizia
Janet, Pierre
Johnson, Andrew
Johnson, Lyndon Baines
Jones, Maldwyn
Joyce, James Augustine
Kazim, Abdulhamid Abdulfatah
Kelleher, Caitlin
Kennedy, John Fitzgerald
Kenny, Pauline
Kerry, John Forbes
Koll, Claudia
Khrus?c?ëv, Nikita Sergeevic?
Kraepelin, Emil
Kretschmer, Ernst
La Follette, Robert
Lanza, Cesare
Lasegue, Charles
Last, James (Hans)
Lauda, Niki
Levi, Primo
Lewinsky, Monica
Lincoln, Abraham
Lindenberger, Herbert
Livraghi, Giancarlo
Longanesi
Loren, Sophia
Mac Govern, Gorge
Machiavelli, Niccolò
Magritte, René
Malipiero, Gian Francesco
Mallarmé, Stéphane
Mangano, Silvana
Manzoni, Alessandro
Maraini, Dacia
Markesinis, Basil
Marshall, John
Mascagni, Pietro
Mazzini, Giuseppe
Maw, Nicholas
Menotti, Giancarlo
Merlin, Angelina
Michel, Franck
Mina (Anna Mazzini)
Minorenti, Massimo
Miró, Joan
Mondadori
Monet, Claude Oscar
Moravia, Alberto
Moretti, Nanni
Moro, Aldo
Morton, Richard
Mozart, Wolfgang Amadeus
Musgrave, Thea
Mussolini, Benito
Nader, Ralph
Neffa (Giovanni Francesco Pellino)
Nenni, Pietro
Nicholls, Donald James
Nicolai, Nicky
Nixon, Richard
O’Connor, Sandra
Orlandi, Nora
Orwell, Gorge
Pacino, Al
Papa Alessandro
Pasateri, Thomas
Pascal, Blaise
Pasolini, Pier Paolo
Pausch, Randy
Pavese, Cesare
Perot, Ross
Pertini, Sandro
Picasso, Pablo
Piermarini, Giuseppe
Pinel, Philippe
Pirandello, Luigi
Platone
Pollock, Paul Jackson
Ponte alle Grazie
Ponti, Carlo
Pontiggia, Giuseppe
Popper, Karl
Presley, Elvis Aron
Pretty, Dianne
Previn, André
Preziosi, Alessandro
Proust, Marcel
Puccini, Giacomo
Renoir, Jean
Renoir, Auguste
Ricordi, Giovanni
Rimoaldi, Anna Maria
Ronconi, Luca
Roper, Donald
Roosevelt, Franklin Delano
Rossellini, Roberto
Rubirosa, Porfirio
Ruggiero, Antonella
Ruggiero, Lefty Benjamin
Russell, Gerald M. F.
Salvatori, Fausto
Sandrelli, Stefania
Sartre, Jean-Paul Charles
Scalia, Antonin
Schulz, Bruno
Serafin, Martina
Servadio, Emilio
Sgarbi, Vittorio
Siffredi, Rocco
Simmons, Christopher
Sissi (Elisabetta E. A. di Wittelsbach)
Smith, Julian
Snoddy, Jon
Sonzogno, Giovan Battista
Sordi, Alberto
Stalin (Josif Vissarionovic? Dugavili)
Strauss, Richard
Stravinskij, Igor Fëdorovic?
Sturzo, Luigi
Sutherland, Ivan
Taft, William
Thurmond, James Strom
Tolkien, John Ronald Reuel
Tortora, Enzo
Toscanini, Arturo
Totò (Antonio De Curtis)
Tucidide
Van Buren, Martin
van Dam, Andy
van Zyl Steyn, Johan
Vassalli, Sebastiano
Varzi, Caterina
Verniaghi, Mino
Villa, Claudio
Villaggio, Paolo
Vitti, Monica
Wagner, Richard
Wallace, George
Wallace, Henry 142
Ward, Robert 69
Whitman, Walt 3, 94
Wilder, Gene 161
Wilson, Woodrow 142
Wojtyla, Karol 60-61
Yamanouchi, Hai 73
Zanicchi, Iva 124
Zaslow, Jeffrey 154
Zeffirelli, Franco 71
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