Edizione n. 7

INTRODUZIONE Cesare Lanza - Il segnale

Già in altre occasioni vi ho confidato il mio stato d’animo emotivamente depresso, e razionalmente pessimista, di fronte alla disastrosa situazione italiana. Eravamo quinti e forse, per certi periodi, anche quarti, nella classifica delle più grandi potenze del mondo: oggi siamo agli ultimissimi gradini delle classifiche europee. Per trovare qualche ipotesi di primato, dobbiamo considerare le classifiche sulla disoccupazione, sulla criminalità, sull’arretratezza culturale.

Non voglio ulteriormente affliggervi con lamentose constatazioni, che chiunque può fare, se vuole: basta guardarsi intorno. Preferisco affrontare il tema conseguente e cruciale: come si può uscire da questo disastro, da questa tendenza malinconica, in apparenza inarrestabile, che ci porta, dopo fasti vissuti e meritati, ai livelli di decadenza del tardo romano impero?

La mia convinzione (direi una convinzione ragionevole, che mi auguro sia condivisa da chiunque voglia riflettere senza faziosità, ma con un minimo di indispensabile oggettività) è che nessuno, né nel nostro Paese né altrove, possiede ricette miracolose e bacchette magiche. Per qualsiasi governante al mondo, l’impresa della ricostruzione è lunghissima, faticosa, disperata: peraltro non credo a imprese individualistiche. È l’intero Paese che dovrebbe rimboccarsi le maniche e darsi da fare, operare e soffrire, soffrire e operare. Ricordate il celebre appello di Churchill agli inglesi? Lacrime e sangue.

Ma perché gli italiani dovrebbero rispondere a un appello incentrato sull’inevitabilità di lacrime e sangue? Come ho scritto tante volte (e basta, ripeto, guardarsi intorno), il Paese è sfiduciato, non considera attendibile la nostra classe politica, non rispetta le istituzioni, non è spinto da stimoli, impulsi positivi… e, anzi, chi pur li avverta, questi stimoli positivi, pensa esclusivamente, salvo rare posizioni eroiche, al proprio bene, ad un interesse personale, non certo a sacrificarsi per il bene della comunità.

La prima domanda che si impone, ammesso che la mia valutazione non sia eccessivamente severa, è questa: da dove, dunque, si dovrebbe cominciare – per dare una svolta, per cominciare la ricostruzione, per riguadagnare il consenso e il sostegno propositivo e attivo di un’intera Nazione con il morale a pezzi?

In altre situazioni storiche, si è visto che solo eventi straordinari (una guerra, una catastrofe naturale…) sono stati in grado di far girare pagina, di ottenere la partecipazione – indispensabile – di tutte le persone di buona volontà, partendo dal principio, nobile e insopprimibile, su cui si fonda anche il nostro Attimo: il principio della libertà. Gli esempi sono infiniti. I ricordi più semplici riportano al Giappone, devastato dalla guerra e dalle bombe atomiche, che pure, in pochi anni, seppe ritornare tra le prime potenze.

Possiamo ricordare il buon esempio della nostra Italia, ridotta a pezzi da vent’anni di fascismo e dal secondo conflitto mondiale. O anche la Spagna vogliosa di libertà e di modernizzazione, dopo la morte di Franco, una volta uscita dal lungo sonno del regime. E penso, altresì, ad eventi drammatici come il terremoto in Friuli o l’alluvione di Firenze: in tutti e due i casi, a fianco di ciò che poterono fare i governi dell’epoca, si assisté a un’emozionante presa di coscienza collettiva, al desiderio della gente, alla volontà di tutti, di dare una mano alla ricostruzione.

Certamente nessuno ha il desiderio, per arrivare alla svolta italiana, che sia una guerra o una catastrofe naturale a darci la sveglia. Allora: cosa fare? Penso che, se tra chi ci governa qualcuno condivide la mia analisi, a meno che taluno non si illuda di poter essere, per qualità particolari, il salvatore della patria derelitta, la strada da imboccare sia, al fondo, semplice. Bisogna, coraggiosamente e rapidamente, dare al Paese segnali concreti, visibili, educativi, esemplificativi, che esiste, esiste davvero questa benedetta e sempre annunciata e invocata, ma mai realizzata, volontà di cambiare. Tanto per parlare di riferimenti precisi, sostengo di cuore la campagna – tanto difficile quanto importante – iniziata dal ministro Brunetta contro i cosiddetti fannulloni tra coloro che svolgono un lavoro di interesse pubblico.

Mi permetto di suggerire altre possibilità di importanti segnali, che susciterebbero non solo attenzione e solidarietà, ma soprattutto farebbero capire a tutti che esiste, in concreto, la volontà di cambiare. Alla radice della sfiducia generale, in particolare di quella nutrita dai nostri giovani, c’è l’amara considerazione che in questo Paese ormai, per andare avanti, non è il merito a determinare il successo, ma la raccomandazione, il calcio nel sedere, la “pastetta”. I giovani si rifugiano nelle mura domestiche e, amaramente, subiscono anche l’onta, oltre al danno, di essere considerati “bamboccioni”; i giovani più ardimentosi e preparati, i più determinati e coraggiosi, se ne vanno all’estero. Bene (anzi, male).

Cosa si può fare? Ho scritto altre volte, e insisto: non si potrebbero assumere (sulla base di decisioni assunte da una giuria estranea alle tentazioni della politica e del potere) nelle principali aziende pubbliche, in primo luogo alla Rai, empia cattedrale delle pressioni dei partiti, un migliaio almeno di giovani, tra quelli che si siano distinti per le loro qualità di ingegno e per i risultati negli studi? Giovani, dico, forti del loro sapere e delle loro legittime ambizioni, non della spintarella del vescovo, del banchiere o del senatore di turno.

Altro marchio di infamia italiana. Le nostre aziende pubbliche sono gestite, per lo più, da presunti manager designati dai partiti, sulla base di relazioni, oscure affidabilità, complicità inconfessabili… I risultati si vedono: i servizi pubblici sono disastrosi, i bilanci economici fallimentari. L’orrido copione prevede che, dopo qualche anno, il manager venga sostituito da un altro manager privilegiato dal Palazzo: lascia aziende da rottamare e bilanci in perdita paurosa, e tuttavia è liquidato con fior di milioni! Bene (anzi, male).

Possiamo avere la speranza che uno di questi manager sia finalmente preso a calci nel didietro, una volta acclarata con evidenza la sua incapacità, e messo alla porta senza liquidazione (che i tribunali stabiliscano, poi, a chi dar fede, al suo contrattino miliardario o ai pessimi misfatti perpetrati sulla pelle della gente…). Un esempio, uno solo, dico! Punirne uno, per educarne cento.

Gli esempi sulle varie possibilità di segnali di svolta potrebbero essere numerosi. Credo che i nostri lettori, anche per esperienza personale, posseggano pienamente la capacità di immaginarne a centinaia.

Sarebbe augurabile intervenire anche su piccoli episodi, quelli che rappresentano la quotidiana via crucis degli italiani che hanno a che fare con esigenze di servizi pubblici, che pure in altri Paesi, sono perfettamente funzionanti. Oggi è sabato 14 giugno: qualche ora fa ho ricevuto, e pubblicato sul nostro sito www.lamescolanza.com, la protesta appassionata di un lettore che ha buttato la sua mattinata in coda all’ufficio postale di piazza Verbano, in Roma, senza neanche riuscire a svolgere la sua pratica. Una situazione scandalosa che va avanti da anni. Chiedo: è possibile che un ministro delle Poste, o l’amministratore delegato che si occupa di questi problemi, non riesca a trovare la soluzione per un pasticcio indecente come questo?

Mille giovani assunti nelle aziende italiane certo non risolverebbero terribili ed annosi problemi. Un manager preso a calci nel didietro non risolverebbe il problema del caos e del dissesto di ospedali, treni, aerei, poste, burocrazie varie. Un ufficio postale riportato alla normalità nel centro di Roma – e si potrebbe fare in ventiquattro ore – non risolverebbe i problemi di milioni di cittadini che ogni giorno si imbattono in angustie analoghe, in tanti altri simili uffici. E però il forte “segnale” arriverebbe alla gente, agli italiani che subiscono, al momento, senza speranze: i giovani soprattutto potrebbero cominciare a pensare che stia, davvero, cambiando qualcosa. E si comincerebbe, concretamente, a recuperare la fiducia verso chi ci governa, verso la sacralità irrinunciabile delle istituzioni.

Per sperare in una vera ricostruzione, questa fiducia è indispensabile.
Cesare Lanza 

Corrado Calabrò - T’amo di due amori

CORRADO CALABRO’


T’AMO DI DUE AMORIT’amo di due amori
eppure è a senso unico la frecciache oscuramente segna la mia via.
T’amo di due amori:
mi sono accorto che c’era un croceviasolo dopo averlo oltrepassato.
Vengo a te come l’acqua in pendio
ma ancora mi fai andare in extrasistolequando più credo di sentirti miae poi mi ritrovo in stand by.
T’amo di due amori
e amo dunque due donne, anche senon ho altra donna all’infuori di te.
T’amo di due amori – è vero –
e se ne sovrappongono le improntecome due rette possono passareper uno stesso punto se a tracciarleè la mano incosciente d’un dio.
Ma c’è nell’amore un doppio sensoper decifrare il quale manca il tempofinché il dolore non fornisce la chiave.
COPERTINA Cesare Lanza - Fausto Bertinotti? Così piccolo e già così colto

Lella Bertinotti, con ironia e lucidità, ripercorre gli anni della sua vita personale e pubblica con uno dei politici che ha segnato la storia d’Italia. Come riconquistare la fiducia della sinistra? “Per rispondere alla domanda, forse anche Marx si prenderebbe tempo”

Cesare Lanza

Gabriella Fagno, familiarmente conosciuta come Lella, incontra Fausto Bertinotti a 15 anni e a 19 lo sposa: è il 1965. La coppia ha un solo figlio, Duccio, nato nel 1970, e tre nipoti: Davide, Lisa e Anita. Funzionario statale, è attualmente in pensione.

Ha affiancato il marito in tutta la sua carriera, dagli anni difficili delle lotte sindacali in Cgil, a quelli non meno complessi della presidenza della Camera dei deputati, passando per oltre il decennio che l’ha visto segretario del Partito di rifondazione comunista.

Una vita personale e familiare, che è, per necessità, l’altra faccia della medaglia di una vita pubblica e politica a cui, il marito, si è dedicato da sempre.

La incontro quando ormai l’ondata che ha spazzato via la sinistra italiana dal governo ha cominciato a ritirarsi, lasciando spazio e tempo per una riflessione sugli errori commessi e sulle azioni da intraprendere per poter ripartire.

La prima volta che ha visto il suo futuro marito, che cosa ha pensato?

 

“Che tipo interessante. Che eloquio torrentizio. Che gentilezza d’animo. Così piccolo e già così colto.

Se mi fidanzo con quello non mi porterà mai a ballare. In compenso mi toccherà leggere i suoi difficilissimi libri e le sue amate poesie”.

È stato il suo primo amore?

 

“No”.

Che ricordi ha degli inizi, nel contesto non facile degli anni ’70?

 

“L’inizio degli anni ’70, i mitici ’68-’69, li abbiamo vissuti tra Novara e Torino. Ricordo i racconti delle lotte di fabbrica, ricordo le alzatacce per la distribuzione dei volantini ai cancelli, le assemblee sindacali e studentesche, le manifestazioni, il freddo della pianura padana, la mia partecipazione alle riunioni della scuola per i decreti delegati.

Ricordo la nascita di mio figlio Duccio e il suo trascinamento da una riunione all’altra sulle scale della Camera del lavoro”.

Prima come segretario della CGIL, poi a capo di Rifondazione Comunista: Fausto Bertinotti è diventato un personaggio pubblico. Come ha conciliato questo aspetto con la vostra vita privata?

 

“Semplicemente non ha conciliato. Ha inseguito i suoi sogni (anche perché erano i miei), coltivato le sue aspirazioni, i suoi interessi. Gli ho permesso di concentrarsi su se stesso. Ho accettato, di fatto, di essere una persona sola”.

Nell’educazione di vostro figlio Duccio ha pesato l’impegno politico di suo marito?

 

“Sì, molto. L’idea del mondo, giusto o sbagliato che sia, ha guidato ogni atto dell’educazione di nostro figlio. Ha rifiutato di essere un padre, ha scelto di essere un amico del figlio. Vuoto che ha cercato di compensare persino studiando per intere domeniche con lui”.

La moglie di suo figlio, Simona Olive, è figlia di un esponente di Alleanza Nazionale. Dunque un mondo politico notevolmente distante dal suo, che ha inciso, o ha rischiato di incidere sui vostri rapporti?

 

“Come dice la sua stessa domanda mia nuora è figlia di bravi genitori di alleanza Nazionale. Simona ha le sue idee politiche che ha costruito in autonomia dai genitori come dal marito. Con mia nuora ho un rapporto splendido”.

Dopo quaranta anni di vita insieme, quali sono gli interessi che vi uniscono e su cosa, invece, la pensate in maniera diametralmente opposta?

 

“Gli interessi che ci uniscono, come in tutte le coppie di lunga durata, riguardano ogni aspetto della vita quotidiana, dagli affetti, alle curiosità, alle passioni. Certo la politica occupa in essi un posto particolare.

Abbiamo opinioni e caratterialmente siamo molto diversi e spesso affiorano ragioni di contrasto su molte questioni, comprese quelle di ordine politico”.

Nel 2006 Fausto Bertinotti è il primo esponente della sinistra ad essere nominato Presidente della Camera dei deputati. Quale il suo primo ricordo di quell’evento?

 

“Una grande emozione provata nel momento della proclamazione, credo per il riconoscimento che così veniva tributato ad una storia collettiva e alle persone. Comunque ho sempre mantenuto un saggio e ironico distacco”.

Come, e se, è cambiata la sua vita come first lady?

 

“È inutile negare che l’elezione di mio marito a Presidente della Camera ha modificato, significativamente, le nostre abitudini. Si sono accentuati i rapporti formali e le relazioni ufficiali”.

Le ultime elezioni sono state uno tsunami per la sinistra. A chi, secondo lei, sono da ascrivere le maggiori responsabilità?

 

“In primo luogo alla sinistra stessa, sia perché non è stata capace di influenzare le scelte del governo a favore del suo popolo, sia perché quando c’è riuscita non è stata capace di comunicarle.
Ha molto pesato anche il voto utile che ha distorto molte intenzioni di voto. Infine l’alleanza della Sinistra Arcobaleno non si è rivelata una scelta felice”.

Una volta definito il risultato elettorale, quale è stata la sua prima reazione? E quale quella di suo marito? All’interno delle mura domestiche, voglio dire…

 

“Con assoluta serenità; del resto, la nostra lunga vita politica è stata contrassegnata da sconfitte come da vittorie.

Nel 1972 fummo partecipi della cancellazione, in un solo mattino, di un partito come il PSIUP, che annoverava tra i suoi dirigenti leader tra i più prestigiosi dell’intera sinistra italiana, e a Torino abbiamo vissuto nel 1980 la drammatica sconfitta dei 35 giorni alla FIAT. L’importante è non perdere mai la voglia di ricominciare”.

Inutile nascondere che, spesso, siete stati oggetto di attenzione, per certe frequentazioni mondane. Ritiene che questo abbia influito sulle scelte dell’elettorato?

 

“La nostra vita sociale e con essa le amicizie, le frequentazioni, è la stessa degli anni passati, quando il PRC riscuoteva importanti successi elettorali.

La fama di mondanità c’è stata apposta assai arbitrariamente: le maggiori frequentazioni hanno riguardato teatri, mostre d’arte, appuntamenti culturali.

Non abbiamo certo frequentato più di altri i salotti politici romani, dove tuttavia circolano anche idee interessanti; basti pensare che nei 23 anni in cui abbiamo abitato a Roma nel salotto considerato il più importante ci siamo stati due volte. L’unica differenza è che degli altri leader della sinistra politica si è preferito tacere. Abbiamo comunque trascorso un tempo incommensurabilmente superiore a frequentare fabbriche, circoli e sezioni di partito e sindacato”.

Il libro “La Casta” di Stella e Rizzo rivela un’immagine della politica davvero poco edificante. Quanto corrisponde a realtà?

 

“C’è, indubbiamente, un lato della denuncia a cui corrisponde una realtà delle Istituzioni che non da ora, ma nel corso di lunghi decenni, si è venuta gravemente degradando.

Ci sono tre aspetti, però, che meritano di essere indagati. Il primo porta ad interrogarsi sulle ragioni su cui sono state misconosciute le azioni intraprese in questi ultimi anni per invertire la tendenza.

La seconda è chiedersi il perché si sia voluto mettere l’accento solo sulle distorsioni di certi ambienti e non di altri. La terza perché proprio ora”.

Cosa è necessario fare per riconquistare la fiducia dell’elettorato di sinistra? Da dove ripartire?

 

“Ci vorrebbe Marx per rispondere alla domanda, ma forse anche lui prenderebbe tempo”.

Suo marito ha dichiarato di non voler ricoprire più incarichi dirigenziali, in ambito politico, per lasciare spazio ai giovani. Pensa sia una scelta definitiva? La condivide?

 

“La condivido totalmente. Non ci sono uomini per tutte le stagioni. La responsabilità della direzione e della formazione dei gruppi dirigenti è tra le attività più gravose.

Ora è venuto il tempo della ricerca e dello studio. Ci sono molti modi di coltivare la passione politica, che è una scelta di vita”.

Destra e Sinistra, sono ancora ideologie dietro le quali schierarsi o le esigenze reali della gente, come sicurezza, lavoro, ecc., sono, ormai, non “politicamente” appartenenti ad alcun schieramento?

 

“Il conflitto tra Destra e Sinistra è la ragione prima dell’esistenza della politica nel mondo moderno e contemporaneo. L’esistenza della Sinistra discende direttamente dalle condizioni materiali di lavoro e di vita anche quando molta parte della politica si ostina a non vederle”.

Quale è la sua opinione sulle donne presenti nell’attuale Governo?

 

“Sarà meglio valutarne l’opera. Certo qualche uscita come quella contro gli omosessuali ci poteva essere risparmiata. Di loro conosco personalmente solo Giorgia Meloni che ho incontrato quando era vice Presidente della Camera. Mi ha fatto sempre una buona impressione e di lei conservo il ricordo di una donna impegnata e capace”.

Come valuta l’esistenza e l’azione del governo ombra?

 

“Un’ombra”.

Ha mai pensato, seriamente, di impegnarsi in politica in maniera attiva?

 

“Mai. Non ho il dono della mediazione”.

Cosa si augura per il nostro Paese?

 

“La ricostruzione della sinistra vicina ai problemi della gente e la speranza, specie per le nuove generazioni”.

FËDOR MICHAJLOVIC?DOSTOEVSKIJCredo che i sogni nascano non dalla ragione, ma dal desiderio,non dalla testa, ma dal cuore, anche se la mia ragione in sognosi è esibita qualche volta in ingegnosi voli non da poco.(Da “Il sogno di un uomo ridicolo”, 1877)
 ALBERTO MORAVIAC’è nei sogni, specialmente in quelli generosi, una qualità

impulsiva e compromettente che spesso travolge anche coloro

che vorrebbero mantenerli confinati nel limbo innocuo

della più inerte fantasia.

(Da “L’avaro, ne “I racconti”, 1937)

 

ATTUALITÁ Antonio Eustor - Umberto Paolucci: “Bill Gates, un uomo inconsueto, fuori dal comune”

L’Italia necessita di un piano digitale, che possa trasformarsi in uno strumento di supporto della vita, dell’economia, dell’università, della formazione, del divertimento

Antonio Eustor*

Umberto Paolucci, nasce a Ravenna il 28 Novembre 1944. Dopo aver frequentato il liceo scientifico a Rimini, si laurea, a Bologna, in ingegneria elettrotecnica. Ha sempre operato nel mondo dell’Information Technology, prima con la Hewlett Packard e successivamente, fino alla posizione di direttore generale, con la General automation di Anaheim (California).

Nel 1985 fonda la filiale italiana di Microsoft, come amministratore delegato e direttore generale. Dopo diversi anni di attività e di responsabilità internazionali, durante i quali ha conservato la funzione di presidente della filiale italiana, che detiene tuttora, è divenuto vice presidente di Microsoft Corporation nel 1998 e, nel febbraio 2003, senior chairman di Microsoft Europa, Medio oriente e Africa.

Dal 29 giugno 2006 è Presidente della American chamber of commerce in Italia. Dello stesso anni è la nomina a presidente di Enit – Agenzia nazionale per il turismo.

Sono gli anni ’60. Terminato il liceo scientifico, lei decide di frequentare la facoltà d’ingegneria elettrotecnica. Scelta ragionata o frutto del caso?

“È stata una scelta ragionata. Ho preso in esame diverse possibilità, ho fatto anche una serie di test attitudinali. Lì all’università di Bologna c’era un centro di orientamento, che per l’epoca era una cosa molto innovativa. Alla fine, mi hanno detto che avevo attitudine per tutte e tre le facoltà che avevo ipotizzato: ingegneria, medicina, economia e commercio. Allora ho pensato di scegliere ingegneria, la più difficile, perché ho creduto potesse darmi frutti maggiori. Tutto sommato era anche quella che mi piaceva meno, ma questo rientra nel concetto di difficoltà. Avevo una certa predisposizione per la matematica, per la logica.

All’inizio avevo scelto di fare ingegneria mineraria, perché non sapevo disegnare e ad ingegneria mineraria c’era solo un esame di disegno. Poi, però, inserirono nel corso di studi un secondo esame di disegno e a quel punto rividi le mie scelte e mi indirizzai ad ingegneria elettrotecnica, che era anche un corso meno affollato e si poteva seguire meglio”.

Da quel momento, il suo percorso professionale segue la strada dell’avanguardia, precorrendo di almeno un ventennio attività che sarebbero diventate contemporanee. Come è stato possibile?

“Direi che è stata una conseguenza. Come ingegnere non avevo molta passione e propensione per la fabbrica, le macchine, la meccanica, i congegni. Ero e sono sempre stato un ingegnere un po’ più sull’astratto, se posso dire. Quindi, quando mi sono accorto che esisteva il software – me ne sono accorto lavorando alla tesi di laurea – ed ho avuto la fortuna di essere assunto da una società che si occupava di software, questo mi ha dato l’opportunità di fare l’ingegnere, e allo stesso tempo di rimanere nell’ambito della logica, dell’astrazione, dell’eleganza del ragionamento. Perché, all’inizio, scrivevo software di sistema e quindi mi occupavo di ottimizzare programmi, routine, subroutine… ero molto tecnico in quegli anni.

Era un po’ come una partita a scacchi o a bridge, che mi appassionava, ci pensavo sempre, mi piaceva. Era un ambiente che mi stimolava. Ho avuto la fortuna di essere assunto in una società, la Hewlett Packard, che mi ha dato, sin da subito, la possibilità di lavorare sul software. Il pomeriggio che sono stato assunto, ricordo, dovevo fare un colloquio alla Fiat a Torino, ma non mi sono presentato perché mi avevano già assunto a Milano. Ho risparmiato un viaggio. Allora era diverso, nelle auto non c’erano i software come ci sono oggi”.

Nel 1985 fonda Microsoft Italia. Come nasce questo incontro?

“Mi hanno telefonato. Ero responsabile di un’azienda che aveva sviluppato dei sistemi molto innovativi dal punto di vista del software. Aveva un sistema operativo multitasking, che poteva cioè eseguire diversi programmi contemporaneamente, era la più avanzata di tutte, anche se era abbastanza piccola. Mi hanno chiamato per fare un colloquio. Una commissione composta da quelli che sarebbero diventati poi i miei colleghi – delle filiali di Microsoft che esistevano allora in Europa, Francia, Germania, Inghilterra e il responsabile di Microsoft International -, mi convocò al Gallia, per una serie di colloqui.

Dopo quattro incontri, insieme a me avevano visto tante persone, mi proposero l’assunzione, ma gli risposi di no, perché si trattava di partire da zero e io a zero non ero. Gli avevo dato così la possibilità di assumere qualcun altro… Ma non conclusero con nessuno e dopo un mese e mezzo tornarono da me. Alla fine accettai di lavorare con la Microsoft, rinunziando a quasi metà del mio stipendio, ma scommettendo su una società che non esisteva ancora in Italia e che, anche nel mondo, non aveva certo il peso che ha oggi”.

Avrebbe, all’epoca, ipotizzato una diffusione così capillare del pc?

“No, naturalmente, no. Quando sono stato assunto, una delle domande che mi avevano fatto – e la ricordo perché non avevo saputo rispondere – era se conoscessi il numero di pc che circolavano all’epoca in Italia. Io, ovviamente, non lo sapevo. Erano centomila. Non è che lo potessi immaginare. Una decina di anni dopo, Bill Gates – era stato poi lui ad assumermi ed annunciarlo all’Hotel Gallia – mi disse: “Siamo arrivati ad un punto inimmaginabile. Quando ti ho assunto, ero preoccupatissimo, perché mi chiedevo quanti anni ci sarebbero voluti per consentirti di arrivare laddove eri prima di entrare in Microsoft, in termini non solo economici, ma anche di responsabilità, di prestigio”.

Una preoccupazione inconsueta, per una persona di potere come Gates…

“Ma Bill Gates è un uomo inconsueto. Fuori dal comune, unico”.

Cosa ricorda della prima volta che vi siete visti?

“Ciò che mi impressionò è che lui conosceva la mia azienda, le cose che facevamo meglio di me. Mi colpì la profondità tecnica che aveva di quelle cose: io, all’epoca, ero ancora abbastanza tecnico, anche se ero il direttore generale della società, ripeto, lui la conosceva meglio di me. E se tanto mi da tanto, pensai… Era una persona affascinante, con quella sua frangettina, sembrava un bambino”.

Dopo circa 25 anni di conoscenza, quali ritiene siano i punti di forza e di debolezza di quest’uomo?

“Gates ha sempre saputo guardare molto avanti. Intuire gli scenari in cui l’utilizzo del software avrebbe potuto cambiare la vita della gente. All’inizio diceva “metteremo un software in ogni casa, su ogni scrivania”, era il nostro primo motto. Poi “il software sulla punta delle dita”, poi ancora “il software in ogni momento, su ogni dispositivo”. Oggi invece parliamo di “realizzare il potenziale”.

Lui ha sempre guardato in prospettiva, andando oltre le difficoltà che c’erano, ha saputo scegliere, propriamente, persone che per un lungo arco di tempo hanno lavorato con lui ai massimi livelli, ha dato stabilità alla crescita dell’azienda in termini di valori, di cose che contano, di orientamento al lungo periodo, di rispetto, di capacità di mettersi in discussione, per fare meglio e di più. Ha creato una cultura, che gli appartiene, che è quella di superare se stessi, di andare avanti, senza fermarsi a compiacersi di quello che si è raggiunto. Cultura che applicherà, ora, anche all’attività della sua fondazione”.

A tal proposito. Gates lascerà definitivamente la guida di Microsoft, per guidare, insieme alla moglie Melinda French, la sua fondazione di aiuti umanitari cui ha già conferito gran parte del suo patrimonio. Come valuta questa scelta?

“Più che valutarla, la ammiro, perché credo che dalla fondazione potrà avere più di quanto abbia avuto fino ad oggi. Quello che ha avuto, non è certo da misurare in termini di ricchezza, di denaro, quanto più come impatto che la sua visione del mondo, attivata dal software, ha dato, il cambiamento che ha portato nell’economia, nel modo di fare, di esistere, di lavorare… è stato realizzato grazie a persone come lui.

Gates aveva questa idea, che il software dovesse costare poco, essere prodotto in larghissima scala, ad appannaggio di molti… Una visione che ha cambiato il mondo, e adesso lui vuole applicare, non solo la sua ricchezza, ma anche il suo approccio, il suo metodo, la sua visione per affrontare le sfide legate alla salute, alla sanità, soprattutto per quelle malattie, come la malaria, che affliggono maggiormente i paesi deboli.

Per cambiare i parametri della ricerca, orientando gli investimenti più in termini di vite umane salvate, che di profitti raggiunti, come normalmente è nell’industria farmaceutica. Sta cercando di cambiare le regole del gioco anche qui, a favore di quelli che non erano al tavolo. Con il software non erano al tavolo tutti quelli che un pc non l’avevano. Parliamo di oltre un miliardo di persone. E lui le ha fatte sedere a quel tavolo. E con Microsoft abbiamo un progetto a lungo termine, per raggiungere il prossimo miliardo. Quindi allarghiamo il tavolo, lo allunghiamo. Non da soli, ovviamente. Insieme ad altri governi, altre aziende, per cercare di aiutare il maggior numero di persone, a vivere meglio, non permettendo che muoiano appena nate”.

La rivoluzione digitale ha cambiato la nostra vita. È necessario, per lei, introdurre nuove regole per tutelarla?

“Domanda non facile… La prima regola è l’educazione, il rispetto a partire dai bambini, fino alle persone adulte. Questo, nei paesi più attenti, ha costituito una linea di progresso enorme. Poi visto che come ogni mezzo di grandissima diffusione, anche Internet ha un immenso potenziale di veicolazione di reati, un minimo di regole devono essere poste. Certamente è difficile definire un luogo nel quale un eventuale reato sia compiuto.

Dunque ci sono delle sfide nuove che la tecnologia pone, ma ci sono anche gli strumenti che sempre la tecnologia offre. Un po’ di regole sono necessarie.

Alla fine il bilancio di ciascuna persona deve essere positivo, in termini di problemi risolti e di come la vita cambi in meglio, rispetto ai problemi che la tecnologia può aver presentato. Non solo regole, ma anche come si evolve la tecnologia in termini di scenari di utilizzo, di quello che si può fare con un telefonino che pesa 80 grammi o con uno schermo più grande… Bisogna sempre ottimizzare la qualità dell’esperienza, in ogni tipo di situazione”.

La tecnologia ha modificato il mondo del lavoro. Quale il vantaggio competitivo per un’azienda che investe in nuove tecnologie?

“Purtroppo ci sono luoghi dove i computer sono pochi, non aggiornati, usati al massimo come macchine da scrivere. Luoghi dove il fax ancora impera. E questi luoghi si chiamano piccole imprese, pubblica amministrazione, scuola”.

L’Italia risulta indietro rispetto ad altri paesi europei. Quali i settori in cui intervenire?

“Le informazioni viaggiano, le reti globali permettono ad ogni azienda, ad ogni realtà, ad ogni persona, di avere, a costo zero, un movimento di informazioni che diventano valore istantaneo su base mondiale. Quindi è innegabile, per tornare alla domanda precedente, che il vantaggio competitivo è talmente alto, enorme, che chi non gioca con queste regole, prima o poi non gioca più. Se un’azienda porta ancora i libri in tribunale, se una scuola genera ragazzi che non entrano facilmente nel mondo del lavoro, che soffrono anche in un mercato interno, ancor più in quello internazionale, significa che non è più sufficiente avere un’alfabetizzazione di base di informatica, ma è necessario per ogni impresa, alla fine, per ogni persona, formarsi una strategia sul digitale, un valore aggiunto, una situazione dalla quale, sul digitale, questa persona, questa impresa o questo paese ci guadagna.

Se invece questo non c’è e passivamente si aspettano gli eventi, nel digitale ci si perde; allora si va indietro, come è andato indietro il nostro Paese. Non è certamente sufficiente mettere dei computer, però è un primo passo necessario, perché senza non c’è possibilità di innovare, di crescere. In Italia, ce ne sono meno della metà di quelli che ci dovrebbero essere: questa è una delle ragioni del nostro declino, in termini di produttività. Invece di andare avanti, siamo andati indietro. Ora lo sappiamo e dobbiamo passare al fare”.

Se dipendesse da lei, la prima cosa da fare sarebbe?

“Avere un piano digitale per l’Italia: che significa avere una scuola digitale, un’impresa digitale, una pubblica amministrazione digitale. Che vuol dire dare al digitale la forza e lo spazio che ha, non come fine ultimo, ma come strumento di supporto della vita, dell’economia, dell’università, della formazione, del divertimento, con una connotazione ed una caratteristica fondamentale, sulla quale costruire un castello di competitività, di relazioni commerciali.
Quando questo non c’è, a questa partita non si partecipa, il gioco va avanti lo stesso, perché non è obbligatorio su nessuno scacchiere avere dentro l’Italia, e i risultati sono quelli che abbiamo di fronte: scarsi investimenti, crescita del PIL sempre ultima rispetto a quella di altri paesi industrializzati e succede quello che succede, come il dibattito sui fannulloni nella pubblica amministrazione.

Credo che in termini di qualità della vita, del lavoro, di quanto una persona è soddisfatta di quello che fa, di come spende le ore della sua giornata, il software può cambiare le regole del gioco, può davvero cambiarle in meglio. L’importante è superare questa barriera di vetro e far si che gli esempi virtuosi, positivi siano noti e che il software si possa propagare in ogni impresa, in ogni realtà e cambiarla profondamente. Questa trasformazione deve avvenire prima possibile. Ogni volta che c’è un governo nuovo è un’occasione per ricordarlo”.

L’avvento di Internet è stata rivoluzione inaspettata. Lei lo aveva immaginato e, ragionando per assurdo, quali evoluzioni prevede?

“Credo che quello che è successo fino ad ora, da un certo punto in avanti sia stato abbastanza prevedibile. Prima che cominciasse il tutto, la mia azienda aveva stimato che Internet si sarebbe diffuso con una velocità minore. Avevamo ipotizzato di creare noi una rete, che si chiamava Marvel, ma non è servita. E da quel punto in avanti, quando si è intuito la velocità di propagazione dei server, delle reti, e quindi dove si poteva arrivare, le cose si sono evolute bene. Gli sviluppi sono, intanto, quelli di poter coinvolgere un numero maggiore di persone – in quantità, ma anche in qualità – che devono essere toccate dalla rete con un servizio ragionevole e la qualità dell’esperienza.

Quindi non deve essere un’esperienza appagante solo quella che abbiamo quando siamo alla nostra scrivania, con la nostra larghezza di banda, ma deve coinvolgere tutti gli scenari in cui ci muoviamo, attraverso lo sviluppo di tante applicazioni, di diverse soluzioni che ci possono cambiare la vita e il lavoro, ottimizzando sempre la qualità dell’esperienza, sia che siamo in mobilità, sia che ci troviamo a casa. Un affinamento di Internet nella sua capacità di dare la migliore qualità di esperienza in ogni scenario è quello che si sta cercando di fare, in chiave evolutiva, quando parliamo di soluzioni, applicazioni, infrastrutture.

Quando parliamo, invece, di partecipazione delle persone, che si muovono non più come chi guarda una vetrina, ma come chi interagisce, crea notizie, allora è chiaro che la tendenza che si è manifestata continuerà a crescere.

In parallelo, si sono poi evoluti i vari modelli di business, che prima si basavano su un Internet passivo, poi più attivo. Adesso c’è un Internet nel quale le persone si riconoscono, si incontrano, si raccolgono. È una realtà molto reticolare, dove i nodi della rete sono le persone, non i computer”.

Dal 2006 ricopre anche la carica di Presidente Enit, l’agenzia nazionale del turismo. Ambito, quest’ultimo, in cui il nostro Paese sembra aver perso parte della sua attrattiva. Quali sono le priorità da affrontare?

“Non è che l’Italia abbia perso attrattiva, è che l’ha guadagnata meno velocemente di altri paesi, mettendo meno a frutto quegli elementi di modernizzazione che sono stati, appunto, usati meglio altrove.

La modernizzazione non coinvolge solo l’ambito della comunicazione – presenza in rete, poter prenotare, usare portali e quant’altro.

Modernizzazione vuol dire adeguamento delle imprese che fanno parte dell’offerta, relativamente all’ospitalità, al trasporto, vuol dire utilizzo di tecniche di marketing più raffinate quando si promuove il Paese, vuol dire avere l’idea di una strategia complessiva, perché il turismo, come qualsiasi altro settore, è fatto come una catena di elementi che si devono collegare per produrre un risultato finale di valore.

Una persona si reca in un posto utilizzando un mezzo di trasporto, ci dorme grazie ad una struttura ricettiva, va nei ristoranti lì intorno, compie visite ed escursioni, se il suo è un viaggio di lavoro utilizza un centro congressi…

Creare una catena di valore che, però, avesse da un lato tutta la forza che l’Italia può avere, con il suo stile di vita, l’enogastronomia, la cultura, la varietà di tradizioni, e dall’altro, fosse capace di far emergere con altrettanta forza un brand unico che è, appunto, quello dell’Italia, come un insieme di tante cose belle.

Ecco, questa forza non l’abbiamo avuta abbastanza e, quindi, abbiamo perso un po’ terreno. Ma direi che abbiamo perso meno terreno nel turismo, rispetto ad altri settori, che sono spariti completamente.

Certamente il turismo ha un grandissimo potenziale di crescita. Lo scorso anno, il turismo internazionale è cresciuto del 2,3%. Se fosse cresciuto il PIL del 2,3%, saremmo tutti contenti”.

Lo scandalo dei rifiuti napoletani ha inciso, negativamente, sull’immagine dell’Italia?

“Certamente non aiuta. Se noi avessimo dovuta pagarla una campagna pubblicitaria così, avremmo speso centinaia di migliaia di euro e di sicuro sarebbe stata una campagna efficace… per farci del male! Però credo che l’opportunità di utilizzare una situazione, seppure spiacevole, di grande notorietà esista, ma, ovviamente solo se la situazione spiacevole si risolve. Finché non si è risolta, non ha senso andare lì fare degli investimenti e del marketing. Ora bisogna concentrarsi sul risolverla.

Quando si è risolta, però, la buona notizia è che la “novella” si può far viaggiare facilmente con la comunicazione, e si può usare l’effetto leva della disgrazia per trasformarla in una opportunità. Evidentemente, queste cose vanno fatte sapendole fare ed in primis, comunque, va risolto il problema. Che poi, bisogna dirlo, è circoscritto, riguarda determinate zone e non altre. Da lontano sembra che tutta l’Italia sia sommersa dai rifiuti, se uno la guarda dall’altra parte del pianeta, è come un binocolo rovesciato. Man mano che ci si avvicina, ci si accorge che così non è: che a Capri o nel centro di Napoli la situazione è normale, mentre in alcuni luoghi della provincia bisogna turarsi il naso”.

Il portale Italia.it non ha, purtroppo, portato i risultati sperati. Senza voler entrare nella polemica, secondo lei, quali sono stati gli errori commessi?

“Nonostante il mio ruolo in Microsoft, ed anche di servizio nei confronti del Paese, certamente non mi pongo nella condizione di dare patenti o meno a coloro che si sono occupati del portale. Più che sugli errori, preferirei concentrarmi su quello che è da fare da adesso in avanti. Certamente l’impostazione che era stata data, diversi anni fa, era corretta da un punto di vista tecnologico. Gli anni sono passati, ed è giusto darne un’altra, secondo forme più partecipative. Ci sono novità tecnologiche che è doveroso cogliere, come pure fare una sintesi nella definizione di quelli che sono i punti di forza del nostro Paese che devono emergere chiaramente, nella pluralità di elementi che comunicano (realtà istituzionali e private) e che hanno da dire qualcosa in campo turistico.

È necessario, dunque, che siano presenti tutte le voci possibili e, allo stesso tempo, che questo servizio in rete sia capace di essere esplorato, navigato, utilizzato come strumento agile, flessibile, partecipativo, che permetta a chiunque di arrivare dove vuole, di prenotare quello che serve, di condividere la sua esperienza con gli altri, e che permetta di trasformare in decisione di acquisto, e quindi di viaggio, quella che è una delle aspirazioni più frequenti, che è quella di venire in Italia. La differenza tra coloro che entrano in rete, pensando di andare in un Paese e quelli che poi ci vanno, nel caso dell’Italia è la più svantaggiosa possibile. Facciamo peggio di tutti. Abbiamo il numero più alto di non trasformazione del desiderio (di venire in Italia) in realtà. C’è un’incapacità di trasformare l’immagine che l’Italia ha in una scelta di viaggio e quindi in presenze nel nostro Paese. Questo è un frutto, ragionevolmente basso, che va raccolto da chi si occuperà del portale”.

Se ne occuperà l’Enit?

“No, non è stato mai affidato all’Enit”.

Se dipendesse dall’Enit?

“Se avessimo dovuto occuparci noi del portale, avremmo agito così come ho detto”.

Lei è considerato uno dei manager di maggior successo a livello internazionale. Cosa prova e su cosa i manager nostrani dovrebbero puntare per acquisire quel tratto internazionale, che, spesso, manca loro.

“Io non ho la percezione di essere così. Quello che sento è che tutti i giorni faccio il mio lavoro, che è un lavoro variegato, un impegno costante su diversi fronti, la possibilità di dare anche un servizio al mio Paese, perché la mia azienda me lo concede. Credo che ogni persona, anche al di là di coloro che hanno ruoli manageriali, debba cercare di capire quello che vuol fare, quello che sa fare, quali sono i suoi pregi, i suoi difetti, guardarsi attorno, mettersi in discussione, fare esperienze da cui imparare, avere sempre degli obiettivi sfidanti, motivanti.

Non ho nel mio vissuto quotidiano la sensazione di essere una persona diversa dalle altre, da quelle che lavorano con me o di aver avuto un successo particolare. Non mi sento arrivato da nessuna parte. Se così fosse, sarebbe forse anche un brutto segno. Vorrebbe dire che è ora di scendere. Credo che anche l’umiltà sia un ingrediente fondamentale, per provare a fare qualcosa che possa avere senso. Un insegnamento che i giovani devono ricordare: avere obiettivi ambiziosi, importanti, ma fare tutta la fila, le tappe necessarie per arrivare. Nessuno regala niente. Ho la fortuna di lavorare con molti giovani, dai quali cerco sempre di imparare e ai quali provo a passare quello che so”.

Il mondo della politica l’affascina?

“No, francamente no. Mi piace poter dare un servizio al mio Paese, ma alcune logiche del mondo della politica non mi appassionano proprio. Mi va bene avere un ruolo aziendale, come ho fatto fino ad ora, pro tempore, non è per me un mestiere, non mi interessa occupare una poltrona. Mi piace, ripeto, offrire un contributo al mio Paese, non solo attraverso questo ruolo all’Enit, ma anche comunicando, nelle molteplici occasioni che ho, quella che è l’esperienza di Microsoft ed anche la mia esperienza, quello che realizziamo con i nostri partner (25.000 aziende) e raccontare, attraverso di loro, quello che si può fare con i software, con le persone, mettendo le persone al centro, facendole vivere bene, lavorare bene.

Condividere gli aspetti positivi, che sono patrimonio della mia azienda, del mondo al quale appartengo, anche con mondi molto diversi e molto lontani dal mio come, ad esempio, la pubblica amministrazione che ha sofferto e soffre molto, accusata di essere una palla al piede; ma quando si ha una palla al piede, spesso non è colpa della palla, ma del piede. È inutile fare delle polemiche senza avere prospettato delle soluzioni. Nella mia esperienza di gestione di un ente pubblico, ho sperimentato che lavorando con le persone, motivandole, spiegando che lavorare in un certo modo non ti consente di aumentare lo stipendio, ma di migliorare la qualità del lavoro stesso, ho avuto risultati notevoli. Sono contento di questa esperienza che ho fatto”.

La fede che posto occupa nella sua vita?

“Certamente senza sarebbe un’altra vita. Senza, finisce tutto… Mi ricordo, come se fossero ieri, gli anni ottanta, mi sembrano proprio ieri. E se penso alla distanza che c’è fra gli anni ottanta e adesso, e se prospetto la stessa distanza in avanti, immagino che probabilmente non ci sarò più… e quindi, la fede ci vuole”.

Sposato, con due figli, come riesce a conciliare tutti i suoi impegni con la vita privata?

“Non vedo molta differenza tra la mia vita privata e quella lavorativa. Anche quando svolgo attività diverse, come quelle legate al turismo, mi sembra tutto parte dello stesso filo. Sono sempre raggiungibile, i miei numeri li hanno tutti, mi possono sempre chiamare. Non ho separazioni nette. Coltivo degli hobby, che poi si travasano anche nel lavoro. C’è un’osmosi perfetta, c’è abbastanza armonia nelle cose che faccio. I miei figlio oggi sono grandi e non hanno più bisogno di me. Se mai, è mia nipote che vedo poco”.

Cosa consiglierebbe ad un ragazzo che si trovasse di fronte a scelte importanti per il suo futuro?

“I ragazzi non li vogliono i consigli. Certamente è importante fare qualcosa che diverta, e che possa estrarre il meglio da se stessi. Il divertimento è importante, altrimenti nulla è sostenibile. Nel mio lavoro, anche nella fatica, mi sono sempre divertito. Il che non vuol dire stare lì a ridere, ma essere appagati di quello che si fa. Ho avuto la fortuna di avere un padre che ha lavorato, come pediatra, fino ad ottantasei anni e poi ha continuato a leggere, a studiare, ed è vissuto fino a novantaquattro anni: un bell’esempio, di una persona che è rimasta sempre, intellettualmente, viva. Mi augurerei di potere fare lo stesso”.

*Dice di sé.
Antonio Eustor. Un americano a Roma: ha studiato e a lungo vissuto a New York, con preziose esperienze manageriali. Poi, in Italia, è da trent’anni il braccio destro di Cesare Lanza. In Rai per sette anni consulente di “Domenica In” e di altri programmi. Dal 2005, a Canale 5, segue in particolare, come uno degli autori, il programma di Paolo Bonolis, “Il senso della vita”.

GEORGE GORDON BYRONE nel loro svolgersi i sogni hanno respiro, e lacrime e tormenti esfiorano la gioia; lasciano un peso sui nostri pensieri da svegli,tolgono un peso dalle nostre fatiche da svegli,dividono il nostro essere; diventano parte di noi stessi del tempo,

e sembrano gli araldi dell’eternità.

(Da “Il Sogno”, 1817)

Vincenzo Zeno Zencovich - Sex and the contract: dal mercimonio al mercato

Un approccio metodologicamente corretto dovrebbe partire dalle cifre, perché sono alla base di un fenomeno economico e sociale sotto gli occhi di tutti: marciapiedi notturni, edicole, Internet, programmi televisivi, tabelloni pubblicitari

Vincenzo Zeno-Zencovich*

Viviamo in una società nella quale ad ogni piè sospinto vi è una sollecitazione degli stimoli sessuali, sia esplicitamente che in maniera più o meno indiretta. Vi è un “mercato del sesso”, come vi è una “industria del sesso”, anche se il termine “industria” va preso cum grano salis. Se ne occupano economisti, sociologi, mass-mediologi, filosofi, moralisti. Il fenomeno sembra interessare il giurista prevalentemente nella sua dimensione criminale e criminologica: la tratta degli esseri umani, la malavita organizzata, l’immigrazione clandestina.

Lo studioso del diritto privato sembra esservi indifferente. In genere, quando tratta di negozi “contrari al buon costume” accoglie come se fosse una ciambella di salvataggio la tesi secondo cui essi non comprendono solo quelli che offendono il “buon costume sessuale” e rivolge la sua attenzione a questi altri. In tal modo evita di dover trattare un tema pruriginoso, quasi che a parlare di sesso ci si sporchi la penna. Eppure, quando si scrive di discriminazione e di molestie sul luogo di lavoro, di violazione dell’obbligo di fedeltà coniugale, di danno alla vita di relazione, di che cosa si tratta, se non, direttamente o indirettamente, di questioni sessuali? Il comune senso del pudore non dovrebbe dunque costituire un freno inibitorio, e d’altronde honni soit qui mal y pense.

Non ci si nasconde, ovviamente, tutte le problematiche che sono sottese al “mercato del sesso”: in particolare lo stretto legame con lo sfruttamento di persone culturalmente e psicologicamente debilitate, a partire da minori, adolescenti e giovanissime; la circostanza che esso sia controllato, in parte significativa, dalla criminalità, o contiguo a mercati che lo sono (come quello della droga); l’approccio del c.d. femminismo giuridico che vede in gran parte delle prestazioni e dei prodotti sessuali manifestazioni tangibili di una violenza sicuramente psicologica e sociale, e spesso anche fisica, degli uomini nei confronti delle donne.

Ma pur avendo tutti questi caveat ben chiari rimane l’interrogativo: si tratta di fenomeni esclusivamente criminali cui il diritto privato è – e deve essere – del tutto estraneo? Oppure vi è spazio per una rimeditazione che, pur consapevole dello slippery slope sul quale potrebbe venirsi a trovare, tuttavia va affrontata? Ma soprattutto, quali sono questi contratti contrari al buon costume? È possibile cercare di fornire qualche elemento per individuarli in prevenzione, oppure si è costretti a rimettersi ad una valutazione ex post e fortemente soggettiva affidata al giudice?

Un approccio metodologicamente corretto dovrebbe partire dalle cifre, perché sono alla base di un fenomeno economico e sociale sotto gli occhi – è il caso di dire – di tutti: i marciapiedi notturni, le edicole, le pagine di Internet, i programmi televisivi, i tabelloni pubblicitari.

Quando però si vanno a cercare le cifre si scopre che la pruriginosità dell’argomento non allontana solo il giurista. La dimensione scabrosa e para-criminale della “industria del sesso” esclude, quanto meno nel nostro paese, dalle rilevazioni statistiche il settore, i cui operatori, individuali o imprenditoriali, preferiscono mimetizzarsi all’interno di categorie ben più ampie e “rispettabili”. I dati di cui si dispone sono, dunque, assai frammentari e tuttavia significativi, giacché è ragionevole ritenere che si tratti di stime per difetto. Se si applicano i criteri offerti dalla copiosa letteratura di teoria economica sul punto e volendo considerare il “mercato del sesso” come un qualsiasi altro bisognerebbe, invece, avere le cifre delle imprese, degli addetti, dei clienti, del fatturato, della tipologia di beni e servizi offerti, del c.d. indotto sia a monte che a valle, del numero di operazioni economiche, della spesa media pro-capite.

E prima ancora di raccogliere dati ed applicare indicatori occorre individuare “il mercato rilevante”; vedere se e in che misura il “mercato del sesso” vada frazionato in sotto-mercati; quale sia il livello di sostituibilità fra beni e servizi, se e quali siano le barriere all’entrata, la dinamica dei prezzi, l’influenza – certamente non trascurabile – della regolazione. È bene, infatti, subito chiarire che individuare nella prostituzione l’essenza del “mercato del sesso” appare riduttivo, giacché esso pare comprendere, almeno a prima vista, una molteplicità di altre attività di sicuro rilievo economico.

Molto schematicamente, ed in via di prima approssimazione, pare possibile distinguere fra prestazioni individuali, nelle quali la domanda viene soddisfatta da un operatore individuale; prestazioni impersonali in cui il servizio è riprodotto per un numero indeterminato di clienti; produzione e fornitura di beni connessi all’esperienza sessuale.

Il tratto unificante appare quello di una attività, dietro corrispettivo (di qui il mercato), volta a soddisfare in via primaria il bisogno sessuale di una persona. Sembrerebbero potersi escludere dal mercato quei beni o quei servizi che in via indiretta contribuiscono a ciò, altrimenti esso si estenderebbe a macchia d’olio comprendendo profumi e creme di bellezza, estetiste e chirurghi estetici, biancheria intima e palestre, discoteche e località di villeggiatura et similia.

Tuttavia la scelta di tenere fuori questi settori serve a segnalare che – a voler utilizzare una fin troppo didascalica distinzione manualistica – se il sesso non è la causa di molti negozi, ne è certamente il motivo, giuridicamente e socialmente rimarchevole, in particolare ove esso sia illecito e comune alle parti.

A scanso di equivoci conviene poi precisare che il richiamo al concetto di “causa”, ed in particolare l’etichetta di “causa sessuale” ha una funzione essenzialmente evocativa della peculiarità di tali negozi, in quanto, in termini rigorosi, la loro causa, intesa sia nel senso di giustificazione dello scambio che di funzione economicosociale, è essenzialmente commutativa. Parlare di una “causa sessuale” serve tuttavia a cercare di fissare i criteri comuni di una vasta tipologia di rapporti economici, e dunque giuridici, che presentano problematiche simili, si collocano in settori contigui, e che è opportuno esaminare in un contesto unitario.

In sintesi, il “mercato del sesso” appare un mercato sommerso, sovente qualificabile come “grigio”, estremamente opaco e comunque resistente alla disciplina giuridica, se non quella criminale e di polizia. Ma è proprio questa considerazione, accomunata alla sua dimensione economico-sociale, che induce a chiedersi se si tratti di un mercato senza diritto, ovvero se sia un mercato fortemente conformato da regole sociali, oppure, ancora, un mercato nel quale la pudicizia dello sguardo del giurista gli impedisce di vedere gli evidenti segni di una considerevole opera di giuridificazione, apparentemente neutrale ed indistinta.

Alla fin troppo facile obiezione che in tal modo si finisce per legittimare attività che non lo sono, né dovrebbero esserlo, è altrettanto facile rispondere per un verso che se il fenomeno è così diffuso è piuttosto improbabile che i giuristi, come categoria sociale (e con particolare riferimento a quelli di sesso maschile), ne siano esclusi e che nessuno fra loro abbia – per fare esempi banali – acquistato una rivista pornografica, utilizzato unachat erotica, fatto uso di sostanze stimolanti. È dunque più l’ipocrisia che la moralità a cancellare dal panorama giuridico l’esperienza in cui si viene coinvolti.

La seconda obiezione, più tecnica, è che alla base del diritto privato vi è un principio generale di libertà per cui è lecito e valido tutto ciò che non è proibito. E compito precipuo del giurista è sforzarsi di comprendere cosa sia proibito – e dunque invalido o fonte di responsabilità – e quanto invece rientra nella sfera dell’autonomia privata.

Questa operazione, come si vedrà, porterà a soluzioni variegate, giacché i fenomeni sono piuttosto diversi fra di loro. In limine occorre chiarire che, per quanto riguarda il diritto civile italiano, il tradizionale approccio che si articola seguendo il binomio contrarietà al buon costume/in pari causa turpitudinis appare decisamente inappagante sia in termini strettamente tecnici che sotto quello della politica del diritto, e richiede dunque una approfondita rimeditazione.

Una ulteriore considerazione preliminare è d’obbligo. Sicuramente il mercato qui analizzato vede prevalentemente come “consumatori” di beni e servizi le persone di sesso maschile e come “fornitori” di prestazioni persone di sesso femminile. È indubbio che ciò rifletta, ad uno stadio quasi primordiale, la differenza fra i sessi; ed una certa visione (anzi, propriamente: l’immagine) che l’uomo ha della donna. Sono ben diffuse ed argomentate le tesi secondo cui tale visione si traduce, ad altri livelli, in discriminazione e, anche, violenza.

E tuttavia se si guarda al problema dall’angolo visuale del mercato (che certo non può essere l’unico, ma che non può nemmeno essere escluso) si deve notare come sia la forte domanda a sviluppare l’offerta, e la condizione dell’acquirente – in un ipotetico mercato libero da ogni considerazione morale – non è certo quella più forte, giacché una sola categoria, per natura (gli uomini), è collocata dal lato dalla domanda, e una sola categoria, sempre per natura (le donne), è in grado di soddisfarla senza trovarsi, generalmente, in una condizione di reciprocità.

Va poi considerata, in una ricognizione la quale voglia tener conto dell’evoluzione sociale, la particolarità del vasto mercato transessuale nonché di quello omosessuale maschile (dunque uomini da entrambi i lati), nonché il crescente mercato (dal lato della domanda) femminile, di cui i segni più evidenti di emersione sono le diffuse “feste di addio al nubilato”, gli “strip” dell’8 marzo, ed i viaggi verso paesi in cui il sesso maschile può essere acquistato a basso prezzo. Una nicchia, ancora, ma che non consente di accogliere, senza riserve, un generalizzato marchio “maschilista” verso una ricerca in questo settore.

I vari problemi che si intendono analizzare suggeriscono alcune considerazioni d’insieme:

L’ordinamento civilistico, attraverso l’art. 2035 cod. civ. lungi dall’esprimere una indifferenza dell’ordinamento fissa una regola cui il mercato del sesso, in larga misura, si adegua: a seconda della forza contrattuale delle parti, prima una parte esegue la propria prestazione, poi subito dopo giunge la contro-prestazione. È un mercato in cui il credito – di danaro o di prestazione – come pure la durata costituisce l’eccezione. Il contratto illecito tout-court ha come regola operazionale il ripristino forzoso dello status quo ante.

Quello contrario al buon costume rende immodificabile l’operazione economica come si è realizzata. La regola esprime un disvalore, ma al tempo stesso un riconoscimento, sia pure limitato, all’essenza della prestazione e non a tutte le sue statuizioni accessorie. Riflette assai bene lo spirito del tempo in cui è stata fissata, fortemente condizionato da convenzioni – che oggi definiremmo ipocrisie – sociali. Chi naviga per i mari delle prestazioni sessuali a pagamento deve sapere ciò che lo attende; verrà educato dall’esperienza e non dall’ombra della legge; soprattutto non porterà (e non potrà portare) queste vicende davanti al giudice (“nemo auditur propriam turpitudinem allegans”).

Proprio quest’ultimo principio porta a ritenere che, in generale, nella tradizione giuridica occidentale il “mercato del sesso” sia governato prevalentemente da regole sociali cui sono collegate sanzioni sociali, prevalentemente reputazionali (la lingua, nella sua trivialità, è sintomatica: Tizio è stato “sp….nato”). Dunque si potrebbe ben giungere alla conclusione che, in fondo, il “mercato del sesso” può fare a meno di regole giuridiche ed è anzi meglio così.

Trattandosi di un terreno viscido, qualunque legislatore rischia di provocare più danni che ordine. La società nelle sue diverse articolazioni (basti pensare alle differenze fra metropoli e piccolo centro; fra contesti permissivi e forte controllo sociale) è meglio attrezzata per regolare i fenomeni adattandosi con gradualità al comune sentire e risolvere le troppe antinomie che il diritto fatica a inquadrare. L’idea della funzione quasi taumaturgica delle regole giuridiche emerge chiaramente in questo contesto: in fondo l’assetto attuale è preferibile perché nessuno sente l’esigenza di modificarlo se non sotto l’aspetto assai rilevante del diritto penale e dell’ordine pubblico.

La stessa carenza di studi giuridici, ben lungi dal costituire una lacuna, indica il (modestissimo) peso effettivo che le questioni civilistiche hanno in subiecta materia.

A tale visione socializzante è possibile obiettare che forse essa non si applica (rectius: non è opportuno che si applichi) a tutti i negozi “con causa sessuale” dovendosi invece fare alcune importanti distinzioni. In ogni caso, quali che siano le preferenze, il “mercato del sesso” appare costituire un campo di indagine negletto dei rapporti fra diritto e società, che forse varrebbe la pena fosse meglio studiato senza pruderies o voyeurismi.

Una peculiarità del “mercato del sesso” – che dovrebbe attirare l’attenzione degli studiosi delle varie discipline – è che esso si colloca (a fianco di?, al centro di?) un non-mercato che è quello delle relazioni interpersonali affettive e sessuali prive di connotazione economica. Dal punto di vista della teoria economica, il sesso, trattandosi di un “bene di consumo”, nella maggior parte dei casi viene soddisfatto al di fuori del mercato. La situazione è diversa da altri bisogni primari che potrebbero essere assimilati, come quelli alimentari per i quali comunque occorre rivolgersi al mercato.

Nell’esperienza sessuale ogni persona è naturalmente dotata di una propria dimensione e solitamente soddisfa i propri bisogni al di fuori del mercato senza in alcun modo farvi ricorso esercitando la propria libertà. Quando ciò avviene è perché il soggetto non si sente appagato nella sfera individuale ovvero è alla ricerca di nuove prestazioni.

Il “mercato del sesso” dunque può essere una risposta ad un fallimento del “non-mercato”. Molti di questi bisogni sono indotti, soprattutto attraverso la rappresentazione degli stili di vita, ma ciò pare coerente con una società dei consumi.

Quale la conseguenza dal punto di vista giuridico, o, meglio, della politica del diritto?

Una volta che questi bisogni esistono, piuttosto che ignorarli oppure bollarli come immorali, è forse preferibile cercare di comprendere come essi possano soddisfatti in una cornice legale, anziché illegale. Ed ancora, vi sono numerose aree nelle quali il mercato esiste per il funzionamento del non-mercato: nei siti di incontro telematico, nella vendita di prodotti stimolanti l’esperienza erotica della coppia e via dicendo. Le due sfere sono dunque strettamente collegate fra di loro e crescono (o si riducono) in correlazione. Molti dei contratti “con causa sessuale” svolgono dunque una funzione meritevole di tutela.

In realtà la dimensione sessuale è da tempo pienamente entrata nel mondo del civilista.

La sessualità come diritto fondamentale

Gli ordinamenti moderni riconoscono che la sessualità costituisce un aspetto fondamentale della esperienza umana. L’integrità fisica, come diritto inviolabile, comprende anche l’aspetto sessuale, protetta non solo da atti di violenza, ma anche da altri illeciti colposi. Il danno alla sessualità costituisce una delle più importanti voci nel risarcimento alla persona. Il diritto fondamentale a costituire una famiglia evidentemente contempla – sia pure in una prospettiva prevalentemente riproduttiva – l’esplicazione dell’attività sessuale. Tutto il dibattito sulla liceità delle tecniche di contraccezione ruota attorno alla libera esplicazione del desiderio sessuale.

La sessualità come obbligo

La previsione, fra gli obblighi scaturenti dal matrimonio, della fedeltà coniugale ha come corollario un obbligo di dedizione fisica di un coniuge nei confronti dell’altro. Anche se la legge e la giurisprudenza sono estremamente cauti nell’individuare il quantum e il quomodo nell’assolvimento dell’obbligo, pare acquisito il principio secondo cui il rifiuto assoluto di adempimento costituisce giustificazione per la separazione personale e per lo scioglimento del vincolo.

L’attività sessuale come responsabilità

Allo stesso tempo l’esercizio del diritto della libera esplicazione dell’attività sessuale è fonte, da lungo tempo, di responsabilità civile, come nel caso della trasmissione di malattie veneree (di cui l’AIDS è la forma più recente e devastante). A libertà dunque si accompagna, come è abituale nei sistemi moderni, responsabilità.

La sessualità come sfera intima

La dimensione sessuale della persona non solo trova un complesso quadro di riferimento, ma anche forme di tutela specifiche connesse alla sua natura intima. Se “la vie privée doit être murée”, quella sessuale lo è ancor di più. Così, al di qua e al di là dell’Atlantico, ad essa fa riferimento in modo precipuo la riservatezza. Le scelte e le preferenze sessuali sono insindacabili e non conoscibili dall’esterno anche più delle vicende attinenti alla salute individuale.

Ora, se del sesso il diritto privato si occupa in maniera così diffusa, è difficile che una visione d’insieme possa trascurare del tutto la prospettiva contrattuale e la intersezione fra questo diritto fondamentale ed il mercato. Il che non significa affatto che le conclusioni debbano essere vincolate. Nel diritto come in tante altre vicende umane, le soluzioni più appropriate vengono da un confronto di opinioni sulla base delle quali offrire sintesi efficaci. E a chi ritenga che queste cautele intellettuali non giustifichino comunque il trattare un tema sconveniente, sia consentito ricordare le parole del poeta: “Homo sum: humani nihil a me alienum puto”.

1) Il presente articolo sintetizza il piano di lavoro di uno scritto ben più ampio che tratterà, dal punto di vista del diritto contrattuale ed in chiave comparata, dei servizi “sessuali” come prostituzione, spogliarello, lap-dance, peep-show , servizi telefonici e telematici “erotici”; dei “prodotti sessuali” come video e immagini pornografici, prodotti erotici, farmaci afrodisiaci; delle “imprese del sesso” come il produttore di film pornografici, i cinema “a luci rosse”, night-clubs, club privés, porno-shops, l’agenzia di “relazioni sociali”, i siti di incontro telematico; l’operatore di “turismo sessuale”; nonchè dei “lavoratori del sesso”. Una prima anticipazione dei profili più tecnico-giuridici è comparsa sulla “Rivista trimestrale di diritto e procedura civile” 2007, 1191.

*Dice di sé.
Vincenzo Zeno Zencovich. Professore ordinario di Diritto privato comparato presso la Facoltà di giurisprudenza della Terza università degli studi di Roma.

 

 

MARCEL PROUST
Se un po’ di sogno è pericoloso, ciò che ne guariscenon è sognare meno, ma sognare di più, sognare tutto il sogno.Bisogna che si conoscano perfettamente i propri sogniper non più soffrirne.(Da “All’ombra delle fanciulle in fiore”, 1919)
INTERVISTE Luciano Frigerio - Ersilio Tonini: “Sono felice di essere vecchio”

Il popolare Cardinale affronta, in questa lunga intervista gli argomenti più salienti dell’attualità, tracciando un bilancio, assai positivo, della sua lunga vita

Luciano Frigerio*

Il 20 luglio il cardinale Esilio Tonni compirà 94 anni. Chi non conosce questo vecchio cardinale che non perde occasione per usare radio e televisione per annunciare il Vangelo che sulla sua bocca ha ancora il sapore e la fragranza del pane fatto in casa? Entrato nel seminario di Piacenza a 11 anni, diventato sacerdote, è stato vicerettore in seminario, si è perfezionato alla Pontificia università lateranense in diritto civile e canonico, è stato assistente spirituale dei gruppi della Fuci, direttore del settimanale diocesano “Il nuovo giornale”, poi parroco, per ben sedici anni, a Salsomaggiore, e nel 1968 rettore del seminario di Piacenza. Vi rimase poco, perché nel famigerato 1969 il Papa Paolo VI lo nomina vescovo di Macerata.

Nel 1975 è arcivescovo di Ravenna (dove tra l’altro guadagna la stima dei suoi concittadini lasciando l’appartamento vescovile ad una piccola comunità di tossicodipendenti e ritirandosi a vivere, dove tra l’altro ancora risiede, nell’istituto Santa Teresa per malati gravi). Nel 1978 è presidente del Consiglio d’amministrazione del quotidiano “Avvenire”, e nello stesso anno fa riaprire il seminario di Ravenna chiuso fin dai tempi della contestazione.

Nel 1986 accoglie il papa Giovanni Paolo II in visita in Emilia Romagna e nel 1988 con l’aiuto del Papa raccoglie fondi per gli indios del Brasile. Nel 1990 ospita di nuovo Giovanni Paolo II in visita a Ravenna e dopo poche settimane rimette nelle sue mani, per raggiunti limiti d’età, la rinuncia al governo pastorale dell’Arcidiocesi. L’anno seguente predica gli esercizi spirituali per la curia romana e appare su Rai Uno per un fortunato programma sui dieci comandamenti (programma a cura di Enzo Biagi, con cui si svilupperà una delicata amicizia, ritenuto un raro esempio di catechismo via etere).

Nel 1992 è in Brasile per un congresso di capi tribù e nel 1994 Wojtyla lo crea Cardinale del titolo del Santissimo Redentore a Val Melania. È un pastore eclettico che gioca a tutto campo senza risparmiarsi. Ha percorso l’Italia in lungo e in largo, avvicinando soprattutto i ragazzi e i giovani con i quali intrattiene un rapporto di grande cordialità. Ma di certo in un solo modo questo vecchio cardinale padano vuole essere ricordato, e lo ha detto con chiarezza, in un’intervista televisiva. Alla domanda “cosa occorre per essere un buon cardinale?” rispose senza incertezze: “Continuare ad essere un bravo prete!”.

Eminenza, il riferimento è d’obbligo. Tra meno di un mese compirà 94 anni. Chi meglio di lei può parlarci della vecchiaia. Trova che oggi la sua vita sia migliore rispetto agli anni della gioventù?

“Sì, per tante cose. A partire dalla mia vocazione sacerdotale. Nel 1935, quando presi i voti, pensavo che sarei diventato parroco e avrei passato la mia esistenza in mezzo ai giovani. Oppure che avrei fatto il missionario in Africa. Invece mi è stato dato molto di più di quanto sperassi allora. Oggi, alla soglia dei 94 anni, giro per l’Italia, con più moderazione di un tempo, incontro tantissime persone, moltissimi bambini. Quando sono a Ravenna ho contatti quotidiani con la gente che mi viene a trovare e alla quale cerco sempre di dire qualche parola utile. E mi sto adoperando per aiutare le popolazioni bisognose africane con il progetto “Europa chiama Africa”. Insomma, il mio bilancio è positivo”.

Gli anni le hanno regalato anche un maggior benessere economico?

“La mia era una famiglia contadina: per andare a scuola facevo a piedi sette chilometri, e altri sette per ritornare. Solo in quinta elementare mi hanno regalato una bicicletta. Adesso è diverso, certo. Ma la verità è che i soldi non sono importanti. Se io sono così alla mia età, lo devo al modo in cui ho vissuto l’adolescenza, e all’entusiasmo che mi animava, nonostante le difficoltà economiche.

Mia madre e mio padre mi ripetevano in continuazione: “Quando sei nato tu abbiamo fatto tanta festa”. In modo particolare mia madre mi diceva, insistendo: “Ricordati che il Signore ha del bene da farti fare” e io le credevo, mi fidavo delle sue parole. E più mi accorgevo che erano vere, più mi sentivo fiducioso. È stato così ogni giorno, e ogni anno di più, fino ad oggi”.

Entusiasta della vita, degli altri, del mondo: qual è il suo segreto, cardinale?

“Ho appreso fin da ragazzo lo stupore di vivere. Non ho mai dato per scontato di essere al mondo, mai. Per me, ogni mattina, il risveglio è come fosse una nuova nascita. Considero il tempo come una serie infinita di momenti da centellinare, uno dopo l’altro, con piacere, fino alla fine. Pochi giorni fa, un ragazzo focomelico del Ruanda, che vive qui a Ravenna, mi ha stretto la mano: perché la protesi che gli hanno messo ha iniziato a funzionare. E io ho goduto quel momento: è stato la dimostrazione di quanto la vita sia un bene prezioso. E di quanta felicità possa ancora riservarmi”.

Molti anziani, però, non riescono ad accettare con serenità il tempo che passa.

“La vecchiaia è una fase dell’esistenza accompagnata da debolezza e da acciacchi. Il dover dipendere dagli altri può fare male. Soprattutto per chi il proprio valore l’ha sempre misurato sul potere e sul denaro, e non riesce a vedersi come una moneta che sta per andare fuori corso. Ma se immaginiamo la vita come un grande fiume, la vecchiaia ne è la foce. Che cosa c’è di più bello?”.

Ha conosciuto anziani pieni d’ottimismo e speranze?

“Ma certo. Tanti, sorridenti, pieni d’amore e di ricordi straordinari. Ne ricordo uno per tutti: Papa Paolo VI. Ebbi la fortuna di parlare con lui un’ora intera: il Pontefice, che aveva contatti con i più importanti personaggi del mondo, mi dedicò tutta la sua attenzione, con tale semplicità e soavità da lasciarmi sorpreso. Viveva l’età anziana con grande dolcezza ed estremo chiarore interiore e trasmetteva solo pace e serenità. Quel suo esempio è stato per me indimenticabile. La vecchiaia, infatti, se vissuta con gioia, toglie le asperità dell’animo e fa un grande dono: la saggezza”.

Eminenza, però, il mondo nel quale viviamo si presenta ai nostri occhi come un’inimmaginabile scristianizzazione, per riprendere le parole del cardinale Ratzinger di qualche anno fa…

“I momenti più tragici della Chiesa sono i momenti della giovinezza della Chiesa. Sant’Agostino è quasi ossessionato dalla distruzione di Roma. Anzitutto perché è Roma, e, secondo, perché i pagani, di quella distruzione, davano la colpa ai cristiani. All’inizio della Città di Dio, dice: “Ma voi credete proprio che da questo la Chiesa, il Vangelo, non tragga una spinta in avanti?”. Dice che la giovinezza della Chiesa coincide con la crocifissione di Gesù Cristo: “Haec iuventus Ecclesiae”.

Ecco, in questo momento, mentre siamo disorientati e sconvolti e ci pare che il mondo vada verso la distruzione totale, io sono intimamente convinto che da questa tragedia… che cosa verrà fuori? Ebbene, sta finendo il tempo delle divisioni e delle contrapposizioni e comincia il tempo dell’identificazione. Cioè le nazioni scompaiono, la storia passata perde il suo peso e ci accorgiamo che accade come al popolo ebreo, che aveva bisogno delle deportazioni per tornare a capire. La grande sfida, guardando il futuro, sta proprio qui: se riusciremo a stare insieme oppure no, come dice il grande libro di Alain Touraine: “Pourrons-nous vivre ensemble? Ègaux et différents”.

La storia, a differenza di ciò che dicevano i greci, non è circolare, ma è una freccia che si muove verso il futuro. La Chiesa è per il futuro, il Vangelo è tutto al futuro. O no? Ora io dico: la Chiesa è madre in questo senso, il compito della Chiesa, sempre più, specialmente dopo il Concilio, è di essere responsabile delle azioni a venire.

Neanche a farlo apposta, la Chiesa possiede proprio il titolo di “cattolica”, “kathólou”, “tutti insieme”. Già Agostino aveva capito che la battaglia era contro chi voleva che la Chiesa fosse soltanto africana [il cardinale si riferisce naturalmente alla lunga querelle coi donatisti, ndr].

Cardinale, dibattiti, conferenze, manifestazioni ci ricordano ogni giorno che, a causa dell’inquinamento, la Terra sta rischiando grosso. Lei cosa ne pensa?

“Vale la pena esclamare: era ora. Sono anni che gli scienziati vanno denunciando in tutti i modi il rischio di un inquinamento atmosferico di tali proporzioni da lasciar prevedere un giorno l’impossibilità di sopravvivenza del nostro pianeta. E gli hanno dato un nome: effetto serra, con l’aggiunta di scenari terrificanti. Ma per troppo tempo l’hanno fatto inutilmente, poiché alcuni consideravano le loro ipotesi fantascientifiche, mentre altri le ritenevano eventi lontani molti millenni.

Un problema di chi ci governa, certo. Ma la tutela del mondo in cui viviamo è anche un tema che riguarda la coscienza collettiva, quella che non esclude nessuno. Soprattutto coinvolge noi, che viviamo nelle nazioni ricche, dove il consumismo sfrenato porta a produrre sempre di più. Senza che per questo ci si senta colpevoli. In fatto di consumi, siamo sempre pronti ad assolverci. Così ecco che i sistemi produttivi attualmente in funzione nel cosiddetto “primo mondo” sono alla fine i responsabili della maggiore emissione dei gas ad effetto serra”.

Perché l’uomo è arrivato a compromettere in tale misura il mondo in cui vive?

“Quando l’interesse economico diventa il fine ultimo e l’unico criterio di misura del valore, si guarda solo al guadagno immediato, senza rendersi conto di ciò che potrà accadere. Vale anche stavolta la legge che sta alla base della storia dell’uomo: ciò che non è innocente finisce sempre per provocare danni a lungo termine. Danni che saranno pagati dalle generazioni che verranno. È questo il grande dramma.

E da qui è partito il teologo e filosofo tedesco Hans Jonas, autore di uno degli studi più interessanti di questo secolo, intitolato “Il principio responsabilità”, quando sostiene che la tecnologia sta facendo cose mirabili a tutto vantaggio dell’uomo. Ma bisogna ricordare che la tecnologia, per i mezzi che usa, per esempio il petrolio, avrà i suoi effetti soprattutto sulle generazioni future”.

Insomma, i benefici che oggi ci dà la tecnologia potrebbero domani rivelarsi molto dannosi per l’uomo.

“È così. Da qui il problema etico. Dobbiamo renderci conto che le azioni dell’uomo oggi ritenute innocenti, a lunga distanza possono dare conseguenze disastrose. Anche chi non vuole riconoscere i valori morali correnti è quindi costretto a riconoscere la morale della responsabilità. Eppure sia i paesi occidentali, sia quelli meno ricchi, fanno resistenza quando si tratta di ridurre le produzioni inquinanti”.

Temono che il loro sviluppo venga compromesso.

“È la teoria secondo la quale “i colpi cascan sempre all’ingiù”, come pensava tra sé e sé, nei Promessi Sposi, don Abbondio sotto la raffica dei rimproveri del cardinal Federigo”.

E le conseguenze? Possono essere irreversibili. Oggi si discute il caso dell’ozono.

“Che è ancora più grave di quello che può sembrare. Mi spiego con un esempio: mentre la bomba atomica ha provocato terrore e sdegno e i paesi si sono quindi bloccati nell’usarla, del buco dell’ozono e delle sue conseguenze, che una persona comune non vede e che comunque non hanno ripercussioni immediate, non ci si è curati per troppo tempo”.

E quindi?

“Parafrasando l’imperativo categorico del filosofo Kant dobbiamo darci questa regola: “Comportati in maniera tale che la tua azione non debba compromettere la vita di coloro che non sono ancora nati”.

Cardinale, lei ritiene che in Italia la famiglia sia ancora un punto di riferimento saldo?

“Sì. Da quando sono vescovo il mio pensiero è teso tutto verso il futuro, non della Chiesa soltanto, ma dell’intera famiglia umana. E posso dire che nel nostro Paese abbiamo questa grande fortuna, che dobbiamo tenerci stretta. Non possiamo rischiare di dover affrontare la situazione della Gran Bretagna, nazione tanto all’avanguardia. Ma dove ora, nella famiglia, compaiono segni evidenti di una crisi grave”.

Perché ha tanta attenzione per i fatti inglesi?

“Perché è una nazione avanzata, tra le prime per democrazia e progresso tecnologico. E se ha il problema della disgregazione familiare, questo deve farci da monito. Insomma, è un po’ come quando andiamo a trovare un malato all’ospedale e ci viene in mente che in quel letto potrebbe trovarsi nostra madre. E corriamo a casa, e l’abbracciamo, felice che stia bene. Quante volte mi è toccato vedere come certi ragazzi di 16-18 anni, fino ad allora irriverenti e ingrati, abbiano recuperato all’improvviso un’incredibile tenerezza verso il padre e la madre semplicemente per aver visto morire il genitore di un compagno”.

Quali sono i segnali di preoccupazione lanciati dalla stampa inglese? Sarà così il futuro delle nostre famiglie?

“Certo che no. Perché da noi la famiglia è ancora sentita come un bene inestimabile. Spesso, in occasione dei miei incontri con gli studenti delle scuole, alla domanda sui valori più importanti, mi è stato risposto: il primo è la famiglia. Ed è significativo che proprio dall’Inghilterra si guardi alla famiglia italiana con tanto rimpianto, quasi con invidia. È di poco tempo fa l’intervento di un deputato alla Camera dei comuni: “In Inghilterra”, ha detto, “le famiglie spaccate sono otto volte più numerose che in Italia”. Alla considerazione di quel deputato io aggiungo che quando una famiglia si frantuma il dolore per i due sposi è straziante. Ma altissimo è soprattutto il prezzo che pagano i figli. Ed è su di loro che la famiglia va costruita. Questo perché dall’unità dei genitori dipende la serenità della loro vita. E anche il futuro del loro Paese”.

Lei, come pastore, avrà avuto modo di incontrare moltissime famiglie.

“Tante, davvero. E alcune sono esempi meravigliosi. Qui a Ravenna, nella casa dove vivo, ci sono anche bambini cerebrolesi. Sapesse quanta felicità sono in grado di esprimere quando si stringono ai loro genitori. E quanto amore le mamme e i papà sanno trasmettere loro. Anche per me, del resto, la famiglia è stata importantissima.

Quando sono stato nominato vescovo, ho detto ai fedeli: “Vi insegnerò le cose che mi hanno insegnato mio padre e mia madre”.

Quasi ogni giorno ci sentiamo ripetere che la condizione del nostro Paese è drammatica. Che stiano per ritornare i tempi delle grandi paure? Che ne pensa?

“Con l’aria che tira, le domande non sono per niente strane. Vi spira dentro quest’altra, che è sulla bocca di tutti: ce la faremo ad uscire da questo guazzabuglio, simile tanto ad una telenovela? Ci fu, è vero, ben di peggio negli anni del terrorismo, che fu una vera e propria sfida mortale, di ben altra portata. Al suo confronto questa di ora è febbre da fieno. Verissimo. In compenso, si sapeva da dove veniva e che cos’era il rischio. Proprio per questo, si ebbe come risposta tale unità di animi, quale mai, forse, si è avuta lungo tutta la storia italiana. È appunto quel che manca oggi. L’unica certezza sembra essere l’incertezza.

Così ovunque, dalla Norvegia al Giappone. Incerta la politica, irrequieta l’economia, vasta la sfiducia delle popolazioni nei confronti dei loro governi. “Abbiamo dinanzi a noi un mondo ancor più misterioso che nel passato”, affermava il quotidiano francese “Le Monde” recentemente. A farla breve, “questo è un mondo da ricostruire”. Vero è che caduto il Muro di Berlino, un altro se n’è eretto qui in casa nostra: il muro del pianto. C’è stato persino un uomo politico, capo di un partito, che ha annunciato l’ipotesi di salvarsi in esilio magari con un suo governo ombra. Evidentemente, s’è perso il senso delle proporzioni, peggio, della responsabilità. È delitto per un vescovo credere e ricordare agli altri che, pur se s’è fatto buio, la luce domani tornerà? A meno che qualcuno preferisca alla luce del sole quella di una candela!”.

Cosa potrà fermare la violenza dei giovani? Episodi agghiaccianti si ripetono ovunque: per spiegare il fenomeno qualcuno tira in ballo anche il codice genetico. Eminenza quale è il suo parere in proposito.

“Son fatti così gli italiani: reagiscono forte per ogni notizia che sfiguri l’immagine, la “cara” immagine, dei loro ragazzi. Buon segno. Vuol dire che c’è ancora tanta sanità nel nostro Paese. Dopo di che non è che si possa dormire del tutto tranquilli. Anche un solo atto violento è pubblica sciagura, specie se compiuto già all’inizio della vita. Ad acuire, poi, il problema ci pensano le notizie che ci vengono non dico dalla lontana Los Angeles, ma da Inghilterra, Francia e Germania, paesi qui accanto.

In Inghilterra, e ancor più in Germania, l’uso della violenza ha attecchito presso i più piccoli, già attorno ai 12-13 anni. La stampa tedesca ne dà impietosamente notizie dettagliate, mentre si affannano i sociologi a dedicarvi le proprie inchieste e gli psichiatri a parlare di una “fanciullezza avvelenata”. Sì, è vero che qualcuno ha pensato al codice genetico. Si è proposta una vasta indagine biologica sugli autori di aggressioni: “ È un modo”, dissero, “di capire le cause sociali della violenza”. La verità è che a parte i casi di neuropatie gravissime, al Dna si possono far risalire solo predisposizioni generiche il cui sviluppo è poi da collegarsi con l’ambiente, l’educazione, le prove della vita.

Ritornare al vecchio Lombroso, alla teoria dei “delinquenti nati” può servire solo a dispensarci dalla responsabilità educativa e dall’impegno per una società più giusta e più umana per tutti.

Si tratta di problemi che richiedono approfondimento serio, a costo di rivedere parecchio della prassi educativa. L’accenno è ai due estremi: quello dei genitori-padroni che non consentono ai figli una progressiva assunzione di responsabilità, e quell’altra che, per reazione all’antico, ha troppa cura che il piccolo sia subito grande, già fin dall’inizio, prima amico che figlio. Interessante il giudizio della psicologa francese Alice Holleaux: “Questa politica del non intervenire è di una violenza incredibile per i fanciulli, peggio, molto peggio che l’autoritarismo di trenta anni fa”.

Ancora una volta il segreto del futuro è affidato in gran parte all’educazione, alla formazione morale delle coscienze e pertanto a famiglia, scuola, chiesa. Ricordare T.S. Eliot: “Il mondo rotea e il mondo cambia…; comunque la mascheriate, questa cosa non cambia: la lotta perpetua del bene e del male. Dimentichi, voi trascurate gli altari e le chiese… voi siete gli uomini che in questi tempi deridono tutto ciò che è stato fatto di buono”.

Immigrati e giustizia non sempre vanno d’accordo. Il governo italiano sta decidendo norme più restrittive all’ingresso nel paese, come giudica questo tentativo?

“Il problema è delicatissimo, perché ancora una volta il bisogno di “sicurezza” viene a scontrarsi con l’altra esigenza primordiale, quella del rispetto all’umanità di ogni uomo: certezza contro giustizia, le due anime del diritto che, solo se composte insieme, possono consentire a una società di dirsi umana. Se questo è, vuol dire che questa è l’ora buona per la saggezza politica, cui sempre è toccato comporre o un massimo di giustizia entro un minimo di certezza – e sono i momenti più felici – o un minimo di giustizia entro un massimo di sicurezza: ed è la tentazione che può far morire le democrazie per eutanasia”.

Eminenza, come desidera concludere questa lunga chiacchierata?

“Un’ultima cosa: la speranza, quella che Péguy chiama la virtù bambina. Virtù bambina perché il bambino è speranza, il bambino si fida totalmente. Nel momento in cui noi ci fidiamo di Dio totalmente, come un bambino, allora abbiamo l’onore più grande che si possa immaginare ed è ciò che più tocca il cuore di Dio. Il figliol prodigo, quando torna, ha una speranza mista a paura, che il papà smentisce subito, perché gli fa capire che riaverlo è un guadagno, non una perdita. Credere a questo amore di Dio che mi considera una sua gloria… D’altra parte non è mica poesia, è Gesù che dice così nel capitolo diciassettesimo del Vangelo di Giovanni.

Teilhard de Chardin diceva che ogni volta che si prende in mano la parola del Vangelo si devono fare due cose. Primo, ricordare che sono fatti veri. Secondo, che sei in gioco tu. Quando consacrando nella messa dico: “Questo è il mio corpo”, e lo faccio come cosa meccanica senza accorgermi che ci sono io di mezzo, sono un… facchino, niente più.

Un’altra questione delicata, che deve essere ben esposta perché non susciti polemiche, è il posto della gerarchia. Io ho paura che la gente mi creda uno che ha avuto successo perché sono un cardinale. Lo temo immensamente, perché invece io sono qui per testimoniare. Il Signore mi ha fatto una grande grazia, ma se sono vescovo non è che io sia riuscito più degli altri. Sono più carico di responsabilità, questo è sicuro. Anche se, ora come ora, per il peso crescente dei mass media, non vale proprio niente il fatto di essere cardinale se uno dice delle banalità. Una domestica potrebbe dire delle cose che toccano l’animo più di un cardinale. Ma al di là di questo, il carrierismo è pericolosissimo nell’atteggiamento del pastore, del vescovo e oltre. E là dove si insinua distrugge tutto.

Sant’Agostino dice che: “Chi nella Chiesa cerca qualche cosa che non sia Dio, è un mercenario”. Siamo dei testimoni. Dovremmo aver cura sempre che ci sia invece capacità di amare, il desiderio di dire di ogni persona che incontro: “Questo è un figlio di Dio, che cosa posso fare per lui?”.

*Dice di sé.
Luciano Frigerio. Nato a Milano nel 1957 è sacerdote diocesano dal 1981. Dottore in Teologia. Pubblicista dal 1987. Vice direttore del settimanale della diocesi di Milano “Città Nostra” nel 1988. Cappellano di S. Santità dal 2000. Direttore settimanale della diocesi di Milano “Luce” dal 1993. Membro della federazione italiana settimanali cattolici (FISC) dal 1988. Membro comitato di redazione della rivista ufficiale del Giubileo 2000 “Tertium Millennium”. Collabora con la Rai dal 2001.

Francesco Canino - Filippo Panseca, l’architetto di Craxi

“Mi sono sempre sentito uno scenografo, un artista. Consideravo i congressi un’opportunità per esprimere il mio estro e realizzare opere che difficilmente avrei potuto fare altrove”

Francesco Canino*

Arrivo dalle parti di via Savona, a Milano, in un pomeriggio piovoso. Abituato al rigore delle vie torinesi, capisco solo dopo qualche minuto di essere passato in quella zona appena qualche mese fa, nel pieno della “settimana della moda”, col traffico intasato da stuoli d’auto che scaricavano invitati di lusso al quartier generale di Armani per assistere alla sua sfilata. Ritorno a casa di Filippo Panseca: lo avevo contattato e agevolmente incontrato quando sembrava ormai certo che mi sarei laureato con una tesi sulla comunicazione politica di Bettino Craxi. Chi meglio di Panseca avrebbe potuto indirizzarmi? Lui che per tutti è ancora oggi “l’architetto di Craxi”.Entro nel suo loft (che è la sua casa e il suo laboratorio) e, come mi era già successo la prima volta, ho l’impressione di entrare immediatamente nell’ “universo Panseca”: le pareti sono piene di quadri, ci sono oggetti e opere d’arte sparse ovunque, librerie stracolme di volumi, al centro un abito da sposa (opera della moglie che insegna all’accademia di Brera) e poi computer e macchinari digitali, che sono il principale strumento delle sue creazioni. Per terra un tappeto lungo qualche metro che rappresenta in parte la scenografia realizzata nel 1990 da Panseca per la conferenza programmatica del Psi: nella casa di un artista può tranquillamente accadere che un pezzo del muro di Berlino campeggi proprio al centro di in salotto…Cominciamo dal fondo. Ha letto quello che nel 2003 Filippo Ceccarelli, principe dei commentatori politici, ha scritto su di lei in apertura di “Cambio di scenografia”, un capitolo de “Il teatrone della politica”?“No… me lo legga lei”.

“È forse arrivato il momento di dedicare un monumento a Filippo Panseca, scenografo del craxismo, ideatore e installatore del tempio greco alla Fiera di Rimini e della piramide nella fabbrica ex Ansaldo, l’artista di partito che per primo aveva capito dove sarebbe andata a parare l’estetica del potere. Un monumento beninteso di cartapesta, o di polistirolo espanso, meglio ancora se biodegradabile, perché da quelle prefigurate illuminazioni non è che la democrazia e i cittadini abbiano poi tratto grandi vantaggi. E però, anche chi negli anni ’80 derideva Panseca, nel decennio seguente è tornato regolarmente a Canossa: ha finito cioè per montare gli stessi enfatici baracconi a sfondo storico autocelebrativo in cui si era distinto il lungochiomato artista craxiano”.

“Beh, ha sintetizzato in poche righe, pezzi della mia storia. C’è una prima parte che ha un accento negativo, una seconda più positiva. Ma sono temprato alle critiche sa?”.

Di lei hanno scritto e detto di tutto. “Artista di regime”, “architetto di corte”, “emblema di quel circo di nani e ballerine”. Come viveva le critiche?

“Erano fastidiose, inutile negarlo, certe erano terribili. La critica più bella però l’ho ricevuta da Giampaolo Pansa su “Repubblica”: dopo anni di attacchi feroci da parte di tutti, dopo aver visto la piramide che installai all’Ansaldo per il congresso dell’’89, scrisse che mi ero superato e che avevo fatto una cattedrale laica.

Almeno una soddisfazione me la sono tolta… e poi lui non era di certo un commentatore tenero. Il punto è che pochissimi hanno capito che quello che realizzavo erano mie opere. C’era una differenza enorme coi colleghi architetti: io mi sono sempre sentito più scenografo e artista che altro.

Quando Craxi mi chiamava, per me era come un committente e io sfruttavo l’opportunità che mi veniva data: sfogavo il mio estro artistico, realizzavo opere che difficilmente avrei potuto fare. Per me erano cose effimere e Ceccarelli, probabilmente, lo sa se scrive di opere “biodegradabili” che sono l’essenza stessa della mia arte: sono cose che faccio dal 1970, monumenti a perdere se vogliamo, che ho installato in tutto il mondo”.

In un’intervista al “Corriere della Sera” del dicembre del 1992, nel pieno di Tangentopoli, le chiedono se era legato a Craxi per comunanza di idee o per opportunismo, lei risponde: “Quello che ci legava era l’amicizia personale. Lo conobbi quando era un semplice consigliere comunale. E poi sono l’unico pittore sota che non ha mai fatto una sua mostra in uno spazio pubblico e nemmeno l’ho mai chiesto”. La sua carriera di artista è stata quindi frenata dalla sua vicinanza con Craxi?

“Ne ha risentito negativamente. Finché c’era Craxi ero sugli allori, dopo di che sono stato dimenticato. Quando mi criticano, sottolineo che non ho mai fatto mostre in musei milanesi o spazi pubblici, proprio per chiarire le idee a tanti disinformati. Mi ricordo una memorabile litigata con Enrico Baj, un pittore e scultore, che scrisse che ero un artista di regime, che avevo fatto carriera solo per le mie conoscenze politiche.

Al contrario ho perso occasioni e mi sono visto voltare le spalle mille volte. Ma non rinnego di certo la mia amicizia con Bettino, sia chiaro”.

Torniamo al 1968. Lei arriva a Milano per cercar fortuna e dopo qualche mese conosce Bettino Craxi. Ricorda il primo incontro?

“Perfettamente. Gli artisti si ritrovavano sempre al ristorante “L’angolo”. Ci andavo spessissimo, con i primi amici pittori che conobbi qui a Milano. Avevamo sempre un tavolo prenotato e stavamo lì fino alla chiusura. Una sera rimanemmo ad un tavolo e in quello a fianco c’era Bettino con degli amici: verso le due di notte Angelo, il proprietario, ci buttò fuori perché voleva chiudere. Bettino, che conosceva delle persone che stavano con me, ci invitò a casa sua.

Mentre uscivamo si avvicinò uno a chiedergli dei soldi e Bettino lo mandò a quel paese: a me venne spontaneo dargli dello stronzo, perché mi era sembrato antipatico. Lui si gira e mi dice di farmi i fatti miei perché aveva appena aiutato quel tizio ad uscire dal carcere e ora, di nuovo, gli rompeva le scatole. Ci fu un mezzo battibecco e così nacque la nostra amicizia. Lui era un semplice consigliere comunale, di certo non lo avvicinai per interesse, non sapevo nemmeno chi fosse.

Iniziammo a frequentarci, diventammo buoni amici e lui comprò anche dei mie quadri”.
Tra cui un finto Tiziano diventato celebre all’epoca di Tangentopoli.

Mi racconta quell’episodio?

“Rido solo a pensarci. Mi ricordo ancora i titoli dei giornali: “Craxi voleva trafugare un Tiziano”. Accadde che Bettino, quando stava già a Hammamet, aveva fatto partire dei camion da Milano con dei mobili e degli oggetti personali che voleva portare in Tunisia, ma la finanza intercettò i furgoni e sequestrarono tutto. Facendo l’inventario di quello che c’era trovarono anche un quadro, una copia di una Venere del Tiziano che avevo fatto io, con una cornice originale del ‘500 e nella parte posteriore, invece di due persone che parlano, inserii una sfera biodegradabile. A Craxi piacque un sacco e lo comprò: lo teneva in camera da letto. Quando venne fuori la notizia ci fu uno scandalo, Bettino mi chiamò raccontandomi che quel Tiziano di cui tutti parlavano era in realtà il mio. Pochi giorni dopo mi interpellò un giornalista dell’ “Espresso”, che fece, poi, un articolo al vetriolo, intitolato “Un quadro di Panseca scambiato per un Tiziano”, sbeffeggiando pure gli esperti del tribunale che nel fare il resoconto non si erano accorti che era un falso”.

Prima ha citato la Tunisia ed è inevitabile farle qualche domanda su Hammamet e sulla “famosa” villa.

“Devo premettere che ci sono andato la prima volta con Bettino nel 1969. Lui si era innamorato di quella terra, anche per via di Spartaco Vannoni (proprietario dell’Hotel Raphaël di Roma, morto nel 1980, ndr). Ci ritornavamo tutti gli anni e stavamo in una dependance dello Sheraton di Hammamet, perché la villa fu costruita solo nei primi anni ’80, e anche su questo c’è un episodio che ha del comico. Craxi, infatti, decise negli anni ’70 di farsi lì una casa e comprò un appezzamento di terreno in riva al mare. Peccato che l’arabo era un truffatore e gli vendette un pezzo di terra non sua. Ci fu un processo lungo quasi dieci anni e alla fine Ben Alì, il primo ministro tunisino, gli regalò un appezzamento di terra su una collina, e non più sul mare, dove venne poi costruita la casa”.

Sulla quale scrissero di tutto: rubinetti d’oro, maggiordomi in guanti bianchi, comfort da albergo a cinque stelle.

“Tutte stronzate. Costruirla non costò più di venti milioni. Oltretutto i lavori furono affidati a un cretino del posto che, contemporaneamente, rubava i materiali per farsi una villa sua. All’inizio non andava nulla: quando aprivi i rubinetti c’era puzza di fogna, il riscaldamento non funzionava e nel locale caldaie, il gasolio era in un contenitore esterno attaccato con un tubo del cavolo. Quando me ne accorsi dissi a Bettino: “Hai la scorta, ma puoi saltare in aria da un momento all’altro”.

Lei, assieme a Silvano Larini, era l’amministratore della società Villa Europa, che deteneva la proprietà della villa. Per questo ebbe delle grane ai tempi di Tangentopoli.

“Si, fui pure interrogato da Davigo. Ma non rinnego l’amicizia con Craxi, lo ripeto. Ci siamo visti spesso, fino agli ultimi mesi e ci siamo sentiti fino al giorno prima che morisse. Quando era in ospedale volle che mandassi a Ben Alì una riproduzione del muro di Berlino, una scenografia che costruii per una conferenza programmatica del Psi nel 1991, parte della quale è riprodotta su questo tappeto (me lo indica, ndr). Arrivò proprio il giorno prima che morisse: lo considerava un modo per ringraziare Alì per il sostegno che gli aveva dato in tutti quegli anni”.

Iniziamo la piccola carrellata dei sei congressi del Partito sota italiano, che ha curato sotto la segreteria Craxi. A due anni dall’elezione alla guida del partito, il 29 marzo del 1978 si apre a Torino il 41° congresso del Psi, nel pieno del rapimento di Aldo Moro. In quell’assise, per la prima volta, spariscono dal simbolo del partito la falce e martello, sostituiti dal garofano rosso. Arrivati al congresso si racconta che Nerio Nesi e Rino Formica vennero da lei arrabbiatissimi chiedendole: “Non è che ti sei dimenticato il simbolo del partito?”. Pochi sanno che l’artefice del cambiamento fu proprio Filippo Panseca.

“Si, ma sempre su input di Craxi. Un pomeriggio Bettino, io, Massimo Pini, lo stesso Formica, Claudio Martelli e Tonino Cervi (figlio di Gino, ndr) andammo a mangiare un gelato dalle parti di piazza Navona. Bettino aveva già da tempo in mente di eliminare falce e martello, che considerava simboli bolscevichi. Mentre ce ne parlava mi venne spontaneo dirgli: “Perché non li sostituiamo con un garofano rosso?”. Sfogliando alcuni volumi e studiando la storia sota avevo saputo che da sempre era un fiore della storia sota: già nel 1890 c’era una rivista sota intitolata “Il garofano” e poi nel Ventennio gli antifascisti, il 1° maggio, scendendo in piazza per la festa dei lavoratori s’infilavano all’occhiello un garofano che nel tempo divenne il simbolo dei dissenzienti dal regime.

A Craxi l’idea piacque e mi disse di utilizzarlo come simbolo del congresso: lo presi in parola e lo inserii senza dire niente a nessuno nella scenografia del congresso. La notte prima dell’inizio dei lavori, intorno alle due del mattino, Formica e Nesi vengono a vedere l’allestimento e s’infuriano con me perché ho di fatto usato un simbolo non votato da nessuno. Mi fanno chiamare subito Craxi, che stava preparando il discorso. Gli racconto cosa stava succedendo. “Metti un simbolo piccolo con falce e martello sotto il garofano e nel podio dell’oratore attacca una bandiera italiana, così nessuno contesterà nulla” mi disse. E così feci. Il giorno dopo tutti i giornali parlarono di quel garofano rosso”.

Per il congresso Palermo del 1981 le venne l’idea di piazzare quel garofano alto 15 metri sul monte Pellegrino. La città impazzì.

“Essendo palermitano, sapevo che il monte Pellegrino era il posto più visibile. Considerato che il Psi sentiva l’esigenza di fare un congresso nel meridione, volevo dare un segno importante e tangibile della nostra presenza in città e nel sud Italia. All’epoca il castello Utveggio era abbandonato, dunque chiesi i permessi alla Regione per installare un garofano che fosse visto da tutti. Anche qui, c’è un aneddoto che ha del comico. La notte prima del congresso erano arrivati da Roma camion carichi di cancelleria, libri, stampe e tutto ciò che serviva all’assemblea.

Entrati a Palermo, vedendo il garofano salirono direttamente in cima al monte, anziché andare alla fiera del Mediterraneo. Ci prendemmo un sacco di insulti, ma fu una situazione davvero divertente, che smorzava i toni di un mese davvero pesante.

La preparazione era stata difficoltosa perché la sala congressuale era grande come un campo da calcio, enorme e completamente vuota. Fu una scommessa realizzarlo lì: l’acustica era terribile, allora ricoprii il soffitto di bandiere del partito per evitare il riverbero, e poi non c’erano sedie. Dove trovavo quasi 10 mila sedie? Allora mi venne in mente di andare in una fabbrica di arredamento. Chiesi in prestito dei moduli di cucine che poi l’imprenditore avrebbe potuto riutilizzare, le adoperai come sedute cui applicai delle spalliere con dei tubolari in ferro giallo e bianco. L’impatto scenico fu formidabile”.

Craxi è Presidente del consiglio nell’agosto del 1983. Nel maggio dell’anno successivo si apre il 43° congresso, a Verona, all’insegna dello slogan “Una società giusta, una società governante”. Perché Verona passa agli annali come “la discoteca”?

“Perché feci costruire una gradinata ottagonale e montai la presidenza su dei gradoni ricoperti di specchi, dietro ai quali realizzai il simbolo con dei neon: la cosa ricordò ai giornalisti l’insegna di un locale. In più a destra e a sinistra inserii i primi led monocromatici che arrivarono in Italia, perché ancora non c’erano quelli multicolori, sui quali trasmettevamo slogan e il simbolo del partito”.

Mi spiega da quale esigenza nasceva l’idea di creare scenografie così spettacolari? Fino a quel momento com’erano stati i congressi?

“Vuole sapere come facevano? In una sala qualsiasi mettevano assieme due tavoli, quattro bandiere e sempre sulla sinistra un podio. Ecco com’erano i congressi.

Quando Craxi mi chiama per il congresso di Torino, mi metto a studiare e la prima cosa che mi salta all’occhio è che l’oratore lo piazzano sempre a sinistra. A pensarci è una cosa sciocca: perché costringi tutti a girarsi per guardare chi parla? La conclusione a cui sono arrivato è che questo, probabilmente, veniva da un retaggio cattolico, per il fatto che il sacerdote in chiesa parla sempre senza dare le spalle al tabernacolo, e dunque anche il politico è come se fosse su un pulpito.

Anche in Russia era così. La prima cosa che feci fu mettere il podio al centro, poi sistemai la presidenza mettendola su dei gradini, facendo degli scaloni così che tutti fossero visibili ed evitare la rincorsa alla prima fila come spesso accadeva (ride). E poi c’è un particolare di cui sono ancora oggi molto fiero, perché realizzai la completa accessibilità dei congressi: non c’erano barriere architettoniche, la presidenza era accessibile ai disabili e c’erano i bagni adeguati. Tanto che Franco Piro, un deputato Psi disabile, ne era entusiasta e ogni volta che partiva un congresso faceva una conferenza stampa per mostrare ai giornalisti la completa libertà di accesso e di movimento”.

I giornali però criticarono le sue realizzazioni perché costavano svariati miliardi.

“Non decidevo io. I progetti erano sottoposti alla direzione del partito che li approvava sempre. Certo io facevo un po’ il furbetto (ride). Quando arrivavo alla riunione finale tutti si avvicinavano a me, chiedendomi cosa ne pensava Craxi; lui in realtà non sapeva quasi niente: mi dava il via libera sulle proposte iniziali e vedeva il risultato finale solo a cose fatte. Io, però, facevo sempre credere che lui fosse già d’accordo e così nessuno si opponeva”.

Resta la questione dei soldi. Si disse che le famose piramidi di Milano erano costate 35 miliardi.

“Cazzate. Bisogna dire che all’epoca mi venne un’idea, per altro poi copiata da tutti i partiti, per cui il congresso in pratica non costava niente al partito. Le spiego: a Rimini ad esempio ci dettero tutta la Fiera, ma a noi servivano solo pochi capannoni. Allora dissi a Bettino: “Inventiamoci “l’Italia che produce”, con gli stand di tutte le aziende italiane. L’idea era semplice: chiamare ad esporre tutte le aziende che desideravano farlo, come se si trattasse di una fiera dell’eccellenza italiana.

Allora divisi gli spazi in tanti box: alle associazioni culturali e di volontariato affittavamo gratis, mentre le altre imprese li pagavano. L’idea funzionò subito e gli espositori crebbero anno dopo anno. Di fatto, alla fine dei conti, il partito incassava un budget tale da coprire le spese. Ovviamente all’inizio tutti ci criticarono, salvo poi copiarci”.

Arriviamo al marzo 1987, alla fiera di Rimini, 44° congresso del Psi. Giornalisti, delegati e curiosi sono accolti da una specie di tempio greco: alcuni parlarono di culto della personalità, altri di esaltazione della gloria craxiana.

“Quanti parolai. Come andò in quell’occasione? Entrando alla fiera di Rimini mi accorsi che nella sala c’erano più di 80 colonne. Mi sembrò giusto sfruttarle e aggiungerne due in lamiera su cui appoggiare una specie di frontone di un tempio greco. Mi ricordo che ai giornalisti Craxi disse: “Ho guardato anch’io con un po’ di curiosità il tempio e mi sono chiesto cosa potesse voler dire. Poi ho letto tante interpretazioni ironiche, satiriche, fantasiose e maliziose… probabilmente rappresenta la facciata della sede di un partito progressista dell’antichità”.

Quella forse è l’interpretazione più giusta, o forse non lo è nemmeno quella. La realtà è che tutto ciò che facevo erano pure rappresentazione artistiche. Niente dietrologie”.

Il 45° Congresso, forse il più famoso, si aprì il 13 maggio del 1989 alle ex acciaierie Ansaldo di Milano. Lì fu davvero un trionfo, tutti i media non facevano che parlare delle piramidi. Qualcuno disse che era l’espressione massima della “Milano da bere”.

“L’ho già detto: ripensandoci, di fatto anticipai le video installazioni. Praticamente presi i monitor usati negli stadi, li modellai a forma di piramide, ma non volevo evocare la potenza dei faraoni o qualcosa di simile.

Volevo solo inventarmi dei simboli che rimanessero impresi a tutti. Ogni cosa aveva un significato e diventava sostanziale in quel congresso. In parte credo di avere centrato l’obiettivo perché ancora oggi tutti si ricordano della piramide piuttosto che del tempio.

Anche nelle scenografie tutti gli altri partiti prima ci criticarono e poi finirono per copiarci, ma con scarsi risultati perché di fatto i congressi del Psi sono ancora oggi attuali, per la forza evocativa e per l’impatto scenico”.

È inevitabile allora chiederle cosa pensa di quello che vede oggi.

“Che vuole che pensi… li guardo e m’intristisco. Innanzitutto non c’è nessuno che abbatte le barriere architettoniche. E poi l’uso del colore.

Esistono sti’ benedetti colori? E allora perché non li usano? E poi non hanno capito l’uso delle luci, che è fondamentale: io le studiavo alla perfezione, perché il messaggio arrivava attraverso la televisione e se il messaggio passa male è come se non fosse passato.

Oggi si affidano a certe agenzie pubblicitarie che invece di aiutare i politici, gli distruggono definitivamente l’immagine. Non hanno il coraggio di osare, stanno attenti a non andare oltre il già visto e il già detto, ma hanno tempo per inutili critiche: penso a questo Roberto Malfatto, che ha curato la campagna di Veltroni e si è inventato il pullman verde.

Che allegria! Inorridisce se gli parlano di me, ma si guardasse lui con quel verde smorto da dopolavoro: e l’anima del partito dove sta? La passione con cosa la trasmette, con quei cartelli all’americana che mettono tristezza solo a vederli? Degli attuali salvo solo Mario Catalano, lo scenografo di Berlusconi, ma solo perché era un mio allievo quando insegnavo al liceo artistico a Palermo: lui viene dalla scuola televisiva e sa il suo mestiere, anche se ogni tanto gli scappa la mano con le nuvolette e con tutto quell’azzurro”.

A proposito del tappeto che vedo qui per terra, rappresenta la scenografia che s’inventò nel 1990 nella conferenza programmatica di Rimini, quando riprodusse un pezzo del muro di Berlino, ricoprendolo di scritte e immagini liberatorie. Massimo Pini nella biografia di Craxi parla di “efficace suggestione”.

“Beh l’idea mi era stata servita su un piatto d’argento. L’attualità era tutta concentrata sulla caduta del Muro. Quando Craxi mi chiese: “Filippo, che ci prepari questa volta?”, mi venne spontaneo rispondere: “Porterò in Italia 20 metri del muro di Berlino”. Lanciai l’idea e i giornalisti iniziarono a tartassarmi di telefonate. Si scatenò un putiferio.

Fu buffo perché in quel periodo ci fu lo scioperò dei trasportatori e tutti continuavano a chiedersi come avrei fatto a portarlo in tempo per l’appuntamento.

In realtà io feci un falso: lo ricostruii alla perfezione, ma in polistirolo. Quando si aprì la conferenza restarono a bocca aperta per l’effetto”.

L’assise di Bari del ’91 viene sempre ricordata per il gran caldo…

“Non potevo mica riempire di condizionatori la sala! Quello fu proprio l’ultimo congresso. Anche se avevo già iniziato i progetti per il congresso del centenario del Partito sota che avremmo dovuto a fare a Genova nel 1992.

Un sacco di giornalisti anche in quel caso erano curiosi di sapere quale sarebbe stata le scenografia. E io rispondevo: “Vedrete, sarà l’uovo di Colombo”…e tutti a domandarsi cosa intendessi dire”.

E qual era il progetto?

“A Genova avremmo dovuto utilizzare la grande sala progettata da Renzo Piano che c’è al Porto, una struttura enorme divisa in due parti. In mezzo avrei voluto piazzarci la ricostruzione di un uovo, quello di Colombo appunto, per proiettarci sia da una parte che dall’altra quello che succedeva in presidenza. Poi arrivò Tangentopoli….e sappiamo tutti com’è andata a finire”.

Gianni Statera, nel 1987, scrisse dell’“effetto Craxi”. Al di là dei giudizi meramente politici, secondo lei ebbe un effetto dirompente sulla comunicazione politica italiana? Fu un innovatore?

“Sicuramente, e non lo dico perché ho lavorato con lui. Ma proprio perché l’ho conosciuto bene posso dire che Craxi era più avanti degli altri, aveva un’apertura mentale diversa da tutti, si fidava di poche persone, ma sapeva dare il giusto peso ai consigli. Al fatto di saper stare in mezzo alla gente e captarne le esigenze, bisogna aggiungere una dote rara: non aveva paura di governare e di mettersi contro i poteri forti. Era un decisionista”.

Qualche settimana fa su “La Stampa” Ferdinando Adornato ha detto che “Berlusconi si è trasformato nel nuovo Craxi”, con tratti decisionisti e statalisti. Regge il paragone?

“In parte forse sì, ma le differenze restano, perché arrivano da due formazioni molto diverse: in Berlusconi resta forte l’impronta imprenditoriale, mentre Craxi era un politico vero, è uno che è partito da una corrente minoritaria ed ha scalato la segreteria per diventare, nel bene o nel male, uno dei politici più importanti dal dopoguerra ad oggi. Sapeva accettare le sfide. A metà degli anni ’80, quando arrivarono i primi computer, gli proposi la prima campagna elettorale uniformata in Italia, tutta fatta in “computer graphic”. M’inventai uno slogan, “Fate fiorire l’Italia”, che era uguale da Bolzano a Lampedusa. Il partito aveva comprato spazi elettorali nelle varie televisioni private italiane e lo spot era identico per tutti i candidati: cambiava solo la foto… mi ricordo che lavorai per una settimana giorno e notte per incastrare tutte le immagini, ma fu un vero successo alle comunali di quell’anno”.

Oggi Filippo Panseca cosa fa? So che c’è un sito, www.ecoartlab.com , nel quale sono racchiusi i suoi progetti, oltre che tanto materiale fotografico delle sue creazioni e molte foto dei congressi di cui abbiamo parlato finora.

“Esatto. Ma Panseca fa il pensionato (ride)! Fino allo scorso novembre ho insegnato computer art all’accademia di Brera, poi sono andato in pensione. Mi dedico ai miei quadri, che realizzo sempre in computer graphic, produco un passito, il “Passum deorum”, nella mia casa a Pantelleria, e sono attento alle fonti alternative per la produzione d’energia. Da poco ho progettato in Nicaragua la “Helios urbs”, una cittadina che dovrebbe sorgere a 60 chilometri da Managua sulla costa del Pacifico, interamente autosufficiente grazie all’energia prodotta col sole e col vento”.

Le sue curiosità, passioni e interessi sono racchiusi nell’EcoArtLab, un centro internazionale di ricerche, un polo per l’arte, le scienze, la tecnologia e la cultura che sorgerà a Sant’Angelo Lomellina, poco distante da Pavia.

“Si. Vorrei far partire una serie di collaborazioni con artisti coinvolti in molti settori emergenti della ricerca. Mi piacerebbe aiutarli e sviluppare un’attenzione sempre maggiore alle fonti alternative.
Per questo sto studiando tra l’altro una torre solare con una turbina a pale orizzontali per la fornitura d’energia pulita rinnovabile per la cittadina di Castello d’Agogna, che ha circa mille abitanti: ma prima cercheremo d’installare una torre per la produzione d’energia elettrica per il fabbisogno dell’EcoArtLab, generata da 38 turbine eoliche verticali.

*Dice di sé.
Francesco Canino. Nato a Torino ventisei anni fa, laureando (per la gioia della mamma) in scienze politiche, con una tesi sulla “metamorfosi dell’intervista”. Amerebbe scrivere un libro su Bettino Craxi e sul suo ruolo di innovatore nella comunicazione politica italiana. Collabora con i settimanali “Tu” e “Confidenze”.

 


WILLIAM SHAKESPEARE
Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni;e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusala nostra breve vita.(Da “La tempesta” 1611)
 
THOMAS EDWARD LAWRENCE
Tutti gli uomini sognano. Non però allo stesso modo.Quelli che sognano di notte, nei polverosi recessi della mente,si svegliano al mattino per scoprire che il sogno è vano.Ma quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi,giacché ad essi è dato vivere i sogni ad occhi aperti e far sìche essi si avverino.(Da “I sette pilastri della saggezza”, 1936)


PROFILI Michele Cucuzza - Giorgia Meloni, un’inviata speciale a Palazzo

“Voglio dimostrare che a trent’anni non si è dei ragazzini. Alla mia età, Alessandro Magno aveva conquistato la Persia e Rimbaud aveva scritto le sue migliori poesie”

 Michele Cucuzza*

In un’Italia sempre più nelle mani della gerontocrazia, Michele Cucuzza, nel settembre del 2007, pubblica un libro singolare: “Sotto i 40. Storie di giovani in un paese vecchio” (Donzelli Editore)1. Con oggettività e brio sono registrati episodi e vicende, personali e pubblici, della vita di sedici uomini e donne “giovani”, ma che, quasi a dispetto della loro età, sono riusciti ad imporsi, per capacità, preparazione, determinazione in differenti campi della vita pubblica, culturale e politica del nostro Paese. Qui di seguito riportiamo l’incontro avuto con Giorgia Meloni, la più giovane vicepresidente della Camera dei deputati della Repubblica italiana. Una carriera ancor più sorprendente, se si considera che, oggi, nell’ambito del IV Governo Berlusconi, l’onorevole Meloni è stata nominata ministro delle Politiche giovanili ed attività sportive (a.p.). 

Qualcuno mi ha detto

che certo le mie poesie

non cambieranno il mondo.

Io rispondo che certo sì

le mie poesie

non cambieranno il mondo.

(Patrizia Cavalli)

Ecco la vicepresidente della Camera più giovane di tutta la storia repubblicana: Giorgia Meloni, trent’anni. Ai record lei è, in qualche modo, abituata: quando, l’anno scorso, è stata eletta deputata per Alleanza Nazionale, è diventata la parlamentare di questa legislatura meno anziana. A ventun’anni, nel 1998, era già stata votata consigliere provinciale, a Roma: anche quella volta, la più giovane d’Italia. In meno di dieci anni, in ogni caso, ha fatto un salto non da poco. Cercheremo di capire perché lei sì e tanti altri no.

La incontro nel suo magnifico studio, a Montecitorio, oltrepassati i busti di Giolitti, Turati, Einaudi, tra marmi, arazzi, lampadari e stucchi, dov’è tutto un animarsi di assistenti premurosi. Nata in un quartiere popolare di Roma, cresciuta con la mamma e i nonni, appassionata lettrice di poeti decadenti, sciatrice e sub nel tempo libero, ha deciso di occuparsi di politica dopo la strage Borsellino a Palermo, quando aveva quindici anni: da allora, il suo impegno, di cui va molto orgogliosa, è stato soprattutto tra gli studenti e i giovani di destra. “Sono diventata anche il primo presidente donna di un movimento giovanile, quello di AN, Azione giovani: avevo ventisette anni”.

Cordiale, informale, capelli chiari sulle spalle, occhi verdi, tailleur d’ordinanza, è appena uscita dall’aula dove erano in discussione degli emendamenti a un disegno di legge sulla sempre problematica questione della sicurezza stradali. È una persona molto appassionata, che crede in quello che fa, anche se non le mancano il distacco e la capacità di ironizzare: tiene molto a mantenere contatti e progetti in comune con i suoi coetanei e i ragazzi, si sente un’ “inviata” nel Palazzo, non un’esponente della nomenklatura, messa lì a rappresentare i “giovani”.

“Mi ricordo la prima seduta con questo mio nuovo ruolo in Parlamento, molto bello, di sicuro non semplice e che francamente non mi aspettavo. Sono entrata in aula quasi alla chetichella, piuttosto tesa, anche se non avevo nessun compito particolare: era in corso l’appello nominale per l’elezione del capo dello Stato, la cosiddetta chiama dei deputati. In quelle occasioni il presidente rimane assolutamente in silenzio. Sapevo tuttavia di trovarmi di fronte a parlamentari anche con cinque, sei legislature alle spalle, mentre io non avevo all’attivo neanche un giorno di lavoro a Montecitorio. E toccava a me tenere a bada l’aula.

Speriamo che non se ne accorga nessuno, mi sono detta, per farmi coraggio mentre salivo sullo scranno del presidente. Farò la vaga, pensavo. Invece se ne sono accorti, eccome: i colleghi di An hanno incominciato ad applaudire, seguiti da tutti gli altri, trasversalmente. La cosa mi ha fatto molto piacere, ma, paradossalmente, mi ha agitata ancora di più perché mi sono resa conto di quanta attenzione suscitasse la mia nomina e quante aspettative fossero puntate su di me.

È stata una dimostrazione di consenso di tutta l’aula, di fronte alla scelta, anche rischiosa, ma certamente coraggiosa, di Gianfranco Fini e di Alleanza nazionale, che hanno voluto dare un segnale ai giovani, oltre che alle donne di questo paese. Per me è una grande soddisfazione, ma anche un banco di prova, una bella responsabilità. Quando Fini me ne ha parlato, la prima volta, sono rimasta muta, non riuscivo a dire neanche una parola. Mi sembrava chiaro che Gianfranco volesse dare un riconoscimento anche al mondo che rappresento, il movimento giovanile di Alleanza nazionale.

È questo, soprattutto, che mi ha convinta. Ma, conoscendo bene i compiti e il ruolo del vicepresidente della Camera, avevo comunque paura di fare il passo più lungo della gamba. Per fortuna, le sedute successive sono state piuttosto tranquille, assemblee che si chiamano di “sindacato ispettivo”, come question time, interpellanze, interrogazioni: se non altro, in quei casi, la presenza dei deputati in aula è molto ridotta”. (Ride).

Firmataria con Marco Follini, Giovanni Floris, Gad Lerner, Giorgio Gori, del patto proposto dall’imprenditore Luca Josi, che impegna personalità della politica, dell’economia, del giornalismo a non accettare posti di responsabilità dopo i sessant’anni (“una scelta personale – dice – che non renderei obbligatoria per legge: se fossi ancora qui fra trent’anni, sarebbe un ottimo alibi per andarmene”), l’onorevole Meloni ha tre colleghi vicepresidenti alla Camera. Pierluigi Castagnetti dell’Ulivo, Carlo Leoni della Sinistra democratica per il somo europeo, Giulio Tremonti di Forza Italia. Dirigono le sedute, quando il presidente, Fausto Bertinotti, è assente. L’ufficio di presidenza comprende anche tre parlamentari questori e altri sedici con il ruolo di segretari.

“Da qui si capiscono molte cose, che da fuori non si riescono a cogliere. Per esempio, quanta parte della politica dipenda dai regolamenti parlamentari: una realtà che condiziona il gioco politico in maniera incredibile. Per quanto ci si lavori, conoscere a fondo la materia è impossibile. Solo gli articoli del regolamento sono più di 150 e poi ci sono tute le prassi e le circolari interpretative della storia della Repubblica: sono gli uffici competenti, i dirigenti, i funzionari, gli uomini che riescono a dare risposte su tutto. A noi tocca mantenere un ruolo, il più possibile, super partes. E io tento di riuscirci, con tutta la difficoltà che questo può comportare. L’altra cosa di cui mi sono resa conto è che questo sistema fa un po’ perdere le persone, tende a viziare, a circuire, a farti montare la testa e a distoglierti dalla realtà”.

Considerazioni importanti e, anche, ammissioni sincere, dal cuore delle nostre istituzioni, viste con gli occhi puri di chi non vuol farsi omologare. “Bisogna rimanere costantemente con i piedi per terra: io la vivo come una sfida e provo a resistere. Parto dal presupposto che, se domani non dovessi essere più una parlamentare, non lo dovrei considerare un dramma. E poi, cerco di mantenere le abitudini di prima, guido la macchina, frequento gli amici, quando posso vado al cinema o al ristorante con loro, faccio sport e vado in vacanza. Mi sono data delle regole. E di sicuro, i miei amici non li voglio perdere, sono una delle cose più belle che la vita posso regalare”.

Pur convinta della necessità di un sano distacco dalle lusinghe del potere, la Meloni ha preso rapidamente dimestichezza con le sedute più movimentate di Montecitorio, al punto di essersi fatta la fama di una piuttosto rigida.

“Sì, dicono che sia di polso, nel senso che non tendo a spaventarmi come invece, qualcuno prevedeva. Non c’è voluto troppo tempo perché mi trovassi nel pieno dei tumulti in aula. La prima volta è stata per una richiesta di sospensione della seduta, ho dovuto prendere le mie decisioni e credo di esserci riuscita abbastanza agevolmente. Da allora in poi, è stata una successione di sedute movimentate, i problemi ci sono quasi sempre quando presiedo io, è una specie di legge di Murphy. Ma quando si è cresciuti nelle assemblee studentesche, difficilmente si teme un’assise. Quella è la forma di dibattito più pura e difficile che ci possa essere, non ci sono interessi predeterminati e tutto è assolutamente imprevedibile. Mi sono formata così”.

Dopo poco più di un anno, un bilancio si può tracciare.

“I dipendenti della Camera, i funzionari degli ufficio, con grandissima preparazione, con impagabile disponibilità e straordinaria pazienza mi hanno molto aiutato. I colleghi parlamentari mi hanno accolto con curiosità e qualche diffidenza, cosa che non mi ha sorpreso più di tanto: in effetti, viene abbastanza naturale pensare che una ragazza di ventinove anni, senza nessuna esperienza in Parlamento, che si trova improvvisamente a dover presiedere l’aula, difficilmente se la possa cavare. Devo aggiungere che ho trovato in diversi casi solidarietà e disponibilità, non soltanto nei banchi dell’opposizione, ma anche tra gli esponenti della maggioranza. Non è mancata, però, un po’ di ipocrisia, quegli atteggiamenti difformi, per cui uno dice una cosa davanti e, appena gli si girano le spalle, l’opposto. Mica solo qui, è evidente, accade un po’ dappertutto nella nostra società. Tuttavia, lavorando con umiltà, determinazione e buona volontà, non è stato impossibile sconfiggere i pregiudizi”.

L’occasione è buona anche per qualche considerazione sulla cosiddetta antipolitica, sul modo in cui la si vive in un luogo così particolare, prestigioso, ma anche uno dei bersagli preferiti di chi contesta i privilegi della “casta”.

“È vero che il distacco fisiologico che c’è sempre stato in Italia tra la politica e la gente, e che attraversa periodicamente fasi di maggiore o di minore intensità, può essere esasperato, in questa fase, da persone e realtà che tolgono credibilità alla politica. Quando il parlamentare no-global Francesco Caruso dichiara di voler piantare semi di marijuana nei vasi di Montecitorio, finisce per dare un’idea sbagliata di tutta la politica, indipendentemente dal fatto che ad esprimersi così sia un singolo deputato. Quando è stato fatto il test sulle tossicodipendenze ai parlamentari, è venuta fuori un’immagine lesiva di tutta la politica. E consideri che io sono tra coloro che, in maniera ovviamente provocatoria, hanno firmato la proposta per rendere questo test obbligatorio, perché credo che il popolo italiano debba sapere da chi è rappresentato: naturalmente, in quel caso, vedrei molto più grave che facesse uso di sostanza stupefacenti un parlamentare di opzione proibizionista.
Parola di una fervente proibizionista.

Detto questo, non credo ci sia una crisi della politica paragonabile a quelle dai primi anni novanta al periodo di Tangentopoli. Trovo strumentale voler spacciare la crisi di una parte della politica come un’avvisaglia del crollo di un intero sistema: mi riferisco alla maggioranza di centrosinistra, che attraversa grandissime difficoltà, a causa del radicalismo dilagante di una sua componente e perché mette in campo contenitori nuovi, come il Partito democratico, senza essere in grado, al di là delle operazioni di facciata, di esprimere contenuti nuovi”.

Eccoci qui di nuovo alla questione dei pregiudizi legati all’età, che Giorgia Meloni combatte con decisione. Lo spunto è la seduta del 14 giugno, quando abbiamo intervistato l’onorevole Chiara Moroni: quel giorno un gruppo di deputati leghisti aveva occupato i banchi del governo.

“Presiedevo io, pensavo a come venirne fuori ed ho sospeso la seduta, l’unica cosa da fare. Rivendico ancora oggi quella scelta, che pure è stata discussa e contestata, e confermo che non era il caso di sgomberare l’aula a forza: potrei ricordare che il regolamento non prevede una circostanza del genere, e che se avessi fatto intervenire i commessi necessari, almeno cinquanta, se non addirittura sessanta, per far sgomberare venti-venticinque parlamentari, avrei bloccato la seduta per venti minuti circa, per di più davanti alle telecamere, rendendo la situazione ancora più difficile.
Ne ho parlato con Bertinotti, una volta sospesa la seduta, e lui era d’accordo. Lo ha ribadito, successivamente, in ufficio di presidenza, che è l’organismo di governo della Camera per le questioni disciplinari.

Non è vero, quindi, come hanno scritto alcuni giornali, che ho sospeso la seduta, precipitosamente, perché non sapevo cosa fare. Al contrario, ho fatto la mia scelta. Insisto su questo, perché successivamente, nell’ufficio di presidenza, mi sono sentita dire, sia da chi pensava che avessi fatto bene, sia da chi pensava l’opposto: “Ma tanto è giovane”.

Qualcuno, addirittura, volendo esprimere simpatia nei miei confronti, è arrivato, tranquillamente, a dire: “Mi rendo conto che il presidente, essendo giovane, è persona inesperta”. È una cosa che non accetto assolutamente, tanto meno come alibi: non mi si può accusare di aver sbagliato perché sono giovane, è una forma di discriminazione. La mia risposta è stata nettissima: “Siete liberi di considerare il mio operato valido oppure criticabile, vi prego, però, di non arrivare a considerazioni di carattere generazionale, lo rivendico per dignità personale”. La maggior parte ha capito, sono rimasti colpiti dalle mie considerazioni”.

Ma la questione dell’età, continua la Meloni, aleggia sempre. “Se commetto un errore, c’è sempre qualcuno disposto a giustificarmi per via della mia inesperienza, e quando la gestione dell’aula da parte mia risulta imparziale e giusta, non manca il commento fastidioso: chi se lo sarebbe aspettato da una così giovane. Nessuno dei due atteggiamenti mi piace. Voglio tentare di dimostrare che se si hanno trent’anni non si è dei ragazzini. Alla mia età, Alessandro Magno aveva già conquistato la Persia, Rimbaud aveva scritto le sue poesie addirittura tra i 16 e i 19 anni. Soltanto in Italia si pensa che un trentenne non sia in grado di fare qualsiasi cosa”.

Perché? Siamo arrivati al cuore del problema. C’è una ragione di pura “difesa del territorio” da parte degli over o c’è un gap culturale, diffuso, in tutta la società? È una questione di autodifesa o un’insensibilità seria, cui rimediare con nuove norme e nuove procedure, dalle quote verdi all’abbassamento dell’età del voto? La Meloni prende in considerazione entrambe le questioni e lancia un appello, da pari a pari, ai suoi coetanei.

“La nostra è, contemporaneamente, una società gerontocratica e una democrazia imperfetta per rappresentatività. C’è una convergenza di responsabilità, del mondo del lavoro e di quello della politica. Tra gli imprenditori, si è considerati giovanissimi, in ascesa, quando si hanno 4546 anni e non venti di meno. Quanto alla politica, basta entrare nell’aula di Montecitorio. Si percepisce, immediatamente, che il nostro Parlamento non rispecchia la composizione del paese che rappresenta: la società è formata per oltre il 50% da donne, mentre quelle elette in Parlamento sono solo il 16%. I deputati sotto i 35 anni si contano sulla punta delle dita e, al contrario, gli over 60 sono assolutamente preminenti. Questa condizione determina un circolo vizioso, una situazione bloccata, nella quale, ovviamente, chi sta dentro tende a non lasciare spazi a chi è fuori: mors tua vita mea. Inoltre, lo devo dire, i giovani troppo spesso non sono in grado di guadagnarsi i propri spazi, si fanno strumentalizzare, accettano di essere soggetti passivi e non riescono a vivere pienamente il proprio tempo.

Da un po’, i media rappresentano la generazione dei giovani come quella del bullismo, una generazione malata, i bulli e le pupe: i ragazzi che giocano solamente a fare i gradassi, le ragazze che vogliono andare nude in televisione. Non è vero, ci sono tante altre storie, che vedono i giovani protagonisti, storie di impegno sociale, d’amore, di abnegazione, di persone che sacrificano se stesse per dare e regalare qualcosa agli altri, in tanti campi, compresa la politica. Se uno vuol palare di giovani che fanno politica, e pensa ai no-global, che, incappucciati, vanno a tirare le bottiglie molotov, non va tanto lontano. Invece, ci sono tanti altri ragazzi come me, lo rivendico, che hanno capito che essere ribelli significa costruire e non distruggere, che questa scelta richiede molto più coraggio, e quindi si rimboccano le maniche e provano a dare vita, con le proprie mani, ad una realtà diversa.

Avere coraggio non significa fare volontariato, mettere al mondo un bambino, con un lavoro precario e l’appartamento in affitto, impegnarsi per arrivare alla fine del mese quando non si sa come riuscirci. Significa, anche, fare dieci-quindici anni di militanza politica senza avere assolutamente nulla in cambio, solo per passione. Di tutto questo non si parla, i media non se ne occupano, pensando che non faccia notizia. A me dispiace che questa maggioranza silenziosa, cioè senza voce, che esiste e crede in determinati valori, subisca l’ingiustizia di non essere rappresentata, non si ribelli e non si faccia notare. Il rischio è che questi giovani, lasciati soli, non credano più che le cose possano cambiare o si arrendano.

Mi sto occupando, per fare un esempio, del disagio degli specializzandi in medicina, che devono fare un percorso formativo molto lungo, anche di dieci-undici anni, e che, adesso rischiano di perdere un altro anno e mezzo perché, paradossalmente, l’esame di abilitazione, obbligatorio per accedere alla scuola di specializzazione, è stato stabilito che si svolgerà due settimane dopo l’inizio della loro scuola. Dopo e non prima, chiaro? Un’assurdità, frutto di lungaggini burocratiche e di un’evidente mancanza di coordinamento: sto cercando di aiutarli, ho presentato un’interpellanza urgente, siamo in attesa di una soluzione definitiva.

Le posso dire, che uno dei ragazzi che l’altro giorno era venuto a manifestare in piazza, davanti al Parlamento, mi ha detto: “Ho cambiato idea sulla politica, credevo non servisse a risolvere i problemi”. Ecco, se i nostri giovani si convincono che non cambierà mai niente, che tutto è inutile, perché meravigliarsi se alcuni di loro si lasciano andare a percorsi di puro individualismo e di esclusivo interesse personale, e calpestano libertà e diritti altrui?”.

Il discorso scivola dalle valutazioni generali alla vicenda personale dell’onorevole Meloni. “Fortunatamente, non sempre è così. Io ho l’onore di presiedere un movimento giovanile, come Azione giovani, che conta, su tutto il territorio nazionale, oltre 60.000 iscritti: conosco tantissimi ragazzi che fanno politica per passione, non perché attratti da una possibilità di carriera.

Come è capitato a me, da quando avevo quindici anni e certamente non desideravo, da grande, fare il vicepresidente della Camera: sono stata straodinariamente turbata dalla strage di via D’Amelio. Un dramma seguito a Tangentopoli, al collasso del sistema politico, alla strage di Capaci. Un periodo terribile. Ricordo che, dopo aver visto il telegiornale con le immagini dell’assassinio del giudice Borsellino e della sua scorta, ho detto: “Bisogna fare qualcosa”.

Ero al liceo, mi piacevano le lingue, e intanto avevo scoperto la poesia: mi avevano colpito Foscolo e poi i francesi, i decadenti, l’Albatros di Baudelaire, l’incredibile coerenza di Rimbaud, il veggente, il poeta maledetto, che dopo aver scritto tutto da giovanissimo, se n’è andato in giro per il mondo, a fare quella vita pazzesca. Mi piaceva chi aveva un mito dell’antiborghese e si proclamava rivoluzionario, anche se poi leggevo più con l’anima che con gli occhi della politica”.

Giorgia Meloni rievoca quegli anni, svelando anche un trauma familiare subito in piena adolescenza. “Vivo tuttora, dove sono nata, alla Garbatella, a Roma sud. Sono innamorata di quei luoghi: sto cercando casa, non penso che verrò in centro, rimarrò in quel quadrato della città. Ci sono cresciuta con mia madre, i miei nonni e mia sorella, che adesso fa anche lei politica. I miei si sono separati quando avevo tre anni, ho continuato a vedere mio padre ad intervalli, fino a quando non ho compiuto undici anni. Poi, lui è partito e non l’ho più visto. Però ho rimosso tutto, non provo neanche risentimento, nulla”.

Impossibile non pensare, anche solo un attimo, a Rimbaud, tra i preferiti dell’onorevole Meloni, che da bambino aveva vissuto un’esperienza simile. Ma la parentesi privata si chiude rapidamente. “Dopo la strage Borsellino, avevo assistito a scuola e nel mio quartiere, ad alcune manifestazioni del Fronte della gioventù, il movimento giovanile del Msi. Quei ragazzi rappresentavano un mondo che era stato fuori dalle logiche affaristiche e di potere di una certa politica di quegli anni e che non aveva nessuna responsabilità nello sfascio degli anni novanta: incarnavano l’alternativa.

I giovani di sinistra, al contrario, mi erano sembrati contraddittori, con quel loro ammantarsi da difensori della libertà e dei diritti, salvo poi manifestare la più assoluta intolleranza nei confronti di chi non la pensava come loro. Non nascondo, inoltre, che la mia simpatia per i ragazzi del Fronte si era irrobustita dopo che, alcuni di loro erano stati denunciati per attentato agli organi costituzionali dello Stato, perché avevano partecipato ad un girotondo, assolutamente, pacifico attorno a Montecitorio, indossando delle “pericolosissime” magliette con la scritta: “Arrendetevi, siete circondati”. Si erano tenuti per mano e avevano urlato qualcosa come: “Andate a casa”. Tutto qui. Eravamo in piena stagione Mani pulite, il riferimento era ai parlamentari inquisiti. La sera, i Tg avevano aperto parlando di “assalto squadrista al Parlamento”, di atmosfera da golpe, assurdità.

Mi sono presentata al circolo del Fronte della gioventù, alla Garbatella, sono entrata e non sono uscita più: mi sono subito messa a fare politica tra gli studenti, prima alle medie, poi alle superiori, poi all’università. Non avevo scelto di guardare al passato, semmai il contrario: nel momento in cui la politica appariva lontanissima dalla gente, la destra, radicata nel territorio, fedele ai suoi principi, fuori da sempre dai giochi di potere, rappresentava la più grande novità nel panorama politico. Era esattamente quello che cercavo”.

Intanto il Movimento sociale si scioglie a Fiuggi, nel 1995, nasce Alleanza nazionale. Azione giovani prende il posto del Fronte della gioventù. È da dirigente della nuova organizzazione giovanile della destra che Giorgia Meloni consegue alcuni importanti risultati politici. “Abbiamo chiesto e ottenuto l’apertura pomeridiana degli istituti, perché la scuola potesse essere un punto di riferimento per le comunità di quartiere e per i ragazzi, in un paese in cui non ci sono spazi di aggregazione: l’allora ministro Berlinguer ha accolto la nostra proposta. Io, personalmente, inoltre, sono stata promotrice della campagna contro la faziosità dei libri di scuola sulla storia del Novecento. Ricordo di essermi letta tantissimi testi, adottati in diverse classi, e di aver trovato una quantità impressionante di falsi storici, omissioni, mistificazioni. L’ideologia marxista aveva fatto da velo all’affermazione della verità: la nostra denuncia ha avuto una vasta eco, ne hanno parlato a lungo in televisione. Mi piace ricordare anche di aver presentato una proposta di legge perché le scuole prestassero i testi scolastici agli studenti che non possono permettersi di comprarli”.

Nel ricostruire il periodo di evoluzione delle formazioni della destra, la Meloni traccia un autoritratto in cui, tra le passioni, domina ancora oggi la politica che, per lei, non può essere un mestiere. “Tutto sommato, ho vissuto con maggiore difficoltà il passaggio da Fronte della gioventù ad Azione giovani, nel ’96, che non quello dal Movimento sociale ad An, di un anno prima: il partito lo frequentavo poco, sentivo più mia la casa del Fronte, da noi c’è sempre stata una grande tradizione di autonomia del gruppo giovanili, i tesserati non sono, necessariamente, iscritti al partito, e viceversa, per gli under 30.

In ogni caso, malgrado siano passati quindici anni dall’inizio del mio impegno e sia arrivata ai vertici delle istituzioni, continuo a non considerare la politica come una professione e penso che questo salto non lo farò mai. Concepire l’attività in un partito o nel Palazzo, come un lavoro, secondo me, fa male: si finisce per essere schiavi della politica, per volerla fare a tutti i costi, ance per decenni, e quindi per farla male o non farla del tutto. La politica deve rimanere uno strumento per ottenere qualcosa, non l’obiettivo del nostro agire: bisogna essere disposti anche a lasciarla, quando è il momento”.

Sul tema, delicato e controverso, dell’odio politico e dei possibili valori condivisi, che consentano al nostro paese di voltare pagina rispetto al passato recente, dal vicepresidente della Camera arrivano parole importanti, ma anche polemiche. “C’è ancora chi pensa sia possibile costruire consenso sull’odio: giusto un anno fa, a settembre, Azione giovani ha invitato all’Eur, alla festa del movimento, intitolata ad Atreju il protagonista della “Storia infinita”, il presidente Bertinotti: gli abbiamo chiesto di partecipare ad un dibattito con Gianfranco Fini. Bertinotti ha accettato: è stato il primo esponente comunista a partecipare ad una manifestazione di quel genere, della nostra area.

È stato un confronto civile, cortese, a tratti anche divertente. Bertinotti ha esposto le sue tesi e si è preso pure qualche applauso, malgrado parlasse a giovani che, certamente, non condividono il suo punto di vista. Sia lui, sia Fini hanno detto, chiaramente, quanti guai avessero provocato, negli anni passati, gli opposti estremismi, le stagioni delle ostilità violente, costate la vita a tanti, troppi giovani. È stato un segnale molto importante. È stato detto, chiaramente, da entrambe le parti che la politica, in passato, ha avuto le sue responsabilità e che da quella esperienza bisognava trarre insegnamento: ci si può ritrovare da avversari nelle assemblee di scuola, come in Parlamento, ovunque, ma in un sistema democratico non si possono accettare criminalizzazione, violenza, discriminazione. E non si può nemmeno minimizzare, come fanno, invece, esponenti della sinistra radicale, il riaffiorare delle Brigate rosse, un fenomeno preoccupante che rischia di portarci indietro di trent’anni.

Quel dibattito ha avuto un significato importante, esattamente nella direzione del superamento di quella lacerazione cha ha segnato fino ad oggi la storia della repubblica. Eppure, c’è stato chi ha voluto condannare l’avvenimento. Docenti della Sapienza, persona che hanno la responsabilità di formare i giovani, hanno rimproverato a Bertinotti di aver dialogato con noi, perché, hanno detto, non siamo antropologicamente degni. E, nella sinistra radicale, c’è stato chi, come Marco Rizzo, dei Comunisti italiani, ha portato una corona di fiori alle Fosse ardeatine. È stata, chiaramente, un’iniziativa strumentale, un tentativo di rubare qualche “votarello” a Rifondazione. Per una partita puramente elettoralistica, si è tornati ad istigare all’odio, dimenticando che i ragazzi di Azione, nella migliore delle ipotesi, sono nati negli anni ottanta e quindi non hanno nulla a che vedere con le tragedie della seconda guerra mondiale. Quei giovani, additati come fascisti, hanno dato grande dimostrazione di cosa vogliano dire le parole democrazia, pluralismo, rispetto e identità: le identità forti non hanno paura del confronto, chi è fiero di essere se stesso non teme di parlare con l’altro”.

Quei ragazzi sono un po’ anche i suoi: l’onorevole Meloni, che si è formata, politicamente, nel movimento giovanile di Fini, da tre anni ne è la presidente. “Sono studenti, disoccupati, professionisti, ci sono famiglie. Insieme, abbiamo organizzato feste, concerti, ma anche cortei, autogestioni, occupazioni, di tutto. Rabbia e amore sono i loro tratti distintivi: i giovani tendono ad amare molto, ma sentono anche una gran voglia di ribellione e questo rende, giocoforza, istintivamente radicali le loro posizioni. Azione giovani non è un movimento incline al compromesso, ma non esprime nessuna posizione “nostalgica”, quanto piuttosto la difesa di valori e principi tradizionali: patria e famiglia anzitutto e, ancora, centralità della vita, dimensione spirituale dell’esistenza, rifiuto del materialismo e dell’individualismo, comunità. La dimensione comunitaria è molto sentita, con buona pace di chi sostiene che la destra è per l’individualismo. Indica la capacità di vivere il proprio percorso in relazione agli altri, dal nucleo familiare fino all’intera comunità nazionale. L’individualismo noi lo combattiamo. Negli anni del centrodestra al governo, ho temuto che Azione giovani perdesse lo smalto di un movimento, tradizionalmente, all’opposizione. Invece, devo dire che ci siamo smarcati piuttosto bene dal collateralismo, probabilmente per via di quella tendenza all’autonomia dal partito di cui ho già parlato. Abbiamo criticato alcune scelte del governo e abbiamo formulato le nostre proposte: il problema del file sharing, la musica scaricata illegalmente da Internet, non si risolve soltanto con l’introduzione di pene durissime per i pirati, come prevedeva il decreto Urbani. Abbiamo insistito sul fatto che va affrontato anche il problema del costo della musica: i cd hanno prezzi assolutamente proibitivi. Tenuto conto del fatto che la musica è il principale veicolo di aggregazione giovanile, le scelte di politica fiscale sui cd dovrebbero essere equivalenti a quelle sui libri.

Abbiamo detto anche che, per prevenire le stragi del sabato sera, la chiusura anticipata delle discoteche sarebbe servita a poco. Tanto per dirne una, i buttafuori dovrebbero diventare veri e propri operatori sociali, in grado, ad esempio, di mettere su un taxi i giovani ubriachi, per impedire loro di guidare in quelle condizioni, invece di limitarsi a cacciarli fuori dai locali, perché magari molestano qualcuno. L’anno scorso, comunque, siamo tornati all’opposizione e con il governo Prodi, devo dire, stiamo vivendo grandi soddisfazioni”. (Ride).

“Prossimamente, presenteremo una proposta di legge che ha per tema l’incentivazione della maternità e della natalità. C’è un problema gravissimo di demografia nel nostro paese: secondo le previsioni Istat, nel 2050 il 35% della popolazione avrà più di 65 anni. Questo è un tema che sembra non interessi nessuno e invece è decisivo: non facciamo niente per favorire la nascita di bambini, il governo si occupa di tutt’altro”.

L’onorevole Meloni torna in aula, e ci lascia con parole non formali: “Un giorno anche a me piacerebbe avere una famiglia. Per adesso, resto molto concentrata sui miei impegni: sono una piuttosto accentratrice e, se dovessi spegnere il telefono anche solo per mezza giornata, mi sentirei in ansia, come se fosse impossibile fare a meno di me. Certo, lavorare è stato molto importante per la mia carriera. Oltre alla determinazione, l’umiltà e la fortuna”.

1) Pubblichiamo, uno stralcio dal libro “Sotto i 40. Storie di giovani in un paese vecchio”, di Michele Cucuzza (Donzelli Editore 2007). Riproduzione riservata.

*Dice di sé.
Michele Cucuzza. Catania 1952, giornalista professionista dal 1979, esordisce a Milano a Radio Popolare. Approda in Rai nel 1985, realizzando più di mille servizi per i telegiornali; per dieci anni conduce le varie edizioni del Tg2 e, dal 1998 “La vita in diretta”, in onda tutti i pomeriggi su Rai Uno. È autore di “Ma il cielo è sempre più blu” (Editori riuniti, 2006) sulla rivolta dei giovani di Locri contro la ‘ndrangheta.


LUIGI MALERBA
Tutti i sogni sono sempre un po’ misteriosi e questo è il loro bello,ma certi sono misteriosissimi, cioè non si capisce niente,sono come dei rebus. Mentre i rebus hanno una soluzione,loro non ce l’hanno, puoi dargli cento significati diversi el’uno vale l’altro.(Da “Il serpente”, 1963)
NEOREALISMO Clap - Roberto Rossellini, a Maiori, sedotto da Ingrid

Un premio ed un festival internazionale ricordano come nella suggestiva costiera amalfitana sia passato ed abbia operato uno dei più grandi maestri del cinema italiano

Clap*

Roberto mi ha insegnato che il soggetto di un film è più importante dell’originalità dei titoli di testa, che una buona sceneggiatura deve stare in dodici pagine, che bisogna filmare i bambini con maggior rispetto di qualsiasi altra cosa, che la macchina da presa non ha più importanza di una forchetta e che bisogna potersi dire, prima di ogni ripresa: “O faccio questo film o crepo”.

François Truffaut

 

 

Ci sono uomini che lasciano un segno nel tempo, che sopravvivono a mode e gusti del momento. E ci sono tempi che alcuni uomini riescono, profeticamente, a leggere riuscendone ad imprimere l’essenza nella loro opera. Così è accaduto per Roberto Rossellini e quello che, a posteriori, è stato definito il movimento del neorealismo. Ciò che più sorprende è che sebbene nella sua opera, la cifra della realtà descritta sia, fuor di dubbio, caratterizzata dall’amarezza e dalla povertà, il maestro Rossellini era, visibilmente, ammaliato ed affascinato dalla forza della fantasia. E c’è un luogo, nel quale, ancora oggi è possibile continuare a respirare tutto questo: la splendida costiera amalfitana ed in particolare la cittadina di Maiori, che al grande Maestro ha dedicato un premio ed un festival internazionale. Una lunga chiacchierata con il giornalista e scrittore Alfonso Bottone, mi regala la possibilità di immergermi in quell’atmosfera e in quell’Italia che sembra così lontana.

Maiori e tutta la costa d’Amalfi, furono per Rossellini non solo scenari unici per alcuni dei suoi capolavori, ma anche i luoghi che videro nascere i suoi “grandi” amori: prima con Anna Magnani, poi con la svedese Ingrid Bergman.

“È assolutamente vero. Le cito a memoria quella che ormai, da queste parti, è una vera e propria leggenda: “Caro signor Rossellini, ho visto i suoi film “Roma città aperta” e “Paisà” e li ho apprezzati moltissimo. Se ha bisogno di un’attrice svedese che parla l’inglese molto bene, che non ha dimenticato il tedesco, che si fa quasi capire in francese, e in italiano sa dire solo “ti amo”, sono pronta a venire in Italia per lavorare con lei. Ingrid Bergman”.

Nessun regista avrebbe potuto resistere…

“La famigerata lettera, che contiene questa dichiarazione, fu fatta recapitare dalla Bergman a Rossellini, proprio all’Hotel Luna di Amalfi, mentre era a pranzo con la Anna Magnani e, forse, fu la causa della crisi del loro rapporto d’amore appassionato, sì, ma anche tanto tormentato”.

Nel dopoguerra, Rossellini decise di fare della costa amalfitana e di Maiori in particolare, il set di molti suoi celebri film. Perché?

“Rossellini era un uomo di cultura e di grande umanità: “Paisà”, “Il miracolo”, secondo episodio de “L’amore”, “La macchina ammazzacattivi”, “Viaggio in Italia”, “Francesco giullare di Dio” erano tutti stati ambientati in questi spettacolari paesaggi. Il Maestro, infatti, si era innamorato non solo dei luoghi magici della costa, ma anche e soprattutto degli uomini e delle donne che la abitavano”.

Un nome per tutti?

“Sicuramente, protagonista indiscusso e personaggio simbolo di quel cinema è Alfonso Bovino il bambino dell’episodio napoletano di “Paisà”, che Rossellini conobbe nella Torre Normanna: oggi ha settant’anni, fa il pescatore e non ha mai desiderato una vita diversa da quella che ha avuto”.

Per quale ruolo era stato scelto?

“Rossellini lo volle per la parte di un piccolo scugnizzo che rubava le scarpe ad un soldato di colore. La cosa più bella è che, anni dopo, Bovino a chi chiedeva il motivo di tanta naturalezza nello stare davanti la macchina da presa, rispose: “Non fu per me difficile recitare quella parte, perché per la fame, durante lo sbarco degli americani a Maiori, avevo più volte fatto ciò che il maestro mi chiedeva sul set”.

Cosa aveva maggiormente colpito Rossellini di quegli uomini e di quelle donne?

“Il Maestro ripeteva spesso: “Sono dei pazzi, degli ubriachi di sole. Ma sanno vivere valendosi di una forza che pochi di noi posseggono: la forza della fantasia”.

Oggi lo chiameremmo casting. Ma all’epoca come venivano scelte le comparse dei film?

“Rossellini le sceglieva tra la gente del popolo: lo straccione, il prete, i frati, il popolo minuto. Più che comparse, però, erano i veri protagonisti delle sue opere, interpreti di quella realtà amara che di volta in volta veniva impressionata sulle sue pellicole”.

È rimasto qualcosa di quel tempo? Ricordi, sensazioni?

“Devo dire di sì. È ancora vivo, infatti, il ricordo della sua presenza, della sua signorilità e della sua umanità, testimoniato anche dall’aiuto economico, dato alla gente di Maiori che usciva dalla disfatta della guerra, tramite i buoni uffici dei monaci del convento di San Francesco”.

E in ricordo di quella presenza, è stato istituito il Premio internazionale Roberto Rossellini – Maiori film festival. Ci dice quando e per opera di chi è nato?

“Il premio è stato istituito nel 1999, ed è organizzato dall’Associazione Maiori film festival, il cui presidente e fondatore è Luigi Ferrara”.

Quando si svolgerà la prossima edizione?

“La IX edizione del premio si terrà nell’ultima settimana di ottobre e, quest’anno, sarà dedicata alla figura della grande Anna Magnani, con la quale il maestro del neorealismo girò “Roma città aperta” e “L’amore”, ma soprattutto l’episodio “Il Miracolo” nel quale, insieme a Nannarella, appariva come comparsa Federico Fellini, allora aiuto regista di Rossellini”.

A chi si rivolge questo premio e quali sono le sue finalità?

“Il premio ha come target soprattutto i giovani che frequentano le scuole di cinematografia di qualsiasi paese del mondo. Lo scopo è di dare ad alcuni di loro la possibilità di concretizzare i propri sogni artistici”.

In cosa consiste, praticamente, la partecipazione al festival?

“I partecipanti dovranno presentare sceneggiature di cortometraggi che saranno esaminate da una giuria di esperti presieduta da Renzo Rossellini, figlio di Roberto. Ai tre premiati sarà data l’occasione di girare i cortortometraggi (12 minuti) tra le vie e i vicoli della costiera amalfitana, su un set cinematografico straordinario, carissimo al grande Maestro del neorealismo italiano”.

Altri dettagli tecnici?

“Alla fine di ottobre saranno scelte tre sceneggiature che saranno realizzate tra febbraio ed aprile 2009 e presentate ufficialmente nel mese di luglio dello stesso anno”.

Quali novità nella prossima edizione?

“Innanzitutto l’associazione ha alzato il “tiro”: il festival metterà le ali in quanto non avrà come palcoscenico solo la cittadina di Maiori. Una serata è prevista al teatro Augusteo di Salerno, con un omaggio postumo ad Ignazio Rossi, organizzatore del locale festival cinematografico, ed altre nei maggiori centri della costiera: da Amalfi a Ravello, ad Atrani. Una serata del mese di luglio sarà dedicata alla proiezione di tutti i 21 cortometraggi prodotti nelle passate edizioni. Ed ancora, la realizzazione di due corti che hanno come punto di riferimento il capolavoro di Rossellini “L’amore”, pellicola che evidenzia due aspetti del sentimento amoroso raccontati negli episodi “La voce umana” e il “Miracolo”. Il film, che fu girato in gran parte a Maiori e per pochi fotogrammi nel Fiordo di Furore, registrò la partecipazione collettiva della gente del luogo. Infine, ci è sembrato opportuno dedicare una serata al maestro Dino Risi, per illustrarne e ricordarne la grandezza, proiettando alcune delle sue più belle pellicole ”.

Per chi volesse saperne di più?

“Abbiamo un sito internet www.premiorossellini.com, collegandosi al quale è possibile ricavare ulteriori notizie e verificare tutti i dettagli che fossero necessari per la partecipazione”.

*Dice di sé.
Clap. La sua vita è in un battito d’ali, nell’applauso del pubblico.

Francesca Magini - Roma città aperta, il cinema diventa realtà nuova

Movimento composito, che abbraccia diverse esperienze espressive, il neorealismo influenzò, con le sue istanze sociali, differenti campi artistici

Francesca Magini*

Nel 1945 l’Italia è un cumulo di macerie e la gente ha fame. Ma è proprio a partire da questa fame e da queste macerie che, con uno straordinario spirito di rivalsa, il Paese cerca di risollevarsi. A questo generalizzato fenomeno di rinascita non sono, naturalmente, estranei molti intellettuali italiani i quali, dopo il lungo letargo del Ventennio, hanno scoperto nella lotta di liberazione e nel conseguente contatto con le masse diseredate, un nuovo e differente modo di porsi di fronte alla realtà.

Il termine neorealismo, secondo quanto riferisce Luchino Visconti, fu applicato per la prima volta al cinema dal montatore Mario Serandei, proprio a proposito di un film del regista milanese “Ossessione” (1943).

Tale vocabolo si ricollegava, idealmente, ad una tendenza della cinematografia italiana risalente già al 1913, che con film quali “Sperduti nel buio” (1914), di Nino Martoglio e “Assunta Spina” (1915), di Gustavo Serena richiamava, palesemente, un verismo di marca letteraria. Ed è proprio al verismo e alla lezione della letteratura realista francese del 1800, Balzac e Zola, che la critica guarda alla ricerca degli antecedenti storici del neorealismo.

A queste lontane fonti si può quindi aggiungere l’influenza del cinema francese degli anni trenta (J. Renoir, M. Carnè, J. Duvivier), o di film come il già citato “Ossessione”, “I bambini ci guardano” (Vittorio De Sica – 1943) o “Uomini sul fondo” (Francesco De Robertis – 1941), pellicole che gettano uno sguardo più crudo e anticonformista sulla realtà. Aquesto quadro di riferimento, comunque schematico, è infine tutt’altro che estraneo l’apporto critico di riviste come “Cinema” e “Bianco e Nero”, per cui scrissero futuri registi quali Giuseppe De Santis, Antonio Pietrangeli e Carlo Lizzani, che sollecitavano una spinta realista nel cinema nostrano.

Movimento composito che abbraccia diverse esperienze espressive, il neorealismo influenzò con le sue istanze sociali, svincolate da ogni forma di calligrafismo e di artificio, diversi campi artistici. Si parla così, accanto ad un più noto neorealismo cinematografico, di un neorealismo pittorico e letterario. Nello specifico, se il neorealismo cinematografico ha finito per identificarsi nell’immaginario collettivo con il neorealismo tout court, ciò è dovuto, principalmente, alla sua carica diffusiva e alla sua capacità di essere, più facilmente, fruibile da parte di un vasto pubblico.

La scarsità di mezzi e l’indisponibilità di teatri di posa, dopo il 1944, determinò inoltre l’obbligo di girare nelle strade, di ambientare i lungometraggi nei luoghi autentici: ciò divenne una sorta di cifra stilistica del neorealismo, che riuscì ad ottenere un’incredibile carica di verità da queste apparenti limitazioni.

Rifiutando il cinema fascista dei telefoni bianchi e della commedia rosa di intrattenimento, in parte diretta conseguenza della letteratura languida del romanticismo della seconda metà dell’ottocento, il neorealismo recupera i fermenti di giustizia sociale che pervadevano la nazione, gettando, al contempo, un più libero sguardo sui disastri, le sofferenze, i problemi irrisolti che il fascismo e la fine del conflitto avevano lasciato in eredità. Meglio ancora che scuola, movimento o tendenza, come qualcuno ha preferito dire, il neorealismo può essere definito come un nuovo, rivoluzionario sguardo sul mondo.

In questa stagione di passaggio, caratterizzata dall’impulso irrefrenabile a rivelare l’Italia agli italiani, senza più l’ausilio di maschere, ipocrisie o tabù, il neorealismo s’incunea come esperienza principe di un diverso e più autonomo sguardo sulla realtà e sulla storia.

Si individua qui il cosiddetto fenomeno della “seconda vista” che porta a scorgere, al di là della realtà apparente, la sostanza vera, autentica delle cose. Il cinema torna allora alle origini, si fa “primitivo”, ritrova nell’improvvisazione, nel caso, nella costruzione quotidiana della sceneggiatura, nella recitazione non professionale, in una certa ruvidezza dell’immagine e del montaggio, la sua essenza. Il linguaggio si fa semplice ed elementare. Il rapporto tra regista, macchina da presa e spettatore cambia: si comincia a credere che il punto di vista della cinepresa non debba più coincidere con quello dell’autore, ma possa invece riflettere punti di vista plurimi e coincidenti con i molteplici sguardi della gente.

Avviene cosi un avvicinamento tra il pubblico e l’opera, sia per quanto concerne la forma, sia per quanto riguarda i contenuti. Come notò Cesare Zavattini, indubbiamente il più importante sceneggiatore e teorico del neorealismo, “l’artista e l’uomo apparivano così uniti, che non si sa bene dove cominciava l’uno e dove finiva l’altro; più che il come, prima colpiva la cosa da raccontare, e se questo movimento postulava l’uomo prima dell’artista, l’artista era felice di venire dopo l’uomo”.

La lingua stessa muta; non più quella pomposa, “romana” e dannunziana dei discorsi mussoliniani, ma quella frammentata e istintiva dei dialetti.

Il neorealismo scopre la dimensione quotidiana del vivere e lo spazio pubblico in cui si svolgono drammi, che tutti possono riconoscere; scopre che non esiste più uno sguardo privilegiato che impone una lettura precostituita della realtà, scopre l’esistenza di personaggi che si muovono con naturalezza in uno spazio scenico, tanto da fondersi con esso.

A questo proposito è forse utile riportare una dichiarazione di Roberto Rossellini, in merito al suo modo di procedere nella creazione dello spazio scenico: “D’abitudine – scriveva il regista romano – nel cinema tradizionale si “taglia” una scena in questo modo: piano totale, si precisa l’ambiente, si scopre un individuo, ci si avvicina ad esso, piano medio, piano americano, primo piano, e si comincia a raccontare la sua storia. Io procedo nella maniera esattamente opposta: un uomo si sposta e grazie al suo spostamento si scopre l’ambiente in cui si trova. Comincio sempre con un primo piano, poi il movimento di macchina, che accompagna l’attore, scopre l’ambiente”. Un’estetica del “pedinamento del vicino di casa” introduce così lo svelamento di un universo di gesti e di storie piccole. In questo modo, quando la storia è ancora cronaca, il neorealismo ha il coraggio di prendere la cronaca e di elevarla a storia.

“Roma città aperta” (1945) di Roberto Rossellini è il film che segna l’inizio della nuova epoca. Realizzato con mezzi di fortuna, la pellicola prende spunto da fatti di cronaca relativi al periodo in cui, caduto il fascismo, Roma, in attesa dell’arrivo delle truppe americane, fu teatro dello scontro tra le forze della resistenza e la rabbiosa determinazione dell’esercito tedesco.

Alcune scene del film diventarono immediatamente celebri: quella di Pina, la popolana interpretata da Anna Magnani, che viene falciata dai colpi di mitra dei soldati tedeschi che, nel corso di un rastrellamento, hanno prelevato il suo uomo, Francesco, sospettato di essere responsabile di un attentato; quella delle torture subite da Manfredi, l’intellettuale comunista interpretato da Marcello Pagliero; o quella della fucilazione di don Pietro (Aldo Fabrizi).

Se il film di Rossellini presenta ancora aspetti tradizionali – è interpretato da attori di grande esperienza e popolarità come Anna Magnani e Aldo Fabrizi e fa ricorso a metodi di enfatizzazione drammatica degli episodi – tuttavia esso costituisce un preciso segnale circa la direzione in cui si dovrà muovere il nuovo cinema: trarre ispirazione dalla realtà quotidiana, dare la priorità assoluta alla cronaca e alla forza delle reazioni morali, di fronte alla disumanità di una tragedia che non ha risparmiato nessuno.

La forza d’impatto di “Roma città aperta” trovò subito dopo conferma in “Paisà” (1946) e “Germania anno zero” (1948), con i quali Rossellini completava una sorta di trilogia della guerra, in “Sciuscià” (1946) e “Ladri di biciclette” (1948) di Vittorio De Sica e in “La terra trema” (1948) di Luchino Visconti. Data la non omogeneità, culturale, ideologica e politica, dei registi, che si sono appropriati dello sguardo neorealista, risulta chiaro che tutte le componenti del movimento, fin qui delineate, presentano, in ciascun autore, caratteristiche originali.

La provenienza dei vari registi è a ben vedere la più disparata: Rossellini aveva girato film di propaganda nel periodo anteriore al 1943 (“La nave bianca”, 1941 – “Un pilota ritorna”, 1942); De Sica, con al fianco l’inseparabile Zavattini, aveva alle spalle una notevole esperienza attoriale e alcune regie; Visconti, infine, possedeva una vasta conoscenza letteraria, teatrale e delle arti figurative.

Tuttavia, nonostante le peculiarità proprie di ognuno, è possibile individuare, almeno in una prima fase dell’esperienza neorealista, una certa unitarietà di fondo sia a livello linguistico, sia a livello tematico.

Distinguiamo, in effetti, una prima fase, (1945 – 1948), più unitaria, in cui si assiste ad un’intensa collaborazione tra artisti, registi e politici, ed una seconda fase, (1949 – 1956), in cui il quadro si irrigidisce e i rapporti di collaborazione e di osmosi tendono a tramutarsi in direzione dei poli culturali sui registi. A questo mutamento non è estraneo il cambiamento dell’assetto politico che vede l’affermarsi come partito di governo della Democrazia cristiana col conseguente definitivo ingresso dell’Italia nell’orbita del blocco occidentale.

A partire dal 1948, l’anno de “La terra trema” di Visconti, a quasi più nessuno sarà concesso di realizzare, liberamente e con coerenza, i soggetti desiderati.

Privo di un alveo ideologico definito in cui scorrere, il neorealismo, da questa data, finisce per risentire in maniera oppressiva delle accuse che gli vengono mosse tanto da destra, quanto da sinistra.

Parte della sinistra, che si riconosce nell’estetica del realismo sota, rinfaccia al neorealismo di limitarsi alla denuncia, senza avere il coraggio di passare alla fase critica, mentre parte del mondo cattolico gli rimprovera l’ardire di gettare uno sguardo disincantato e indiscreto sulle piaghe della nazione.

Ai denigratori, che pescano un po’ qua e un po’ là, nei due schieramenti, si oppongono le forze più progressiste e liberali che riconoscono al neorealismo il merito di aver introdotto nella narrativa cinematografica una vena autenticamente popolare, in grado di dar voce agli interessi dell’opinione pubblica e ai problemi di giustizia sociale.

Sotto il prevalere delle varie spinte critiche e a seguito anche dei mutati equilibri politici e culturali, la grande stagione di anarchia e di emancipazione espressiva, che va sotto il nome di neorealismo, imbocca lentamente, ma inesorabilmente, la strada dell’omologazione ai canoni culturali del nuovo sistema.

*Dice di sé.
Francesca Magini è nata a Napoli ventinove anni fa. Innamorata del teatro, ha presto abbandonato la terra natia per trasferirsi a Roma dove si è laureata al Dams. Improvvisamente travolta dalla passione per il giornalismo, è approdata prima a Radio Rai e poi a Repubblica Tv, il canale televisivo dell’omonimo quotidiano. Collabora con La7 e il Corriere della sera.


LUCREZIO
Onde il più delle volte in sogno appare o cosa a cui per obbligos’attende o che gran tempo esercitossi innanzi oche molto ci appaga.(Da “De rerum natura, I sec. a.C.)
ANATOLE FRANCE

Era uno di quegli uomini che pretendono di rinchiudere

l’universo in un armadio. Questo è il sogno di ogni collezionista.

E siccome questo sogno è irrealizzabile, i veri collezionisti,

come gli amanti, anche nella felicità vengono colti da tristezza

infinita. Sanno che non potranno mai chiudere a chiave la terra

intera, mettendola in una vetrina.

Da qui viene la loro profonda malinconia.

(Da “La carezza del bibliofilo”, “Il manifesto” 11/08/2008 )

LETTURE Matteo Lo Presti - Nicola Chiaromonte, intellettuale non allineato

Per concessione della moglie Miriam, pubblichiamo le lettere inedite dal grande letterato ad Albert Camus e Ignazio Silone

Matteo Lo Presti*

Aveva novantacinque anni Miriam Chiaromonte e una vitalità da ragazzina. Un brutto incidente casalingo l’ha costretta a trascorrere gli ultimi giorni della sua vita in ospedale, dove è spirata nella prima settimana di giugno. Una perdita per la cultura italiana e per tutti quelli che hanno avuto l’onore e la fortuna di conoscerla e di avere la possibilità di frequentare casa sua nei pressi della via Salaria.

Moglie dai tempi delle seconda guerra mondiale di Nicola Chiaromonte, uno dei maggiori e dei più trascurati (dimenticati?) intellettuali, che il nostro Paese abbia avuto negli ultimi cinquant’anni, Miriam aveva continuato un’intensa attività di diffusione e di pubblicazione delle opere del marito. Con molte cautele e con molto rigore, aveva accettato di fornire alla nostra rivista materiale inedito, soprattutto epistolare, che qui di seguito pubblichiamo, dispiaciuta perché ormai tutte le carte di Chiaromonte siano da leggere presso l’università americana di Yale.

Chiaromonte aveva vissuto in America, dopo essere stato eroico combattente nella squadriglia d’aviazione di André Malraux, durante gli ultimi anni della guerra civile in Spagna, e dopo essere stato esule in Algeria e Marocco. Rimase in America, a New York, fino al 1949 e in quegli anni incontrò Miriam, con la quale dopo tre anni trascorsi a Parigi, ritornò in Italia nel 1953. In sodalizio con Ignazio Silone fondò e diresse la rivista “Tempo presente” e fu critico teatrale prima del “Mondo” e poi dell’“Espresso” dal ‘68 fino al ‘72, anno della sua morte. Della sua vita privata poco si è sempre saputo.

Nei primi giorni di giugno, in ricordo di Miriam, è stato scritto sul quotidiano “La Repubblica” un dettagliato, preciso e appassionato articolo da parte di Alexander Stille, che la casa di Chiaromonte, a Roma, frequentò in anni lontani. L’affresco disegnato da Stille mostra quanto rigore e quanta discrezione ci fossero dietro un lavoro di preoccupata attenzione per le mostruose deformazioni che la cultura italiana andava assorbendo, senza che la moltitudine degli intellettuali si accorgesse della distanza abissale che si stava creando rispetto alle riflessioni intorno ad una più moderna società liberale.

Chiaromonte fu solitario accusatore di ogni dogmatismo, di ogni rigidità ideologica (per esempio scrisse, invano, parole chiare e precise per delimitare le abilità creative di Bertolt Brecht, a suo giudizio troppo esaltato da acritici giudizi impregnati di ideologismi), certamente laico, ma con un gran senso della tragicità del cercare religioso e con indicazioni chiare per definire i limiti della sua umanità libertaria e tollerante. Miriam Chiaromonte aveva promesso di fornirci anche le risposte degli amici ai quali il marito Nicola aveva indirizzato le missive che qui pubblichiamo. E noi dell’”Attimo Fuggente” speriamo, nei prossimi numeri, di completare questi importanti inediti. Alcune lettere sono indirizzate ad Albert Camus, altre ad Ignazio Silone. Giudicheranno i lettori della cristallina capacità di Chiaromonte di analizzare situazioni storiche, progetti politici e intrecci culturali. Mentre speriamo che la memoria di Miriam, il suo ricordo, la sua generosità, contribuiscano a preservare dall’oblio anche gli scritti importanti, originali e solitari del suo amato Nicola.

Nicola Chiaromonte ad Ignazio Silone

Parigi, 20 ottobre 1935

Caro Silone

mi pare che l’abbia saputo e ad ogni modo diciamolo ufficialmente, Luciano e il sottoscritto sono la stessa persona.

Rosselli mi ha passato la tua lettera da vari giorni. Se non ho risposto prima – e se, da quando ci vediamo a Zurigo, non ho mai scritto, gli è che i tempi sono brutti per la gente raminga. Voglio dire che ogni sforzo di iniziativa, e semplicemente ogni gusto di contatto libero con la gente lontana son stroncati dal perso alquanto orrendo delle preoccupazioni del giorno: lavori mercenari, come pagare l’albergo, che cosa succederà domani, ecc. Siccome non hai avuto la vita facile, mi capirai. E poi c’è la solitudine, che diventa a volte una melma in cui si affonda.

Proprio per questo, sentire la tua voce che rispondeva ad un mio scritto mi ha fatto un gran piacere. Gli articoli che faccio per G.L. li faccio così “a fondo perduto” che riceverne eco è addirittura una sorpresa. “L’elaborazione più vasta e coerente”, caro Silone, è quella che ho inseguito con una certa tenacia sia quando ero in Italia (e non potevo sperare pubblicità), sia in quest’anno di esilio.

Una casa editrice francese parrebbe disposta a pubblicare un mio libro sul fascismo (il fascismo, ad ogni modo, non sarebbe che il punto di partenza). Ma non c’è ancora niente di fatto.

A ogni modo, tutti i miei scritti sono a tua disposizione – e ti sono riconoscente dell’offerta. La conferenza consta di una trentina di pagine. Ma, riscrivendola e traducendola (è scritta in francese) prenderebbe, naturalmente, proporzioni un po’ maggiori. Non so se hai il Quaderno 12 di G.L.L.: lì, col titolo “La morte si chiama fascismo”, c’è un mio saggio di quaranta pagine fitte. Anche questo, per una pubblicazione, andrebbe rimaneggiato. C’è un numero di articoli su temi di attualità – di cui qualcuno entrerebbe organicamente nella serie. Ma intanto, in questo momento,sono assolutamente soffocato da persone, bisogni e preoccupazioni. Verso la fine dell’anno avrò, forse, un po’ di respiro.

Per fare una cosa organica, e non una semplice “raccolta” (è una forma che detesto), un paio di mesi mi sarebbero strettamente indispensabili. Per cose brevi, saggi, opuscoli, la conferenza in questione, naturalmente, diventa più facile. Su de Bosis, scriverei volentieri un saggio, sebbene alcune delle sue cose più importanti e significative (lettere, abbozzi) siano inedite e segrete. Ne ho avuto cenni in Italia. Su di lui, come esempio d’eroe, ebbene, non saprei esaltarlo senza seguirlo. Ma una semplice e umile biografia, si può fare, e non sarebbe senza efficacia.

Quanto al tuo invito affettuoso, te ne ringrazio affettuosamente. L’accetterei molto semplicemente, come mi è fatto – se non fosse lo scrupolo che, in questo momento, mi vieta di fare un semplice viaggetto di piacere. Ma se tu pensi che possa essere utile a qualcosa, per i primi di novembre potrei venire un paio di giorni. Al quale proposito, cedendo a insistenze, ti accenno, genericamente, una questione cui ti pregherei di dare una risposta di massima. Procedo per perifrasi, data la necessità di “cantar messa”, e data la nota condizione perché tale rituale abbia luogo, pensi possibile, opportuno, conveniente, utile fare sondaggi dalle tue parti? Eventualmente, se ci vediamo, potremo parlarne. Ma un “si” o un “no” preliminare servirebbero di orientamento.

Aspetto, secondo promessa, e in ogni caso, il manoscritto del tuo nuovo romanzo. Spero che tu non ti terrai al “contrappasso”, per quanto riguarda la frequenza epistolare. E ti ringrazio ancora una volta, affettuosamente e amichevolmente, della tua lettera.
Cordialmente
Nicola Chiaromonte
* * *

Parigi 27 ottobre 1935

Caro Silone,

ho ricevuto lettera e manoscritto. E ho già, quasi, terminato la lettura. Se permetti ti manderò delle note appena finito. Qui ti dirò una cosa in generale: col senso che hai della realtà, e, direi, dell’universo dei “cafoni”, potresti scrivere un nuovo “Malavoglia”. Ti nuoce una “maniera” che rischia di soffocare la vivacità della materia (maniera è una parola: si tratta, evidentemente, di un risentimento, passione, o affezione che dir si voglia, la cosa “vista così”, una volta, e che rimane, o tende a rimanere fissa in quella forma). Ti nuoce anche una certa fretta, ed è peccato, perché si tratta più che altro di “sbavature”.

Ho nominato i “Malavoglia”: naturalmente, non c’entra quasi nulla, tranne l’antica verità comune al popolo italiano abbandonato a se stesso. I “cafoni” sono, infinitamente, più disgraziati perché sono “inverosimili”. Il loro grottesco è ben più irrimediabile, e in ben altro senso che la “pena” dei pescatori siciliani. Eppure, proprio da lì può scaturire un senso della giustizia “in carne e ossa” che è il solo che gli italiani possano capire, e del quale il somo, come è stato inteso da noi, specialmente, non è che la spinta iniziale, ma, a confronto, con la realtà, risulta una rete dalle maglie troppo grosse, da cui i pesci scappano – se non addirittura il solito canestro per prender l’acqua. E, se non sbaglio, è proprio una certa ottica sota quella che talvolta ti tradisce, nel senso che ti fa cadere nell’approssimativo.

Mi par di capire (sono a p. 100) che questa è, pressappoco, la crisi di Don Paolo Spada. Beh, noialtri italiani non abbiamo da avere nessun timore di veder tutto sfasciarsi se la “dittatura del proletariato” ci si è rivelata, cosa non solo odiosa, ma risibile: da noi, il somo è cominciato intorno al XII sec., con Gioacchino da Fiore, e le cose son rimaste pressappoco lì. Lasciamo andare queste divagazioni: se mai, le riprenderò a lettura finita. Mandami appena puoi la fine.

Dunque, passando ad altro: la biografia di De Bosis, sarei disposto a farla, e a mettermi subito al lavoro. Vorrei soltanto sapere con una certa sicurezza che sarà pubblicata e, pressappoco, quanto sarebbe compensata. Come traduttrice Anny Pohl è ottima: ha già fatto vari lavori di traduzione in Italia, ed ha un vero talento; potrebbe, dunque, tradurre il mio pezzo – ma, eventualmente, anche altre cose (sebbene ora non può affaticarsi troppo).

Sulla questione liturgica, così come l’hai intesa tu, siamo d’accordo non una, ma dieci volte. Ma non si trattava, precisamente, di quello. Si trattava, per essere chiari, di sapere se ci sono delle persone disposte ad aiutare, materialmente, delle “opere buone”. Ma se ci vediamo, ne parleremo a voce: io sono alquanto freddo per simili iniziative – ma siccome mi accusano di scetticismo negatore, ecco, faccio l’ambasciata.

Quanto allo Scarpa, è capo dell’ufficio II del Ministero degli esteri. Si dice rivoluzionario anche in Italia e, credo, con più calore del solito il 27 del mese. Può anche arrivare a dire “noialtri rivoluzionari”. Un mio amico che lo conosce da vicino dice che è un bravo ragazzo. Con questo, non è escluso affatto che abbia delle strette amicizie in polizia. Questi bravi ragazzi sono amici di tutti: amiconi, anzi. Ma se, per esempio, mostrasse desiderio di avvicinarti, oserei consigliarti di non rifiutare: può essere interessante da un punto di vista documentario, e può anche essere un’anima sperduta, come ce ne sono tante, e allora un discorso fatto sul serio, potrebbe toccarlo. Io, personalmente, so che a Roma, i giornalisti stranieri lo considerano con diffidenza. Di origine, è sindacalista anarcoide. È stato vari anni console in India, pare con brillanti risultati e conoscenza delle cose.

Del progetto di “Capolago”, credo sia Ferrero il promotore. Ne avevo sentito parlare anch’io in questi giorni.

A presto, cordialmente

Tuo

Nicola Chiaromonte

PS. Ti spedisco domani o dopodomani la conferenza e un certo numero di articoli.

* * *

Nicola Chiaromonte ad Albert Camus1

New York, 15 ottobre 1945

Caro Camus,

La vostra lettera mi ha profondamente commosso. Prima di tutto voglio esprimere – come dire? – una tenerezza profonda, i miei auguri e quelli di Miriam per queste due creature nate in casa vostra. Si ha un bel parlare di “futuro” e di tutto il turbamento esistenziale, ma è davanti a degli esseri che non sono altro che avvenire, che ci si sente veramente sconvolti dalla cosa “futuro”. Così non posso dire altro al vostro annuncio, e non che sono veramente commosso.

Con Miriam abbiamo pensato subito, che forse, non sarebbe inutile mandare a Francine delle cose così prosaiche come pannolini, mutandine di caucciù, sapone, golfini ecc. e anche un piccolo simbolo d’amicizia a Francine, da parte di Miriam (a proposito avete mai ricevuto i regalini che vi avevo mandato qualche tempo fa?).

Molte grazie della vostra offerta di collaborazione, ma ecco: ho pubblicato soltanto degli articoli e dei saggi su qualche rivista. Ho dovuto imparare a scrivere in inglese (sono arrivato al mio terzo cambiamento di lingua). Inoltre all’inizio ho dovuto infilarmi in una brutta situazione per guadagnarmi la vita, d’altra parte l’America mi aveva del tutto squilibrato, demoralizzato, ridotto in briciole. Niente di quello che pensavo – o semplicemente di quello che ero – sembrava valido o almeno reale.

Ne sono venuto fuori. Con una certa rivolta interiore (nella quale il costante pensiero dell’Europa è stato uno dei miei sostegni e l’altro, anche quello molto vivo, era Miriam e la sua amicizia di vera compagna) e adesso credo di essere entrato in un periodo d’accanito lavoro. Vi manderò, soprattutto per avere il vostro amichevole parere, un lungo saggio che conto di pubblicare qui.

Ignoro se ciò che scrivo può meritare l’onore di essere ammesso nella vostra collezione. Ma ciò che m’interessa è soprattutto stabilire un legame con voi, cioè farvi vedere cosa penso – e mi lusingo di potere aggiungere – cosa sono.

D’altronde ho delle cose scritte in francese, quando stavo a Parigi – che non valgono molto ne sono certo, ma che forse testimoniano di quello che aveva sentito in Francia uno “straniero” innamorato della Francia più di quanto possa dire.

Allora, caro Camus, può darsi, che voi sarete scocciato, da quest’orribile cosa, dai manoscritti. Quello che scrivo in inglese non oso tradurlo, perché non ho fiducia nei brandelli di francese che mi sono rimasti nella memoria.

Ma mi sembra di ricordare che voi conoscete benissimo l’inglese (o mi sbaglio?). Comunque tutto ciò non ha molta importanza – d’altra parte farò del mio meglio per informarvi di ciò che si pubblica in America, che potrebbe figurare nella vostra collezione “Promèthèe”. Qui, come vi avrà detto Sartre, per ciò che riguarda la filosofia (non tanto in senso tecnico – anche in questo – ma soprattutto nel senso della speculazione disinteressata) è tutto pesante e opaco.

Però ci sono degli speti seri. Mi domando se il libro di Ruth Benedict “Patterns of culture”, che è una specie di riassunto molto umanista dei risultati dell’antropologia moderna, potrebbe interessarvi.

Qui è considerato un ottimo libro dal grande pubblico (ma non nel senso volgare).

D’altra parte c’è Charles Mead – un filosofo di secondo ordine, ma molto americano, molto tipico di quel massimo sforzo che un bravo americano può fare per capire le cose. Ma pensandoci bene, in Francia non potrebbe essere considerato molto interessante, penso. Ma riflettendoci credo che tutto questo non risponde alla vostra domanda. Più contemporaneo c’è un poeta e prosatore di New York, Paul Goodman non privo d’interesse.

Il suo libro “The Facts of Life” (racconti molto “sophisticated”) contiene delle cose non stupide.Ma forse bisognerebbe considerarlo possibile candidato per la pubblicazione di uno dei suoi racconti in una rivista, più che per la pubblicazione di un intero volume (dopo di tutto non è mica tanto originale).

Ci sono poi degli altri scrittori del filone “ personalista”, che sono terribili confusionari: c’è poco da cavarne. D’altra parte c’è Meyer Schapiro (279 West 4th Street, New York) che Sartre ha incontrato qui. Essenzialmente è un dotto, storico dell’arte, ma con complicazioni e complessità.

Potrebbe darvi ottimi consigli, ma bisognerà spiegargli dettagliatamente gli scopi della collezione – altrimenti a sua volta vi porrà dei mucchi di domande. In ogni caso state tranquillo che avrò cura di informarvi al meglio intorno a quello che si pubblica qui.

In generale vi devo confessare, caro Camus, che ero terrorizzato, leggendo le riviste francesi di vedere a che punto parlando dell’America e dei suoi valori letterari ed artistici, si prendono lucciole per lanterne. Per esempio nessuno qui prende sul serio un tipo come Damon Runyon, che è un volgarissimo giornalista che scrive in modo molto flaccido in una flaccida lingua (che non ha niente a che fare con l’“argot” o lo “slang”, è semplicemente pesante, volgare, falsamente popolare).

Ci vogliono degli europei “raffinati” per commettere questi errori di giudizio. Questo è un esempio. Potrei darvene degli altri. Ed eccomi al punto dove volevo arrivare. Vi parlo molto seriamente, caro Camus: fate tutto quello che potete per venire qua qualche mese. Bisogna assolutamente che degli europei come voi conoscano l’America. Per sapere ciò che l’Europa può essere – e ciò che è inutile che essa provi ad essere – bisogna sapere ciò che è l’America. È sciocco e “pericoloso”fissarsi a delle idee anni 1920-1930.

Non vi parlo di civilizzazione meccanica, vi parlo del modo di essere dell’America. Bisogna penetrarla a forza d’attenzione – pone al mondo intero, all’uomo d’oggi un dilemma fondamentale. Il più piccolo grado di dilettantismo a questo riguardo può essere mortale, ma è anche vero che se ne fanno di cose mortali, non c’è che da scegliere…. Mortale, aggiungo immediatamente dal punto di vista della coscienza – perché evidentemente, per quanto riguarda la morte fisica della civiltà, può darsi benissimo che sia “scritto”. Questa lettera è diventata terribilmente lunga, mi vergogno, vi domando scusa. Se venite qui siamo parecchi che vi accoglieremo come un fratello.

E poi si potrebbe parlare un po’ non di questo o di quello, ma di ciò che a me e a qualche altra persona sta a cuore, di ciò che vorremmo gridare all’Europa (non all’Europa “ politica, ma a quella degli uomini) di ciò che vorremmo provare sull’unico piano che è proprio il nostro: quello della coscienza. Forse fra America ed Europa (e l’Europa per il momento sul piano delle idee è soltanto la Francia, perché per esempio in Italia c’è solo confusione e vecchiumi) si potrebbe organizzare qualcosa di meglio di più solido e sensato che “scambi culturali”.

Forse… non sarà stupido fare dei discorsi che implicano oggi in “questo” mondo una speranza. Forse. Ma per quanto si sia malconci, non si può lasciare perdere, non si può non credere a ciò che la nostra vita ha insegnato a ciascuno di noi. A nessun prezzo si può tradire o squagliarsela.

Se vi parlo con tanta confusa indiscrezione, caro Camus, è perché ho per voi un gran rispetto, una grand’ammirazione, un sentimento di fratellanza che non potrei esprimere tacendo o parlando d’altre cose. La lettura dello “Straniero” è stata l’unica vera emozione da me provata leggendo un contemporaneo da molti anni. E nel “Mito di Sisifo” più ancora della forma così sostenuta e della profonda serietà della questione dibattuta, ho ammirato soprattutto il carattere che vi si manifesta.

Ma questo libro è filosofia e mi sembra che il solo omaggio degno di un pensiero serio come il vostro sia di discuterla. Se verrete in America ne discuteremo. Ho l’intenzione di venire in Europa l’estate prossima, ma prevedo molte difficoltà (i visti mio caro…).

Sono felice di poter seguire la vostra battaglia in “Combat”. Fino a che voi avete parlato questa Francia e anche questa Europa martirizzata, pestata, avvilita, distrutta ha avuto una voce. La vostra uscita mi riempie di angoscia: possibile che ci sia qualcosa da fare, mi dico; se Camus ha sentito che non poteva continuare. Scusate vi prego queste effusioni sentimentali.

Non ho potuto impedirmi di lasciare parlare il mio cuore, che si è formato in Italia. Meglio interrompermi perché ho proprio abusato della vostra… ospitalità.

Grazie della vostra cordiale offerta di mandarmi dei libri. Certo mi piacerebbe ricevere da voi un esemplare dell’ “Etranger” e anche degli altri libri vostri che non ho potuto procurarmi. Mi piacerebbe anche avere l’“Etre et le Néant” (ma temo di essere indiscreto, mi si dice che è un’opera molto rara ). Per il resto posso pregarvi, mio caro, di decidere voi stesso quali libri della NRF valgono la pena di essere conosciuti.

Da parte mia prometto che proverò a scrivere delle schede (per “New Republic” e altre riviste) di tutti i libri al quale il pubblico americano è suscettibile di interessarsi.

E ora arrivederci, caro Camus, vi prendo in parola e aspetto una lettera appena sarà possibile. Miriam desidera pregare Francine di domandare senza imbarazzo qualsiasi cosa che lei sarà felice di spedirle. È molto più facile confezionare dei pacchi se si sa con precisione cosa spedire.

Con Miriam mando a tutti e quattro la mia fedele amicizia

Vostro

Nicola Chiaromonte
* * *

New York 22 dicembre 1945

Caro Camus

bisogna che vi spieghi un po’ meglio perché vi ho fatto il nome di Andrea Caffi:

Intanto ho pensato che una corrispondenza privata fra questo amico e me potrebbe interessarvi (la sua ammirazione per voi è molto grande);

Poi bisogna presentarvi Caffi con qualche dettaglio: nato in Russia da genitori italiani dopo avere partecipato alla Rivoluzione del 1905 (imprigionato ecc.) Caffi che ora ha 57 anni ha studiato in Germania con Simmel e Husserl, poi in Francia e in Italia é andato di nuovo in Russia nel 1920 e fu messo in prigione dai bolscevichi. Da lì in Italia da dove ha dovuto fuggire per venire in Francia nel 1926. Se fra i nostri amici c’è un europeo è proprio lui;

Le sue idee sulla libertà e la giustizia non hanno niente di convenzionale;

Ha essenzialmente la formazione di uno storico. Ma le sue opinioni sulla storia non hanno niente di professorale o di panglossiano;

Soprattutto, prima di tutto è uomo di gran finezza di una delicatezza morale quasi intransigente;

Per tutte queste ragioni mi sono permesso di suggerirvi il suo nome come quello di un uomo che si può certo aggiungere al piccolo numero di cui parlate. Penso solo ad uno scambio “privato” d’opinioni fra voi e lui e mi scuso di un passo che per quanto amichevole resta un po’ indiscreto, ma il fatto è che Caffi è molto timido e non vedrebbe nessuna ragione valida per importunarvi. Penso che vi dovevo queste spiegazioni.

Arrivederci caro Camus, con amicizia vostro Chiaromonte.

P.S. Caffi è anche l’autore degli articoli firmati “European” pubblicati in una rivista americana che dovrebbe arrivare regolarmente al vostro indirizzo.

(1) Traduzione di Francesco Servettaz.

*Dice di sé.
Matteo Lo Presti nato a Spilimbergo (Pordenone) nel 1944: dal padre siciliano ha ereditato il gusto prepotente per la libertà e dalla madre friulana il sapore onesto per il rigore e la solidarietà umana. Cresciuto a Genova ha studiato al Liceo Colombo lo stesso frequentato da Fabrizio De Andrè ed Enzo Tortora. Laureato in filosofia, ha imparato da Pietro Nenni e Sandro Pertini cosa valgano nella vita giustizia e libertà. Giornalista da tanti anni: Cesare Lanza suo direttore al quotidiano “Il Lavoro” gli ha insegnato a non avere paura delle notizie e del potere.

Barbara Alberti - Sancho Panza? Sognatore generoso. Ulisse? un cornUto

Quale reale significato si nasconde dietro i grandi classici della letteratura? Con “Letture da treno”4 Barbara Alberti ci propone una sua audace e irriverente interpretazione di alcuni giganti della letteratura mondiale di ogni tempo

Barbara Alberti*

Don Chisciotte

Io tengo per Sancho. Il più generoso dei sedotti, il più calunniato dei personaggi letterari, proverbialmente addotto come esempio di grettezza, di “piedi per terra”. È lui invece il vero sognatore, perché al servizio del sogno di un altro. Don Chisciotte è un signore, ha letto i libri, certo che sogna.
Ma Sancho, l’analfabeta, è così poeta da credere a ogni sua favola, e ci rimette anche gli asini. E prende certe botte! Il padrone non lo difende mai quando lo bastonano, con la scusa che gli aggressori non furono ordinati cavalieri, e dunque non può battersi con loro. E giù legnate, e giù burle.
Sancho è pronto a tutto per il suo seduttore, tanto più amante di donna Elvira e delle altre noiose di Don Giovanni, che vogliono subito la riparazione. Ma nessuno riparerà mai l’onore calpestato di Sancho Panza.
Il romanzo mette anche in guardia contro i parenti: avverte di cosa sono capaci i sani per rinsavire il matto – il curato si veste da donna, la nipote gli fa murare la biblioteca –, la pazzia dei parenti, peggio della sua. Guardavo i miei mansueti familiari e mi chiedevo cosa avrebbero fatto loro. Dopo la morte, talora anche in vita, il poeta viene consegnato al suo nemico naturale, la famiglia.

Anna Karenina

Anna Karenina si butta sotto un treno, e le sta bene.
E ci auguriamo che Vronskij si sposi con la deliziosa principessina Sokorova. Invece no, finirà distrutto dai rimorsi e andrà in guerra per espiare. Ma cosa, se è un martire? Fin dalla prima volta che vanno a letto, lei piange. E dai, aspetta la seconda!
No, subito. E non la smetterà più. La sua sola ambizione è diventare un rimorso, mantenere la fama di donna per bene piangendo. È ingorda, vuole tutto, rompere le regole ma senza rinunciare ai sensi di colpa. Ogni volta che Vronskij la guarda, vuole che veda in lei la donna caduta e si senta un mascalzone.
Ma se era così per bene, Anna non ci si doveva mettere. Non ha la statura dell’amante. Non è all’altezza, l’amore non sa nemmeno dove sta di casa. Ha il monopolio del dolore, di tutto ha colpa il suo amante.
Va avanti a morfina e, ringalluzzita dalla droga, sfoga la sua invidia. Anna è invidiosa di Vronskij. Non solo del fatto che venga ricevuto da quella società che la respinge, ma anche dell’amore che sente per lei e che lei non prova. Ad Anna Vronskij sacrifica il reggimento e la sua fervente ambizione, si riempie di debiti, si spara – e mai un rinfaccio. Anna invece non fa altro.
Vronskij stando con Anna perde i capelli e perfino i denti: gli ha succhiato tutto. E per colpa di lei, che ha dispettosamente trascurato di chiedere il divorzio, gli porteranno via anche la figlia.
Vronskij non è solo buono, è un santo da calendario. Anna un’oziosa capace solo di far del male – al marito, a Kitty a Dolly a Levin al figlio all’amante alla figlia. Soltanto un genio della misoginia come Tolstoj poteva inventare un’eroina così indigesta. In tutto il romanzo Anna oscilla fra il malanimo il tedio e il ricatto. Alla fine distrugge sé per rovinare Vronskij, e ci riesce. Terribile sorte degli amanti che non si amano più, condannati a sostenere in faccia al mondo la commedia di una passione spenta. Anna non muore d’amore, ma di noia.

Quel cornuto di Ulisse

Tutti sanno che Penelope tesseva di giorno la tela e la guastava di notte. Ma nessuno sa cosa tesseva.
Ulisse l’ha lasciata nel fiore della gioventù preferendole l’avventura, e lei tesse. Lui se la spassa con la guerra i mostri i droda una banda di giovanotti, vogliosi di letto e di regno. Penelope non è una donna, è una moglie. Com’era sicuro di lei! Versato nell’inganno, ignorava tutto dell’amore. Da qui la sua certezza bovina.
Né lo ammaestrò Agamennone, ucciso a pugnalate dall’amante della moglie. Lui è astuto, lui è Ulisse. A lui non la si fa. Ma Penelope gliel’ha fatta.
Le sue astuzie andavano bene per quel Ciclope dalla testa grossa. Non per lei, la regina abbandonata. Ulisse la prese al ritorno come una sposa che nell’assenza avesse venerato lui solo. Non si accorse che era andata con tutti.
Non che si fosse banalmente concessa ai suoi pretendenti. Questo mai. Insomma cosa tesseva Penelope? I suoi tradimenti. Ogni giorno raffigurava coi fili un incontro proibito.
Il marito in giro per ninfe e lei – tutti quei maschi che le ronzano attorno, belli, sudati, pronti – sembrava di ghiaccio. Ma poi, al telaio, disegnava la lussuria. I Proci passarono uno per uno nella sua tela. Una notte con Antinoo, una con Eurimaco… ma non c’erano confini. Si diede anche ad Agamennone.
E ad Achille scattante, ardente – lo tesseva per goderlo. Una volta si giacquero in tre con Patroclo, il suo amante. Se li fece tutti, gli achei.
Ma anche qualche troiano. Enea per esempio. Probo ma forte, saporoso. Perfino Paride portò sulla sua tela, rendendolo infedele ad Elena. Non c’era limite all’abilità delle sue mani. Ma ce ne furono ben altri. Anche qualche dio. Quella tela era il suo internet.
Per questo poi la guastava: per cancellare le prove. Un solo sembiante non tessé mai, quello di Ulisse. La annoiava, quel furbo. Mai, con lui, né prima né dopo, provò i piaceri della tela. E quando, dopo il suo leggendario ritorno, il re di Itaca dorme, ogni tanto, di nascosto, Penelope torna a tessere. Chiamando a sé, se vuole, perfino Amore in persona.

1) Pubblichiamo per gentile concessione dell’editore, uno stralcio dal libro “Letture da treno. Diciassette opere letterarie e un melodramma” di Barbara Alberti. (Nottetempo edizioni, 2008). Riproduzione riservata.

*Dice di sé.
Barbara Alberti. Nata in Umbria, fra angeli e diavoli. È grata alla pessima educazione cattolica, cui deve la sua ispirazione. Alcuni titoli: i romanzi “Delirio”, “Donna di piacere”, “Buonanotte Angelo”, “Povera bambina”, (Mondadori), “Memorie malvagie”, “Dispetti divini”, “Gelosa di Majakovskij”, (Marsilio), “Gianna Nannini da Siena, biografie comparate della cantante e di Santa Caterina” (Mondadori), “Il promesso sposo, biografia di Vittorio Sgarbi”, Sonzogno, “Il principe volante, biografia di Antoine de Saint Exupéry” (Playground), i saggi “Parliamo d’amore” (Mondadori), “Vocabolario dell’amore” (Rizzoli). Sceneggiatrice di cinema, il suo primo film è stato “Portiere di notte” di Liliana Cavani, l’ultimo “Melissa P” di Luca Guadagnino. Dal 1984 tiene una rubrica di posta del cuore, prima su Amica, poi su “A”. È madre, nonna, e casalinga. Nella mano destra porta i segni delle sue attività: il callo della penna e quello della scopa.


GABRIELE D’ANNUNZIO

 

Io credevo che per me potesse tradursi in realtà il sogno di tutti

gli uomini intellettuali: essere costantemente infedele a una

donna costantemente fedele.

(Da “L’innocente”, 1892)

SIGMUND FREUD

 

Se, come dice l’interpretazione dei sogni, un sogno rappresenta

un desiderio soddisfatto, quale è l’origine di quella strana e

complicata forma di espressione della soddisfazione

del desiderio? Può il suo contenuto correggere le opinioni

che abbiamo difeso durante il giorno?

(Da “L’interpretazione dei sogni”, 1899)

COSTUME Antonella Parmentola - Marta, novello Virgilio di Internet

Una ragazza attraverso YouTube, ha catalizzato l’attenzione della rete con i suoi video ricchi di informazioni e spiegazioni sul complesso mondo del world wide web

Antonella Parmentola*

Volete sapere come eliminare un virus o costruire un blog, quali siano i browser più funzionali e le alternative a Ms office? È semplicissimo: basta fare un giro sul sito http://www.videomarta.com e Marta darà una risposta precisa e qualificata alla vostra domanda.

Ma chi è Marta?

Sicuramente il fenomeno mediatico-tecnologico del momento: ha diciannove anni e, utilizzando lo strumento del video, tipico di YouTube, dalla propria camera da letto, quasi sempre scalza, Marta cerca di spiegare, in maniera semplice e comprensibile da tutti, la tecnologia e le basi di partenza per orientarsi nel mondo Internet, come un novello Virgilio.

Da quando è stato attivato, lo scorso settembre, VideoMarta ha avuto circa tre milioni di contatti – un numero che può dare la misura di quanto interesse abbia suscitato – e molteplici rilanci sia sulla stampa sia in televisione.

Noi, però, abbiamo deciso di non fermarci alla superficie del fenomeno e spinti dalla curiosità abbiamo provato a contattare, direttamente Marta.

Quello che ci ha detto è, per certi aspetti, ancora più interessante di quanto, la notizia in sé, possa apparire.

VideoMarta è, infatti, un progetto di comunicazione complesso ed articolato, che ha alle spalle il lavoro di una squadra molto preparata, appassionata di Internet e nuove tecnologie, capitanata da Maurizio Pelizzone e Gabriele Farina, nonché da Marta, ovviamente.

Come nasce VideoMarta?

“Il progetto nasce da un’idea di Maurizio nell’estate del 2007 e prende il via a settembre.

L’obiettivo iniziale era quello di sperimentare l’utilizzo del video in rete, in un momento in cui i mezzi erano già a disposizione di tutti, ma di esempi ce n’erano pochini.

A questo si è aggiunta la voglia di avvicinare alla tecnologia, ed in particolare ad Internet, tutti quei ragazzi (ma non solo) che non ne conoscono le potenzialità. Unendo le due idee è nato VideoMarta”.

In quanto tempo è stato realizzato?

“Il blog, in quanto tale, è in continua evoluzione. Comunque dal momento dell’idea alla pubblicazione del primo video sono passati circa due mesi”.

Puoi spiegarci, brevemente, cosa è un blog e cosa un V-Log?

“Un blog è uno spazio in rete aggiornabile, costantemente, dal proprio autore.

All’inizio si trattava soprattutto di diari personali, proprio per la facilità di aggiornamento.

Oggi ne esistono di mille tipi diversi, singoli, di gruppo, legati ad un tema specifico o molto generici, pieni di foto o solo testuali.

Un V-log ne è forse l’evoluzione naturale. I contenuti non sono più inseriti in maniera testuale (o comunque non solo), ma attraverso dei video.

Ogni articolo (chiamato post) è un video che tratta un tema. Cambia il mezzo, si ampliano le possibilità, i contenuti possono anche rimanere invariati”.

Marta è una sorta di Virgilio, che accompagna l’utente nei gironi di Internet. Perché è stata scelta una ragazza, secondo te?

“Perché si ritiene, comunemente, che le ragazze non capiscano nulla di tecnologia.

Noi volevamo un volto capace di mettersi alla pari degli utenti e parlare con loro come un’amica, una figlia, una fidanzata. Se avessimo scelto un tecnico della rete avremmo dovuto mettergli in bocca un linguaggio più spetico… e non era quello che volevamo”.

L’ambientazione del blog è singolare: realizzato in una camera da letto tipica di un’adolescente. Perché?

“Per lo stesso motivo. Se devo scambiare due chiacchiere con la mia amica Marta probabilmente, lo farò nella sua cameretta, tra i suoi oggetti di tutti i giorni”.

Anche il montaggio dei tuoi video è molto particolare. Come mai avete scelto un ritmo così veloce?

“Questa è una decisione di Gabriele. Sapevamo di dover realizzare dei video che avessero una durata inferiore ai 5 minuti, per sperare che qualcuno li guardasse interamente.

Però anche 5 minuti di camera fissa erano veramente insostenibili, ed allora li abbiamo movimentati inserendo anche fino a 30 stacchi in un singolo video.

Il rischio era di disturbare lo spettatore, ma al nostro “regista” questa possibilità sembrava ancora più affascinante”.

Ad oggi, ritieni sia stata un’idea vincente?

“Sembra di sì. A parte i numeri, che forse non ci aspettavamo e che non chiariscono qual è il target raggiunto, riceviamo centinaia di mail da persone che ci ringraziano perché hanno scoperto qualcosa di nuovo.

Questo è l’effettivo riscontro che abbiamo raggiunto l’obiettivo”.

I vostri utenti hanno la consapevolezza che Marta è solo una realtà virtuale?

“Chi arriva a farsi questa domanda ha tutti gli strumenti per capirlo.

Su vari post e su diversi siti collegati, il progetto è illustrato chiaramente. Certo che se un ragazzo mi chiede come deve fare per togliere un virus dal proprio computer, rispondo in maniera diretta, senza entrare nel merito del progetto.

L’idea di avere un front-man (o meglio una front-girl) rende la comunicazione paritaria, non crea soggezione in chi deve chiedere un consiglio, un’informazione.

Il nostro obiettivo è fare informazione… non è sempre necessario che si sappia dell’esistenza di una squadra che lavora dietro le quinte”.

Quale è la differenza tra il V-Log di Marta e gli altri?

“La questione è che non ne esistono molti altri. Quando siamo partiti il panorama era desolante… oggi qualcosa inizia a muoversi e ci fa molto piacere.

L’importante è comunque cercare di mantenere una certa regolarità nella pubblicazione dei video… e non è certo una cosa semplice”.

Come scegliete gli argomenti di cui parlare e quali sono le informazioni più richieste?

“Di solito, della scelta degli argomenti se ne occupa Maurizio, che è sicuramente il più esperto dei tre.

Ma sempre più spesso chiediamo agli stessi utenti di prepararci dei testi.

Se qualcuno ci propone un argomento, perché ritiene di essere un esperto, chiediamo direttamente a lui di preparare il testo base, su cui poi realizziamo il video (dopo avere verificato ovviamente l’attendibilità di quello che ci è stato inviato)”.

Che quantità di contatti ricevete, giornalmente, e quali sono le tipologie di persone che contattano Marta?

“Abbiamo circa 500 visite al giorno sul blog, a cui bisogna aggiungere 700 utenti che ci seguono direttamente via feed rss e gli oltre 1.000 iscritti al nostro canale YouTube.

Per quanto riguarda la tipologia è molto varia. Non solo i ragazzi a cui puntavamo, ma anche molti adulti e genitori che cercano di mettersi al passo con i figli”.

Ritieni che un progetto di questo genere, sia, per esempio, duplicabile anche in ambiti diversi, come pubblica amministrazione o scuola?

“Sicuramente! In video si può parlare di tutto. E poi il blog del Ministero dell’Istruzione (Ti 6 connesso) ha già aperto uno spazio in cui raccoglie i video di Marta.

Pensiamo che il format sia molto adatto a scopi informativi e divulgativi, quindi i due esempi fatti calzano a pennello”.

Come è nata la collaborazione con il musicista Giovanni Allevi?

“Ops… allora ci sei cascata! Spiace dirlo, ma quello era solo un Pesce d’aprile (che abbiamo prontamente dichiarato). Però se Allevi volesse aiutarci veramente…”.

L’utilizzo di YouTube per la maggior parte delle persone è legato alla messa in onda di video non sempre edificanti, ed anche a bufale legate all’informazione (o Pesci di aprile…), quale pensi possa essere l’evoluzione di questo strumento?

“E questo è un bel problema! YouTube è uno strumento, ed è uno strumento molto potente.

Poi tutto dipende da come questo strumento viene utilizzato. Se ho un coltello posso usarlo per uccidere qualcuno o per tagliare il pane… non è certo colpa del coltello!

Buona parte della colpa ci sentiamo di attribuirla ai media tradizionali che rilanciano soprattutto i video-scandalo.

È ovvio che poi la gente pensi che YouTube sia solo quello. Su YouTube invece c’è anche VideoMarta e per fortuna un sacco di altre cose interessanti che noi ogni tanto rilanciamo proprio con lo scopo di diffondere conoscenza”.

Internet ha rivoluzionato la vita privata e professionale di milioni di persone, quali nuove sfide presenterà?

“Internet è uno strumento magnifico che permette di avere subito a portata di mano la conoscenza di miliardi di persone.

In pochi anni di vita è cambiato tantissimo, aumentando a dismisura le possibilità.

Praticamente è impossibile dire cosa succederà anche solo tra due anni!”.

*Dice di sé.
Antonella Parmentola. Subisce, dai tempi del liceo, il fascino delle parole, della loro etimologia, del loro senso originale e della successiva evoluzione. È profondamente convinta che in un mondo in cui tutto è stato già scritto e detto il come scrivere o dire qualcosa possa ancora fare la differenza.

PLATONEIo penso che, spesso, tu abbia sentito dei tali chiedere

quale prova si può avere per dimostrare, se uno chiedesse ora,

così, nel momento presente, se stiamo dormendo o se

sogniamo tutto quello che pensiamo, o siamo invece svegli e

proprio nella realtà parliamo tra di noi… E quando durante il

sogno crediamo di raccontare sogni, è ben strana

la somiglianza di questi con quelli.

(Da “Teeteto”, 365 a.C.)

Giuseppe Pennisi - Festival lirici tutti al femminile

OMAGGIO ALLA “MUSA BIZZARRA E ALTERA”
Anche le manifestazioni minori svolgono una funzione utile: ricordano che la lirica è un’espressione d’arte, dal vivo, italianissima, che non merita di essere consegnata ai musei

Giuseppe Pennisi*

Un giro d’orizzonte

Non so se e quanto il color rosa si addice alla politica. In questa primavera-estate è, tuttavia, la tinta dominante dei maggiori festival musicali dedicati a quella che in un libro pubblicato nel 1984 dalla Cornell University Press, il musicologo Herbert Lindenberger chiamò, appropriatamente, “la musa bizzarra e altera”- la lirica. Mi riferisco ai maggiori, quelli di più prestigio e di migliore qualità: ogni estate, l’Italia pullula di festival lirici, spesso organizzati alla buona con compagnie improvvisate o reclutate in paesi a basso costodell’Europa dell’est (ove non dell’Asia centrale) con l’obiettivo di rallegrare qualche serata in piazza dopo una giornata in spiaggia.

Nel 2007 i festival lirici estivi sono stati, in totale, 35 – una cifra analoga si profila per l’estate 2008. Pure i festival minori svolgono una funzione utile: ricordare che la lirica è un’espressione d’arte, dal vivo, italianissima, che non merita di essere consegnata ai musei e che per due secoli ebbe un forte contenuto popolare.

Limitiamo, però, l’attenzione ai cinque festival che attraggono pubblico qualificato da tutto il mondo: il Maggio musicale fiorentino, il Ravenna festival, il Puccini festival, lo Sferisterio opera festival e il Rossini opera festival. Ce ne sono, senza dubbio, altri di rilievo (ad esempio il festival di Valle d’Itria), ma non tali da avere una risonanza internazionale come i cinque indicati. Sono proprio questi che hanno, nell’estate 2008, la donna come tema dominante.

Il 26 aprile il Maggio musicale fiorentino è iniziato all’insegna di “Donne contro”. Avrebbe dovuto aprire con “Giovanna d’Arco al rogo” di Arthur Honegger, ma le ristrettezze finanziarie hanno indotto gli organizzatori ad inaugurare con “Un sopravvissuto a Varsavia” di Arnold Schönberg (voce recitante Charlotte Rampling) ed a puntare, per fare cassetta, su un nuovo allestimento della “Carmen” di Georges Bizet. Ove la mangiatrice d’uomini di Siviglia non fosse abbastanza “contro”, seguono a ruota “Erodiade” di Giovanni Testori, “Phaedra” di Hans Werner Henze ed il gran finale (nell’ultima settimana di giugno) è la serial killer Katerina Ismailova protagonista di “Lady Macbeth del distretto di Mtsensk” di Dmitrij Šostakovi?. C’è un momento di relax, tra tanto sangue. “La bella addormentata” di Ciajkovskij.

Meno cruento, il “Ravenna festival” (13 giugno – 19 luglio) dedicato a donne “erranti, erotiche, eretiche” (un titolo che il femminismo potrebbe quasi considerare offensivo). Naturalmente la verdiana “Traviata”, seguita da una novità su Anita Garibaldi, un incontro-scontro tra Norma e Medea, opere teatrali della monaca Rosvita ed una sibilla
romagnola del Medioevo e via discorrendo sino ad una serie di voci di donne nel mistero liturgico.

Alla “seduzione” (prevalentemente femminile) è dedicato il Festival Sferisterio a Macerata e dintorni, dal 25 luglio all’11 agosto. Ci sarà una rarità come “Cleopatra” (di seduzione se ne intendeva non poco) di Lauro Rossi (compositore marchigiano di chiara fama nell’ottocento) a guisa d’introduzione a seduttrici di lungo corso, e ben note al pubblico, come “Carmen” di Bizet e “Tosca” di Puccini. Non manca all’appello una seduttrice verdiana: Odabella che con le sue armi convince “Attila” (a cui è stata intitolata l’opera) a non marciare su Roma. C’è spazio per la seduzione vagamente ambigua: la novità assoluta “The servant” di Marco Tutino, dal film di Joseph Losey del 1963, in cui s’intrecciano scambi di coppia e situazioni omo-erotiche.

Al femminile naturalmente il Festival pucciniano (11 luglio – 27 agosto), imperniato su tre donne “Turandot”, “Tosca” e “Madama Butterfly”, oltre che su una vasta serie di iniziative (tra cui l’inaugurazione del nuovo Grande teatro e la messa in scena di una rarità come “Edgard”) in occasione dei 150 anni dalla nascita del compositore. Profumo di donna infine pure a Pesaro (9 – 23 agosto); gli spettacoli più attesi sono “Ermione” e “Maometto II”, i cui protagonisti, nonostante i titoli, sono due donne (Andromaca e Anna Erisso) che sfidano la politica ed il fato.

Le sanguinarie del Maggio fiorentino

Il Maggio musicale fiorentino è nato per essere dedicato alla riscoperta di musica rara o dimenticata. Pur se inaugurato con uno spettacolo multimediale per la regia di Peter Greenway (su musica – come si è detto- di Schönberg), il programma – tre opere, quattro balletti, due spettacoli di prosa e 11 concerti – non contiene nessuna riscoperta, tranne la novità (per l’Italia) “Phaedra” di Henze, ma nuovi allestimenti o riprese di lavori che hanno avuto successo e su cui gli organizzatori (reduci di una grave crisi finanziaria che ha ridotto le attività della manifestazione per un paio d’anni) possono puntare con buona probabilità di vincere.

Nonostante la regia di Carlos Saura, l’impianto scenografico ispirato al visivo di Gustave Doré e la direzione musicale di Zubin Mehta, “Carmen” non è stata l’asso nella manica su cui si è puntato. La regia e le scene sono parse datate (ricordavano l’edizione, sempre a cura di Saura, presentata circa dieci anni fa a Spoleto), la direzione di Mehta priva del fuoco necessario, i cantanti-attori bravi, ma non eccezionali.

Più interessanti le altre “donne contro” in programma al Maggio. “Phaedra” dell’ottaduenne Hans Werner Henze è un gioiello d’opera da camera per gusti raffinati. Ha debuttato in dicembre a Berlino, ma è già stata vista, o prenotata, a Francoforte, Bruxelles, e Vienna nell’allestimento originale della Staatsoper-unter-den-Linden. A Firenze si mette in scena una nuova produzione – appena due sere nel minuscolo Teatro Goldoni. C’è da augurarsi che sia ripresa tanto nella capitale della Toscana quanto in altri teatri la prossima stagione, poiché è espressione della seconda giovinezza di un compositore che nella seconda metà del novecento ha portato la dodecafonia al grande pubblico.

Importante anche “La lady Macbeth del distretto di Mtsensk” di Dmitrij Šostakovi?, (di cui si è visto un allestimento l’anno scorso alla Scala). La protagonista commette tre omicidi in quattro atti – suocero, marito e nuova amichetta dell’amante, prima dell’inevitabile suicidio finale. È un capolavoro assoluto su cui gravò l’anatema di Stalin in persona. Viene riproposto (soltanto per tre sere) un allestimento che proprio a Firenze trionfò dieci anni fa ed ottenne il “Premio Abbiati 1998” (l’oscar della lirica). Naturalmente, la direzione musicale ed i cantanti sono nuovi e la stessa regia è stata ritoccata da Lev Dodin in persona. Eleganti, ma non leggeri i due spettacoli di prosa: “Herodias” di Giovanni Testori ed “Il Dolore” di Margherite Duras. In equilibrio fra tradizione ed innovazione il balletto (dalla consueta “Bella Addormentata” di Ciajkovskij, ma in una versione quasi d’avanguardia, al balletto di Tokyo alle prese con nuove coreografie di partiture occidentali).

Le eretiche erotiche di Ravenna

“La Traviata” viene annunciata in allestimento particolarmente innovativo, firmato da Cristina Mazzavillani Muti, sapientemente “illuminato” dal light designer Vincent Longuemare, e “spazializzato” dalle alchimie foniche di Luigi Ceccarelli. La declinazione al femminile del tema viene poi scandita in una serie di cinque ritratti, appositamente commissionati dal festival e affidati ad altrettante protagoniste del teatro e della musica, soprattutto della nostra terra, la Romagna. Ermanna Montanari, Elena Bucci, Daniela Piccari, Luisa Cottifogli, assieme alle “visioni” (un incontro da sogno fra Norma e Medea) di Cristina Mazzavillani Muti, daranno vita ad una serie di figure di donne d’eccezione, da una monaca “commediografa” dell’anno 1000, come Rosvita, all’eroina dei due mondi Anita Garibaldi.

Seguono altre presenze, tra miti antichi e del nostro tempo: da Salomé a Juliette Greco ed un articolato omaggio al compositore italiano Giacinto Scelsi. Il festival è, senza dubbio, al femminile. È, però, tutto da vedere quanto tratti di erranti, eretiche ed erotiche. Probabilmente, specialmente d’eros, ce ne sarà molto meno di quanto annunciato.

Le seduttrici dello Sferisterio

Vi ricordate il film “Sangue e Arena”? Nella prima versione (1922), Nita Naldi e Lita Lee combattevano tra di loro per portarsi Rodolfo Valentino ciascuna sotto le proprie lenzuola. Nella seconda (1941), Rita Hayworth e Linda Darnell braccavano (sempre per motivi di letto) Tyrone Power. Mutati i tempi, a Hollywood è stato progettato (ma mai realizzato) un più esplicito “Sesso e Arena”, con la vicenda trasportata dalla Spagna degli anni 20 alla libertina Spagna di oggidì.

L’idea è stata, inconsapevolmente, fatta propria dal 78enne Pier Luigi Pizzi, regista, scenografo, pittore ed organizzatore di spettacoli: in primavera ha iniziato nel cattolicissimo Sodalizio dei Piceni di Roma un “road show” in varie città italiane per presentare la terza edizione del festival dell’Arena Sferisterio da lui diretto nella super-perbenista Macerata. Il tema primo Festival era “il viaggio iniziatico”. Il secondo “il gioco del potere” (delle donne sugli uomini). Il terzo appuntamento è all’insegna della “seduzione”.

Nell’Arena Sferisterio e dintorni, dal 25 luglio all’11 agosto, si vedrà ed ascolterà una rarità come “Cleopatra” di Lauro Rossi. Seguono “Carmen” di Georges Bizet (nella versione tradizionale, ma con regia, scene e costumi di Dante Ferretti e “Tosca” di Giacomo Puccini. La verdiana Odabella – come si è accennato – convince, con la seduzione, “Attila” (a cui è stata intitolata l’opera) a deporre le armi ed ad inginocchiarsi di fronte al Papa. Nella novità assoluta “The servant” di Marco Tutino, dal film di Joseph Losey del 1963, in cui si intrecciano seduzioni ambigue. Già nel 2005, Tutino aveva presentato, a Macerata, una prima mondiale “Le bel indifferent” in cui Danilo Fernandez, attore di origine uruguaiana, stava in scena tutto nudo per l’intera durata dell’atto unico, facendo anche la doccia ed utilizzando i servizi igienici posti sul palcoscenico.

La formula “Sesso e Arena” è redditizia. Quattro anni fa l’associazione che gestisce lo Sferisterio stava per chiudere bottega in quanto sommersa dai debiti. L’anno scorso, nell’arco di tre settimane, ci sono stati 25.000 spettatori paganti. Gli apporti di sponsor privati (in varie categorie) è ora di un milione d’euro a stagione. Il teatro delle Muse d’Ancona e l’Orchestra marchigiana hanno concluso un accordo con lo Sferisterio per scambi di produzione. Non prendiamocela con i registi tedeschi e spagnoli (nonché svedesi) che attualizzano le trame delle opere liriche e spogliano tutti e tutte. Ne copiamo lo stile. In quel di Macerata.

Le “fragili” fanciulle pucciniane

I 150 anni dalla nascita di Puccini ed il festival di Torre del Lago dovrebbero portare ad una riconsiderazione dell’aggettivo “fragile” usualmente appioppato alle “fanciulle” rossiniane. “Manon Lescaut” – che questa stagione si è vista in vari teatri – ne fa di cotte e di crude (rubando gioielli ed argenteria tra un amante e l’altro) prima di finire nel deserto della Luisiana. “Tosca”, protagonista di uno degli spettacoli del festival, ammazza a coltellate il capo della polizia in quel di palazzo Farnese, mentre la Regina di Napoli dà un banchetto e Napoleone vince la battaglia di Marengo.

“Madama Butterfly” fa, stoicamente, hara-kiri. “Turandot”, invece, se la spassa a far decapitare i propri innamorati. Giorgetta (de “Il tabarro”) fa l’amore quasi di fronte al proprio marito. “Suor Angelica” non ha paura di andare all’inferno suicidandosi. E Minnie de “La fanciulla del West”? Bara a poker: la posta è il suo uomo Dick (ed evitare di andare a letto con lo sceriffo Jack).

Quando tutti si accorgono che a ragione della cattiveria del Fato e della malignità umana, Dick fa l’onorata professione del ladro di cavalli e di oro – scavato a dura fatica dai minitori – e decidono, perciò, di impiccarlo sulla pubblica piazza del villaggio, la “fragile fanciulla” salta sul proprio destriero e con la carabina spianata si riprende il giovanotto (specificando che appartiene a lei, e a Dio) impegnandosi ad andare a giuste nozze (i Dico non erano di moda ai tempi della febbre dell’oro) e di lasciare, per sempre, la California.

Sulla fragilità della rappresentazione del “genere debole” nelle convenzioni operistiche, Catherine Clément, allieva dell’Ecole normale superieure, prediletta da Lévi-Strauss, scrisse un saggio di 360 pagine (“L’Opéra ou la défaite des femmes”, “L’opera o la disfatta delle donne”). Lo pubblicò Gallimard nel 1979, epoca di femminismo imperante ed imperversante. Fu prontamente tradotto in italiano per i tipi di Marsilio. Ne sono al centro non soltanto le delicate fanciulle pucciniane, ma anche le donne wagneriane, considerate “forti per finta”. Negli Anni Ottanta, i registi facevano a gara a mostrare ancora più debole quello che Simone de Beauvoir chiamava “il secondo sesso”. Un augurio: dal nuovo Grande Teatro in riva al lago parta un invito a ripensare le donne pucciniane in chiave di “Donne contro”, per mutuare il lessico dal titolo del Maggio musicale fiorentino 2008.

Le forti donne rossiniane

Tutt’altro che deboli o fragili anche le donne rossiniane, specialmente le protagoniste del Festival pescarese giunto alla 20° edizione. In “Ermione” – è vero – l’eponima dà segni di cedimento, poiché impazzisce dopo aver fatto uccidere per gelosia il proprio fidanzato Pirro, ma la sua deuteragonista, Andromaca, finge, freddamente, di essere innamorata del bellimbusto (per salvare la vita al figlio Astianatte), ma è al centro del complotto, e del relativo spargimento di sangue. Ancora più Anna Erisso.

Abbindola addirittura Maometto II (con cui ha avuto un lontano flirt, senza conoscerne l’identità, tempo addietro), pur restando fedelissima al proprio marito Calbo; in una Siracusa tecnicamente sconfitta dai mussulmani riesce, con il proprio sacrificio, a rivoltare le sorti della battaglia. In confronto a lei, la Rosina del “Barbiere di Siviglia” e l’Isabella de “L’Italiana in Algeri” sono timide dilettanti.

*Dice di sé.
Giuseppe Pennisi è docente stabile d’economia alla Scuola Superione della Pubblica Amministrazione. Melomane da sempre collabora, in materia d’opera lirica, al mensile “Musica”, al settimanale “Il Domenicale”, al quotidiano “Milano Finanza” ed ai quotidiani telematici www.operaclick.com, www.ilvelino.it , www.loccidentale.it


VICTOR HUGO
Se fosse dato ai nostri occhi terreni di vedere nella coscienzaaltrui, si giudicherebbe molto più sicuramente un uomoda quel che sogna, che da quel che pensa.(Da “I miserabili”, 1862)
PROVOCAZIONI Giancarlo Livraghi - La stupidità, una grande forza distruttiva,
ma non invincibile

In un libro giunto alla sua terza edizione1, Giancarlo Livraghi cerca di capire e descrivere il grave problema della stupidità umana allo scopo di ridurre il pericolo di esserne vittime

Giancarlo Livraghi*

Sono sempre stato afflitto e affascinato dal problema della stupidità umana. A cominciare, naturalmente, dalla mia – e dalle tante cose stupide che ci circondano, complicandoci la vita tutti i giorni. Basterebbe questa per essere una grossa fonte di preoccupazione. Ma è ancora più allarmante quando abbiamo l’occasione di scoprire come persone potenti e influenti prendono “grandi” decisioni con “grandi” conseguenze.

Tendiamo abitualmente ad attribuire ogni sorta di decisioni sbagliate (o catastrofiche) a intenzionale perversità, malvagità, astuta cattiveria, megalomania, eccetera. Questi comportamenti ci sono – e in esagerata abbondanza. Ma un attento studio della storia (come l’osservazione delle cronache quotidiane) porta all’inevitabile conclusione che la principale causa di terribili errori è una: la stupidità.

Negli anni trascorsi dalla prima edizione di questo libro, ho avuto varie richieste dai lettori di approfondire due forme di stupidità: l’oscurantismo e la superstizione. Possono essere considerati due aspetti dello stesso problema, ma credo che meritino un’analisi separata, in questo e nel prossimo capitolo.

Il contrasto e il conflitto fra la luce della conoscenza e l’oscurità della repressione sono un problema antico, fin dalle origini dell’umanità. Un intreccio complicato e turbolento, che esiste in tutte le fasi evolutive di tutte le culture.

Si potrebbe parlare del mito di Prometeo, del vaso di Pandora, delle fatiche di Sisifo, dei misteri della Sfinge – o degli infiniti incroci fra storia e leggenda, fra scienza e mitologia, fra ipotesi filosofica e superstizione.

Un’analisi così estesa potrebbe essere affascinante, ma richiederebbe studi approfonditi su tante culture diverse, in diversi periodi e situazioni – e sarebbe impossibile riassumerne il significato nel breve spazio di questo capitolo.

Vorrei anche evitare di approfondire, in questa sede, il tema della fede religiosa. La fede, per sua natura, si sottrae a ogni verifica – anche quando non è rigidamente definita in dogmi “infallibili” o nell’interpretazione letterale di “testi sacri”. Credo quia absurdum è un modo di dire di incerta origine, ma riassume il pensiero di molti autori sull’argomento. Ognuno ha il diritto di seguire e praticare la fede che sceglie liberamente di preferire – anche, se così gli piace, di venerare come dio Ras Tafari2.

Il problema nasce quando una religione (o qualsiasi altro genere di fede) viene imposta – con la forza delle armi, con la persecuzione degli infedeli e degli eretici (come accade ancora in molte parti del mondo) o anche, in modo meno sanguinario, ma non meno repressivo, con il peso di usi, costumi, abitudini e convenzioni sociali.

Non si tratta solo di religioni o di ideologie “assolutiste” che non sopportano dissensi e perseguitano gli eretici. Non accade solo per opera di gerarchie ecclesiastiche, di sette prepotenti o di affiliazioni oppressive. C’è in tutta la storia dell’umanità, e ancora oggi diffusa anche dove è meno evidente, una presenza di “pensiero oscuro” che riduce alla cieca obbedienza, alla servitù, all’annullamento dell’identità umana e di ogni capacità di critica.

Fra i tanti percorsi del contrasto fra ragione e oscurantismo, fra libertà e repressione, scegliamone uno, che è il più vicino alla nostra cultura – e che conosciamo meglio, se abbiamo dedicato un po’ di attenzione alla nostra storia. L’evoluzione in Europa dall’ultima parte del Medioevo ai nostri giorni.

È ovvio che non si può ridurre un lungo e turbolento millennio ad un’omogenea successione di “secoli bui”. Ma è vero che per mille anni l’Europa è stata immersa in un abisso di povertà, violenza, ignoranza, repressione, mentre il pensiero era in gran parte sclerotizzato nella prigione formalistica dell’ipse dixit o chiuso nel segreto di confraternite esoteriche.

Ci fu un profondo cambiamento molto prima del 14923. Fra il Duecento e il Trecento con lo sviluppo della letteratura “in volgare”, la crescita delle università, una più diffusa riscoperta della cultura classica, un’affascinante rivoluzione non solo in uno straordinario sviluppo che era insieme artistico, filosofico, scientifico e tecnico4, ma anche nella diffusa realtà sociale delle “arti e mestieri”. Si stabilirono così le basi di una straordinaria evoluzione culturale che chiamiamo, non a caso, Rinascimento.

Lo sviluppo industriale era già cominciato nel Trecento. Vennero poi le esplorazioni dei navigatori, che aprivano il percorso degli oceani. Lo sviluppo scientifico, che cominciò un suo percorso autonomo rispetto alle costrizioni dei preconcetti teoretici. E poi l’Illuminismo, che sembrava l’affermazione definitiva di un predominio della Dea Ragione, dei valori di “libertà, uguaglianza, fraternità”, di un’umanità finalmente liberata dal pregiudizio, dall’ignoranza, dall’oppressione.

E ora… a che punto siamo?

Dopo i conflitti sociali dell’Ottocento e le mitologie del “ballo Excelsior”5, dopo il progresso scientifico e le catastrofi politiche del Novecento, siamo arrivati finalmente al Secolo dei Lumi? Pare proprio di no.

Siamo sommersi dalle superstizioni. Credere nella cabala, o nei numeri “in ritardo”, o in altri immaginari sistemi profetici, potrebbe essere un gioco innocuo se non ci fosse gente che si rovina con il lotto o con altri giochi d’azzardo – e se criteri altrettanto assurdi non fossero applicati in ogni sorta di diverse situazioni6.

Credere nell’astrologia potrebbe essere una bizzarria da salotto se non ci fosse un numero esagerato di persone disposte a prenderla sul serio – con l’incredibile sostegno di gran parte della stampa (comprese testate “autorevoli”) e di quasi tutta la televisione. Ritornerò su questo argomento nel capitolo 24 – anche a proposito dell’impressionante proliferazione di profeti, cartomanti, maghi, stregoni, indovini, turlupinatori di varia specie (compresi i criminali che promettono di guarire ogni sorta di malattie).

Ma l’oscurantismo non sta solo nelle forme più palesi di superstizione. Ci sono molte altre “credenze” ingiustificate o superate, abitudini che si continuano a seguire anche quando si è dimenticato il motivo della loro origine – e a quelle della tradizione si aggiungono nuove, non meno assurde, verità.

Ci fa paura la minaccia di persone indottrinate da ottusi misticismi, capaci di suicidarsi per farci saltare in aria. Ma non ci rendiamo conto di quante perversioni si annidano anche nella nostra cultura (che possono essere, o sembrare, meno sanguinarie, ma non per questo sono meno pericolose).

Leggiamo con sgomento le storie di assassini imbambolati da riti satanici o altri perversi cerimoniali, ma non ci accorgiamo di quanto siano diffuse credenze altrettanto distorte che possono portare ad ogni sorta di persecuzioni, sofferenze, violenze oppressioni7.

Il progresso della scienza ci lascia sgomenti. È passato meno di un secolo da quando si è capito che non solo era valida la teoria copernicana, ma le dimensioni dell’universo sono sconfinatamente più grandi di quanto avessimo mai immaginato. La nostra percezione, contro ogni evidenza, rimane tolemaica. Non solo ragioniamo come se la terra fosse al centro di tutto, ma abbiamo percezioni deformate anche di ciò che accade sul nostro pianeta (vedi il capitolo 21 a proposito di errori di prospettiva).

C’è un continuo approfondimento sulla natura intrinseca di materia ed energia, sulla struttura e l’origine della vita, che porta a scoperte e ipotesi affascinanti, ma anche difficili e sconcertanti. La scienza non può e non deve offrire certezze, deve essere perennemente aperta a nuove esplorazioni che rimettono in discussione ogni teoria.

Ma questo è un problema per chi cerca il rifugio di nozioni più semplici e rassicuranti – e così cade facilmente preda di consapevoli inganni o di assurde fantasticherie.

Oggi possiamo dubitare, in parte, delle teorie di Darwin, perché le nostre conoscenze si sono evolute dai suoi tempi ai nostri giorni8. Ma c’è un’ostinata diffusione di tendenze retrograde e oscurantiste che, contro ogni evidenza, negano il concetto fondamentale di evoluzione. Con conseguenze culturali, sociali e politiche molto preoccupanti.

Abbiamo imparato, almeno in teoria, a rifiutare il razzismo. Ma continuano a proliferare, con ogni sorta di travestimenti, modi di pensare e di agire che considerano “superiori” alcune categorie di persone – e altre “inferiori”.

Ci sono, ancora oggi, mostruosi e feroci atteggiamenti che si traducono in spinte al genocidio (sia che si tratti di sterminare i “diversi”, o di ridurli in schiavitù, o di lasciarli morire in condizioni disumane – o che, in situazioni meno estreme, ma non per questo accettabili, siano conservate o create infinite forme di repressione o emarginazione).

Le “cacce alle streghe” non sono finite. Anche se non vediamo roghi in piazza, e la tortura non è più legittimata (almeno in apparenza) come strumento di inquisizione o risorsa per “salvare le anime”, continuano le persecuzioni e le “demonizzazioni” di atteggiamenti e comportamenti che non piacciono a un potere consolidato, a un’oligarchia prepotente o a una fazione aggressiva che vuole imporre una sua deviante, e spesso delirante, visione del mondo.

Abbiamo una preoccupante tendenza a credere in ciò che somiglia ai nostri schemi mentali, ai nostri pregiudizi, alle più sciocche e convenzionali abitudini della cultura in cui viviamo o alle più bizzarre deformazioni e convenzionali manie del sistema informativo in cui siamo immersi.

E tendiamo anche a non percepire, o a rifiutare come falso e irrilevante, tutto ciò che ci disturba perché non corrisponde a un banale preconcetto, a un miope provinmo culturale.

Il vero progresso – di una persona, di un’organizzazione, di una cultura, di un’umanità – sta nel mettersi continuamente in discussione, nell’avere una voglia inesauribile di imparare, di evolversi, di capire.

Il progresso scientifico, purtroppo, non ci aiuta abbastanza, perché è separato in tanti settori ristretti, incapace di trovare quelle sintesi complessive che potrebbero nutrire non solo una evoluzione nella capacità di conoscere e capire, ma anche un arricchimento della nostra quotidiana umanità. Ma la scienza, se è libera, ha un vantaggio: non può mai “accontentarsi”, non può ripiegare su se stessa, deve sempre cercare nuovi orizzonti e nuove prospettive – rimettere continuamente in discussione ogni ipotesi, teoria, metodo, sistema o processo cognitivo.

C’è tuttavia un problema, complesso e difficile. Fra conoscenza e pregiudizio, luce e oscurità, non c’è una separazione netta. Ci sono oscurantismi nelle culture più libere ed innovative, come possono esserci inaspettati segnali di saggezza e profondità dove crediamo di trovare solo arretratezza e superstizione. Ci sono apparati scientifici e filosofici che sembrano dedicati alla ricerca della conoscenza, mentre sono arroccati nell’arrogante difesa di privilegi culturali. O sono legati a interessi di potere – economico, politico o accademico. In realtà illuminismo e oscurantismo non sono separati da un confine netto, non sono due schieramenti contrapposti e reciprocamente impenetrabili. Si mescolano continuamente in un tortuoso, turbolento e mutevole intrico di contraddizioni e contaminazioni, in cui non è facile distinguere i percorsi della chiarezza dai labirinti della confusione.

Stiamo vivendo in un epoca di rinnovato e aggressivo oscurantismo? Molti segnali ci dicono che è così – e ci fanno rimpiangere quei momenti nella nostra storia in cui ci sono state forti e chiare spinte di allargamento della coscienza e della conoscenza. Ma sappiamo che in tutti i tempi c’è una mescolanza di luci e ombre – e che non c’è mai stata un’epoca così luminosa come la vediamo nel ricordo (cogliendone gli aspetti più brillanti, perché è da quelli che possiamo trovare una più vivace ispirazione).

Insomma… le lezioni della storia sono sempre utili, ma non è facile capire la situazione complessa e turbolenta in cui ci troviamo. Molte cose sono cambiate – e in alcune, anche importanti, c’è un reale progresso. Ma se ci illudiamo di essere “progrediti” e consapevoli perdiamo la nozione dei nostri limiti – si spegne il desiderio di imparare, scoprire, migliorare.

Se invece ci rendiamo conto di quante cose nel mondo di oggi siano oscure, e cerchiamo ogni giorno di capire un po’ meglio, non solo possiamo attenuare il potere dell’oscurantismo, ma anche arricchire la nostra umanità.

Non è facile trovare un piccolo punto di luce in una diffusa oscurità, come un faro lontano nella notte. Ma chi ha avuto quell’esperienza sa quanto sia gradevole – e confortante.

1) Pubblichiamo dal libro “Il potere della stupidità”, di Giancarlo Livraghi (M&A edizioni 2008), il cap. XXIII “Il potere dell’oscurantismo”. Riproduzione riservata. Ulteriori informazioni al sito http://stupidita.it

2) Quella religione esiste davvero. Si tratta dei Rastafarian, o “Rasta”, in Giamaica, che hanno come “dio” Ras Tafari, cioè Hailé Selassié, il Negus, imperatore di Etiopia prima e dopo l’occupazione coloniale italiana (invece è del tutto immaginaria, e ovviamente solo ironica, la religione “Pastafarian”, che ha come “dio” uno spaghetto).

3) Secondo autorevoli storici (in particolare Armando Sapori e Carlo Cipolla) l’inizio dell’era “moderna” non comincia con il viaggio transatlantico di Cristoforo Colombo, ma con il fallimento della banca fiorentina dei Peruzzi e dei Bardi (1343) che segnò la fine dell’economia medievale. Il concetto non cambia se si scelgono altre date, anche nel secolo precedente.

4) Se oggi si invoca spesso l’ideale “leonardesco” è per la necessità sempre più sentita, ma purtroppo poco attuata, di ritrovare quell’insieme armonioso di arte e scienza, di bellezza e funzionalità, di tecnica e filosofia, che si realizzava non solo nel genio “enciclopedico” di Leonardo da Vinci, ma in tutta la cultura di quell’epoca.

5) Sulle “Celebrazioni del progresso” vedi “Le ambiguità dell’innovazione”      (http://gandalf.it/arianna/innovaz.htm).

6) Vedi il capitolo 10 sulla stupidità del potere, il capitolo 18 sul circolo vizioso della stupidità e il capitolo 22 sul problema dell’idolatria.

7) Vedi le osservazioni nel capitolo 15 (pagina 84) sulla stupidità del “fondamentalismo” e l’articolo su quel tema che si trova all’indirizzo http://gandalf.it/arianna/fondamen.htm

8) Vedi “L’eclisse di Darwin” (http://gandalf.it/arianna/darwin.htm e “L’evoluzione dell’evoluzione” http://gandalf.it/arianna/darwin2.htm)

*Dice di sé.
Giancarlo Livraghi. I lettori dicono (bontà loro) che sa scrivere. Ma soprattutto spera di saper leggere e ascoltare. Come diceva Socrate: “Più so, più so di non sapere”.

Dario Salvatori - Lucio Dalla: Io? Mai stato comunista

Numerosi cantautori hanno preso le distanze da quell’assunzione di responsabilità civile e politica che ha caratterizzato le loro trentennali carriere

Dario Salvatori*

Qualcuno li ha chiamati revisionisti, altri fingono di non vedere o sentire, ma è un dato di fatto che all’interno della musica leggera italiana, è in atto una mutazione significativa.

Tutta una schiera di cantautori, per lo più impegnati, come si diceva una volta, hanno preso le distanze da quell’impegno e soprattutto dallo schieramento che ha caratterizzato carriere trentennali.

Il primo è stato Lucio Dalla. “Io? Mai stato comunista.” Seguito a ruota dai conterranei e sodali nell’impegno Gianni Morandi e Francesco Guccini, il quale ha precisato: “Semmai filo-americano”.

Francesco De Gregori ha fatto di più, con la famosa frase “preferisco la Bindi…”, voltando le spalle al suo vecchio amico Walter Veltroni, reo di non averlo considerato un maestro di pensiero o quanto meno come lui si aspettava.

Non solo. Il Principe ha decisamente aperto un filone neo-governativo: “Berlusconi ha una solida maggioranza e speriamo che la usi per modernizzare il Paese. Se ci riuscisse, non farebbe una politica di destra o di sinistra, ma soltanto il bene di tutti”.

Se Francesco De Gregori si smarca da bandiere ed etichette, c’è chi si spinge ancora più in là. Pino Daniele, per esempio. “Napul’è ‘na carta sporca e nisciuno se ne ‘mporta”, cantava una ventina di anni fa.

I napoletani andavano in delirio. Paladino del sud, Daniele si schierò contro l’avanzata federalista, definendo Bossi “uno stronzo”.

Ora che Napoli è diventata una discarica a cielo aperto, il cantautore ha cambiato idea: “Sulla vicenda dei rifiuti sono con loro. Ora la Lega è più matura ed equilibrata.

Su Napoli ha fatto la scelta giusta, linea dura ad oltranza”. Il risultato è stato che Napoli lo ha mollato.

Proprio nell’occasione in cui Pino Daniele ha riunito dopo tanti anni il suo gruppo storico (James Senese, Tony Esposito, Tullio De Piscopo), lo stadio San Paolo ha detto no. Idem per l’Ippodromo di Agnano.

Dichiarazioni imbarazzanti, al limite della vergogna, che se non hanno, fino ad oggi, creato disillusioni (anzi, i loro dischi hanno raggiunto il vertice della hit parade) creano uno scompenso, un senso di decontestualizzazione e anche di tradimento nei confronti di chi li ha sempre seguiti e stimati.

De Gregori e soci, insomma, hanno cavalcato un’onda, ne hanno tratto tutti i vantaggi possibili (popolarità, denaro, successo, considerazione) e ora, maturi e svuotati come zucchine, ma senza nessuna voglia di fare un passo indietro, restituiscono al mittente quell’impegno di cui non sanno più che farsene.

Esala un maleodorante calcolo, una nausea artistica della quale qualcuno dovrebbe pagare le conseguenze.

Tutto questo per rimanere nell’ambito degli artisti di prima fascia, ovvero i più noti e affermati. La situazione si complica se si estende il discorso agli impegnati meno noti, ovvero a tutta quella pletora di artisti o pseudo artisti che vivono con il denaro pubblico.

Si tratta di gruppi e cantanti per i quali il botteghino potrebbe anche chiudere.

Per un artista il botteghino dovrebbe essere quello che l’Auditel è per un televisivo, il consenso per un politico, il fatturato per un imprenditore, cioè il risultato e la verifica della bontà di quanto si è prodotto.

Per gli impegnati di seconda e terza fascia non è così. Comune, regione, assessorato, enti o fondazioni, c’è sempre un pantalone che paga con il nostro denaro; quante siano le persone in grado di interessarsi ai loro progetti poco conta. L’importante è che tutto sia già pagato alla fonte, senza rischio d’impresa.

La trafila è sempre la stessa. Si mette insieme un progetto, possibilmente strampalato, cervellotico, arrogante e carico di prosopopea – che naturalmente verrebbe bocciato da qualsiasi impresario o da un agente che dovesse rischiare con denaro proprio – e si cerca di intortare un assessore, un sindaco, un addetto alla cultura qualsiasi.

Personaggi che a Roma, Firenze o Milano hanno, non sempre una loro credibilità, magari anche un nome, qualche volta addirittura una competenza.

Non così nelle migliaia di comuni sparsi nella penisola, dove l’assessore è un signore che magari di professione fa l’impiegato, il pediatra, il commerciante. Dunque un incompetente, uno facile da intortare e magari privo di trasparenza, che però gestisce, senza nessuna capacità, il denaro della comunità.

Ora che i cordoni della borsa si stanno restringendo, che le stagioni saltano, le notti bianche diminuiscono e gli spazi scarseggiano si grida allo scandalo, alla cultura soffocata, alla mancata pluralità artistica. Balle.

Gli organizzatori bravi, le proposte che reggono anche autonomamente hanno dimostrato di saper sopravvivere eccome. A Roma è il caso di “Fiesta”, la rassegna dedicata alla musica latino-americana e il Festival Jazz di Villa Celimontana.

Due esempi da seguire, sia dal punto di vista imprenditoriale che artistico. Due manifestazioni che il pubblico ha gradito fin dalla prima edizione e che non spacciano imbroglioni o incapaci per grandi artisti mascherati sotto qualche cartello.

*Dice di sé.
Dario Salvatori. Giornalista, conduttore radio-Tv, scrittore. È ideatore e coordinatore del progetto della divisione radiofonia Radioscrigno, per il recupero e la valorizzazione del patrimonio discografico della Rai. Possiede 60.000 dischi e otto milioni di figurine (top collezionista in Italia): unico a poter invitare una ragazza a veder la propria collezione di figurine senza rischio di venir equivocato. Il suo anagramma è: “Rovista la radio”.


EDGAR ALLAN POE
Quel sogno beato, quel sogno beato,mentre il mondo intero m’era avverso,m’ha rallegrato come un raggio cortese

che sa guidare un animo scontroso.

(Da “Un sogno”, 1827)


PAULO COELHO
Tutto l’universo cospira affinché chi lo desideracon tutto sé stesso possa riuscire a realizzare i propri sogni.(Da “L’alchimista”, 1988)

 

SCIENZA Rachele Zinzocchi - Una nuova malattia, l’eccitamento sessuale continuo

Parla Jeannie Allen. L’orgasmo? Un sogno per molte donne, un incubo, che può diventare terribile, per altre

Rachele Zinzocchi*

Primavera 2006. Il noto tabloid britannico “News of the world” titola: “10 orgasmi l’ora, 250 al giorno”. Sono quelli di cui godrebbe una giovane londinese, 28 anni all’epoca. Perché? Per un disturbo poco noto, ma che accende subito le fantasie degli inglesi. E, sembra, anche quelle della ragazza: “È fantastico”, avrebbe commentato lei, stando ai giornali. “Gli uomini si vantano di portare una donna all’orgasmo, ma io ho difficoltà a trovare un partner che riesca a stare al mio passo”.

La protagonista del presunto scoop, nonostante l’evidente inconsuetudine della sua condizione, non parrebbe insomma troppo dispiaciuta da quel continuo piacere cui madre natura l’avrebbe costretta. Anzi, stando alle parole attribuitele sulla stampa, più che una costrizione questo parrebbe un “affascinante destino”. La curiosità esplode. Chi è questa ragazza in apparenza tanto fortunata? Perché e come si trova a vivere una situazione del genere?

Scattano le ricerche. I pochi medici che accettano di avventurarsi in un terreno scientifico tanto ambiguo appaiono scettici. “Difficile”, si dice “che si possano avere davvero tanti orgasmi tutti insieme”. E difficile soprattutto che – pur ammettendone la possibilità – si riesca a mantenere una vita normale, psicologicamente e socialmente serena.

Non ci interessa qui certo entrare nel merito del caso diffuso allora dal tabloid britannico, o di qualche altro caso, sporadicamente apparso qua e là nel tempo, di altre presunte giovani teoricamente “pluriorgasmiche” e, sempre teoricamente, felici di esserlo. A interessarci è, piuttosto, la questione della veridicità storica e scientifica di una situazione del genere: la possibilità che donne simili esistano, il perché ci siano e quale vita realmente conducano.

La realtà si è dimostrata ben più drammatica e incredibile di qualsiasi fantasia. Donne così, o analoghe, ci sono eccome: ma vivono un’esistenza ben diversa. Perché, alla base di tutto, c’è un problema medico di estrema serietà, che neppure la medicina più avanzata aveva scoperto fino a poco fa e rispetto al quale, purtroppo, naviga, in gran parte, nel vuoto.

La malattia di queste donne ha un nome: PSAS, Permanent sexual arousal syndrome, ovvero “Sindrome da eccitamento sessuale permanente”. Per essere esatti, oggi che se ne sa qualcosa in più è stata ribattezzata PGAD,Persistent genital arousal disorder, “Disordine da eccitamento genitale permanente”. Se questa malattia oggi è nota, e in tante hanno potuto trovare un barlume di senso per una condizione prima inspiegabile, il merito è in buona parte di una donna in particolare. Colei che, per prima, ha avuto il coraggio di vedere chiaro in quanto di assurdo le stava accadendo consentendo, così, di arrivare a far diagnosticare al mondo medico-scientifico una malattia sino ad allora ignota. Questa donna vive negli Stati Uniti e si chiama Jeannie Allen. Non è una ragazzina, eccita meno le fantasie di altri presunti casi analoghi al suo. Ma di certo rappresenta il primo caso, il più eclatante in assoluto. Abbiamo deciso di incontrarla per raccontare la sua storia, quella sua malattia, ancora praticamente sconosciuta all’Italia e anche a buona parte dell’Europa.

Andiamo con ordine, Jeannie. Vuoi parlarci un po’ di te?

“Sono una donna come tante: 56 anni, tre figli ormai grandi e ben cinque nipoti. Nessun compagno: ho divorziato, e ora sono single. Vivo e lavoro negli Stati Uniti a Burbank, in California, presso un’industria cinematografica, dove mi occupo di software e supporto tecnico. Quello è il mio lavoro primario, ma svolgo anche altre attività: sono una scrittrice freelance. E, soprattutto, sono una strenua sostenitrice dei diritti di chiunque soffra di PGAD, “Disordine da eccitamento genitale permanente”: noto anche PSAS, “Sindrome da eccitamento sessuale permanente”.

Quando hai iniziato a sentire che qualcosa, dentro di te, non era più come prima?

“Sono passati tredici anni ormai. I primi sintomi di questa malattia li ho sentiti per la prima volta nel 1995. Ricordo che era fine estate”.

Che problemi hai avuto esattamente?

“Quattro mesi prima dell’attacco di PGAD, mi venne diagnosticato un “disordine da stress post traumatico”, e una forte ansia derivante da un infortunio sul lavoro. Pian piano cominciai ad avvertire i primi sintomi fisici di un eccitamento, senza che avessi alcun pensiero o fantasia, alcun stimolo visivo legato al sesso. Era uno strano insieme di tensioni muscolari e un formicolio leggero solo nell’area genitale. Con il passare del tempo, queste sensazioni aumentavano sempre di più, diventando più frequenti ed intense finché, a un certo punto, non si fermarono più”.

Cosa ti dissero i dottori? Capirono che avevi un problema serio?

“Figuriamoci! Il primo medico che mi visitò mi disse di farmi vedere da un bravo psichiatra. Il mio ginecologo invece – un maschio – se ne uscì affermando che ero il sogno di ogni uomo”.

Ironia di basso livello?

“In questi 13 anni avrò visto all’incirca cinquanta medici diversi: nessuno che avesse mai sentito o saputo niente su un malessere del genere. Nessuno perciò ha mai capito l’importanza della mia situazione, e soprattutto la mia disperazione nel dover vivere in questo modo”.

Hai iniziato così a convivere con un eccitamento continuo, non voluto né cercato. Di te hanno scritto che allora avevi addirittura “800 orgasmi al giorno”. È così?

“Beh, questo assolutamente no. Si trattò di un’invenzione del giornalista che scrisse il pezzo, fatta apposta per fare scalpore. Capisco che la mia storia possa essere inusuale, che faccia sensazione. Ma non penso che nessuno possa avere davvero 800 orgasmi al giorno. Per quanto drammatica sia la condizione che ho vissuto e vivo, la possibilità di bugie tanto oltraggiose non ha fatto che aggiungere insulti a una ferita già aperta, rendendo ancora più difficile l’essere creduti e capiti”.

Vero è che tu vivi, in uno stato di eccitazione costante che non passa, e porta quasi all’ingestibilità di una vita normale. Tu ci sei riuscita?

“La mia vita, così come quella di tutte le altre donne che poi ho saputo avere lo stesso problema, è cambiata drammaticamente. Ad esempio, ho divorziato da mio marito appena mi sono accorta che il problema non si sarebbe arrestato e che nessun dottore sapeva nulla di una malattia del genere. Come avrei potuto spiegarglielo, senza che mi prendesse per pazza? Era più facile mettere la parola fine al nostro matrimonio, piuttosto che descrivergli ciò che stava succedendo realmente”.

Come ti sei sentita?

“Il divorzio è stato un momento dolorosissimo. E purtroppo era solo l’inizio. Anche cose un tempo banalissime, come andare in macchina, viaggiare in aereo, in treno, in metropolitana, sono diventate, improvvisamente, inaccessibili, per i problemi che le vibrazioni mi avrebbero provocato. È vero, posso fare in modo di guidare giusto il tempo che serve per andare a lavoro o per brevi viaggi (massimo un’ora) – o, se devo andare in aereo, solo per brevi voli. Ma il problema resta”.

Una vita stravolta…

“Tutte le cose che mi piacevano, come stare con gli amici, bere qualcosa con loro o andare a una festa, viaggiare, gli sport che mi divertivano… Tutto questo oggi non esiste più. C’è solo uno “svago”, se così lo vogliamo chiamare, che posso concedermi, e che anzi mi aiuta molto: stare completamente immersa nell’acqua, per esempio in un bagno molto caldo. L’ho sempre trovato molto singolare, ma in effetti, se faccio così, ogni sensazione che il PGAD mi dà scompare!”.

Può dipendere dal fatto che, in quel caso, ti rilassi?

“È possibile. In effetti, un altro dei principali aspetti della mia malattia è dato dalle forti emozioni che tutte noi siamo costrette a sopportare. Il PGAD provoca un’ansia continua, causa depressione, ti fa sentire completamente senza speranza. E poi porta paura, rabbia, angoscia, imbarazzo, persino senso di colpa. È così duro avere a che fare ogni giorno con tutto questo “pacchetto” di sensazioni! Sentimenti che ti si aggrovigliano dentro, e tu non sai come uscirne. Ma, d’altronde, c’è un solo modo sensato di affrontare tutto questo: procedere piano, un giorno per volta”.

Divorzi da tuo marito. Com’è andata poi con gli uomini? Ti sei innamorata di qualcuno, hai avuto altre relazioni?

“Mai più. Non sono mai più uscita con nessuno. Nessun fidanzato, nessuna relazione. Tra le conseguenze della mia depressione c’è stato anche, fra l’altro, il fatto che sono diventata estremamente introversa. Purtroppo ho preso pure molto peso e ciò non ha fatto che aumentare la depressione. Mi sentivo semplicemente una miserabile. E certo la stima di me stessa, che era già piuttosto scarsa, è scomparsa completamente dopo essere ingrassata. Così, con sofferenza, ho chiuso con gli uomini”.

Dal 1995 arriviamo alle soglie del nuovo millennio. Possibile che, nel frattempo, nessun medico fosse stato in grado di capire qualcosa in più del tuo malessere?

“Il 99% dei dottori si sono sempre limitati, semplicemente, a fare tutto il possibile per cacciarmi fuori dal loro ufficio, perché non avevano mai sentito nulla del genere, e quindi non avevano la più pallida idea di cosa avrebbero potuto fare per me. Al massimo mi consigliavano di vedere qualcun altro, rinviandomi come una pallina da qualche presunto “speta” – insomma, mi mandavano da un altro dottore”.

Neanche l’ombra di una medicina, di una cura adeguata?

“Provai una medicina giusto all’inizio. Era il “Sudafed”, un decongestionante, che, neanche a dirlo, non aiutava affatto. Alcuni rilassanti muscolari come il “Soma” possono essere utili, specie per placare l’ansia. Peccato però che non si possano prendere se poi ci si deve concentrare a lavoro o nella guida.

Non ho mai preso nessuna altra medicina: sono un’“antichimica” per eccellenza, odio tutto ciò che è chimico, come le cure farmacologiche, fanno solo male. Molte altre donne, invece, hanno provato di tutto e di più. L’unica cosa valida è il “Soma” che, però, ha le notevoli controindicazioni che dicevo. Personalmente, ad avermi aiutata, in seguito, è stata soltanto la terapia “mente-corpo”: l’ho iniziata alla fine del 2004, e mi ha sostenuta tantissimo. Ad esempio adesso, la notte, faccio meditazione per immagini simboliche mentre sento il mio IPod. Se il corpo è meno teso, anche il PGAD è minore. Di recente ho anche iniziato a lavorare con un agopunturista, davvero bravo”.

Nel 2001 però, finalmente, riesci a trovare un medico un po’ più esperto degli altri. Chi era? E in che modo ti è stato d’aiuto?

“Trovai la dottoressa Jennifer Barman, un’urologa che all’epoca lavorava all’UCLA, l’Università della California di Los Angeles. Lei e sua sorella, una psicologa, avevano frequentato una clinica per la salute sessuale della donna e loro, finalmente, avevano sentito parlare di un problema del genere alla “Fondazione internazionale per la salute
sessuale della donna”. La dottoressa mi disse di recarmi dalla dottoressa Sandra Leiblum, che allora lavorava presso l’Università Robert Wood del New Jersey. La dottoressa Leiblum è stata l’unica a scoprire che esisteva una sintomatologia precisa, un modello tipico di problemi nelle donne che lei aveva visto, e iniziò a documentare scientificamente tali disagi. La Leiblum è stata la prima a chiamare questa malattia con il suo nome PSAS, “Sindrome da eccitamento sessuale permanente”.

Tre anni dopo, però, la dottoressa si è resa conto che si trattava più di un “disordine” che di una “sindrome”, e ha sostituito l’aggettivo “sessuale” con “genitale”. Così adesso il nome ufficiale della malattia è PGAD: “Disordine da eccitamento genitale persistente”.

Quella fu la prima volta in cui la PSAS – o PGAD – fu diagnosticata. Una nuova malattia era stata scoperta. Qual è la causa?

“Purtroppo non la si conosce ancora. Si pensa che potrebbero esserci uno o più fattori, che combinandosi provocano questa malattia. Lo stress c’entra sicuramente. Anche le ghiandole dell’adrenalina e i livelli di cortisolo potrebbero essere un fattore, così come gli ormoni. Occorre procedere con maggiori ricerche. Bisognerebbe istituire un fondo per questa malattia”.

E la sintomatologia? In che consiste, esattamente?

“I sintomi sono dati da spasmi costanti di uno o più muscoli nella regione pelvica. Questi spasmi sembrano essere collegati con un nervo che causa sensazioni di formicolio, che viaggiano sino alla regione genitale.

Una simile combinazione agisce come stimolo di eccitamento, il che a sua volta porta alla necessità di trovar sollievo attraverso l’orgasmo”.

Per chi ancora volesse fare ironie, puoi ripeterci la differenza tra il sesso vero, normale, e una malattia come il PGAD?

“Semplice: durante il normale sesso si vive un misto di pensieri e desideri, di cui l’orgasmo è l’apice, che conclude il tutto. Con il PGAD, invece, non c’è ombra né di pensieri né di desideri, e in pochi minuti, in poco tempo tutto ritorna come prima. E, il più delle volte, non v’è alcuna speranza che queste “agitazioni” si plachino”.

Il primo passo per te è stato conoscere la tua malattia. Il secondo, darne testimonianza pubblica per rompere il muro del silenzio. Avevi capito che in realtà non eri l’unica con questa patologia?

“Sì, ho iniziato a parlarne in un’intervista, all’inizio. Ma a quella, poi, ne sono seguite tante altre. L’ho fatto perché volevo che tutti e tutte venissero a conoscenza di questa malattia.

Ho rilasciato tante interviste in America e in Canada, ma anche in Inghilterra e in Australia, in Messico e in Portogallo. Però c’è ancora tanto da fare: bisogna fare molto di più affinché questa malattia venga riconosciuta e diagnosticata in tutti i casi necessari”.

Sei riuscita a far sì che, grazie alle tue parole, tante donne si riconoscano nella tua situazione, iniziando ad uscire dal loro disagio?

“Posso dire che, in questo modo, ho aiutato tante come me a sapere che esisteva un nome per ciò di cui loro soffrivano in silenzio: qualcosa di terribile e vergognoso da dire a chiunque, a cominciare naturalmente dal proprio partner, la famiglia, i medici. Il far sapere che questa malattia esisteva davvero – e che io ne soffrivo, e ne parlavo pubblicamente – è stato utile per loro, anche perché così avevano nuovo materiale (quello di cui potevano disporre proprio dalle interviste che rilasciavo) da sottoporre ai loro medici.

Su richiesta posso spedire una copia del documentario in cui sono stata coinvolta per la Gran Bretagna, o quanto è stato fatto per il “Discovery health channel Canada” e ancora, di recente, grazie a due diversi episodi del noto show TV “20/20” negli Stati Uniti.

Abbiamo anche un reportage su uno show dedicato alla salute trasmesso sulla Tv via cavo.

E non è finita: saremo pure in un nuovo show che il dott. Phil sta realizzando. Il titolo è “Chiedilo al medico!”: partirà a settembre negli Stati Uniti”.

Quante altre donne soffrono di PGAD?

“Non è possibile fornire un numero scientificamente certo: con tutta l’attenzione che questa malattia ottiene tramite i mass media, ogni giorno si fanno passi avanti, e aumentano i contatti con il gruppo di supporto.

Comunque, approssimativamente, credo che siano 300 o 400 donne”.

E i medici? Grazie alla tua testimonianza sono diventati più esperti della malattia? Stanno trovando una cura per voi?

“Assolutamente no! I medici brancolano ancora nel buio. Sebbene pian piano in parecchi ormai inizino ad aver sentito parlare del PGAD, la maggior parte non sa che fare.

È ancora necessario che li “educhiamo” su ciò che noi soffriamo tutti i giorni”.

Ad aiutare queste donne, comunque, ci hai pensato tu in prima persona. Parlavi prima di un tuo gruppo di supporto. Di che si tratta?

“È un “gruppo di discussione”, e appunto “di supporto”, cui ho voluto dare vita nel 2003, per unire tutte le donne che soffrivano e chiedevano aiuto.

Il gruppo è nato su Yahoo. Poi, nel 2006, ho creato il mio sito personale: in questo modo gli argomenti possono essere più facilmente organizzati, affinché donne o uomini trovino le informazioni di cui maggiormente necessitano”.

Anche gli uomini possono soffrire di questa malattia?

“Beh, dal momento che sussiste una connessione tra nervi e muscoli e, probabilmente, ghiandole adrenaliniche e livelli di cortisolo, mi dico… “Perché no?!”.

A dire il vero, ho sentito solo di tre o quattro uomini in questa situazione, ma può anche darsi che non se la sentano di uscire allo scoperto. È un passo certo molto imbarazzante da fare”.

Come vivi adesso?

“Giorno per giorno. Come ripeto, ho iniziato la meditazione, che mi aiuta. Controllare i fattori di stress su mente e corpo è la chiave per abbassare l’intensità delle sensazioni che mi attanagliano.

Ho ricominciato a socializzare: la prima volta in tredici anni! Mi sembra bello e spaventoso allo stesso tempo. È ancora una battaglia incredibile riuscire a farsi ascoltare dai medici, ottenere la loro attenzione: senza contare la vera guerra con le compagnie di assicurazione, affinché paghino per trattamenti medici per noi indispensabili, e che loro invece considerano solo “prove” o “ricerca”.

Questo, naturalmente, aggiunge stress a stress: rabbia, frustrazione, paura.

E sono proprio questi fattori, reali e tangibili, a far sì che i nostri sintomi aumentino vertiginosamente. Io continuo a sostenere le mie ragioni, e cerco di tenere sempre viva l’attenzione dei mass media, con questo solo scopo: far sì che, attraverso la conoscenza del mio caso, i medici possano disporre delle più ampie informazioni possibili, e accettino finalmente che tutto questo è reale”.

Sei una donna molto forte. Cosa bisogna fare oggi contro il PGAD, per te e per tutte le altre nella tua situazione?

“La cosa più importante e necessaria è trovare fondi per maggiori studi. Senza finanziamenti la ricerca partita lo scorso giugno alla Rutgers university, a Newark, nel New Jersey, non può continuare.

E questa sarebbe davvero una tragedia: quella ricerca iniziale, di cui io ho fatto parte, ha mostrato con chiarezza che succede qualcosa di assolutamente non normale in tutte noi.

Il team di ricerca ci ha detto subito, senza alcuna incertezza: “Signore, il problema non è nella vostra testa. È reale!”.

*Dice di sé.
Rachele Zinzocchi. Trentun anni, fiorentina di nascita, ma romana d’adozione, una laurea in filosofia teoretica alla Scuola Normale Superiore di Pisa – sulla metafisica e la finitezza umana – e un amore ancora oggi viscerale per ciò che significa “pensare”: oltre che per la possente lingua tedesca. Giornalista per desiderio di libertà nella comunicazione, è stata folgorata sulla via di Damasco da una grazia divina.


ANDREA BOCELLIE sogno cose che non so di te, dove sarà che strada farà il tuo

ritorno. Sogno. Qui ti aspetterò e ruberò i baci al tempo.

Sogno un rumore il vento che mi sveglia e sei già qua.

(Da “Sogno”, in “Sogno” 1999)

Domenico Mazzullo - Psichiatria e pregiudizi da superare, a partire dai medici di base

Può risultare pericoloso e deviante indirizzare un paziente verso una psicoterapia, senza che vi sia stato, preventivamente, un colloquio con uno psichiatra

Domenico Mazzullo*

E’ diventato ormai un luogo comune, ripetuto ed accettato senza riserve, che il medico di base si sia trasformato, sempre di più, in un burocrate prescrittore, o meglio trascrittore di ricette scritte da altri, abdicando così al proprio ruolo istituzionale di primo contatto con il paziente e di suo medico curante.

Parallelamente si accusa il medico di base di far ricorso, sempre più frequentemente, all’opera di speti, rinunciando, anche qui, al proprio ruolo di medico curante e, quindi, di filtro e coordinatore dell’opera di speti diversi. Se questo corrisponda, o meno, a verità non mi è dato saperlo, ma come psichiatra posso invece affermare che, per quanto riguarda la materia di mia competenza, si verifica invece un fenomeno inverso.

Nella mia trentennale attività di psichiatra clinico, ho potuto constatare, trovando anche il conforto e la conferma di altri colleghi, che vi è invece una certa, se non addirittura notevole riluttanza, da parte del medico di famiglia, a consigliare ed inviare il proprio paziente da uno speta psichiatra, fatta eccezione, ovviamente, per i casi più gravi e per le patologie che implicano una pericolosità per il paziente stesso e per gli altri.

Quando proprio non si può fare a meno di affidare il paziente a qualcuno, una “ottima” alternativa allo psichiatra è rappresentata dallo psicologo, figura professionale più rassicurante e specificando che non di visita si tratta, ma di un “colloquio” – figura professionale, però dotata di competenze specifiche tra le quali, ahimè, manca proprio quella di fare una diagnosi e prescrivere, conseguentemente, una opportuna terapia.

La responsabilità di questa prassi non è, però, solo del medico curante, ma anche del paziente che, per una sorta di ancestrale pregiudizio, mal sopporta, o sopporterebbe il consiglio di sottoporsi ad una visita psichiatrica, per i motivi che è facile immaginare.

Quali sono i rischi ed i pericoli insiti in tutto ciò? Ovvii ed evidenti: il privarsi da parte del paziente, o il sottrarre a questi l’opportunità di usufruire di una diagnosi precoce e di una terapia specifica, o addirittura, di una prevenzione che in tutta la medicina, ma soprattutto in questo ambito specifico, è particolarmente utile ed appropriata.

I pericoli non sono limitati solo al paziente, ma si estendono anche al medico curante, costretto ad avventurarsi, da solo, in un campo infido, irto di trabocchetti e per qualche verso lontano dalla logica vigente nelle altre branche della medicina.

Per dovere di ordine e chiarezza suddividerei i pericoli in due ambiti: quello concernente il momento diagnostico e quello attribuibile al momento terapeutico.

Riguardo al primo dei due, posso affermare che la diagnosi in psichiatria raramente è facile ed a portata di mano, anche quando, anzi soprattutto quando sembra evidente e quasi banale; salvo poche eccezioni, essa non può giovarsi dell’ausilio di esami strumentali, atti il più delle volte piuttosto ad escludere patologie in ambito organico: richiede tempo, molto tempo e raramente si può esaurire con un solo incontro; differentemente che in altre patologie, spesso il paziente non è neppure consapevole del suo stato di malattia, o nella migliore delle ipotesi, si lamenta e denuncia una sintomatologia, che richiama la sua attenzione, ma che raramente costituisce il nucleo della patologia da cui è affetto, e che spesso deve essere cercato e scoperto con defatiganti quanto lunghe indagini dialogiche.

Si evince quindi quanto possa essere oneroso, in termini di tempo, ahimè sempre scarso ed in termini di impegno intellettuale, per il medico di famiglia il rapporto con un malato psichiatrico.

A scopo esemplificativo voglio citare solo alcune situazioni in cui facilmente si può incorrere in spiacevoli equivoci diagnostici, seguiti dalle ovvie conseguenze terapeutiche.

Un paziente sotto altri aspetti sano, lamenta al medico l’insorgenza di una spiacevole insonnia, iniziata alcuni mesi addietro e divenuta, progressivamente, ingravescente; inizialmente essa era caratterizzata da una difficoltà nell’addormentamento, ma successivamente si è modificata, assumendo i caratteri dell’insonnia “lacunare” e “terminale”, ossia continui risvegli notturni, ad ore fisse, che spiacevolmente interrompono la continuità del sonno, ed un risveglio definitivo e senza speranze di riaddormentamento, in ore antelucane. Va da sé una continua e fastidiosa sonnolenza diurna.

A questo paziente si fornirebbe un pessimo servizio se ci si limitasse, come purtroppo spesso avviene, a prescrivere un ipnotico benzodiazepinico, o affine, che sintomaticamente avrebbe il brillante successo di risolvere rapidamente, ma solo in superficie, il problema al paziente, donandogli sonni tranquilli, ma lo esporrebbe alla delusione cocente di veder ricomparire immediatamente la sintomatologia precedente, se non quantitativamente addirittura peggiorata, nel momento stesso in cui si decidesse di sospendere, seppur con tutte le precauzioni del caso, la somministrazione del farmaco.

Perché tutto questo? Il tipo di insonnia di cui soffre il nostro paziente è sintomatico e costituisce l’epifenomeno di una “sindrome depressiva”, della quale spesso può costituire il sintomo iniziale, precorrendo gli altri del corteo sintomatologico anche di anni, oppure e più frequentemente il sintomo che maggiormente disturba e richiama l’attenzione del paziente e che, quindi, viene lamentato unicamente, rimanendo purtroppo in ombra tutti gli altri sintomi della depressione, meno eclatanti e che permarrebbero quindi inascoltati, se non venissero attivamente cercati ed investigati dal medico.

È evidente, quindi, che una terapia inappropriata, con un ipnotico, produrrebbe un triplice danno: di essere solo sintomatologicamente efficace, ma non etiologicamente efficace; di sottrarre il paziente depresso ad una giusta diagnosi e, quindi, ad una appropriata terapia; di instaurare una pericolosa “dipendenza psicologica” nei confronti dei farmaci ipnotici.

Analogo ragionamento vale per l’ansia, non occasionale e legata a situazioni specifiche, ma quell’ansia che noi definiamo “ansia libera”, continua, costante, che costituisce una caratteristica precipua del paziente, spesso definito o autodefinitosi come “personalità ansiosa”. Anche in questa circostanza, come prima per l’insonnia, l’ansia rappresenta spesso un fenomeno di superficie, più appariscente, ma che sottende, il più delle volte una sotterranea depressione, che se non indagata e riconosciuta, rimarrebbe non diagnosticata e quindi non curata.

Un discorso simile attiene alle somatizzazioni a tutti i livelli, comunemente e genericamente considerate espressione di una sindrome ansiosa e che invece, a mio parere, corrispondono anche esse ad una sindrome depressiva. Ho citato più volte la depressione, patologia sempre più frequente ed onerosa e che, per le previsioni ufficiali, nel 2023, diverrà la forma morbosa al primo posto per l’umanità.

Con tutto il rispetto per le previsioni, ritengo che non vi sia da aspettare quell’anno per conseguire tale spiacevole risultato, ma piuttosto che sia stato già ampiamente raggiunto e non sia divenuto ancora statisticamente ufficiale, solo perché la depressione, nonostante il risalto che le viene dato, sia tuttora, poco conosciuta, misconosciuta, sottostimata e sottodiagnosticata.

Non mi riferisco naturalmente alle forme più eclatanti ed evidenti, di depressione maggiore, degli episodi depressivi, nell’ambito di una psicosi maniaco-depressiva, della depressione post-partum, tanto per citare alcune situazioni patologiche di più facile ed evidente diagnosi, quanto piuttosto a quelle forme depressive “minori”, nella sintomatologia, ma non nella sofferenza per il paziente, che purtroppo, proprio per la loro minore evidenza clinica, rimangono non diagnosticate, come abbiamo visto in precedenza, ma addirittura a volte sconosciute allo stesso paziente, che si colpevolizza per la sua mancanza di energia, per la ridotta affettività nei confronti dei suoi cari, che si lamenta di una stanchezza, o pigrizia cronica, di una perdita di entusiasmo per gli aspetti della vita che prima gli piacevano, di una riduzione della libido, di una ridotta progettualità verso il futuro, di una disaffezione per la convivialità, di una ridotta capacità di concentrazione, o di applicazione allo studio, se si tratta di giovani, di un malessere vago ed ineffabile, indefinibile, che non è un dolore pieno, ma tale da rendere la vita insolitamente ed insopportabilmente pesante. Potrei aggiungere molti altri sintomi, o meglio sensazioni spiacevoli provate e riferite, ma rinuncio per tema di annoiare.

Questo paziente, difficilmente, manifesterebbe ad altri, se non a se stesso e ai propri familiari forse, il proprio disagio; difficilmente attribuirebbe il proprio malessere ad una malattia, addirittura psichica; difficilmente si rivolgerebbe al medico per essere aiutato, ma se questo avvenisse, la causa del malessere verrebbe cercata piuttosto in una patologia organica, pluriinvestigata, ma che si rivelerebbe evidentemente introvabile.

Questi quadri sintomatologici, evidentemente depressivi, configurano quella che noi psichiatri denominiamo “depressione mascherata” o “depressio sine depressione”, volendosi intendere con questa terminologia una depressione che manca o che non presenta così evidentemente il sintomo patognomonico, ossia la deflessione negativa del tono dell’umore.

Si comprende facilmente, quindi, la ragione per cui molte depressioni, non arrivano mai all’osservazione del medico, se non dopo molti anni dalla loro prima insorgenza e quando arrivano, molte sono misconosciute, o tardivamente riconosciute.

Discorso a parte merita la schizofrenia, la cui insorgenza è a volte acuta e caratterizzata da sintomi positivi, ossia deliri, allucinazioni, sintomi motori e mimici, prontamente riconoscibili, ma spesso subdola, strisciante, lentamente insinuantesi e progressivamente pervasiva, soprattutto nei giovani, tanto da essere scambiata, a lungo, per una problematica adolescenziale, un disturbo di personalità, una depressione reattiva ad un insuccesso scolastico, una delusione affettiva.

A volte invece, dietro una improvvisa caduta di rendimento scolastico, una immotivata chiusura in se stesso e rifiuto delle solite compagnie, un dimagrimento secondario ad una dieta bizzarra autoprescritta, un’inspiegabile scontrosità in un giovane precedentemente socievole ed estroverso, si può nascondere il primo sintomo di una inquietante e grave patologia psichica che naturalmente, quanto prima è diagnosticata e curata, tanto meno può esercitare il suo potere distruttivo e destrutturate sulla personalità del nostro paziente. È immediatamente evidente quindi quanto sia importante e determinante per il futuro del paziente una diagnosi precoce e quindi una precoce terapia.

Per questo motivo e qui tocco un tema che mi sta particolarmente a cuore, può risultare pericoloso e deviante, intraprendere, o indirizzare un paziente direttamente verso una psicoterapia, senza che vi sia stato, preventivamente e prioritariamente un colloquio con uno psichiatra, atto a valutare la reale necessità di una psicoterapia e ad escludere, o purtroppo a diagnosticare la eventuale e non rara presenza di una patologia, nascosta tra le pieghe di una equivocata problematica semplicemente psicologica.

Per quanto riguarda, invece, il secondo punto, ossia il momento terapeutico, anche in questo, per il medico di base sono presenti pericoli che è opportuno conoscere, quando decide di seguire personalmente il proprio paziente.

In primis, si evince da quanto detto in precedenza, che premessa e conditio sine qua non per una valida terapia è rappresentata da una diagnosi precisa ed accurata. Solo a titolo esemplificativo cito il caso di un paziente affetto da un’evidente ed inequivocabile depressione alla quale il medico decida di prescrivere un antidepressivo, come di regola e secondo logica.

Il medico si è preoccupato di accertarsi, dall’anamnesi raccolta dal paziente, ma anche dai familiari, se il paziente stesso abbia in precedenza sofferto di altri episodi depressivi e, ancora più importante, se in passato abbia manifestato anche una sintomatologia diametralmente opposta, ossia maniacale? In questo ultimo caso la somministrazione di un antidepressivo dovrebbe essere estremamente cauta e “protetta” da uno, o più stabilizzatori dell’umore per non correre il pericolo di un viraggio in una fase maniacale.

Vero è che le stesse caratteristiche della sintomatologia depressiva dovrebbero metterci in guardia, ma per questo è necessaria una lunga esperienza di malati psichiatrici. E se decidiamo di prescrivere ad un paziente gravemente depresso, a rischio di suicidio, una terapia antidepressiva, siamo consapevoli che i momenti di maggior rischio sono proprio quelli iniziali della terapia, quando l’ideazione suicidarla rimane tuttavia intatta, mentre i farmaci migliorano l’iniziativa e la capacità decisionale del paziente e quindi la possibilità di metterlo in atto?

In questi ultimi tempi, si è molto diffuso l’utilizzo degli antidepressivi, anti-MAO, triciclici ed inibitori della ricaptazione dei neurotrasmettitori noradrenalina e serotonina, con indicazioni che esulano dal territorio specifico della depressione, per esempio il dolore cronico, fibromialgia, sindrome della stanchezza cronica, disturbi del comportamento alimentare, e nel caso specifico della fluoxetina, per limitare la compulsione alla ingestione di cibo, nella bulimia, ma anche e più impropriamente, per favorire il dimagrimento, nel corso di diete a ridotto apporto calorico.

Va da sé che questi farmaci vengano prescritti da medici e speti non psichiatri, ai quali mi permetto di raccomandare una attentissima raccolta della anamnesi, atta ad evidenziare patologie psichiatriche e non, che potrebbero essere misconosciute, o sottovalutate dal paziente, quali ad esempio la presenza di pregressi episodi maniacali, episodi di aggressività incontrollata, epilessia.

È evidente, per esempio, che la somministrazione di un antidepressivo come la fluoxetina, per aiutarlo a dimagrire, ad un paziente obeso, ma che abbia avuto anche un solo episodio di eccitamento maniacale, potrebbe scatenare un nuovo episodio maniacale che sarebbe poi difficile da controllare.

Ritorno ancora una volta sul tema di una diagnosi precisa, per ribadire il concetto di quanto possa risultare controproducente e addirittura dannoso, non riconoscere, dietro uno stato di ansia libera, o una insonnia di tipo lacunare o terminale, una sottostante depressione e prescrivere sic et simpliciter una benzodiazepina o un ipnotico, farmaci sintomatici che non curano la depressione, distolgono da una diagnosi precisa, ritardano una terapia appropriata, a volte elicitano addirittura una franca depressione. Ma anche successivamente alla scelta corretta e appropriata di un antidepressivo, i pericoli di errore non sono finiti.

Purtroppo è comune l’errore di prescrivere gli antidepressivi con una posologia insufficiente e, quindi, non terapeutica, col risultato di scoraggiare il paziente, portarlo involontariamente ad aver sempre meno fiducia nei farmaci, e quindi in ultima analisi rafforzare in lui il pensiero depressivo di inguaribilità della sua condizione. Tale sfiducia può contagiare anche il medico che può essere portato a variare il farmaco, troppo presto, alla ricerca disperata del sostituto efficace, prima di aver permesso al precedente di esplicare il suo effetto.

Analogamente e spesso, i farmaci antidepressivi vengono sospesi troppo presto, molte volte, autonomamente, dai pazienti stessi che si sentono guariti, più raramente dal medico, prima che essi abbiano portato a termine il processo terapeutico. Conseguenza di ciò è evidentemente la ripresa della sintomatologia depressiva a breve termine, oppure una guarigione incompleta con lo stabilizzarsi del tono dell’umore su un livello intermedio che non è più quello iniziale, ma non ancora quello ottimale raggiungibile. Ribadisco il concetto di quanto sia importante una terapia corretta nella posologia e con una durata adeguata.

È anche importante sapere e tenere in considerazione che una terapia inadeguata, inappropriata, con una posologia anomala, frettolosa, non sufficientemente ponderata, può inquinare irrimediabilmente la sintomatologia psichica, già di per sé difficile da definire, rendendo oltremodo ardua la diagnosi.

Ho volutamente trascurato di menzionare gli antipsicotici, sia tipici sia atipici, che, per le peculiarità proprie delle patologie che vanno a curare, sono più appannaggio esclusivo dello speta, con l’unica eccezione della sulpiride e dell’smisulpiride, largamente usate in medicina generale nelle somatizzazioni e nelle forme lievi di depressione, privilegiate sugli altri antidepressivi, perché ben tollerate dai pazienti e prive di effetti secondari immediati, comunque rapidamente risolti, ma particolarmente sgraditi ai pazienti, soprattutto se ipocondriaci e timorosi nei confronti dei farmaci.

È un uso che sinceramente sconsiglio, a causa di altri effetti secondari, più tardivi e meno evidenti, ma non per questo meno importanti, in special modo nei confronti dei pazienti di sesso femminile: aumento ponderale, iperprolattinemia, galattorrea, irregolarità del ciclo mestruale fino alla amenorrea.

*Dice di sé.
Domenico Mazzullo. Medico-chirurgo, speta in psichiatria. Psicoterapeuta. Assolutamente laico e quindi profondamente libertario. Romanticamente illuminista.

 

 

ITALO CALVINO
E io restavo senza parola, perché capivo che la cucinaera il solo luogo di tutta la casa in cui quella donna veramentevivesse, e il resto, le stanze adorne e continuamente spazzolate

e incerate erano una specie di opera d’arte in cui lei riversava

tutti i suoi sogni di bellezza.

(Da “La nuvola di smog”, 1962)

INDICE DEI NOMI

Agostino
Alberti, Barbara
Alessandro Magno
Allan Poe, Edgar 
Allen, Jeannie 
Baudelaire, Charles 
Bergman, Ingrid 
Berlinguer, Enrico
Berlusconi, Silvio 
Bertinotti, Duccio
Bertinotti, Fausto
Biagi, Enzo 
Bindi, Rosy 
Bizet, Georges 
Bocelli, Andrea
Borsellino, Paolo 
Bottone, Alfonso 
Bovino, Alfonso 
Brecht, Bertolt 
Bucci, Elena 
Byron, George Gordon 
Caffi, Andrea
Calvino, Italo 
Camus, Albert 
Camus, Francine 
Carné, Marcel 
Caruso, Francesco
Castagnetti, Pierluigi 
Cavalli, Patrizia 
Cavani, Liliana 
Ceccarelli, Luigi 
Chiaromonte, Miriam 
Chiaromonte, Nicola 
Churchill, Winston
Ciajkovskij, Pëtr 
Cipolla, Carlo 
Clément, Catherine
Colombo, Cristoforo 
Coelho, Paulo
Cottifogli, Luisa 
Cucuzza, Michele 
D’Annunzio, Gabriele 
Dalla, Lucio 
Daniele, Pino 
Darnell, Linda 
Darwin, Charles Robert 
da Fiore, Gioacchino
De Andrè, Fabrizio 
de Balzac, Honoré 
de Beauvoir, Simone 
de Bosis, Lauro 
de Chardin, Teilhard 
De Gregori, Francesco 
De Piscopo, Tullio 
De Robertis, Francesco
De Santis, Giuseppe
De Sica, Vittorio
Dodin, Lev 
Donzelli Editore 
Doré, Gustave
Dostoevskij, Fëdor Michajlovi?c 
Duras, Margherite 
Duvivier, Julien
Einaudi, Luigi 
Esposito, Tony 
Fabrizi, Aldo 
Fagno, Gabriella (Lella Bertinotti) 
Farina, Gabriele 
Fellini, Federico 
Fernandez, Danilo 
Fini, Gianfranco 
Floris, Giovanni 
Follini, Marco 
Foscolo, Ugo 
France, Anatole 
Franco, Francisco 
Freud, Sigmund 
Garibaldi, Anita 
Gates, Bill 
Gesù Cristo 
Giolitti, Giovanni 
Giovanni evangelista
Giovanni Paolo II (Karol Wojtyla) 
Goodman, Paul
Gori, Giorgio 
Greco, Juliette 
Greenway, Peter 
Guadagnino, Luca 
Guccini, Francesco 
Haile Selassie I- Ras Tafari 
Hayworth, Rita 
Henze, Hans Werner 
Holleaux, Alice 
Honegger, Arthur 
Hugo, Victor 
Husserl, Edmund 
Ismailova, Katerina 
Jonas, Hans 
Josi, Luca 
Kant, Immanuel 
Lanza, Cesare 
Lawrence, Thomas Edward 
Lee, Lita 
Leiblum, Sandra 
Leoni, Carlo
Lerner, Gad 
Lévi-Strauss, Claude
Lindenberger, Herbert 
Livraghi, Giancarlo 
Lizzani, Carlo
Longuemare, Vincent
Losey, Joseph 
Lucrezio 
M&A Edizioni 
Magnani, Anna 
Malerba, Luigi 
Malraux, Andrè
Martoglio, Nino
Marsilio Editore 
Marx, Karl 
Mazzavillani Muti, Cristina 
Mead, Charles 
Mehta, Zubin 
Meloni, Giorgia 
Mondadori
Morandi, Gianni 
Moravia, Alberto 
Moroni, Chiara 
Naldi, Nita 
Nannini, Gianna 
Nenni, Pietro 
Nottetempo edizioni 
Olive, Simona 
Pagliero, Marcello 
Paolo VI 
Péguy, Charles 
Pelizzone, Maurizio 
Pertini, Sandro 
Piccari, Daniela 
Pietrangeli, Antonio 
Pizzi, Pierluigi 
Platone 
Pohl, Anny 
Power, Tyrone 
Proust, Marcel 
Puccini, Giacomo 
Rampling, Charlotte 
Risi, Dino 
Rosselli, Carlo
Rossellini, Renzo 
Rossellini, Roberto 
Rossi, Ignazio 
Renoir, Jean
Rimbaud, Arthur
Rizzo, Marco 
Rizzo, Sergio
Rizzoli 
Rossi, Lauro 
Runyon, Damon 
Sapori, Armando 
Sartre, Jean-Paul 
Saura, Carlos 
Schapiro, Meyer 
Schönberg, Arnold 
Senese, James 
Serandei, Mario 
Serena, Gustavo 
Servettaz, Francesco 
Sgarbi, Vittorio 
Shakespeare, William 
Silone, Ignazio
Simmel, Georg 
S?ostakovi?c, Dmitrij 
Stalin (Josif D?zuga?svili) 
Stella, Gian Antonio 
Stille, Alexander 
Testori, Giovanni 
Tolstoj, Lev Nikokaevi?c 
Tonini, Ersilio 
Tortora, Enzo 
Touraine, Alain 
Tremonti, Giulio 
Truffaut, François 
Turati, Filippo 
Tutino, Marco 
Valentino, Rodolfo 
Veltroni, Walter 
Visconti, Luchino
Wood, Robert 
Zavattini, Cesare
Zola, Émile

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