Edizione n. 14

INTRODUZIONE Cesare Lanza - Per onorare Craxi

Ho conosciuto Bettino Craxi nel 1976, in un pranzo a tre,  a casa della mia amica del cuore di quei tempi. Avevo trentaquattro anni, ero direttore del Corriere d’Informazione, l’edizione del pomeriggio del Corriere della Sera, e probabilmente – secondo i ricordi dei miei amici e anche miei personali – mi proponevo come un giovane aggressivo, in carriera, molto sicuro di sè, incline all’ironia (verso gli altri) e al sarcasmo.

Bettino, all’epoca ma a mio parere anche dopo, mi sembrò un uomo sostanzialmente timido. Intelligente, acuto, malinconico, capace di sintesi e di battute fulminanti.

Era da poco diventato segretario di un partito sota sfasciato, derelitto, ridotto ai minimi termini dopo una gestione depressiva del partito, qual era stata quella pigramente guidata da Francesco De Martino, su una linea di totale soggezione rispetto al dilagante partito comunista di Enrico Berlinguer.

Io ero e vivevo lontano dalla politica, ero diffidente e forse sprezzante, sostanzialmente, e anche nel giornalismo, una sorta di anarcoide, un po’ ribelle e un po’ populista.

La colazione fu breve, ma ci fu tempo sufficiente perché Craxi mi esponesse, sinteticamente e con straordinaria chiarezza, le sue previsioni politiche per gli anni successivi:

la crescita e l’importanza – nel ruolo di arbitro – di un partito sota autonomo rispetto agli schiaccianti compromessi, patti e accordi, stretti visibilmente dai due partiti dilaganti, democristiano e comunista;

la caduta del partito comunista sovietico e del muro di Berlino; in Italia, l’inevitabilità della designazione di un personaggio di radice sota alla presidenza della Repubblica e, successivamente, la designazione del segretario del Psi (lui? – non lo disse esplicitamente, però…) alla guida del governo.

Tutto questo avvenne via via, puntualmente, negli anni successivi.

Ma all’epoca della colazione eravamo nel ‘76: il Psi contava come il due di picche e di tutto ciò che Craxi profetizzava con timidezza apparente, e sicurezza di fondo, non c’era la pur minima avvisaglia. Non solo: io ero un giovane direttore arrogante, a quei tempi si sarebbe detto rampante, poco disposto a dar retta a previsioni e teoremi futuribili. Ascoltai dunque tutto con attenzione ed educazione, poi, quando Craxi se ne andò, scherzai un po’ con la mia amica, valutando Bettino con simpatia – per il suo fervore – ma anche come un bizzarro e presuntuoso personaggio, fuori dalla realtà.

Oggi non ricordo bene, ma forse espressi il mio scetticismo, senza riferire la conversazione, ch’era riservata e personale, sulle colonne del mio Corinf. Certamente, da qualche esternazione mia o dei miei giornalisti si capiva che condividevo il diffuso scetticismo: l’ambiente politico considerava, infatti, Bettino come un segretario di transizione, un ostaggio nelle mani di Giacomo Mancini e della sinistra di Claudio Signorile, che lo avevano eletto. Quale madornale errore di valutazione, il mio, e di tanti altri con me. Certo è che i suoi sostenitori erano pochissimi. Ricordo un biglietto di Massimo Pini, editore di Sugarco e amico intimo di Craxi, e se non sbaglio in quegli anni vicepresidente della Rai, che mi ammoniva affettuosamente: “attento Cesare, – mi scriveva più o meno – non fidarti delle apparenze, non dar retta alle chiacchiere; Bettino è uno tosto, un culo di pietra, su quella poltrona resterà fino a quando vivrà, nessuno riuscirà più a schiodarlo di lì”.

La previsione, salvo la tragica conclusione della vita e della carriera di Craxi, sarebbe risultata del tutto esatta negli anni che seguirono.

Negli anni seguenti, infatti, via via che le sintetiche profezie (ma sarebbe meglio dire: ragionate e intelligenti previsioni) di Craxi si realizzavano, la mia stima per Bettino crebbe proporzionalmente agli eventi che si susseguivano. Prima, la crescita del Psi, più per peso politico che per i numeri elettorali. Poi, l’avvento al Quirinale di Pertini – una nomina accettata a denti stretti da Craxi, che avrebbe preferito altri – e infine la sua designazione, nel 1983, alla Presidenza del consiglio (ma già nel ‘79 aveva avuto l’incarico di tentare di formare il governo: un esperimento fallito perchè “c’erano troppi serpenti sotto le foglie”, fu questa la mirabile sintesi del suo grande amico Spartaco Vannoni, proprietario dell’albergo Raphael, la casa di Craxi a Roma). Senza contare la crisi del partito comunista e dell’Unione sovietica…

Ebbene, tutto ciò che mi aveva fatto trasecolare e mi era sembrata una semplice e paradossale fantapolitica in quella colazione a casa della nostra comune amica, si andava realizzando, anno dopo anno. E Bettino, padrone assoluto del Psi, diventò il protagonista, con un pugno di voti, della politica italiana.

Non mi dilungherò sulla figura di Craxi politico e leader prima nel suo partito e poi a lungo nel governo, e infine inquisito eccellente nel mirino dei magistrati.

Nel decimo anniversario della sua morte, i giornali e le televisioni ci hanno proposto in modo alluvionale ogni tipo di commento – odiosi i peana firmati da giornalisti e politici che lo avversarono, accanendosi contro Bettino negli anni del dramma – e di ricostruzioni, quasi tutte, maliziosamente o forse inevitabilmente, faziose e strumentali.

Ma qui, sul nostro “Attimo fuggente”, luogo d’incontro, un rifugio minimalista – senza ambizioni né interessi – di persone libere di mente, non posso negare a me stesso e ai nostri lettori una breve riflessione.

Credo di aver conosciuto bene Bettino, senza averlo mai frequentato con assiduità: con il senso di colpa (non solo verso di lui, ma anche verso la mia intelligenza, che certo quel giorno e in quell’incontro non aveva brillato) l’ho seguito con curiosità, interesse, stima e infine crescente e affettuosa ammirazione. E qualcosa da dire ce l’ho. Craxi era, innanzitutto, un uomo libero e coraggioso, un idealista: solo una persona libera e orgogliosa della sua libertà, ad esempio, avrebbe potuto opporsi alla prepotenza americana, quella notte a Sigonella. Perciò, dal nostro piccolo angolo, sono felice di onorarne la memoria. Era un idealista, sì, e forse un sognatore, così ingaggiò – da uomo libero – una battaglia che non avrebbe potuto vincere: pestando i piedi agli americani, al Vaticano, ai due partiti dominanti – democristiani e comunisti – e a tutto il potere che essi rappresentavano. Si disinteressò del partito (un giorno, ricordo, quando era al governo, glielo dissi e lui mi rispose in modo brusco: “Con tutto ciò che ho da fare, devo pensare anche al partito?”) e questa indifferenza, in parte obbligata e in parte superba, lo trascinò alla rovina (che comunque, a parer mio, sarebbe avvenuta: era un personaggio troppo scomodo). Era autorevole, carismatico: feci un viaggio con lui in America e a Washington lo seguii e vidi fianco a fianco, per i discorsi ufficiali, con Reagan: sembrava lui, Bettino, per gli approcci, la gestualità e anche per quel che diceva, il numero uno, non il presidente degli Stati Uniti.

Resta il capitolo, tuttora oscuro (e non ci sarà pace politica, in Italia, fino a quando non sarà chiarito) delle indagini su Tangentopoli. Mi sembra evidente che tutta l’inchiesta, con determinazione o no, abbia mirato e portato alla distruzione di Craxi, di Forlani, dei protagonisti al governo nella maggioranza di allora, così come – con altra inchiesta – si mirò, e si riuscì, a demolire Andreotti: scomparvero dalla scena i tre personaggi dominanti, nel quadro politico, nell’Italia di allora. Miracolosamente restarono indenni i loro più tenaci avversari. E questo è un fatto. Ci furono due pesi e due misure. E ci fu in particolare, come ha riconosciuto in modo morbido ma chiaro il presidente della Repubblica Napolitano, un accanimento inusuale e aggiungerei selvaggio, disumano, verso la figura di Craxi. Mi auguro che un giorno si possa sapere e capire perchè, in modo incontrovertibile.

Escludo che Craxi si sia arricchito a titolo personale: gli interessava la politica, non il lusso, non il denaro. Come tutti gli altri all’epoca, escluso in parte il Msi considerato fuori gioco, anche il suo partito fruì di finanziamenti illeciti. E del resto lo ammise lui stesso, nel memorabile discorso alla Camera e nella deposizione in Tribunale. Era il Sistema a funzionare in quel modo, e lui, se voleva essere in gioco, non poteva, come chiunque altro, sottrarvisi (primum vivere, deinde philosophare – disse, appena eletto segretario).

Sono andato ad Hammamet più di una volta, restando estraneo alla retorica e alle ipocrisie delle cerimonie ufficiali, e ho pianto di fronte alla sua povera, dignitosa tomba. Avvilito e addolorato. Com’era giusto e naturale, un pianto senza pudore, di fronte al ricordo di un amico, un uomo rispettabile, vittima di una colossale ingiustizia.

Ps. Sono felice di segnalare ai lettori dell’Attimo due scritti di Antonio Ghirelli (uno su Sandro Pertini, l’altro su Bettino Craxi), alle pagine 11 e 26. Sono estratti, per gentile concessione dell’autore, da due libri ricchi di argomenti, aneddoti e ricostruzioni, interessanti per chi abbia desiderio di leggere documentazioni di prima mano su anni importanti del Partito sota in Italia, alla fine del secolo scorso.

Corrado Calabrò - Padre nostro

 

 

CORRADO CALABRÒ

Padre nostro

Padre nostro

che non ritrovo in terra

e che da somma sommità presiedi

all’incurvarsi dello spazio – tempo

dammi la mela della conoscenza

di cui assaporo il morso avvelenato

mostra almeno la mano in cui la tieni

perché io possa sfiorare quella mano

o, se il Tuo ciglio neanche a questo inclina,

rivelami nel sonno verso l’alba

ch’essa è il frutto del tempo dell’avvento

– fiore di un seme rimasto serrato

dalla stretta dei tempi nel Tuo pugno –

per i figli di figli inconcepiti

e, pago della vita non vissuta,

anch’io piamente inchinerò la fronte

a questa prole che non ho procreato

e, sentendo il picciòlo disseccarsi,

mi staccherò con le foglie caduche

dall’albero che aspetta la sua annata.

 

AMARCORD Antonio Ghirelli - Pertini e Craxi, i miei presidenti

Il primo ha reso la Presidenza della Repubblica un baluardo super partes, al quale ancora oggi gli italiani guardano con fiducia. Il secondo ha restituito al somo il ruolo di partito riformista e libertario

Antonio Ghirelli*

Era il giugno del 1978, mi trovavo a Fiuggi per “fare le acque”. Pertini era stato appena eletto Presidente della Repubblica e mi trovai ad ascoltare in televisione il suo discorso di insediamento. Un discorso straordinario, commovente. Fu grande: ebbe parole di elogio per il Presidente dimissionario Leone, che Berlinguer aveva invece distrutto. Ad un certo punto qualcuno mi comunica che c’è una telefonata per me da Roma. All’altro capo del telefono c’è Antonio Maccanico che mi dice: “Domani mattina potresti venire al Quirinale?”. Gli rispondo: “No, vengo stasera”.

Molto differente il rapporto ed il mio approccio con Bettino Craxi. Era il 1981, ero dal dentista e qualcuno mi chiamò per chiedermi se potevo dare una mano a Palazzo Chigi. Ciò che più mi impressionò di questo giovane socialdemocratico fu l’assoluta coerenza che applicava a tutto il suo operato. Colpito dalle parole di Martelli che parlò, per primo, di “effetto Craxi”, nel momento in cui decisi di scrivere un libro su Craxi non trovai espressione migliore per descriverlo.

E quando gli chiesi di rispondere alle 50 domande che gli avrei mandato, mi rispose: “Non risponderò mai alle tue 50 domande, ma ti scriverò una ventina di cartelle”. Aveva un meraviglioso, pessimo carattere (1).

Sandro Pertini

 

Cominciamo dalla fine. 31 maggio 1980, ore 10.27. L’Ansa dirama la seguente notizia: “La Segreteria generale della presidenza della Repubblica ha reso noto che Antonio Ghirelli, capo ufficio stampa del Quirinale, è stato “sollevato dall’incarico”. Le ultime tre parole, chissà perché, sono messe tra virgolette dall’agenzia.

Il comunicato è stato compilato dal Segretario generale della Presidenza, Antonio Maccanico, mio fraterno amico, e letto ai giornalisti nei giardini del Palazzetto Albéniz dal funzionario Bruno Agrò, il mio più stretto collaboratore. Pochi istanti dopo, i giornalisti al seguito del Presidente gli consegnano una lettera che hanno preparato la sera prima, quando si è profilato l’epilogo imprevedibile della mia avventura con Pertini:

“Caro Presidente” dice la lettera “ci permetta, a nome anche degli altri colleghi che abitualmente La seguono nei suoi viaggi all’estero, di rivolgerle una sincera preghiera: riconsideri la decisione di sollevare dall’incarico il nostro collega Antonio Ghirelli. Lei è stato per tanti anni giornalista e conosce i rischi che questo mestiere comporta. Noi siamo convinti della buona fede di Antonio Ghirelli, che le è stato in questi anni tanto vicino e ci ha aiutato a conoscere la sua personalità che tanto ci è cara. Ci creda, signor Presidente, siamo profondamente addolorati per ciò che è accaduto”.

Seguono le firme di Pio Mastrobuoni (Ansa), Antonio Savignano (Roma), Claudio Angelini (Rai-Tv), Mario Stanganelli (AdnKronos), Mario Novelli (Agenzia Italia), Aldo Rizzo (Stampa), Costanzo Costantini (Messaggero), Renzo Rosati (Occhio), Pietro Jozzelli (Secolo XIX), Piero Accolti (Il Tempo), Paolo Bugialli (Corriere della Sera), Mario Cervi (Il Giornale Nuovo). Manca la firma di Marcello Gilmozzi, direttore responsabile de “Il Popolo”, che secondo le mie informazioni in quel momento era già all’aeroporto.

Il viaggio in Spagna, che pure ha segnato un altro successo di Pertini dopo quelli riportati nella Repubblica federale di Germania, in Jugoslavia ed in Algeria, per non parlare dei trionfi accumulati in ogni regione italiana, era stato turbato sin dal principio da una serie di contrattempi. La presentazione dell’avvenimento era andata benissimo, anche perché il Presidente aveva concesso due interviste alla Radio-televisione di Madrid e all’Efe, l’agenzia di Stato, con notazioni molto simpatiche ed estremamente lusinghiere per gli spagnoli e soprattutto per le spagnole, alla cui bellezza Pertini aveva prodigato i più cavallereschi complimenti.

Ai politici locali era piaciuta la vigorosa schiettezza con cui l’ospite aveva impostato il problema dell’ingresso della Spagna nella Cee come una condizione naturale e necessaria per l’unità europea e per i rapporti con i paesi arabi e l’America latina. Al pubblico spagnolo era riuscito particolarmente toccante lo spettacolo del vecchio Presidente che bacia la bandiera rosso-gialla appena sbarcato all’aeroporto dalla capitale e si avvia all’uscita sotto braccio al giovane Re. Pure apprezzata la corsa di Pertini, addirittura prima di andare a colazione dai Sovrani alla Zarzuela, nella chiesa sconsacrata di S. Antonio l’Eremita per visitare la tomba e gli affreschi di Goya. “Andrò a rivedere” dirà Pertini nel brindisi del pranzo di gala “la splendida tela di Francisco Goya, tela che ricorda con mirabile forza la resistenza eroica degli spagnoli alla dominazione bonapartista. Un gruppo di figli del popolo, condannati a morte dall’invasore, affronta con rabbiosa fierezza il plotone di esecuzione. E, contemplando la magnifica opera del Goya, si ha l’impressione che a tremare siano i soldati di Bonaparte di fronte ai fieri patrioti morituri”.

Con il Re, che alla scaletta dell’aereo l’aveva salutato affettuosamente in italiano (“la trovo in splendida forma”) e con Maria Sofia aveva fatto colazione subito dopo alla Zarzuela, la loro residenza privata, scambiando doni preziosi. La sera, nel palazzo reale illuminato a giorno, splendido e desolato come un castello di fantasmi, il pranzo di gala si era concluso trionfalmente per il nostro Capo. Il finale del brindisi aveva commosso fino alle lagrime la principessa Margarita, sorella del Re, una signora cieca alla nascita. Traboccante di elogi per la lealtà del giovane Re, per la bellezza incantevole delle città di Spagna, per la fierezza e la cavalleria del suo popolo, il discorso di Pertini aveva toccato toni crepuscolari nell’accenno a Siviglia, “ove sta una solitaria, piccola piazza ornata da un pozzo antico da cui l’edera sale inerpicandosi sulle arcate di ferro battuto: plaza Santa Cruz. Quante volte, preso dalla mia innata malinconia, il pensiero corre a quella piccola piazza: solo vorrei esserci, solo con i miei sogni. Sì, con i miei sogni, Maestà, perché l’uomo – non importa la sua età – che non sa più abbandonarsi sull’ala del sogno è finito per sempre, il suo animo è irrimediabilmente inaridito”. Senza aspettare la traduzione, la principessa cieca si era alzata dal suo posto “perché voleva andare ad abbracciare questo grande signore”.

Juan Carlos, invece, doveva essere rimasto colpito soprattutto dall’accenno, già emergente dalle interviste della vigilia, al ruolo decisivo che egli ha giocato nella transizione dalla dittatura alla monarchia: “Per me democratico Ella ha avuto il grande merito dinanzi al suo popolo di far sì che il trapasso dalla lunga dittatura alla democrazia avvenisse senza spargimento di sangue”.

 

Malauguratamente, i trionfi della prima giornata non avevano trovato eco in Italia perché quel giorno, lunedì 26 maggio, il silenzio era calato sui giornali, la radio e sulla televisione. La federazione della Stampa aveva proclamato uno sciopero per protestare contro la dura sentenza con cui Fabio Isman, reo di aver pubblicato sul “Messaggero” i verbali dell’interrogatorio di Patrizio Peci, era stato condannato ad un anno e mezzo di reclusione, senza ottenere neppure la libertà provvisoria. Era il primo contrattempo.

All’indomani, per fortuna, il meccanismo tornò a scorrere e le mie ansie si placarono. La visita procedeva a gonfie vele. Pertini si era svegliato tardi: “Ho preso sonno” m’aveva detto “ho sognato l’odalisca”, che era poi l’interprete assai casalinga di un flamenco a cui avevamo assistito la sera precedente al Café des Chinetas. Scambio di discorsi al Municipio, un salto al Prado, l’inaugurazione del parco Roma: una mattinata scialba. Ma nel pomeriggio, all’ambasciata italiana, aveva conversato a quattr’occhi con González e Carrillo, dopo aver fatto colazione, allaMoncloa, con il presidente Suárez, affascinante come un torero. Ciascuno per il suo verso, i tre personaggi erano piaciuti: Suárez per la forte personalità, González per la sfrontata sicurezza in tutto degna della sua generazione (trentasei anni), Carrillo per il pacato e scaltro raziocinio. Il dirigente sota, la cui mozione di censura al governo doveva essere discussa il giorno seguente in parlamento, aveva confidato a Pertini che si trattava solo di un avvertimento: il peggio, per Suárez, sarebbe venuto da lì a qualche mese. Sia lui che il segretario del Pc avevano avuto parole di simpatia per Juan Carlos, riconoscendo che senza di lui sarebbe venuta meno la lealtà delle forze armate e con essa la pace civile, ma si erano pure dichiarati perplessi sulla tenuta democratica del Re: “Per ora, è poco borbonico. Ma i Borboni hanno cominciato sempre bene per finire, di regola, sempre male. Restiamo vigili”. Uscendo dallo studio dell’ambasciatore Marras, messo a disposizione di Pertini, González aveva detto ai microfoni: “Un gran Presidente y un gran sota”.

Anche il mercoledì si era aperto brillantemente: un’orazione dinanzi a 200 deputati e senatori raccolti in un’aula delle Cortes, con tre applausi a scena aperta ed un’ovazione finale. Il Presidente l’aveva accolta con un inchino del capo, portandosi la sinistra sul cuore alla maniera americana e quindi togliendosi gli occhiali per detergersi una lagrima. Prima di partire per Toledo, avevamo visitato una mostra di quadri italiani al Museo d’arte contemporanea, dove ancora una volta mi aveva colpito la puntualità dei giudizi di Pertini, incantato come noi dinanzi alla Attesa dei marinai di Campigli, un dipinto memorabile. A questo punto, la visita ufficiale era conclusa. Splendeva il sole e marciavamo verso una spensierata vacanza nel Sud.

 

Non ero neppure arrivato a Toledo, incastrato nella lunghissima carovana delle macchine nere, che l’incantesimo si spezzò. Qualcuno, un funzionario del comune, riuscì a pescarmi mentre stavo per seguire il Presidente nella cattedrale e mi fece strada verso l’ajuntamiento informandomi che c’era una telefonata urgentissima per me da Madrid. Non fu possibile avere la comunicazione, ma seppi egualmente di che si trattava. Poco prima, a Milano, un commando di terroristi aveva ucciso Walter Tobagi, un compagno sota che in pochi anni era emerso come inviato del “Corriere della sera” e presidente della Lombardia, un ragazzo di trentatré anni, molto amico di Craxi e di Martelli. Non basta. A Roma, tre agenti di polizia erano stati falciati da un altro commando, pare di fascisti, uno di essi era già morto, un altro in fin di vita.

Il problema era di avvertire cautamente il Presidente, per attenuare il trauma. Lo facemmo con Maccanico, che è un uomo pieno di tatto, ma quando raggiunsi la carovana all’hotel Parador, dove eravamo invitati a colazione dai sovrani di Spagna, trovai Pertini, Juan Carlos e Maria Sofia mestamente seduti sul parapetto della terrazza, che affaccia su un panorama miracoloso, la valle del Tago, poche centinaia di metri dalla rocca su cui si arrampica Toledo. A tavola, benché fossi sistemato altrove, sentii che il nostro Capo tuonava contro la viltà dei democratici, prima ragione del trionfo delle dittature, e invitava i suoi ospiti a visitarli al più presto al Quirinale. Le mense non erano ancora levate che arrivò in tassì da Madrid l’inviato del “Corriere della sera”, Paolo Bugialli.

Abitualmente scherzoso e beffardo come tutti i toscani, quel giorno mi apparve stravolto. L’assassinio di Tobagi lo aveva annichilito: le lagrime agli occhi, un tremito incessante nella voce e nelle mani, non riusciva a connettere. Mi pregò di portarlo dal Presidente, al quale doveva chiedere una dichiarazione per il giornale. Di fronte a Pertini, scoppio in singhiozzi. “Non faccia così” disse il Presidente e lo abbracciò, ma nell’abbracciarlo neppure lui seppe trattenersi. “Sono angosciato”, dettò poi “ho sempre letto Tobagi e ne ho riportato sempre un’impressione di grande serenità”. Erano le parole giuste. “Non poteva suscitare odio, semmai simpatia. Tutta la mia solidarietà alla famiglia del Corriere”.

Bugialli scappò via distrutto. Pertini si congedò dal Re e dalla Regina, con un repentino cambiamento di umore. Fece gli auguri a Juan Carlos per il dibattito sulla mozione di censura al governo, ma il giovanotto replicò tranquillo: “Riguarda Suárez, non me” e il nostro Capo rise divertito. Due ore dopo, tornarono a salutarsi, questa volta ufficialmente, all’aeroporto di Madrid: “Si ricordi” concluse il Borbone “che lei qui ha due amici”. Un breve volo ci portò a Granada, in una deliziosa residenza tra gli alberi, ma non avevamo nemmeno disfatto le valige che il Presidente scomparve con Maccanico. Mi dissero che erano andati a fare una passeggiata in centro, ma suppongo che si fossero appartati per discutere una “grana” che era appena scoppiata e che era molto più grossa, almeno in termini politici, dei due attentati messi a segno nella mattinata dai terroristi a Roma e a Milano.

In serata, infatti, seppi dall’Ansa che il magistrato torinese che indagava su “Prima Linea”, Caselli, aveva trasmesso gli atti dell’inchiesta sulle responsabilità di Marco Donat Cattin alla commissione inquirente perché aveva rilevato indizi di un possibile reato di favoreggiamento del presidente del Consiglio Cossiga (e, in un primo tempo, pareva anche di Rognoni). Roberto Sandalo, un giovane terrorista di “Prima Linea”, si era aperto con il giudice e tra l’altro aveva confermato che Marco, come era già stato dichiarato da Patrizio Peci, figurava addirittura tra i dirigenti dell’organizzazione ed aveva partecipato ad attentati molto gravi, perfino all’assassinio del giudice Alessandrini. Secondo Sandalo, informato della confessione di Peci, il presidente del Consiglio ne avrebbe messo al corrente il padre di Marco ed avrebbe consigliato all’on. Donat Cattin di far espatriare il ragazzo.

Naturalmente, quella sera a Granada ero lontanissimo dal sospettare l’intreccio che si sarebbe palesato tra questo ennesimo affaire della Repubblica e le mie personali fortune. L’indomani, alle otto, il Presidente sparì un’altra volta dalla residenza ma senza Maccanico e certamente non per ragioni di Stato. Se ne era andato tutto solo in una piazza della città a bersi un caffè ed aspettare che si aprissero, tardi secondo le consuetudini spagnole, i negozi. Una fioraia, che fu tra le prime, venne ad offrirgli un garofano e i suoi auguri. Quando lo raggiungemmo, era felice come un ragazzo che abbia marinato la scuola, col suo berrettino bianco, la sua pipa, il suo sorriso intrepido. Facemmo un po’ di shopping con lui, quindi ce ne andammo a far colazione al Rincón de Curro, dove ci raggiunsero altre notizie sullo scandalo Donat Cattin. L’Inquirente aveva convocato come testimoni lo stesso vice-segretario della Dc, Sandalo e Cossiga. Allora Maccanico si decise a confidarmi che il Presidente e lui erano stati informati già dal giorno 20 e che Pertini temeva un impeachment del presidente del Consiglio proprio nel periodo in cui era atteso, tra Roma e Venezia, da due importanti vertici con i partner della Comunità europea e con Carter.

In nottata, il Segretario generale si era messo in contatto con Jannelli, il senatore sota che presiede l’Inquirente e, a nome di Pertini, lo aveva sollecitato a stringere al massimo i tempi. Jannelli, che era d’accordo, aveva assicurato che Rognoni non c’entrava e che l’audizione di Cossiga come teste non era nemmeno sicura. Il pericolo poteva venire dai comunisti, perché un verdetto della Commissione, preso con una maggioranza inferiore ai cinque sesti, lascia aperta la possibilità di raccogliere un certo numero di firme per convocare il Parlamento a Camere riunite e discutere in quella sede l’eventuale deferimento del ministro incriminato alla Corte costituzionale o un approfondimento delle indagini. Per questa seconda richiesta avrebbe optato Berlinguer, furibondo per le accuse di Donat Cattin sui finanziamenti occulti del Pci e soprattutto per quelle di Sciascia a proposito dei collegamenti tra partito armato e diplomazia cecoslovacca.

Il pomeriggio a Siviglia passò, comunque, senza danni. Nel discorsetto in municipio, Pertini lanciò un altro slogan dopo quello che aveva divertito il Re (“chi non conosce Siviglia, non conosce meraviglia”), concludendo l’orazion piccola con il bizzarro distico: “Chi non conosce Spagna, non conosce gioia magna”. Dopo una passeggiata in carrozzella attraverso l’oceano verde del parco regina Maria Luisa, ci fu offerta una cena nelle sale dei Reales Alcazáres, un posto favoloso segnato profondamente dalla magia dell’arte araba. L’indomito Presidente volle anche visitare, dopo cena, il barrio di Santa Cruz, ma verso l’una di notte era così stanco che si lasciò sfuggire: “Se non mi riportate in albergo, il Presidente della Repubblica e il Segretario generale procombono qui”.

 

Venerdì 30 maggio. Siamo in partenza per Barcellona e sempre più preoccupati per la piega che sta prendendo a Roma lo scandalo Donat Cattin. Il vice-segretario della Dc avrebbe confessato all’Inquirente di aver parlato con Sandalo, amico del figlio, e di aver appreso da Cossiga che Marco era ricercato come terrorista o almeno di averne ricevuto la conferma. Il terrorista “pentito” è stato torchiato stanotte per sei ore dalla Commissione, che avrebbe richiesto al giudice Caselli gli atti istruttori. L’interrogatorio di Cossiga avverrà a mezzogiorno di oggi. Il ragazzo avrebbe confermato di aver saputo da Donat Cattin o dalla moglie, non è chiaro, che Cossiga aveva anche suggerito all’amico di far espatriare il figlio: “altro è se lo arrestano in Italia, altro è se scappa all’estero”. Vado a riferire queste allarmanti novità al Presidente, che si sta infilando la camicia. Naturalmente è ancora più preoccupato di me e mi dice qualcosa che non posso riferire. Guardandomi attentamente, con i suoi occhi molto miopi ma penetranti. “Lei ed io siamo sulla stessa lunghezza d’onda” aggiunge affettuosamente. Anche Scalfari, lo avverto, stamattina chiede le dimissioni di Cossiga.

Nell’aereo per Barcellona, un dirigente del servizio di sicurezza mi avverte che ieri sera alle 23 qualcuno ha telefonato al centralino dell’albergo a Siviglia per annunciare un attentato contro il Presidente. Per fortuna, doveva essere solo un mitomane. Ma io sono in ansia – maledetta deformazione professionale – soprattutto perché so che in Catalogna ci aspetta un nugolo di colleghi che chiederanno al Presidente o a me un parere sui fatti dell’Inquirente. Ho già respinto a fatica le obiezioni dei pochi giornalisti che ci hanno seguito nel Sud e che si mostravano stupiti per la calma con cui avevamo continuato i nostri giri turistici, nonostante l’iradiddio che si stava scatenando in Italia. Ho un briefing in programma per le 16.30 del pomeriggio all’albergo Palace di Barcellona e dovrò pure raccontare qualcosa. Il Presidente, che siede accanto a Marina Maccanico ed è assai disteso, esclude di volersi pronunciare: “Mi lasci completamente fuori” ordina. Allora preparo tre domande, che sottopongo al Segretario generale. La prima dice pressappoco: “Il Presidente della Repubblica segue la questione che è al vaglio della Commissione inquirente?”. La seconda: “Che giudizio ne dà?”. La terza: “E quale può essere il destino di Cossiga?”.

Prim’ancora di suggerirmi la risposta, Maccanico precisa: “Naturalmente, rispondi soltanto se ti fanno le domande. E chiarisci che non si tratta assolutamente del pensiero del Presidente. La terza risposta, se te la puoi risparmiare, è meglio”.

In ogni caso, ecco le risposte:

“Il Presidente Pertini si è mantenuto in stretto contatto con palazzo Chigi e con la Commissione dei procedimenti di accusa. Lo ha fatto tramite il Segretario generale della Presidenza della Repubblica Antonio Maccanico”.

Ovviamente il Presidente non può che rimettersi al giudizio della Commissione, sia per rispetto alle prerogative del Parlamento, sia perché non conosce gli atti”.

“È chiaro che, se la Commissione inquirente non si pronuncerà per la manifesta infondatezza delle accuse rivolte al Presidente del Consiglio, Cossiga si dimette e si sottopone al giudizio della Corte costituzionale”.

Maccanico non accenna minimamente al passaggio intermedio previsto dalla procedura, e cioè al giudizio delle Camere riunite sul deferimento alla Corte costituzionale, né io me ne ricordo. Chiamo Agrò e gli chiedo se il briefingè sempre fissato per le 16.30, ma il mio collaboratore mi informa che i colleghi hanno chiesto l’anticipo almeno di un’ora perché hanno altri impegni. Disgraziatamente anche io ne ho uno, devo restare a colazione con il Presidente. Decido allora di affidare il briefing ad Agrò, dettandogli domande e risposte, spiegandogli bene che non si tratta di uno statement ufficiale ma solo di informazioni che diamo alla stampa per dimostrare che Pertini continua a fare politica anche durante la parte privata del viaggio. Commetto, in questo modo, tre o quattro errori. Primo, un eccesso di zelo sempre riprovevole e un tantino ridicolo, nonché un’eccessiva comprensione per le esigenze dei colleghi. Secondo, un eccesso di fiducia in Agrò, che non è un giornalista ma un funzionario e non è tenuto a saper “filtrare” le informazioni. Terzo, una sottovalutazione dell’eco che può avere, senza il mio “filtro”, la terza risposta. Quarto, un’inopportuna condiscendenza nei confronti del Presidente, al quale dovrei far capire che sono più necessario al Palace che non a colazione con lui.

Sbarcati a Barcellona, voliamo verso la collina dove ci attende il Palazzo Albéniz, una residenza da favola che per la prima volta i reali mettono a disposizione di un ospite straniero. Mio moglie ed io ci sistemiamo nella stanza che ci è stata riservata, una sorta di mansarda linda e accogliente, senza sospettare che non dormiremo qui. È tardi e corro nell’atrio per vedere se il Presidente ha bisogno di me. Infatti, è così. Pertini, con una delle sue tipiche decisioni improvvise, ha declinato l’invito a colazione nello stesso Palazzetto – dove pare che sia stato preparato un menù succulento. Noi invece puntiamo su una trattoria del lungomare, molto affollata e popolare che entusiasma il Presidente. Facciamo una scorpacciata di pesce fritto e di un eccellente vino bianco, muy seco, salvo naturalmente il Capo che beve solo birra. È l’ultimo momento felice del mio lavoro per il Quirinale.

Qualcuno mi informa per telefono, forse lo stesso Agrò, che è scoppiato un casino tra i giornalisti per la dichiarazioneletta dal mio collaboratore. Mi sto spogliando per riposare con mia moglie, quando ricevo un’altra comunicazione: c’è una chiamata da Roma. Mi rivesto e saluto la mia vecchia amica: “Mi licenzieranno”, le dico scherzando, anche se con un’ombra di presentimento. Al telefono è il presidente del Consiglio. Mi chiede, a denti stretti, che diavolo significhi la dichiarazione del capo dello Stato. Cado dalle nuvole, balbetto, spiego che non si tratta affatto di una dichiarazione del Presidente ma di un’informazione del servizio stampa. L’altro riattacca. Arriva Maccanico, preoccupato ed incredulo. Chiamiamo l’Ansa, il capo redattore Caselli ci legge il dispaccio spedito dal suo inviato, Mastrobuoni. Prepariamo un comunicato inequivocabile: “Si smentisce la dichiarazione che è stata attribuita al Presidente della Repubblica. Nessun giudizio è stato espresso dal Capo dello Stato rispetto alla questione che è in esame alla Commissione inquirente per i giudizi di accusa”.

È un cattivo sogno, un incubo. Mi sento come se mi fosse capitato un grave incidente automobilistico e fossi rimasto sotto le lamiere, incolume ma stranito. Ad un certo punto, Maccanico ed io andiamo a riferire al Presidente. Sta in una saletta dell’atrio, pronto per uscire di nuovo secondo il programma della visita a Barcellona: Sagrada Familia, museo Picasso, Barrio gótico, Municipio, Generalità, pranzo serale. È fuori dai gangheri. Mentre Maccanico segue tacendo la scena, si rivolge a me: “Chi ha fatto quella dichiarazione ai giornalisti?”. Rispondo sotto choc: “Agrò”. La replica arriva secca come una frustata ma ad altissima voce: “Sollevi Agrò dal servizio”. Non rifletto, sul momento, che Agrò è un funzionario, che al contrario di me è protetto dai sindacati, che tutt’al più rischia il trasferimento in un settore meno importante. Mi dico solo che non posso far licenziare un uomo che ha quattro figli e che non ha altre risorse oltre al suo impiego alla Presidenza della Repubblica. In una frazione di millesimo di secondo mi dico anche che non è giusto far pagare a lui una responsabilità che, comunque, spetta al direttore del Servizio. E dico: “Signor Presidente, di quello che fanno i miei collaboratori, il responsabile sono io”. E anche questa volta Pertini non tarda a rimbeccarmi, solo che alza ancor più il volume della voce, mentre spalanca la porta e conclude la frase dinanzi a tutti i componenti al seguito: “E allora sollevo lei dall’incarico!”.

Il Presidente è uscito, io rimango tramortito con Maccanico. Non ho preso appunti, cito a memoria e può darsi che sbagli qualche tempo, ma non la sostanza degli avvenimenti. Ricordo benissimo che il Segretario generale mi pone, immediatamente, due problemi: cercare di persuadere direttamente per telefono, io che sono ormai liquidato, i direttori dei maggiori quotidiani italiani dell’assoluta estraneità di Pertini alla dichiarazione; scegliere se voglio essere dimissionato o licenziato. Stupisco per la sua perfetta padronanza delle emozioni e, quanto alla sostanza, mi affretto a chiamare i direttori di giornale, lasciando il Segretario generale e il Presidente liberi di farmi fuori come credono. Tra una telefonata e l’altra, ho appena il tempo di informare mia moglie, che rimane di sale, ma, con l’abituale fermezza, mi assicura la sua totale solidarietà. Faremo immediatamente le valige, cercheremo un albergo al centro e domattina partiremo con un volo di linea dell’Iberia: non è opportuno restare un minuto più del necessario in questo stupendo inferno. Purtroppo ho ancora del lavoro da sbrigare, anche se mia moglie non è d’accordo. I miei collaboratori mi avvertono che gli inviati al seguito del Presidente sono talmente confusi dopo la smentita del Quirinale che chiedono di vedermi: taluni dei loro direttori mi hanno pregato di mettermi in contatto con gli inviati perché, come è buona regola sindacale e democratica, si rimettono interamente al loro giudizio.

Così salto sulla macchina di servizio e volo al Palace. Qui, dove trovo quasi tutti i giornalisti del nostro seguito, mi rendo conto del fatale errore di Agrò. Il mio povero amico, oppresso dalla responsabilità e probabilmente pungolato anche da qualche inviato, ha riunito tutti i colleghi e, senza aspettare le loro domande e senza filtrare le risposte che gli avevo preparato, ha snocciolato tutto il resto di seguito, dandogli in tal modo l’inequivocabile significato di una dichiarazione ufficiale. Non importa se la terza risposta, interpretata come un’ingerenza, era smentita implicitamente dalla seconda: non importa se la stessa dichiarazione finale, letta con attenzione e fuori da ogni tensione emotiva qual è quella di tipo elettorale che regna a Roma, si rivela semplicemente ovvia, o, come ha sottolineato lo stesso Agrò con tipico linguaggio burocratico, “tautologica”.

Per il solo fatto che le tre risposte (penso agli enigmi di Turandot) sono state presentate come una dichiarazione a nome del Quirinale, Piccoli e Cossiga hanno potuto interpretarle come un’interferenza “gravissima” del Presidente. All’albergo Palace sono in grado di ricostruire quanto è accaduto tra la prima telefonata a me di Cossiga e la scenata con cui Pertini mi ha licenziato. Il presidente del Consiglio e dopo di lui Piccoli, più tardi Spadolini (che era a Palermo) hanno parlato con Maccanico. In parte ero presente, ma naturalmente non potevo sentire quel che dicevano gli interlocutori da Roma. Il segretario della Dc, vengo a sapere anche questo all’albergo dei giornalisti, era stato informato dello sciagurato statement di Agrò direttamente dal direttore responsabile del “Popolo”, Gilmozzi, inviato al nostro seguito. L’indomani “Il Popolo” riferirà molto correttamente sui fatti e il martedì 3 giugno Piccoli smentirà tassativamente, in una conferenza stampa, di essere intervenuto presso la segreteria della Repubblica per chiedere la mia testa anche perché come “giornalista” non lo avrebbe mai fatto, ma aggiungerà: “L’azione di Ghirelli è gravissima visto che Pertini l’ha licenziato”, che è un modo curioso di ragionare.

Ad ogni modo, sebbene alcuni colleghi mi vedano “molto teso” e qualcuno addirittura con le “lacrime agli occhi”, tengo egualmente la conferenza stampa. Chi ne dà conto con maggiore obiettività mi pare sia il collega Roberto Giardina, del “Giorno” di Milano, che scriverà testualmente:

“Alle 19.15, Ghirelli molto teso ma sempre controllato è giunto infine alla sala stampa organizzata dall’Hotel Ritz di Barcellona. “C’è stato veramente un grosso equivoco” ha detto “un grosso equivoco che mi costerà caro, probabilmente il posto. Ma è ovvio che mi assumo ogni responsabilità”. E infine il chiarimento: “Il Presidente della Repubblica non ha rilasciato alcuna dichiarazione sul caso Cossiga”. Come portavoce del Presidente, ha spiegato Ghirelli, le mie funzioni sono duplici, da una parte informare la stampa, dall’altra informare il Presidente.

“È vero” ha detto “che Pertini si è tenuto in contatto con Cossiga e con il presidente della Commissione, ma è anche vero che siamo tutti all’oscuro di molti particolari e che quindi, come già affermava la prima comunicazione, egli non poteva emettere alcun giudizio sul caso. La seconda parte della dichiarazione è ovvia. Se Pertini non può emettere giudizio, tanto meno può invitare Cossiga a dimettersi. L’equivoco nasce dall’interpretazione data alle parole del mio collaboratore. È evidente che se il presidente del Consiglio come qualsiasi ministro viene ritenuto colpevole si dimette e si presenta al Parlamento riunito per il giudizio. Una spiegazione costituzionale dunque e non un giudizio”.

 

Una prima telefonata di Maccanico, che è accorso presso il Presidente, mi suggerisce di tornare al Palazzetto Albéniz; lo avrei fatto comunque per rilevare mia moglie e il bagaglio. La seconda telefonata è minacciosa: il Presidente è ancora furibondo, vuole che si faccia subito il comunicato con il mio licenziamento, devo far sapere dove vado. La terza arriva la sera, all’albergo Avenida Palace, dove abbiamo trovato rifugio e stiamo malinconicamente cenando con Agrò e un altro funzionario del nostro servizio, Picchi. Dice il Segretario generale: “Sono riuscito a far rinviare a domani il comunicato. Secondo me, la formula migliore è questa. Parliamo di un errore di un tuo collaboratore del quale ti assumi piena responsabilità e di conseguenza presenti le tue dimissioni.

Così, abbiamo anche qualche giorno per accettarle o per respingerle. Meglio ancora se il comunicato lo rinviamo al ritorno in sede”. È una formula che mi piace, sono parole che aprono il cuore alla speranza di un recupero in extremis. Invece, l’indomani mattina alle otto, Agrò mi avverte che la formula voluta dal Presidente è quella originaria: “sollevato dall’incarico”. Mi viene fatto subito di pensare che in Italia non si solleva qualcuno dall’incarico almeno dal 25 luglio 1943. Ho il cuore colmo di amarezza, ma sono tranquillo. Lasciamo l’albergo per imbarcarci su un DC-9 della Iberia in partenza alle 11.05 per Roma. Poche ore dopo, dal telefono di casa, chiamo il direttore di turno dell’Ansa e gli detto una dichiarazione:

“Non intendo minimamente pronunciarmi sulla sostanza del provvedimento che mi riguarda. Desidero soltanto riaffermare la mia devozione e il mio affetto per il Presidente della Repubblica”.

 

La notizia ha un’eco fragorosa. “La Notte” di Milano la pubblica addirittura su nove colonne in apertura di prima pagina: “Voto decisivo su Cossiga/e Pertini licenzia “in tronco”/il suo addetto stampa Ghirelli”. L’inviato dell’Ansa ed altri colleghi raccontano che “un gruppo di giornalisti italiani tra quelli che hanno seguito Pertini nel suo viaggio in Spagna ha consegnato al Presidente della Repubblica una lettera nella quale chiedono comprensione per il caso Ghirelli e confermano la loro stima al collega”. Pertini l’ha letta ma, al momento di lasciare la residenza diretto all’aeroporto, sorridendo agli inviati ha fatto pollice verso.

Non tutti solidarizzano con il collega. Indro Montanelli mi dedica una parte, assai sprezzante, dell’editoriale sul “Giornale nuovo”. Dice che non ha mai capito perché io occupassi quel posto: “Ghirelli è un giornalista sportivo molto bravo, specie quando non si picca di mescolare la sociologia ai muscoli degli atleti. Ma cosa avesse a che fare col Quirinale, ci sfuggiva. Ora dobbiamo riconoscere che ha dato addio alla sua carica con più grazia e discrezione di quando l’esercitava. A meno che tra un paio di mesi non ce lo ritroviamo presidente di qualche ente come premio di una sceneggiata ben recitata”.

Nella sua “Stanza” e su “Oggi”, arriverà a scrivere che “Ghirelli fu designato a quella carica, così poco adatta a lui, perché così volle il partito sota al quale appartiene ed al quale appartiene anche Pertini”. Chi conosce l’indipendenza quasi nevrotica del Presidente da ogni pressione esterna, ed in particolare da quella del Psi, sorriderà allo sproposito di Montanelli. Sul “Tempo”, Enrico Mattei esclude che il Capo dello Stato sia uomo capace di “aver ordinato ad un suo collaboratore di diffondere un suo giudizio e poi, pentito o impaurito, cacciarlo via, facendo passare da sprovveduto chi non ha fatto altro che eseguire una sua disposizione”. Ma, aggiunge, “chi conosce Antonio Ghirelli non può neppure immaginare che gli sia saltato il ghiribizzo di far dire al Capo dello Stato la prima battuta che gli passi per il cervello”. Si tratta, dunque, per Mattei di un “rebus politico”.

Questo rebus intriga, naturalmente, soprattutto gli oppositori del governo Cossiga. Il “Secolo d’Italia” afferma: “Ben altri personaggi dovrebbero essere sollevati, ma stavolta a pagare è stato solo il giornalista Antonio Ghirelli. Torto, gravissimo, il suo: essersi assunto delle responsabilità non sue o, quanto meno, non solo sue”. All’altro estremo anche “Lotta continua” avanza serie critiche. Aprendo addirittura la prima pagina con un paradossale titolo: “Ghirelli for president”, il giornale di Enrico Deaglio aggiunge nel sommario: “Si è voluto punire, in maniera che non ha precedenti, una persona onesta, coscienziosa e seria. C’è solo da augurarsi che la decisione rientri al più presto”. Nell’editoriale interno, si sostiene che in questa “brutta storia”, Ghirelli appare come “la vittima sacrificale,l’unico che paga in questo scandalo”, e si aggiunge: “C’è un presidente del Consiglio chiamato in causa perché forse ha favoreggiato Marco Donat Cattin. Francamente è il minimo dire: – Se Cossiga è riconosciuto colpevole, allora si dimetta. Invece no: il dimesso è Ghirelli che quel comunicato ha diramato”.

Deaglio tornerà alla carica qualche giorno dopo chiedendo che il Presidente si riconcili con il suo addetto stampa: invano. “L’Unità” considera l’incidente “per lo meno singolare”, sostiene: “È certo che la dirigenza democristiana ha voluto un gesto del genere, nel tentativo di tamponare un’altra falla con il sacrificio di un funzionario al seguito del Capo dello Stato”. Mario Galletti, inviato di “Paese Sera” allarga il ragionamento: “A Roma, arrivata in blocco e senza nessuna articolazione, la comunicazione di Barcellona ha l’effetto di una bomba. La conseguenza si spiega: una cosa naturale e legittima diventa eccezionale se turba il meticoloso disordine in cui a Bisanzio le parole e i fatti vengono predisposti. Poi va a capitare chi ha montato il tutto, secondo una logica che poteva non esserci. E in più (in più e di che portata!) c’è la telefonata di un giornalista che da Barcellona avverte Piccoli; e Piccoli dice, ritelefonando a Barcellona a Pertini, che l’ingerenza presidenziale è inammissibile”.

Successivamente, i settimanali tornano sull’episodio. Secondo l’ “Espresso”, tra il ritorno del Presidente dalla colazione al Cità Costa di Barceloneta e la scena del mio congedo, si sarebbero inserite due telefonate da Roma: “Qualcuno lo svegli all’improvviso: – Presidente, c’è Cossiga al telefono. Il presidente del Consiglio non si perde in preamboli: – Mi dimetto questa sera stessa. Pertini è sbalordito. Ha appena posato la cornetta che arriva una seconda telefonata: è Flaminio Piccoli. – È un’interferenza grave, inammissibile in un sistema costituzionale come il nostro, protesta il segretario della Dc”. Come ho già detto, Piccoli smentirà. “Panorama” spiega la chiamata di Piccoli allo stesso modo dell’ “Unità” e di “Paese sera”: “Tra i giornalisti al seguito che hanno ascoltato stupefatti la lettura del comunicato inventato da Agrò, il primo a riprendersi dallo sbalordimento è Marcello Gilmozzi, l’inviato del “Popolo”, il quotidiano della Dc. Si precipita ad un telefono, si fa passare Flaminio Piccoli. Non è passata mezz’ora dall’infelice conferenza stampa che il segretario della Dc accusa Pertini di “inammissibili ingerenze presidenziali nella vita politica italiana”. Più incalzante, l’ “Europeo” arriva a sostenere che “il segretario della Dc non usa mezzi termini con il Presidente della Repubblica, addirittura lo minaccia di impeachment per attentato alla Costituzione, se non smentisce all’istante il comunicato trasmesso alla stampa”.

Il giorno 3, mentre “Repubblica” su ispirazione del Quirinale, annuncia che il capo dello Stato non sostituirà (almeno per il momento) Antonio Ghirelli, “Il Manifesto” dedica un durissimo corsivo alla meschina vicenda, rifacendosi al gesto del pollice verso con cui il Presidente ha respinto la richiesta di indulto degli inviati speciali a Barcellona: “Dal Quirinale, l’ufficio stampa ritornato da Pertini non ha diramato nessuna smentita. Così, tocca a noi, redattori antistituzionali di un giornale antistituzionale, ricordare al Presidente che la repubblica non è Roma imperiale, il Quirinale non è il Colosseo e Ghirelli non è un gladiatore, da condannare al forcone del retiario con l’imperioso gesto del pollice verso”. È lo stesso giorno in cui Deaglio, su “Lotta Continua”, reitera l’invito al Presidente a “ripensare alle proprie decisioni” come “è proprio delle persone sensibili, umane e intelligenti quale Pertini è”; ad agire, insomma “non in base alla forma, ma in base alla sostanza. E la sostanza è che il Quirinale è un luogo difficile e che nei luoghi difficili è meglio sempre avere un amico vicino. E Antonio Ghirelli, come Pertini sa, è sicuramente un amico, disinteressato”.

È il tema che ha sviluppato sulla “Stampa” Lietta Tornabuoni: “La gente s’era abituata a riconoscere in televisione, sempre a fianco di Pertini, la figura spesso sorridente di Ghirelli; nelle consultazioni per la formazione del governo, nelle tante tristi cerimonie funebri, nei viaggi ufficiali o allo stadio, in momenti tesi come quello della vertenza dei controllori di volo, nei giorni di polemiche come quelle originate dalle dichiarazioni di Pertini in Jugoslavia o dal suo telegramma di congratulazioni ai magistrati di Padova. La presidenza Pertini è stata in questi due anni una delle più travagliate: nell’Italia dei drammi continui, della crisi profonda, degli improvvisi vuoti di potere e di autorità, il Quirinale ha assunto un’importanza inconsueta che imponeva al capo dell’ufficio stampa doti particolari di diplomazia ed equilibrio. La dinamicità instancabile e il temperamento scomodo del Presidente esigevano accortezza, dedizione e tutto il tempo disponibile. Compiti non semplici, cui Ghirelli ha assolto con impegno e passione: sino a ieri, sino all’incidente di Barcellona, che ha causato la brusca caduta”.

 

All’incirca quattro mesi dopo l’episodio di Barcellona, anche il funzionario che avevo cercato di salvare, sarà folgorato dalla collera del Presidente. Accadrà durante il suo viaggio in Cina, a metà settembre 1980. Il povero Agrò, già avvertito dal Segretario generale del suo imminente trasferimento ad altro servizio, rimane in sede con il compito di informare la carovana sui commenti dedicati dai mass media alla missione. Una fatale sera, colto da un secondo attacco di zelo, crede di ravvisare in un’allusione all’imminente viaggio di Giscard d’Estaing nella stessa Repubblica popolare una mancanza di riguardo per il nostro Capo dello Stato. E naturalmente si precipita, via telex, a riferirglielo. Il Presidente chiede pubblicamente ragione dell’offesa, sulla Grande muraglia, all’autore del commento, Ilario Fiore, corrispondente da Pechino per Rai-Tv, ma Fiore – registratore alla mano – ha buon gioco a dimostrare che Agrò ha equivocato. Deinde ira. Pertini, nel chiedere lealmente scusa al giornalista, lo informa – a tutto risarcimento – che il funzionario responsabile verrà rimosso (per la seconda volta!) dal servizio stampa. La vicenda comincia ad assumere il sapore di un romanzo di Agatha Christie.

 

Bettino Craxi

 

Il 16 luglio 1976 il comitato centrale del Psi, riunito all’albergo Midas Palace di Roma sulla via Aurelia, elegge segretario del partito Bettino Craxi. È il risultato di una sollevazione dei quarantenni, i dirigenti più giovani, contro Francesco De Martino e gli altri annosi notabili accusati di aver portato il partito sull’orlo dello sfacelo. Craxi, che ha compiuto da cinque mesi i 42 anni, risulta praticamente sconosciuto alla maggior parte degli italiani, non esclusi quelli che continuano eroicamente a votare Psi. Soltanto pochi intimi sanno di lui che ricopre da parecchi anni l’incarico di vicesegretario per conto della corrente autonomista, che è il braccio destro di Nenni e che da giovanissimo ha lavorato nell’Unione goliardica italiana.

Cinque anni dopo è diventato il personaggio più stimolante, più popolare e più detestato della nostra costellazione politica. Nell’estate del 1978 ha imposto agli altri partiti l’elezione di un sota alla presidenza della Repubblica, evento senza precedenti nella storia unitaria del Paese. Pochi mesi più tardi, si è visto affidare dallo stesso capo dello Stato, Sandro Pertini, l’incarico di formare il governo e, se non è riuscito a condurlo in porto per ragioni estranee alla sua capacità, ha tuttavia mostrato nella circostanza il piglio e lo stile del leader di razza. Da quel momento, si è mosso con la stessa autorità, grinta e risolutezza nelle trattative con altre forze politiche, nei rapporti con il sindacato e nella guida del partito, districandosi energicamente fra i marosi di una difficile navigazione. Giunto alla segreteria del Psi come esponente di una frazione che contava su poco più del 10 per cento dei delegati di base, è arrivato a convincere il Congresso di Palermo nell’aprile del 1981 con il 70 per cento dei voti, che sono saliti a 72 nell’elezione diretta da parte dell’assemblea per la sua conferma in carica. Due mesi dopo, nelle elezioni amministrative che mobilitano il 21 giugno nove milioni di elettori, le liste sote, che De Martino aveva insabbiato nelle secche del 9 per cento, toccano il tetto del 14 per cento dei suffragi globali.

“Ha vinto l’effetto Craxi” afferma all’indomani l’on. Claudio Martelli, uno dei suoi collaboratori più brillanti, mentre di un fenomeno Craxi aveva parlato poco tempo prima, in un editoriale pubblicato sul “Corriere della sera” Alberto Ronchey. Può darsi che queste valutazioni siano esagerate ma è un fatto che, dopo la tragica morte di Aldo Moro e la scomparsa di Ugo La Malfa, nessuna personalità italiana esercita un’influenza pari alla sua sull’opinione pubblica, sui mezzi di comunicazione di massa, sul dibattito politico.

Evidentemente un’affermazione così rapida e perentoria non è fatta per suscitare solo consensi, specialmente in un paese come l’Italia, lacerato da contrasti sempre più violenti e dominato dalla cultura del sospetto. Critiche e accuse feroci grandinano quotidianamente sul capo di Craxi almeno con la stessa intensità con cui gli piovono addosso gli elogi. “I più ostili o timorosi – scriveva Ronchey nell’articolo citato – mormorano che per certi tratti fisionomici o caratteriali somiglia a Mussolini (cose che succedono di tanto in tanto tra i soti), anche se Mussolini era massimalista e non riformista”. Ma Noske e Mollet, che erano riformisti, hanno fatto quasi peggio di Mussolini: non vuol dire.

Una sommaria antologia dei giudizi più aspri pronunciati sul conto del Segretario sota può rendere una pallida idea delle ostilità che egli è capace di suscitare. Se Ronchey accennava al paragone con il duce del fascismo, Giampaolo Pansa è tornato più indietro nel tempo, arrivando addirittura a ridosso del Risorgimento: “Ai pessimisti, questo sota che piace anche agli industriali duri alla Mandelli, ricorda ogni giorno di più Crispi, partito mazziniano-garibaldino e finito nemico del Parlamento”. Invano l’interessato preciserà allo stesso Pansa: “Credo che il Partito sota sia e debba rimanere un partito di sinistra e credo che anche all’interno del Psi io sia uno degli uomini più di sinistra”. Gli ambienti marxisti continuano a diffidare delle sue intenzioni riposte: “Va per una strada non priva di ombre. Talvolta le sue parole hanno un timbro presidenziale che inquieta. Dice: Chi fa dei giochi sporchi finisce a piazzale Loreto, ma troppo spesso rivela una concezione autoritaria della politica”. È vero che “pensa in grande e non dimentica mai la rotta”, ma sa bene “che se l’avvenire è luminoso, la marcia può essere zigzag. Di qui una tattica molto mobile. Un puntare su molti tavoli. Una gran dose di pragmatismo. La tecnica dellostop-and-go, muovere, fermarsi, ancora muoversi. Il gusto di forzare le situazioni con i colpi di scena”. Serie riserve circondano anche il suo carattere: “Un uomo molto orgoglioso della propria bandiera politica. Consapevole delle sue doti. Con poca pazienza degli altri. Brusco di modi. Individualista solitario. Guardingo. Di memoria lunga. Corazzato di diffidenza. Afflitto dal complesso della congiura”. In breve: un padre padrone del partito.

Senza dubbio, molte di queste censure coinvolgono tradizionalmente il Psi tutto intero: “Chi è normalmente sotto esame, sotto inchiesta e anzi, diciamolo pure, sul banco degli accusati è il Partito sota” si sfogherà Bettino quando gli rivolgeranno un ennesimo attacco perché continua a circondare di molte riserve il processo di maturazione democratica del Pci. “Da sempre ci dobbiamo difendere dall’accusa di non essere soti, di non essere di sinistra, di tradire la classe operaia e via dicendo”. Ma molte delle critiche coinvolgono proprio lui personalmente. Dicono che è un egocentrico, un accentratore. Che è lui a decidere la linea del partito, a supervisionare le liste dei candidati, a risolvere le situazioni delicate. Che è lui a scrivere e a far scrivere sull’ “Avanti!” ciò che gli fa comodo, lui a decidere se e come rispondere agli altri partiti. Che è lui a scegliere le date dei congressi, a prepararli, a manipolarli. Che è lui a mantenere i contatti internazionali, a dettare i termini della politica culturale sota, a imporre persino i simboli e le parole d’ordine con cui si presentano le iniziative del Psi.

Anche quando si riconoscono i suoi meriti, quando si ammette che ha preso in mano un partito “triste e cadente”, privo di una linea politica, di un disegno progettuale, privo di tattica e strategia, e gli ha restituito prestigio e dignità, anche quando si constata che ha posto il Psi al cento dell’attenzione generale, si avverte il bisogno di aggiungere che, per raggiungere questi obiettivi, ha proceduto troppo spesso in modo estemporaneo, provocando lacerazioni profonde tra le forze democratiche e aprendo varchi paurosi alla destabilizzazione.

Né Craxi incontra maggiori simpatie tra i suoi interlocutori politici. I socialdemocratici, che fingono di amarlo, temono che egli possa finire per tagliare loro l’erba sotto i piedi. I repubblicani non lo amano neppure per finta, perché in passato ha polemizzato poco rispettosamente con La Malfa, perché come tutti i soti (ma meno di molti di loro) favorisce sprechi nella spesa pubblica, perché non è abbastanza intransigente contro i terroristi. I democristiani di destra, che ne avevano fatto il loro alleato privilegiato nel Congresso del preambolo, si sono accorti che si tratta di un compagno di viaggio scomodo e, per di più, di un insidioso concorrente elettorale. I democristiani di sinistra non lo sopportano per molte ragioni, la principale delle quali è che con il Psi pretende di sostituire nella guida della società italiana la Dc, emarginandola a destra a dispetto della sua forte base popolare.

Come ha osservato uno di loro, Guido Bodrato, la spregiudicatezza, vizio o virtù politica che sia, permette a Craxi di rendere conciliabili scelte che non lo sarebbero affatto: polemizza col Pci e al tempo stesso parla di alternativa; cerca collegamenti con gli imprenditori e forza tutti gli elementi conflittuali sul piano sindacale; afferma di battersi per la governabilità e determina situazioni di instabilità e insofferenza. Bodrato esclude che la sua strategia si proponga traguardi autoritari, da nuovo fascismo, ma denuncia la contraddizione tra le sue accuse alla corruzione democristiana e la notevole esperienza che i soti hanno in materia di sottogoverno e di scandali.

Ovviamente, i comunisti sono i più severi nelle critiche al loro indocile compagno, anche se con l’abituale prudenza preferiscono contestargli caso per caso presunte o reali inadempienze, anziché abbandonarsi a un generico giudizio negativo. Finché possono sperare di scavargli la fossa, lo attaccano senza pietà: il giorno in cui egli avesse realizzato i suoi obiettivi massimi riequilibrando i rapporti di forza con Pci, scenderebbero a patti con lui, esattamente come ha fatto Marchais con Mitterrand. È normale, fa parte delle regole del gioco. I sovietici, però, possono permettersi di essere meno diplomatici: dal 1978 in avanti, la stampa moscovita ha preso a bersagliare il segretario del Psi come predicatore di ostilità verso l’Urss, uomo ormai accodato al carro dei nemici del movimento comunista, amico spudorato dei cinesi e degli americani, leader sulla cui coscienza pesa la decisione di trasformare l’Italia in una piazza d’armi missilistico nucleare, dirigente che sta mostrando il massimo di irresponsabilità verso il proprio popolo. Un mostro.

Gli oppositori all’interno del Psi rincarano la dose, descrivendolo come umorale, impulsivo, vanitoso, vendicativo. “Quando individua nel partito un avversario pericoloso, cerca di metterlo in minoranza e, per riuscirci, offre tutto a chi può aiutarlo nell’impresa, mentre evidentemente gli uomini politici offrono l’altra guancia. De Martino lo ha accusato di portare il Psi sempre più a destra. Nevol Querci sostiene che ha trasformato in nazionalismo un sano patriottismo di partito e ha fatto degenerare l’autonomismo in equidistanza nel conflitto sociale. Achilli contesta semplicemente ogni punto della sua strategia, impuntandogli la rottura a sinistra e, in politica estera, un ottuso appiattimento sulle posizioni dell’imperialismo yankee. Con maggiore finezza ha analizzato le caratteristiche del segretario il suo rivale per definizione, Claudio Signorile, esponente di punta della corrente lombardiana, un pugliese ancor più giovane di Bettino, che probabilmente avrebbe avuto una carriera assicurata come docente universitario o come un giornalista se non fosse dominato dalla passione politica.

Alleato di Craxi nella congiura del Midas, suo socio in condominio nella gestione del partito per circa tre anni, poi coinvolto nello scandalo dell’Eni e travolto dalla spietata abilità del suo compagno di cordata, Signorile si è riconciliato con lui dopo il congresso di Palermo e ha accettato, come aveva già fatto Enrico Manca qualche mese prima, di entrare nella delegazione governativa sota, quale ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno del gabinetto Spadolini. Nel suo antagonismo con Craxi, le divergenze teoriche contano meno delle sfumature di temperamento, di formazione ambientale, di orientamenti culturali. Al laburismo manageriale cui si ispira il dirigente milanese corrisponde il somo umanistico e marxiano del parlamentare barese; alla coerenza politica, talora un po’ tetra, di Bettino, l’allegro trasformismo, così tipico del somo meridionale, di Claudio, ragazzo intelligente e spensierato, un po’ vitellone, prestato solo part-time all’impegno di partito.

In un lungo colloquio con un redattore dell’ “Europeo” egli ha tracciato un ritratto del rivale che merita qualche attenzione. Secondo lui, uno degli errori in cui Craxi incorre spesso è quello di vedere in ogni accidente della storia la macchinazione di un nemico. I suoi interventi non scavano mai in profondità: “Molti proclami, poca politica. È un uomo ricco di intuizioni ma non sempre lavora con tenacia per tradurle in realtà. Non conosce né la diplomazia, né la pazienza”. Dà altresì troppo spesso l’impressione di puntare a destra, come accadde nell’estate del 1978, quando pubblicò il famoso saggio su Proudhon, scritto (pare) a quattro mani con il politologo Luciano Pellicani: “Anzitutto, non aveva senso spostare il confronto con i comunisti sul terreno ideologico; era come imbastire una polemica tra tertulliani e nestoriani nella Chiesa, all’indomani del Concilio vaticano II. Poi, obiettivamente, il saggio – con il suo rifiuto del marxismo e la rivalutazione provocatoria del somo premarxista – sembrava voler ridurre il Pci in un ghetto”. Signorile respinge questa interpretazione ma solo perché è convinto che “Craxi ha un rapporto prevalentemente strumentale con le idee” ed è interessato soltanto agli “spunti che possano creare sussulti politici in tempi brevi”.

Nemmeno la sua pronunciata diffidenza verso il comunismo avrebbe radici ideologiche. Secondo l’esponente lombardiano non si può dire che il segretario del Psi sia anticomunista, si può soltanto rilevare che la sua polemica contro Berlinguer non è “né realista né lungimirante”, il che spiega perché sia diventato il dirigente sota più impopolare del secolo “presso gli strati operai influenzati dal Pci”. Ma l’aspetto più inquietante della sua personalità sta nella tendenza a suscitare “un allargamento dei consensi e delle alleanze, senza prestare la minima attenzione alla natura sociale dei consensi raccolti”, il suo opportunismo insomma, la sua disponibilità a muoversi “senza tenere minimamente conto delle radici popolari del Psi”. Signorile è piuttosto scettico sul successo finale dell’operazione avviata nel 1980 col ritorno al governo, perché teme che la Dc finisca per ritrovare la propria unità proprio sulla linea di opposizione alla “centralità” sota che Bettino vorrebbe imporre. Il pericolo, in ogni caso, è che l’operazione si chiuda a destra, sradicando il Psi dal suo terreno originario e tradizionale.

Pesanti insinuazioni sono state avanzate a più riprese sui presunti traffici finanziari a cui Craxi e i suoi più stretti collaboratori (Formica e Gangi) si abbandonerebbero. Nelle carte di Gelli, il torbido capo della Loggia P2, sono stati trovati o fatti trovare appunti riguardanti lo scandalo Eni, dai quali si desumeva che non solo Signorile ma anche il segretario del Psi e Rino Formica vi sarebbero stati coinvolti e che, per giunta, una cospicua somma in dollari sarebbe stata accreditata a nome di Martelli presso una banca svizzera.

Perfino la stampa comunista si è fatta portavoce di accuse poco gradevoli sui rapporti che il vertice del Psi avrebbe sviluppato con il banchiere Calvi, presidente del Banco ambrosiano, arrestato e condannato in prima istanza a una pena piuttosto severa in conseguenza di un’operazione di borsa poco chiara. Secondo “Panorama”, Calvi avrebbe aperto – su pressione dell’avvocato Ortolani, altro esponente della loggia massonica incriminata – un conto all’estero in favore del Psi per un ammontare di 21 milioni di dollari, all’epoca oltre 20 miliardi.

Come se non bastasse, sempre secondo il settimanale di Mondadori, quando scoppiò il macroscopico caso della Loggia P2 un magistrato milanese avrebbe confidato al sindaco di Milano, Tognoli (altro amico intimo di Craxi) che la faccenda era enorme e che per il Psi il solo modo per uscirne decentemente sarebbe stato di mettere da parte il segretario di partito. Tutte queste insinuazioni sono state sdegnosamente smentite. Martelli ha ottenuto dalla banca svizzera una dichiarazione nettamente liberatoria. Formica ha affermato che la gestione del Psi, da quando egli ne ha assunto la responsabilità, per cederla al momento di entrare come ministro delle Finanze nel governo Spadolini, è stata “corretta, cristallina, inattaccabile”. Lo stesso Craxi ha ammesso che il partito ha contratto debiti con varie banche, compreso l’Ambrosiano e con le sue cospicue proprietà immobiliari.

Sull’argomento, ho interpellato lo stesso Signorile che è apparso molto circospetto. Per il caso Eni ha escluso tassativamente non solo la propria implicazione (sono rimasto coinvolto nell’affare, pur essendone assolutamente all’oscuro, soltanto perché sono notoriamente amico di Mazzanti), ma anche quella dei suoi compagni-avversari, dichiarando di non essere neppure sicuro che sia stato proprio Bettino a fare il suo nome. Quanto al resto, ha asserito di saperne poco o nulla, pur essendo convinto che la corrente autonomista disponga di mezzi notevoli che tuttavia sarebbero investiti esclusivamente nella “lotta politica”. Sul piano delle valutazioni personali, è apparso critico ma non del tutto ostile: “Al di là delle apparenze” mi ha detto “Bettino è un uomo perpetuamente insicuro. Si potrebbe ripetere per lui la definizione che Renzo De Felice ha dato di Mussolini: l’homme qui cherche, una presenza esistenziale insomma piuttosto che un preciso disegno politico”. Il che non significa che per Signorile esiste davvero un rischio di mussolinismo del personaggio: “Per due ragioni. La prima è che il fascismo si affermò in circostanze storiche del tutto diverse da quelle attuali e con il contributo determinante di una straordinaria labilità dei partiti di massa. La seconda è che Craxi ha una personalità nient’affatto somigliante a quella del duce e, in positivo, un ancoraggio democratico e libertario sul quale non ho dubbi di sorta”. Semmai, sostiene Signorile, si potrebbe dire di lui, anche in considerazione della passione quasi maniacale per Garibaldi, che è un populista piuttosto che un autentico sota.

Sono risposte ambivalenti e non esenti da ambiguità, che riflettono fedelmente l’andamento oscillante dal quale sono caratterizzate le relazioni tra i due dirigenti: “Ci siamo sempre capiti” confessa Claudio “senza bisogno di troppe parole”. Il nostro è un rapporto curioso, caratteristico: ci troviamo a naso”. Neppure il suo principale rivale, dunque, concepisce una schietta antipatia nei confronti di Craxi. Ed è interessante notare come tutti i suoi amici, tutti coloro che gli sono più vicini nel lavoro quotidiano, insistano sulle doti di comunicabilità, di semplicità e persino di dolcezza di un personaggio che la pubblicistica corrente tende a presentare, viceversa, come un despota scorbutico e arrogante.

Anche suo cognato Paolo Pilletteri, un ex socialdemocratico che è diventato dirigente della Federazione sota lombarda, respinge il ritratto convenzionale del segretario: “Lo conosco da quasi 25 anni e mi sembrano tutte storie. Può darsi che con una certa consapevolezza della propria superiorità intellettuale e una concezione molto severa dell’impegno politico diano la sensazione dell’arroganza. Ma dietro c’è un fondo di timidezza e anche di pudore. Chi lo conosce bene come me, non può che sorridere di fronte alle accuse di mussolinismo, perché non c’è uomo più tollerante e leale di lui”. Nei primi anni sessanta, insieme con altri giovani soti, Pillitteri diventò suo amico: “Ci attrassero la sua intelligenza, la capacità di afferrare al volo la psicologia dell’interlocutore, l’attaccamento al partito. Anche da amministratore comunale, agli inizi, faceva benissimo. È uno sgobbone impressionante”.

Un’altra passione che pochi gli conoscono è quella di scrivere: “è un grafomane” assicura il cognato. “Ha cominciato a collaborare ai giornali universitari, poi è passato all’ “Avanti!” molti anni prima di diventarne direttore, a “Mondo operaio”, alla “Critica sociale” di cui proprio lui ha voluto la resurrezione. Non c’è discorso o relazione che non stenda tutto di suo pugno, anche se è impegnato fino al collo nei giri elettorali”.

Scrive molto e non parla male. “Nei primi mesi della nostra amicizia” racconta Tognoli, il sindaco di Milano “mi colpì soprattutto la sua capacità oratoria. Era diversa da quella di Nenni, più ragionata, meno passionale e anche meno fitta di slogan, ma egualmente efficace”. È anche il parere di un noto linguista, il prof. Mario Medici, che all’argomento ha dedicato uno studio di cui diede notizia su “Panorama” nell’estate del 1981. “Da come parla” afferma Medici “viene fuori chiaramente l’immagine di un uomo molto pratico e con un certo piglio psicologico. Un realizzatore che bada al sodo, non un ideologo. Usa periodi brevi e puliti, si affida più ai sostantivi che agli aggettivi, sembra attento (ancora una volta come Nenni) alla politica delle cose e poi ha fantasia: non si ripete quasi mai. Se non usa uno slogan come il leader romagnolo, è uno speta in proverbi che adatta bene alla situazione politica, probabilmente per una tradizione di famiglia”. Medici respinge il confronto con il duce anche sul piano stilistico: “Il linguaggio di Mussolini era molto più arrogante, molto più fanatizzato. In Craxi non c’è il misticismo della parola o dell’ideologia; c’è molto buon senso e un alto grado di sincerità”.

Un punto sul quale le testimonianze dei suoi amici sono unanimi, è la inalterabile coerenza dei suoi convincimenti dall’adolescenza ad oggi. Per l’avvocato Natali, che attualmente dirige a Milano un’azienda municipalizzata, alla base della diffidenza verso il Pci sta un’esperienza diretta, quella della trombatura di suo padre Vittorio, che nelle elezioni del 18 aprile 1948 era candidato sota nelle liste del Fronte popolare. Il gioco delle preferenze, sagacemente manovrato dai comunisti, e l’insuccesso globale dell’alleanza provocarono un’ecatombe tra i candidati del Psi e Bettino non se n’è mai dimenticato. “Per la verità” aggiunge Natali “non è mai stato filocomunista. Anche da giovane citava sempre Turati e considerava l’avvento del fascismo come la conseguenza dei gravi errori commessi dai massimalisti nel ’21. Ed è sempre rimasto un ammiratore del laburismo inglese, nemico giurato del burocratismo sovietico, un laico irriducibile”. I suoi autori preferiti, a vent’anni, sono stati Marx giovane e gli empirio-criticisti inglesi, una scelta decisamente controcorrente nel clima culturale del dopoguerra milanese, dominato dal Politecnico e dalla Casa della cultura di influenza comunista.

Per Massimo Pini, non si tratta solo delle avventure giovanili o del risentimento provocato dalla disavventura elettorale di suo padre: “La sua avversione per i regimi comunisti nasce dalle esperienze del primo decennio seguito alla Liberazione. Ha tenuto sempre in gran sospetto la doppiezza del Pci di cui parlava anche Togliatti; ma fu la tragica fine incontrata dai soti in Cecoslovacchia, all’epoca del primo colpo di stato, a impressionarlo in maniera indelebile. Quando il Pc cecoslovacco liquidò Masaryk e Bones, contava soltanto sul 14 per cento dei voti. Poi, naturalmente, sono venuti lo scontro con Tito, i fatti di Polonia, della Germania est, dell’Ungheria, il rapporto Krusciov, la primavera di Praga”. Parlando dell’Urss cita sempre Marx: “Il dispotismo asiatico, il comunismo da caserma” questo è l’incubo che vuole scongiurare nel nostro Paese. Come disse egli stesso in un’intervista concessa nel maggio del 1981, è “assolutamente contrario a qualsiasi ipotesi di instaurare in Italia un qualsiasi tipo di comunismo” per il quale “non ci sono né le premesse, né le esigenze”.

Che simili opinioni debbano coincidere necessariamente con un atteggiamento reazionario, è una tesi che i suoi compagni di lotta respingono con sdegno. “Bettino il somo lo ha succhiato col latte, visto che suo padre lavorava per il Psi in periodo clandestino ed è stato sota tutta la vita”. La frase è di Pillitteri che aggiunge: “È profondamente radicato nella classe operaia. Ricordo i suoi comizi nel deposito dell’Atm, alla Brown Boveri, alla Breda, alla Marelli, quando lavorava in periferia per la federazione milanese”. Osserva Tognoli: “Nessun dubbio sulla sua fede politica. Gli deriva non solo dall’ambiente familiare ma dall’antica tradizione riformista della nostra città”. Il sindaco di Milano racconta che nel dicembre 1980, quando si trovò a fronteggiare difficoltà e amarezze in direzione, pregò l’amico di preparargli un incontro con i compagni delle fabbriche di Sesto San Giovanni, perché sentiva il bisogno di rituffarsi nella base. “Ebbe un successo clamoroso e ne uscì rasserenato”.

L’avvocato Natali giura sulla sua vocazione democratica: “Ha un senso molto pronunciato della libertà, che gli deriva dalla lezione dei suoi maestri, Mazzali e Nenni. E non è nemmeno vero che cerchi di distruggere i suoi avversari: semmai li batte sul terreno politico e poi tende loro la mano, tanto che molti degli oppositori più accaniti sono diventati i suoi collaboratori più intimi e privilegiati. È un politico puro, in ciò somigliantissimo a Nenni”. Proprio per questo, non è nemmeno il caso di parlare di corruzione: “Per lui, i soldi non esistono, esiste solo il partito. A Milano, abita in una casa in affitto: a Roma o quando va in vacanza in Tunisia, scende in albergo”.

Tognoli sostiene che “senza dubbio, ha la caratteristica essenziale di qualsiasi capo che si rispetti, cioè la capacità di decidere, ma non rifiuta affatto di discutere, anzi, tutto sommato, è piuttosto influenzabile. E ha per metodo costante di chiederti consiglio senza esporre preventivamente la sua idea per non suggestionarti. Semmai, questo si, ha un carattere impulsivo, qualche volta brusco e, poiché è molto scrupoloso ed esigente con se stesso, lo è anche con i compagni”. Non diversamente Massimo Pini, pur ammettendo che Bettino era “più socievole” quando non dirigeva ancora il partito, assicura che la sua riservatezza è solo uno schermo: “Gli piace di stare con gli amici, di mangiare, chiacchierare, passeggiare. Grosso com’è, ha anche bisogno di prendere aria, benché adesso sia diventato molto pericoloso andare in giro per Milano e per Roma. Ma Bettino è coraggioso fino alla spavalderia e ha torto perché l’incolumità fisica di un leader non riguarda solo lui”.

Nell’agosto del 1981 in una lunga conversazione con Stella Pende, una redattrice di “Panorama” che dovette trovarlo particolarmente di buon umore, Craxi confermò indirettamente la testimonianza di Massimo Pini sugli aspetti meno noti della sua personalità. Disegna volentieri, anzi “scarabocchia” in ogni occasione, mentre ascolta un discorso alla Camera soprattutto quando parlano i radicali, mentre segue una riunione di partito, mentre guarda la tv. Ha tentato anche qualche disegno più impegnato, ma la sua produzione artistica si limita a una cartella di litografie.

Ama molto il teatro dialettale milanese e non disdegna il cinema, specialmente quando si proietta un film d’autore, come quelli di Rosi, di Petri, di Antonioni, di Bellocchio, della Wertmuller. Se ha tempo, passa volentieri le serate a casa con la moglie Anna, “la donna della sua vita” con la quale “ha un’intesa totale su tutti i piani”, e con i figli Stefania e Bobo, il quale ultimo suona discretamente la chitarra. Non è raro che a casa Craxi siano invitati Caterina Caselli, Ornella Vanoni, Lucio Dalla, che Bettino considera “il maestro di questa generazione”, e allora sono cori a perdifiato che durano fino a notte alta, anche perché il segretario sota ha una voce intonata e conosce un “apprezzabile repertorio di canzoni: preferibilmente quelle cosiddette da cantautore, vecchie e nuove, pezzi dialettali e stranieri”. In famiglia è piuttosto autoritario o meglio ha abituato i figli “a una comunicazione sintetica essenziale”, che è poi la sua maniera di essere con tutti, ma li ama molto e gli piace molto stare con loro.

Legge parecchio, attualmente soprattutto saggi di “storia nazionale sui movimenti popolari, sulle grandi imprese e le grandi rivolte”, che non sono certo gusti da reazionario, e in gioventù ha divorato di tutto, da Salgari a Hemingway, da Maupassant a Dostoevskij, anche se sempre “con una preferenza per la storia e, nel suo ambito, per gli eretici del comunismo, con Trotzkij in prima fila”. Il suo antidoto per i momenti difficili non sono i gialli ma i fumetti: possiede tutta la collezione di Asterix, qualche avventura di Corto Maltese, un po’ di Crepax e parecchi vecchi album di Topolino. Lo sport, oltre ad averlo praticato, lo segue anche da tifoso ma non è milanista o interista, tiene per il Torino sin dal giorno in cui, aprendo la radio, seppe che tutta la squadra granata era bruciata nel rogo di Superga.

La conversazione con Stella Pende toccò anche l’astrologia e la parapsicologia, e qui saltò fuori il “laico irriducibile” di cui parlava l’avvocato Natali. “Ho un grande rispetto per coloro che studiano gli astri ma purtroppo ho il brutto vizio di credere solo a quello che vedo”. Spiegò anche, però, di non aver bisogno di oroscopi non tanto per un eccesso di razionalità, quanto per un’altra curiosa ragione: “Sono un sensitivo, fiuto le cose come un veggente professionista.

Certe volte, questo mio modo di essere mi fa paura. Mi accade, per esempio, di pensare a una persona e subito dopo me la trovo davanti”. In realtà, una certa attrazione per la magia deve serpeggiare nelle vene di questi milanesi mezzo siciliani e mezzo tedeschi, se è vero che – a parte la crisi mistica dell’adolescenza di Craxi – suo fratello Antonio decise anni fa di abbandonare affari, divertimenti, belle donne e andare a vivere, con la moglie francese, in India, come discepolo del santone Sai Baba. “Certi fenomeni li capisco poco” confessò il leader sota alla redattrice del settimanale. “La religione è un bisogno dell’uomo che lo rende prigionieri, sottraendolo al campo della razionalità”. E aggiunse: “Da ciò potrà capire che mio fratello non ha avuto da me grandi incoraggiamenti e che, anzi, quando capisco che sta per farmi la predica, preferisco andarmene, per evitare arrabbiature”.

 

 

1) Pubblichiamo per gentile concessione dell’editore, uno stralcio da “Caro Presidente”, di Antonio Ghirelli (Rizzoli, 1981) e da “L’effetto Craxi”, di Antonio Ghirelli (Rizzoli, 1982). Riproduzione riservata.
*Dice di sé.
Antonio Ghirelli. È un tipo che a dieci anni ha deciso che avrebbe fatto il direttore di giornale ed è riuscito a dirigerne cinque. E aggiunge: “Non avrei saputo fare nient’altro”. 

ILVO DIAMANTIGiunti al capo d’anno, ci scopriamo sopraffatti dalla routine.E questo giorno ci appare assolutamente uguale agli altri. Il che“non” è vero. Perché le ricorrenze servono: a commemorare

oppure a rinnovare. Occasioni di memoria e di speranza, per

tornare indietro con gli occhi e la mente. Oppure, al contrario,

per proiettarci in avanti.

(Da “Next, la Repubblica”, 28 dicembre 2007)

 

 

 

FRANCESCO GUCCINI
O giorni, o mesi che andate sempre via, sempre simile a voi èquesta vita mia. Diverso tutti gli anni, ma tutti gli anni uguale, lamano di tarocchi che non sai mai giocare, che con sai maigiocare che non sai mai giocare, che non sai mai giocare chenon sai mai giocare, che non sai mai giocare…(Da “Canzone dei dodici mesi”, 1972)
INTERVISTE Antonella Parmentola - La televisione d'oro di Gianfranco Sciscione

Gold tv è oggi un gruppo televisivo tra i più importanti del Lazio e del centro Italia. Ma all’inizio, trentun anni fa, tutto si svolgeva in un appartamento di 70 mq a Terracina, con un telecinema super 8

Antonella Parmentola*

Gianfranco Sciscione, classe 1950, è oggi a capo di uno dei gruppi editoriali più importanti non solo del Lazio, ma dell’intero centro-sud Italia, costituito da Gold Tv e dal circuito nazionale Italia 9 Network. Eppure la sua carriera, inizialmente, è ben diversa: ricopre, infatti, per diversi anni la carica di capo contabile in una società di import-export.

Nel 1978, come folgorato sulla via di Damasco e seguendo la sua passione per il cinema, decide di lanciarsi insieme ad alcuni amici nell’avventura della televisione: entra così nella società Tfe (Tele foto elettronica), con lo scopo di portare il grande cinema nelle case di tutti. Un sogno del quale farà partecipe la sua famiglia e insieme alla quale riuscirà a realizzarlo costruendo, in occasione del 30simo anno di attività, la sede televisiva più grande di tutto il centro Italia.

Affronta senza difficoltà l’avvento del digitale terrestre che per Sciscione ed il suo gruppo costituisce una grande opportunità, sia da un punto di vista prettamente tecnico, di contenuto e di programmi, sia per le nuove possibilità occupazionali che si verranno a creare.

Ma questa storia non sarebbe stata possibile senza un intervento, per così dire, dall’alto. E per capirla fino in fondo, bisogna ritornare indietro nel tempo, al 1960, ad un giorno certamente drammatico, fatto di ricordi dolorosi, la cui felice conclusione pare sia opera dell’azione miracolosa del santo di Padova.

Mi perdoni la curiosità, entrando nel suo ufficio, l’ultima cosa che mi sarei aspettata di trovare è una statua di Sant’Antonio da Padova. È legata ad un evento particolare?

“La mia vita è legata al Santo di Padova, sant’Antonio. È una lunga storia, il cui solo ricordo mi fa venire i brividi. Era il 27 giugno del 1960, erano le nove e trenta del mattino. Avevo dieci anni e con la mia biciclettina ero andato a fare una commissione per mia madre. Finita la commissione, invece di rientrare a casa mi fermai in un ristorante, perché all’epoca c’era un gioco fra noi bambini, di collezionare i tappi delle bottiglie: importanti erano quelli del chinotto neri, quelli dell’aranciata, della coca cola. Avevo un appuntamento con un amichetto, che doveva darmi alcuni tappi.

Al ritorno dal ristorante, che si trovava sull’Appia, alle porte di Terracina, in direzione Napoli, un camion mi venne addosso. A quel punto la mia vita è cambiata. I flashback legati a quell’evento sono estenuanti. Di quando ero sotto il camion ricordo che battevo i pugni sull’asfalto e gli urlavo di fermarsi. Un’altra immagine che ritorna, confusa, perché sono stato parecchi giorni in coma, è quella di un uomo, penso il facchino, che mi prende in braccio, – la gamba sinistra era ridotta a brandelli, tendini compresi – e dal momento che si era lacerata la safena, lui era completamente insanguinato.

Devo dire che dal luogo dell’incidente alla clinica villa Zurla – dove sono stato ricoverato – ci sono appena cinquecento metri, e questo è stato il primo elemento positivo, in una tragedia del genere. Arrivo in clinica, era un lunedì, lo ricordo perfettamente. Ogni lunedì, il responsabile della clinica, il professor Decio Salvini, veniva in macchina a villa Zurla facendo la spola con un’altra clinica su Roma; quel lunedì disse alle suore, che svolgevano il servizio di infermiere, che si sarebbe, eccezionalmente, trattenuto a villa Zurla per il pranzo. Altro punto a mio favore.

Quando arrivai in clinica mi rimaneva al massimo un’ora di vita, perché avevo perso molto sangue. Il professore colse subito la gravità dell’incidente, anche se in un primo momento ebbe difficoltà a decidere il da farsi: bisogna considerare che all’epoca, diversamente da oggi, non si avevano sacche di sangue immediatamente a disposizione.

Pensò così ad una trasfusione. C’era un pescatore in attesa di essere visitato, e nonostante le preoccupazioni del dottorino che era di guardia (non c’era nemmeno il tempo per verificare che il suo gruppo sanguigno fosse compatibile con il mio) si procedette per una trasfusione diretta (tutto questo che racconto l’ho saputo dopo, perché di quel momento ricordo solo il dottore che urlava e chiedeva il mio nome e che io non volevo dirlo perché temevo di essere rimproverato da mia madre per aver fatto qualcosa che non dovevo).

Insieme con la trasfusione iniziarono a farmi anche un massaggio cardiaco, perché il cuore si era fermato. Mi portarono in sala operatoria e riuscirono ad avvisare i miei genitori. All’epoca non c’erano i telefoni in casa, quindi feci appena in tempo a dire che mio padre lavorava da un notaio. Lo rintracciarono e questi si recò a casa mia, comunicando a mio padre dell’incidente. Quando mio padre arrivò in clinica, gli dissero che l’unica possibilità di vita per me era trovare altro sangue. E qui un’altra felice coincidenza: mio padre riesce a recuperare altro sangue. A me, comunque, rimaneva poco da vivere. Avevo perso i sensi, il cuore si era fermato. La trasfusione continuava ed anche il massaggio cardiaco. Ad un certo punto l’elettrocardiogramma riprese a pulsare, il cuore a battere di nuovo. Decisero di portarmi in sala operatoria e di cucire.

Dicono a mia madre di andare a prendermi dei vestiti, perché quelli che avevo non esistevano più, con tutto quello che questo significava. Mia madre era angosciata e rimase in sala d’attesa a fissare la porta che dava sulla camera mortuaria, perché le avevano detto di perdere ogni speranza. A quel punto, disperata, si rivolse alla statua di sant’Antonio e pregò. Dal momento dell’incidente alle 9.30, solo verso le 14.30, una volta terminata l’operazione, i miei genitori mi rivedono. I medici comunicano l’esito dell’operazione sottolineando che è stato fatto il possibile, ma che non sapendo per quanto tempo il cuore è rimasto fermo non possono pronunciarsi sulla mia ripresa.

Sono rimasto incosciente per circa dieci-dodici giorni. Un giorno apro gli occhi e vedo intorno a me tanta gente, e sento che bisbigliano “si è svegliato”. Tra tante persone, notai un mio zio, generale dell’esercito, e a quel punto mi chiesi dove fossi finito. Vidi mia madre tranquilla e sorridente, si avvicinò e mi chiese: “Chi sono io?”. Come chi sono io? Tra me e me, penso che è diventata matta. Allora le rispondo: “Come chi sei tu? Sei mia madre”. E allora tutti urlarono. Perché le avevano detto che se non l’avessi riconosciuta ci sarebbero stati problemi.

Ebbi una lunga degenza, con numerose difficoltà. La gamba venne ricucita, – non dimentichiamo che era il 1960 – ma una parte andò in cancrena. Il professore, ogni volta che mi medicava, doveva tagliare la parte morta e verificare fin dove arrivasse la viva. Quindi mi legavano… le lascio immaginare il mio dolore, le urla e il supplizio del professore, perché ogni giorno era un’operazione, uno strazio. Comunque riesce a salvarmi la gamba, a farmi una plastica, a riportarmi, un po’ alla volta, in vita.

Durante questo periodo, mia madre era tornata alla statua di sant’Antonio e aveva fatto una promessa, un voto: “Se mio figlio tornerà a camminare lo faccio vestire da frate”. Quando seppi di questa promessa, mi ribellai: me ne vergognavo e le dissi che avrei fatto tutto, ma non questo. Mia madre arrivò a rivolgersi al vescovo, spiegandogli che aveva fatto un voto che io non le consentivo di attuare. Il vescovo la confortò dicendole che il voto l’aveva fatto lei e non io e che dunque non poteva in alcun modo costringermi. Allora lei promise che il giorno di sant’Antonio avrebbe distribuito il pane, e così ha fatto finché ha vissuto”.

 

Lei parla di miracolo. Quanto questo evento ha influito nella sua vita?

“E sì, parlo di miracolo. E se non fosse un miracolo, devo riconoscere che tutti gli eventi di quel giorno si sono incastrati in modo così fortunato da consentirmi di vivere: il professore che non doveva esserci e c’era, il pescatore con il mio stesso gruppo sanguigno, mio padre che trova subito altro sangue. Un episodio che ha segnato notevolmente la mia vita, perché fino a quando non ho fatto la plastica, a 18 anni, non volevo più andare al mare, avevo difficoltà di relazione perché sulla gamba c’erano degli squarci impressionanti e mi vergognavo. Un evento che, per certi versi, mi ha reso pessimista e poi, con l’andare del tempo, non più pessimista, ma certamente prudente”.

 

Tanto prudente non direi, visto che nel 1978 si lancia in una vera e propria avventura, dando il via al suo gruppo televisivo. 

“Per l’esattezza era il 16 marzo 1978, uno dei giorni più neri della storia italiana, il giorno del rapimento di Aldo Moro e dell’uccisione della sua scorta. Polizia ovunque. Ricordo che impiegai sei ore per arrivare da Roma a Terracina. Dovevo firmare dal notaio Raffaello Pisapia, l’ingresso nella società Tfe (Tele foto elettronica). Con altri sette amici stavamo per intraprendere una grande avventura che mai avrei pensato mi avrebbe portato qui”.

Perché aveva scelto la televisione e non un altro settore?

“Per la mia grande passione per il cinema che, all’epoca, non tutti potevano permettersi. Mi piaceva l’idea di far entrare nelle case di tutti film, giochi, divertimento, il mondo intero. Ricordo che all’inizio in un appartamento di 70 mq in via delle Arene, a Terracina, mi divertivo con un telecinema super 8, a montare e smontare pellicole di vecchi film e a mandarle in onda”.

 

Lei ha iniziato con sette soci, ma non tutti hanno creduto nel progetto. 

“Sì, infatti, il primo ad andarsene fu Gabriele Bersani, al suo posto entrò Angelo, mio fratello, poi fu la volta di Franco Mattacchione che fu sostituito dall’altro mio fratello, Romano. Nel 1984 se ne andò anche Umberto Patrignani, che liquidammo con l’allora radio Monte Giove poi Nuova radio Monte Giove”.

 

Oltre ai suoi fratelli oggi anche i suoi figli ricoprono cariche di rilievo nel gruppo Gold tv. Come riuscite a tutelare e distinguere il rapporto familiare da quello lavorativo? 

“Come sono i nostri rapporti? Diciamo che le urla che a volte si sentono nei nostri corridoi sono frutto di liti costruttive, perché alla base ci sono, sempre, grande professionalità, conoscenza e stima reciproca. Abbiamo creato un bel gruppo, Romano si occupa principalmente della bassa frequenza, Angelo della pubblicità; i nostri figli ricoprono incarichi diversi: il mio primogenito è un avvocato, ci tutela dal punto di vista legale, ma ha un suo studio, un figlio di mio fratello sta studiando per diventare avvocato e collabora nell’ambito del giornalismo sportivo; gli altri due miei figli, con la figlia di Angelo, sono con me dalla mattina alla sera e con tutti loro si decidono tutte le sorti del gruppo”.

 

Quale è stato il vostro trampolino di lancio? 

“Sicuramente lo sport. Siamo stati la prima emittente a seguire lo sport locale e a trasmettere in tempo reale tutti i risultati della domenica. Con commozione mi viene in mente il grande Elio Stocchi, che fu fra i primi a collaborare gratuitamente con noi, credendo nel nostro progetto. Elio per noi non è stato solo uno dei più grandi giornalisti sportivi, ma un amico, un compagno di vita, un pezzo di storia della nostra famiglia. Lui, come Andrea Palombo e tanti altri”.

 

Il successo della sua azienda, e soprattutto le sue frequenze, hanno mai fatto gola ai grandi gruppi televisivi privati, penso a Mediaset e Sky? Come sono i vostri rapporti? E con la Rai? 

“Gola non direi. Abbiamo avuto un incontro nel 2004, quando già si parlava di digitale, con il gruppo Mediaset che era interessato alla Gold – tengo a ricordare che noi abbiamo Lazio Tv e Latina Tv, ma loro volevano la Gold. Ci hanno offerto un importo superiore al valore intrinseco dell’azienda, ma sono stati due i motivi essenziali per cui non ho voluto cederla: il primo è che ai miei figli piace questa attività e vogliono continuare (per quanto ci hanno proposto io e i miei fratelli avremmo potuto tirare i remi in barca per il resto della vita, ma non è questo il nostro modo di vivere); il secondo motivo, non meno importante del primo, è che il 60-70% delle risorse umane dovevano andarsene a casa. Dunque io e i miei fratelli ci sistemavamo a vita, mentre altre persone, ragazzi, famiglie che avevano creduto in noi rimanevano senza lavoro. Una grande responsabilità morale, che ha avuto la meglio. E oggi a distanza di cinque anni, non dico che ho fatto bene, ho fatto benissimo e sono felice di aver detto di no”.

 

Quando si parla di concorrenza, lei chi considera, attualmente, i suoi principali competitor

“Non voglio fare il presuntuoso. Siamo nell’era del digitale e dai primi giorni di questa nuova era, noi siamo l’unica realtà che ha individuato al meglio questo progetto, perché con sacrificio abbiamo cominciato a studiarlo e realizzarlo da tempo. Già quattro anni fa trasmettevamo alcune ore in digitale, e quindi ci siamo preparati per l’evento, oltre che per l’alta, anche per la bassa frequenza. Infatti, il 16 di novembre, il primo giorno del digitale, noi già trasmettevamo in digitale con la bellezza di 13 canali: 7 sul Gold tv e 6 su Lazio tv. E da considerare che ogni canale ha la sua programmazione, non ripetiamo, come altri, lo stesso palinsesto con orari differenziati.

La Gold è rimasta un’emittente generalista, con particolare attenzione all’informazione e all’intrattenimento; poi abbiamo creato la Gold Sport: solo ed esclusivamente trasmissioni di avvenimenti sportivi; ed ancora la Gold Movie che continuamente trasmette film; poi la Gold cartoon con bellissimi cartoni per i più piccoli. Queste quattro emittenti sono il nostro fiore all’occhiello.

Ovviamente, abbiamo bisogno di soldi per mantenere tutto questo e a Roma è ancora difficile trovare pubblicità tabellare, mentre in altre zone non è così. Forse perché in questi anni abbiamo fatto (e mi riferisco a tutte le emittenti di Roma, comprese le mie) pessimi programmi e, di conseguenza, gli investitori pubblicitari non ci hanno guardato. Fatta eccezione per qualche emittente, che potendo contare su altre risorse ha fatto buoni programmi. Però anche queste erano e sono attanagliate dalle televendite. Per questo abbiamo creato Gold show room e Gold shop: stanno arrivando diversi clienti e siamo molto soddisfatti. La concorrenza è importante perché significa che possiamo migliorare il prodotto. Se non ci fosse sarebbe un dramma”.

 

La televisione è ancora considerata da molti una longa mano della politica. Lei come riesce a gestire i rapporti con uomini politici ed istituzioni? Ha mai pensato di dedicarsi alla politica in maniera attiva?  

“È chiaro che la politica ha per la televisione un grande interesse. Per noi, però, sono tutti amici, dalla destra alla sinistra, non ci siamo mai schierati. Abbiamo dato una mano a volte da una parte a volte dall’altra, proprio per dimostrare la nostra estraneità al mondo politico come partecipazione diretta.

In passato ho ricevuto diverse proposte, da entrambi gli schieramenti, sin dal ’94, all’epoca della creazione del partito di Berlusconi. Nel tempo alcuni miei amici sono entrati in politica: non so e non dico se hanno fatto bene o male. Io sono un imprenditore televisivo e sono felice. Questo per dire anche che non è solo una questione di soldi, ma anche quanto uno si senta bene con se stesso e con il lavoro che fa”.

 

Da un paio di mesi ormai il Lazio ha compiuto lo switchoff definitivo, passando dalla trasmissione analogica a quella digitale di tutti i canali televisivi. Il digitale terrestre costituirà davvero una nuova opportunità o è un modo elegante per camuffare una minestra riscaldata?  

Non è assolutamente una minestra riscaldata. Ci sta dando e ci darà grandi possibilità. Poi, come dice un mio amico, “quando esce il sole esce per tutti”, qualcuno lo prende in volto, qualcuno di schiena, ma arriva a tutti. Qui entra in campo, oltre alla professionalità, anche la voglia di lavorare e di fare le cose. Perché se aspettiamo che gli altri facciano quello che dovremmo fare noi, l’attesa sarà lunga…

Io sono un combattente: la mattina alle sei già comincio a controllare i miei canali. Poi vado nella prima sede che è a Terracina, dove vivo, per verificare certe pratiche amministrative, le banche, la programmazione. Mi trattengo, all’incirca, fino alle undici. Dopo questa prima fase mi reco nelle altre sedi. Sono sempre mosso da una gran voglia di voler fare e mai mi sento costretto a farlo”.

 

Quando pensa al futuro del suo gruppo Gold tv, cosa immagina e cosa si augura? 

“Mi auguro di poter continuare a fare quello che ho fatto nel passato. Ciò che abbiamo realizzato non è frutto di storie particolari o di interventi di qualsiasi genere, ma di un lavoro corretto e costante. Per il futuro l’augurio è di migliorare il servizio televisivo a livello regionale, sperando che il Gruppo cresca con l’avvento del digitale.

Questo significa anche nuovi posti di lavoro, ed è per me un punto importante: quando firmo una lettera di assunzione è un momento di vera gioia. In 31 anni di lavoro, ho conosciuto qualche migliaio di dipendenti: qualcuno è rimasto, qualcuno è andato via, alcuni sono arrivati anche in Rai. C’è gente che con me oggi sta prendendo la pensione e ne sono più che felice, perché sono persone che da trent’anni lavorano con me. E, ribadisco, l’augurio è di poter continuare a crescere per poter creare ulteriori posti di lavoro”.
*Dice di sé.
Antonella Parmentola. Subisce, dai tempi del liceo, il fascino delle parole, della loro etimologia, del loro senso originale e della successiva evoluzione. È profondamente convinta che in un mondo in cui tutto è stato già scritto e detto, il come scrivere o dire qualcosa possa ancora fare la differenza. 

Pina Bevilacqua - Quanto vale il Nobel di Obama?

Il consigliere del presidente americano Parag Khanna fa il quadro della situazione politica ed economica attuale, ribadendo che tra vent’anni gli Stati Uniti saranno ancora una potenza mondiale

Pina Bevilacqua*

Il consigliere del presidente americano Parag Khanna fa il quadro della situazione politica ed economica attuale, ribadendo che tra vent’anni gli Stati uniti saranno ancora una potenza mondiale. Un anno fa la sua elezione. E già è stato insignito del Nobel per la pace, il quarto a un presidente degli Stati Uniti (prima di lui T. Roosevelt, Wilson e Carter). Un riconoscimento al suo annunciato new deal, soprattutto in politica internazionale.

Ne abbiamo parlato con il politologo Parag Khanna, consigliere di Barack Obama per la politica estera. Direttore della Global governance initiative, dirigente del centro studi New America foundation. Ragazzo prodigio (1977) di origine indiana, una moglie, una figlia. Sempre le valigie pronte. Incluso l’anno scorso, è tra i 75 personaggi più influenti del mondo (“Esquire”) e tra i 15 emergenti (“Wired”). Lo abbiamo incontrato al convegno organizzato a Milano dalla Camera di commercio americana in Italia “Nuovi equilibri globali nel XXI secolo”.

 

Il Nobel al presidente Obama per aver ridato al mondo la speranza di un futuro migliore. Quale?

 

“Ci sono alcune cose concrete che Obama ha fatto per accendere questa speranza e la più importante è la richiesta per il disarmo nucleare. Nessun presidente degli Stati Uniti si era mai confrontato così seriamente con questo problema ed i suoi atteggiamenti nei confronti della Russia sono già un segno molto serio di progresso in questo senso”. Infatti, lo scorso settembre Obama ha annullato il progetto dello scudo antimissile in Polonia e Repubblica ceca per distendere i rapporti con la Russia. Ed ha presieduto la storica seduta del Consiglio di sicurezza dell’Onu, che all’unanimità ha approvato la sua mozione per il disarmo e la non proliferazione nucleare.

Ma c’è chi osserva che il disarmo totale non è realizzabile perché ci sono potenze atomiche non dichiarate e/o non firmatarie del trattato di non proliferazione nucleare come India, Pakistan, Israele. Chi sottolinea la supremazia americana convenzionale (gli Usa assorbono circa il 40% della spesa militare non nucleare nel mondo e hanno almeno 700 basi aero-navali non segrete all’estero) e non (gli Usa posseggono 1.195 vettori e 5.573 testate, mentre la Russia ha 811 vettori e 3.906 testate)”.

 

Quali sono i principali obiettivi internazionali dell’amministrazione Obama?

 

“All’amministrazione Obama piacerebbe costruire una collaborazione fra le potenze principali (come i membri del G20) su crisi economica internazionale, cambiamenti climatici, lotta al terrorismo, lotta alla proliferazione nucleare, lotta alla povertà”.

 

E le maggiori differenze tra questi e gli obiettivi dell’amministrazione Bush?

 

“La più grande differenza è che Obama ha immediatamente cominciato a dialogare con stati che Bush aveva provato ad isolare come l’Iran, il Venezuela, la Siria, la Korea del nord. Ciò è un segno che la diplomazia è per il dialogo costante, la ricerca di una soluzione, piuttosto che per la condizione congelata del non-dialogo”.

 

Due sono i fronti che preoccupano maggiormente Khanna, il Pakistan, potenza nucleare, strategica, popolata, e l’Iran, “troppo concentrato sul nucleare più che su questioni fondamentali come le buone relazioni con i Paesi limitrofi o i diritti umani”. E poi ci sono le due guerre non risolte ereditate da Obama. Con il ritiro dall’Iraq entro la fine del 2011 (se il governo iracheno saprà mantenere la sicurezza nel Paese) e il rafforzamento della presenza militare in Afghanistan.

 

Fino a quando la Russia resterà la seconda potenza mondiale?

 

“La Russia è stata in origine la seconda potenza mondiale, ma si ridimensionerà, anche se ha risorse energetiche forti e un arsenale nucleare. La sua economia rimane troppo debole per sostenere il peso globale”.

 

Gli Stati Uniti resteranno il primo Paese del mondo?

 

“Gli Usa resteranno superpotenza, anche se la Cina ed altri paesi stanno crescendo rapidamente. Tra 20 anni l’America sarà ancora una superpotenza, ma non la sola”.

 

Sopravvivrà il feeling tra Stati Uniti ed Europa?

 

“Gli Usa e l’Ue continueranno ad avere una relazione privilegiata e a collaborare, consapevoli di rappresentare la più grande area commerciale del mondo ed una comunità storica di valori”.

 

Khanna pensa che l’Unione sia “l’impero più benvoluto e meglio riuscito della storia, poiché, anziché dominare, educa”. Pensa anche che la Turchia ne rimarrà fuori, ma come partner strategico, un po’ come la Gran Bretagna e, forse, in futuro, la Russia. Che “l’Italia è una grande potenza che non sa di esserlo”.

Affascinante la mappa del potere globale ridisegnata da Khanna nel suo primo libro “I tre imperi – Nuovi equilibri globali nel XXI secolo”. Nel futuro non vede uno scontro di civiltà, ma una lotta tra imperi, Stati Uniti, Cina, Unione europea. Grandi centri di potere militare, economico, demografico che sulla scena internazionale ormai contano più delle identità culturali e religiose, che “si estendono al di sopra delle civiltà” e non s’identificano con esse.

Infatti, non esiste un Occidente, ma Stati Uniti e Unione Europea, con interessi e modi di vedere spesso divergenti. Così come non esiste un solo Islam, ma varie realtà musulmane (l’Asia centrale ex sovietica, posta strategicamente tra Est e Ovest, il Medio Oriente, tormentato dal conflitto tra i laici “arabisti” e gli “islamisti” votati al martirio, Indonesia e Malesia, sempre più attratte nell’orbita cinese). Vincerà l’impero che riuscirà a portare dalla sua parte il maggior numero di stati del Secondo Mondo. Quello che sta a metà tra la ricchezza e la modernità del Primo e l’arretratezza e l’indigenza del Terzo.

 

“Gli Stati Uniti stanno facendo grandi sforzi economici e sociali per facilitare la ripresa, e i segnali positivi stanno arrivando”, dice Simone Crolla, amministratore delegato della Camera di commercio americana in Italia (1915), affiliata alla Chamber of commerce of the United states of America (presente in 91 Paesi con più di 3 milioni di aziende affiliate). Un’organizzazione al vertice delle relazioni Italia-USA, con oltre 90 anni di storia e quasi 600 associati. Nel consiglio di amministrazione, presieduto da Umberto Paolucci, vice presidente di Microsoft corporation, realtà come IBM, Hewlett Packard, Cisco, Exxon, Sisal, Herman Miller.

 

Dottor Crolla, davvero sta passando la crisi?

 

“Ci sono alcuni segnali di ripresa, ma non sono ancora sufficienti. È importante in questi frangenti cercare di aumentare la fiducia dei consumatori, ora a livelli molto bassi. Una volta ripresa la fiducia, potranno accelerarsi i consumi e, quindi, l’economia potrà ripartire in maniera più stabile e continuativa. Sicuramente sarà ancora un 2010 all’insegna dell’incertezza, ma in questo l’Italia è messa meglio di altri Paesi, grazie al suo tessuto industriale di piccole e medie imprese, ai risparmi delle famiglie e alla solidità dei suoi istituti finanziari”.

 

L’ex premier spagnolo José Maria Aznar vagheggia la nascita di un’area economica atlantica, aperta anche ai paesi islamici, purché rispettosi delle regole comuni. Lei cosa dice?

 

“Credo sia una proposta interessante, ma le differenze intrinseche ai diversi paesi potrebbero frenare l’attuazione di questo ambizioso progetto. Almeno nel breve, medio termine. Vedo che c’è tuttora difficoltà per i Paesi europei ad esprimersi con una voce univoca sui differenti temi internazionali, in particolare per quanto riguarda la politica estera e la politica economica internazionale.

Penso alla difficoltà di unire paesi con storie e costumi diametralmente differenti e, alle volte, opposti a quelli dei paesi occidentali. Credo, infine, che prima di tutto l’Unione europea, in accordo anche con altri paesi dell’area mediterranea e, perché no, anche con gli Usa, dovrà decidere su come integrare le realtà medio orientali, islamiche in particolare, nei nostri concetti di libertà ed economia di mercato. Processo lungo, ma che tutti auspichiamo per una risoluzione pacifica delle diversità ideologiche presenti”.
*Dice di sé.
Pina Bevilacqua. A dieci anni, leggendo i quotidiani di papà, diceva “da grande farò la giornalista perché è il mestiere più bello del mondo”. A venti, “faccio la giornalista per cambiare il mondo”. A trenta, “scrivo per capire il mondo”. Ed oggi, “essenzialmente per capire me stessa”. 

RENATO ZEROLa vita è un dono legato a un respiro, dovrebbe ringraziare chisi sente vivo, ogni emozione che ancora ci sorprende, l’amore

sempre diverso che la ragione non comprende il bene che

colpisce come il male, persino quello che fa più soffrire è un

dono che si deve accettare, condividere poi restituire.

(Da “La vita è un dono” 2005)

 

 

ATTUALITÀ Clap - Mario Tonucci, avvocato in stile americano

Uno studio legale con più di duecento associati e diverse sedi sia in Italia sia all’estero, una carriera importante partita una vigilia di Natale, la consapevolezza che vita sociale, sport e ideali sono il collante necessario per un gruppo che voglia lavorare al meglio

Clap*

L’avvocato è un galantuomo che salva i vostri beni dai vostri nemici tenendoli per sé. È una celebre citazione del poeta tedesco Heinrich Heine (1797-1856) che la dice lunga sulla reputazione della figura professionale dei principi del foro. Professione, del resto, antichissima e fiorente già all’epoca della Roma imperiale, nei secoli è profondamente mutata ed è sufficiente sfogliare le pagine di un quotidiano per verificare quanta parte della cronaca, della politica, dell’economia e dello spettacolo abbia come protagonista o regista occulto un avvocato.

Cerchiamo di saperne di più, intervistando Mario Tonucci, managing partner dello studio omonimo Tonucci & Partners, che vanta diverse sedi sia in Italia sia all’estero.

E mentre l’immaginazione comincia a fantasticare, facendo tornare alla mente gli studi e le vicende legali descritti nei best sellers di John Grisham, che di gialli giudiziari con avvocati come protagonisti scrive da oltre un ventennio, chiederemo all’avvocato Mario Tonucci se gli avvocati italiani siano sempre più simili a Michael Brock, eroe de “L’avvocato di strada” o piuttosto agliazzecca-garbugli di manzoniana memoria.

 

Prima di diventare avvocato, come si immaginava nei suoi sogni da ragazzo?

 

“Da ragazzo, come capita a molti, non avevo le idee chiare sul mio futuro. Il ‘68 era agli albori e tra noi giovani si viveva un clima di grande eccitazione per la voglia che c’era di cambiare la politica, i costumi, l’economia. Alla fine del liceo avevo tante esperienze di sport alle spalle, una passione per la politica, ma non sapevo che strada professionale prendere.

Dunque non sognavo, ma nello  stesso tempo non avevo paura a mettermi in gioco”.
La sua è una famiglia di avvocati o lei ha inaugurato la professione?

 

“Quando ho deciso di fare l’avvocato si è trattato di una scelta suggeritami dalla mia passione per il sociale e dalle esperienze di lotta portate avanti al liceo per una scuola più giusta.

Mio padre, Francesco, era un piccolo imprenditore nel commercio all’ingrosso, purtroppo deceduto quando avevo 15 anni, e mio fratello Franco, più anziano di me di 9 anni, aveva da poco intrapreso la carriera di commerta”.

 

Ci confida un aneddoto che considera legato al momento in cui la sua carriera ha fatto un salto di qualità?

 

“A 25 anni, quando ero l’ultimo dei giovani promettenti di un grande studio internazionale (Studio legale Bisconti) dove ero riuscito ad entrare grazie ai buoni uffici di un importante manager americano, amico di mio fratello, accadde un episodio che avrebbe cambiato la mia vita professionale, se non altro per il modo con cui da quel momento avrei approcciato le inevitabili difficoltà del mestiere.

Quel 24 dicembre, la vigilia di Natale di tanti anni fa, attraccava al porto di Cagliari una petroliera carica di quel petrolio che Gheddafi, proprio in quel periodo, aveva espropriato alle grandi multinazionali americane.

Il mio capo, l’avvocato Bisconti, dopo vari tentativi a vuoto di precettare qualcuno dei miei colleghi più esperti, non poté fare altro che contattare me, considerato, all’ epoca, un giovane promettente, ma del tutto inesperto, per pregarmi di partire immediatamente con il primo volo per Cagliari con la missione di chiedere il sequestro della nave.

In un primo momento cercai di inventare scuse per evitare la partenza, dal momento che già pregustavo il cenone tradizionale in famiglia e, finalmente, qualche giorno di relax con i miei amici.

Mi chiedevo che senso aveva chiedermi di partire subito, visto che nei due giorni successivi tutte le attività ed anche tutti gli uffici sarebbero stati fermi. Capendo, però, che quella nave non sarebbe rimasta a lungo nel porto e che, forse, occorreva giocare d’anticipo, decisi di accettare la sfida per quell’ impresa che, a prima vista, appariva quasi impossibile.

Arrivato a Cagliari, in quell’esser solo, non potevo far altro che farmi venire tante idee per occupare utilmente quel tempo ed, incredibile a dirsi, trascorsi il giorno di Natale indaffaratissimo.

Mi recai al porto per vedere se la nave era arrivata, non trascurando l’attenzione di portare doni natalizi alla Capitaneria di porto per attingere informazioni circa i successivi movimenti della nave. Che dire poi degli sforzi per tentare di fare la conoscenza del cancelliere della sezione del Tribunale a cui far presente, facendomi precedere dalla consegna di una cassa di champagne, l’urgenza che mi aveva catapultato a Cagliari? Nei miei giri della città, quasi addormentata nel giorno di Natale, non mancò neppure la visita all’ ufficiale giudiziario che poi, materialmente, avrebbe dovuto eseguire, se concesso, il provvedimento di sequestro. Non trascurai neppure, il giorno di santo Stefano, mentre scrivevo il ricorso, scorrendo gli appunti ed i documenti che mi ero portato dietro, di prendere informazioni circa la presenza in ufficio del giudice di turno. Fatto sta che in un solo giorno, all’apertura degli uffici il 27 dicembre, tutti erano edotti del caso e, sussistendone le ragioni, ottenni ed eseguii in giornata il sequestro della nave, garantendo, così, il recupero di una somma ingentissima da parte dei nostri clienti petrolieri americani.

Il mio ritorno in studio da Cagliari con l’ordine di sequestro della nave fu un trionfo sul modello di quello dei legionari romani dopo le vittorie nelle battaglie che determinarono la gloria dell’impero romano. Dopo quei giorni, pur essendo rientrato nei ranghi che mi competevano, quale ultima ruota del carro dello studio, mi ero meritato la considerazione che mi avrebbe portato, anche in seguito, ad essere selezionato per seguire casi molto delicati”.

 

Spulciando il suo curriculum, sembrerebbe le siano necessarie 48 ore per fare tutto quello che fa. Come si svolge la sua giornata?

 

“Ognuno di noi ha i suoi bioritmi. Io mi alzo molto presto al mattino e nelle prime ore riesco ad avere una concentrazione ed una lucidità notevole. Normalmente sfrutto queste ore di quiete, prima del risveglio generale, per programmare la mia giornata. La vita di un avvocato cosiddetto d’affari, è molto varia e si passa più tempo in incontri vari, nello scrivere pareri, e nel viaggiare, che nelle aule dei tribunali.

Io cerco di sfruttare al massimo i tempi morti e rubo qualche ora al sonno. Riesco a coltivare, però, anche le mie passioni, prima fra tutte quella per lo sport”.

Nel 1994 ha fondato lo studio legale Tonucci & Partners, con sedi sia in Italia sia all’ estero. Vuole avvicinarsi al modello degli studi americani, come quelli dipinti da Grisham? Se no, quali sono le differenze sostanziali tra i due sistemi?

 

Il modello degli studi legali associati che hanno centinaia di avvocati, nato negli USA, è ben illustrato da Grisham. Certo lo scrittore enfatizza situazioni estreme, ma il clima competitivo interno e la crudezza nel gestire gli affari è molto vicino alla realtà.

Oggi anche in Italia esistono studi che si richiamano a quel modello ed anche il nostro si può catalogare fra questi.

Tonucci & Partners con le sue sedi, in Italia e all’estero, e il numero di avvocati che si avvicina ai 200, è ormai più un’azienda che un laboratorio. Nello studio c’è un proliferare di specializzazioni, tutte in sinergia le una con le altre. È ovvio che poi vengano alla luce anche alcune distorsioni sulla strada che conduce al successo.

Fortunatamente nelle realtà italiane, ancora piuttosto piccole, in confronto alle maggiori law firms americane, tutti i fenomeni sono attenuati, anche perché in Italia è massiccia la presenza di piccoli studi e, magari, di avvocati singoli”.

 

Sempre più spesso la fiction (non solo nelle serie straniere), cerca di raccontare il mondo della giustizia e della legalità. Trova che siano racconti verosimili o frutto di pura invenzione? Quando, invece, certe produzioni televisive si ispirano o trattano fatti realmente accaduti, spesso prima che l’iter giudiziario sia concluso, pensa che quell’ iter possa essere compromesso?

 

Devo ammettere che spesso vi è troppa leggerezza da parte dei media nell’approcciare situazioni delicate che sono ancora al vaglio dei giudici. Non è raro trovare gente pronta a lanciarsi in argomentazioni pro o contro un imputato o una parte, oppure a criticare sentenze, senza una conoscenza approfondita degli atti processuali.

Normalmente la nostra magistratura non si lascia influenzare ma, spesso, si trova a dover fronteggiare vere e proprie campagne popolari con critiche che, senza ragione, offuscano l’ immagine di giudici che hanno agito secondo diritto e coscienza”.

 

Cosa pensa di certi avvocati che sembrano passare più tempo negli studi televisivi che negli studi legali?

 

Di per sè non c’è nulla di male nel parlare pubblicamente di problematiche giuridiche allo scopo di rendere più comprensibili agli spettatori certi passaggi nella gestione della giustizia. Quello che occorre evitare è però di fare sterili polemiche ed assumere atteggiamenti che, forse, fanno spettacolo ma che non giovano all’immagine della categoria e al prestigio della professione”.

 

Ci sono ancora in giro degli azzecca-garbugli o il livello della professione legale è mediamente cresciuto?

 

In Italia abbiamo un numero enorme di avvocati, più di 200.000, e purtroppo la categoria, magari per il comportamento di pochi, non gode di buona fama.

Oggi le giovani generazioni stanno facendo crescere il livello di qualità della categoria. Nel tempo stanno scomparendo sempre di più “i maneggioni” e tutti quelli per i quali il cliente è solo una gallina da spennare”.

 

Visitando il sito del suo studio, si è accolti con i seguenti slogan, sia nella versione italiana, sia in quella inglese: ideal partner (socio ideale), perfect solutions (soluzioni perfette), looking beyond (guardare oltre). Vi assumete un impegno non da poco. Ci riuscite sempre?

 

La ricerca della qualità nei servizi prestati è l’obiettivo primario del nostro studio. Il cliente si aspetta da noi buona competenza giuridica, prezzi competitivi, tempi rapidi. Oggi si possono utilizzare software che scandiscono le varie fasi della nostra attività dando evidenza, delle performances e sistemi di controllo qualità in grado di garantire la bontà del nostro prodotto”.

L’errore di un avvocato è paragonabile a quello di un medico? Le è mai capitato? Come reagisce ad uno sbaglio?

 

“Direi di sì. Se l’ errore del medico può essere letale e senza appello anche quello dell’ avvocato può portare a danni incalcolabili. Fortunatamente nel mio caso è capitato, non molte volte, di dover riconoscere di aver commesso un errore e devo dire che quelle volte non ho dormito per tante notti.

In generale l’avvocato si trova nell’attività giudiziale a vivere ogni volta la consacrazione tangibile della vittoria o della sconfitta a seguito dell’ emissione della sentenza che decide il caso.

Più che errori di valutazione e di conduzione del caso, che si cerca sempre di giustificare con la diversa interpretazione del giudice, sono le sviste a venire inesorabilmente alla luce. Spesso, ad esempio, il far decorrere inutilmente i termini per l’ impugnazione o della prescrizione provoca danni gravissimi al cliente e qui non si possono nascondere le proprie responsabilità.

Quando lamenta danni di natura economica per errori professionali, il cliente del nostro studio può stare tranquillo in quanto siamo assicurati per un massimale altissimo presso i Lloyd’s di Londra contro la cosiddetta malpractice.

Credo che presto l’assicurazione diverrà un obbligo di legge per gli avvocati.

Il nostro studio è una realtà in cui vivono ed operano tante persone, anche di diversa nazionalità, che lavorano insieme, soffrono insieme, gioiscono insieme, e che riescono a fare ciò con passione solo se condividono una filosofia di vita.

Vita sociale, sport, ideali sono il collante necessario a farci sentire, anche al di là delle problematiche di lavoro, vivi e positivi. Per queste finalità noi investiamo una parte non minima delle risorse dello studio.

 

In che direzione va la professione legale? Qual è il suo futuro?

 

“La professione legale sta cambiando. La concorrenza rende indispensabile una razionalizzazione delle attività e quindi spinge sempre più verso forme organizzative idonee a dare migliori servizi a prezzi più bassi e in tempi sempre più rapidi.

L’avvocatura non è più una professione che consente rendite di posizione ma richiede agli addetti ai lavori sempre maggiori sforzi per il continuo aggiornamento”.

“L’avvocato è un galantuomo che salva i vostri beni dai vostri nemici tenendoli per sé”, sosteneva Heinrich Heine. Quanto c’è di vero e quanto di paradossale in questa affermazione?

 

“Spero che presto tutti questi luoghi comuni scompaiano. Certo il ruolo fiduciario sin qui svolto dall’avvocato ha provocato talvolta che persone prive di scrupoli abbiano giocato sulla pelle del cliente.

Credo che oggi sia più difficile approfittare della debolezza del proprio assistito, come stanno a dimostrare le tante azioni giudiziarie che i clienti hanno azionato per responsabilità professionale del loro avvocato”.
*Dice di sé.
Clap. La sua vita è in un battito d’ali, nell’applauso del pubblico. 

REESE WITHERSPOON

 

Penso che i bambini si sentano bene quando ricevono solo un

paio di cose che veramente desiderano. Cerco di rimanere

fuori dalle masse di regali, a loro non piacciono molto. Un paio

di cose bastano e gli piacciono di più.

(Da Girlpower.it”, 2007)

 

Rosario Sorrentino, Cinzia Tani - Rabbia, un'emozione che non sappiamo controllare

Sempre più spesso l’altro è percepito come un nemico assoluto, da marcare il più stretto possibile. Tutto diventa una potenziale minaccia e un motivo apparentemente privo di senso può essere alla base di una tragedia (1)

Rosario Sorrentino, Cinzia Tani*

Gli stimoli della rabbia

 

Vediamo quali sono le maggiori cause scatenanti della rabbia nella società occidentale contemporanea.

 

“Stiamo naturalmente parlando di una rabbia che non è sintomo di una psicopatologia vera e propria, una malattia mentale, dato che a volte il manifestarsi di questa emozione può rappresentare il campanello d’allarme che segnala l’esistenza di un disturbo sottostante, non ancora riconosciuto, diagnosticato.

Il più delle volte, invece, dietro la rabbia c’è la sensazione di non essere sufficientemente apprezzati o rispettati, di vedere sminuite o non riconosciute le proprie capacità, e di venire offesi, denigrati nella propria dignità. Lo notiamo soprattutto in quelle persone che provano un forte disagio sociale, un’esagerata timidezza che poi li condanna a vivere nella penombra, covando in silenzio la propria rabbia. Rabbia soprattutto nei confronti di se stessi, perché non riescono a superare l’impaccio, gli impedimenti del proprio disagio, della propria fragilità, della propria vulnerabilità.

Ma esiste anche la rabbia verso chi te lo fa pensare, perché in continuazione ostenta, esibisce ciò che possiede facendoti credere che il suo stile di vita sia solo per pochi. E poi c’è la rabbia di chi si sente escluso dal “mondo che conta”, perché incapace di realizzare quegli stereotipi che vengono ritenuti fondamentali, essenziali per raggiungere uno straordinario successo. Infine, esiste la rabbia verso chi ti fa una promessa e non la mantiene, prendendoti in giro”.

 

È la rabbia di chi non si sente rispettato…

 

“Sì, è la rabbia di chi si sente calpestato quotidianamente, anche sul posto di lavoro, perché umiliato da una società, una cultura, non certo meritocratica, che non sa valorizzare il talento, l’impegno, l’esperienza e l’onestà, apprezzando invece altri valori.

Ma è anche la rabbia del padre di famiglia che non si vede riconosciuto lo straordinario risultato di riuscire a mantenere, tra mille difficoltà economiche, una famiglia in modo dignitoso. E so accorge che la “vita vera” si svolge altrove”.

 

L’alcol e le droghe aumentano l’aggressività?

 

“L’alcol e le droghe costituiscono a volte un tentativo maldestro e nocivo di raggiungere gli obiettivi mascherando le proprie fragilità. Entrambe le sostanze possono favorire la comparsa di comportamenti aggressivi impulsivi, con effetti dannosi sulla condotta e l’equilibrio di chi ne fa uso. Alcol e droghe vengono assunti anche con la speranza di coprire, nascondere le proprie debolezze e vulnerabilità nei vari contesti sociali. Sia il primo sia le seconde danno poi l’illusione di una sorta di sicurezza acquisita, di onnipotenza, che spinge con il passare del tempo a rincarare la dose spalancando così le porte a una vera e propria dipendenza. Con gli stupefacenti e l’alcol si costruisce una sorta di modello vincente. Ma si tratta di una costruzione fragile, effimera, pronta a sgretolarsi alla prima difficoltà”.

 

Le condizioni meteorologiche possono influire su un temperamento già predisposto all’aggressività, alla rabbia?

 

“Sembra ci sia una correlazione tra temperature ambientali particolarmente elevate e una maggiore comparsa di comportamenti come la rabbia e l’aggressività. Questa influenza si spiegherebbe con un incremento nel nostro organismo di alcune sostanze, tra cui gli ormoni come il testosterone che, come noto, è implicato nelle azioni impulsive e violente. Va anche detto che tutte le condizioni atmosferiche estreme possono contribuire a esasperare il nostro disagio fino al punto da accentuare il livello di stress, che si traduce in una maggiore insofferenza, con ripercussioni negative sul nostro comportamento”.

 

Ma perché la soglia di sopportazione di tutto ciò che è imprevisto e imprevedibile è così bassa da portarci a reagire con rabbia?

 

“Perché ormai il nostro cervello rifiuta qualsiasi tipo di ostacolo, di impedimento, di frustrazione, essendo immerso in un narcisismo perenne, globale che ci vuole tutti proiettati, in affanno, a trovare la formula magica per agguantare una volta per tutte il successo. A tale proposito si afferma e dilaga sempre più la generazione, il popolo degli “ignoranti liberal”, quelli del “tutto possibile”, sdoganati dai format e dai reality show tanto di moda al giorno di oggi. Uomini e donne determinati, decisi a conquistare la scena a ogni costo, pronti con i loro luoghi comuni a disquisire su tutto, pur di guadagnarsi la targa di esperto, di opinionista di rango”.

 

Ci sono alcune emozioni che producono una forma di dipendenza. L’astinenza forzata da questo tipo di emozioni, e da ciò che le causa, provoca eccessi di rabbia?

 

“Questo accade quando il cervello viene preso in ostaggio, è sotto sequestro, perché ormai schiavo di sostanze o abitudini che in qualche modo ne hanno violato l’equilibrio biologico ed emotivo. E allora la rabbia e l’aggressività esprimono non solo la mancanza, ma anche il desiderio bramoso di procacciarsi quella sostanza o di rivivere quelle emozioni a cui il cervello non può più rinunciare”.

 

In che modo l’inquinamento acustico ha effetti sullo stress e sull’aggressività?

 

“Il cervello non è molto propenso a sopportare, accettare a lungo un rumore eccessivo, perché ciò fa lievitare lo stress ed aumentare il nostro livello di ostilità nei confronti degli altri. Oggi gli stimoli acustici irrompono come suoni bizzarri, impazziti che scuotono la nostra mente e il nostro equilibrio rendendoci ancora più instabili e aggressivi. Le sorgenti sonore tendono orma a violare impunite la tranquillità e l’armonia della nostra esistenza, sempre più inquieta e insofferente”.

Anche questo fattore può essere quindi una delle tante cause scatenanti del conflitto sociale?

 

“Sì, perché molto spesso il motivo è banale, è solo il pretesto che fa esplodere le mille contraddizioni e tensioni sociali. Ma una emerge su tutte: la scarsa tolleranza e l’ostilità nei confronti dell’altro, che viene percepito come un nemico assoluto, da marcare il più stretto possibile, che non va perso di vista nemmeno un istante. Tutto diventa allora una potenziale minaccia che può danneggiarci, colpirci in qualunque momento, sfruttando il fattore sorpresa. Ecco perché molto, troppo spesso un motivo apparentemente privo di senso può essere alla base di una tragedia. Al culmine della rabbia, questi individui fragili si sentono perfettamente legittimati a vendicarsi in prima persona del torto subìto, credendo di possedere ogni diritto di sopprimere la causa del loro disagio, anche con i mezzi più violenti”.

 

Chi ha subìto un trauma può successivamente sviluppare una forma di aggressività nei confronti di un apparente nemico, o della società in generale?

 

“Chi subisce un trauma può rimanere sconvolto, segnato per tutta la vita. Ciò che ha vissuto può tornare più volte alla mente lasciando un’impronta, una ferita che non si rimargina più. La vittima di un trauma può inoltre sviluppare nel tempo una particolare sensibilità e suscettibilità verso gli stimoli e le situazioni più disparate, che può trasformarsi in comportamenti di ostilità e aggressività ei confronti del prossimo e della comunità. Infatti, ciò che ha subìto quella persona inciderà a lungo nella sua vita, arrivando a condizionare i suoi rapporti interpersonali e la sua sfera affettiva per un lungo periodo.

Il ricordo di un trauma può riemergere all’improvviso in seguito a uno dei tanti stimoli sensoriali, come una voce, un suono o un profumo particolare, riaprendo così una ferita mai del tutto rimarginata, guarita. Sono eventi che hanno prodotto una dose massiccia di sofferenza e di stress, e che possono portare a conseguenze diverse nel lungo periodo. C’è chi riesce, facendo appello alla propria presenza di spirito, a rielaborare in modo equilibrato l’esperienza vissuta e a on esserne sopraffatto, travolto. E c’è invece chi non riesce in nessun modo a superare ciò che ha provato, e comincia a soffrire di tutta una serie di disturbi come l’ansia, gli attacchi di panico, ma anche a rivivere le sensazioni angoscianti del trauma mentre è impegnata nelle situazioni più disparate e ad avere la convinzione che l’evento stia costantemente per ripetersi. Possono insorgere, inoltre, insonnia ostinata, disturbi della concentrazione, apatia, crisi di pianto improvvise ed esplosioni di rabbia o depressione.

 

C’è una forma di odio, di rabbia nei confronti di un evento traumatico? La persona subisce passivamente il ricordo oppure prova rabbia verso ciò che le è accaduto?

 

“Inizialmente chi subisce un trauma vuole soltanto dimenticare, perché l’esperienza è talmente angosciante da indurre a prendere emotivamente le distanze dall’accaduto. Lo constatiamo in coloro che hanno subito un abuso, come uno stupro o un’altra violenza fisica.

Successivamente può riaffiorare invece il desiderio di avere giustizia, di vedere punito chi ha infierito, approfittato di loro. Ci sono persone che inseguono per tutta la vita l’obiettivo di veder condannato il responsabile del trauma subìto, e questo per non sentirsi vittime ancora una volta. Chi avverte dentro di sé quest’ansia, questo desiderio profondo di avere giustizia può passare tutta la vita a cercare di attuarla, provando al contempo una rabbia di tale intensità da renderli di fatto doppiamente vittime.

 

Ma c’è anche chi rifiuta di provare questa rabbia intensa verso la persona o la situazione che ha provocato il trauma.

 

“Sono coloro che mettono in atto un meccanismo di evitamento verso tutto ciò che direttamente o indirettamente gli ricorda il trauma subito. Queste persone sono consapevoli che ciò che hanno provato è ancora vivo e presente nella loro mente, e che trovarsi a tu per tu con esso potrebbe di nuovo sconvolgerli. Si tratta di un condizionamento automatico, di una strategia difensiva che subentra quando ci si trova in situazioni connesse al trauma. L’evitamento serve a ridurre l’ansia, e anche l’aggressività, ma allo stesso tempo rafforza il ricordo del trauma. È un’arma a doppio taglio.

 

Alcune donne subiscono abusi e violenze dai propri congiunti, spesso dal marito, a volte dal padre o dal figlio, eppure non reagiscono. Perché non lasciano esplodere la loro rabbia? Perché non si allontanano dal loro carnefice?

 

“In questi casi la rabbia viene nascosta, depositata in un angolo del proprio cervello. La donna preferisce non abbandonarsi alla rabbia, perché ciò porterebbe a conseguenze profonde, come per esempio lasciare per sempre l’uomo che abusa di lei. In questi casi si crea una sorta di complicità, di equilibrio malato fra vittima e carnefice, fra moglie e marito, fra padre e figlia. Si tratta di una forma di silenziosa sottomissione da parte della vittima, mentre a sua volta il carnefice cercherà in ogni modo di creare le condizioni per non permetterle di reagire, per esempio con l’isolamento o le minacce di morte, che spesso terrorizzano la vittima più della violenza stessa.

Inoltre, gli uomini artefici delle violenze cercano in tutti i modi di rafforzare, per mezzo di critiche, insulti e umiliazioni, l’idea di inferiorità che la donna ha di se stessa e che la induce a ritenere di non avere la forza per uscire da quell’inferno. Non c’è dunque una scissione; semplicemente la donna nasconde la rabbia anche a se stessa, e sprofonda in uno stato di passività, di rinuncia di rassegnazione, accettando fino in fondo il ruolo di vittima.

 

L’insonnia, o comunque il sonno disturbato, può portare una persona a cominciare la giornata in uno stato di rabbia?

 

“Un sonno insoddisfacente, perché non ristoratore, non appagante, può avere conseguenze negative a livello comportamentale. Chi soffre di insonnia ha più difficoltà a gestire, sopportare situazioni di stress ed è più soggetto a sensazioni e sentimenti negativi, come ansia, tristezza, nervosismo e irritabilità, nonché agli improvvisi sbalzi di umore”.

 

Nell’ambiente in cui vive l’uomo contemporaneo si sta verificando un aumento degli stimoli della rabbia?

 

“Sì, stiamo vivendo una sorta di stato di “rabbia globale”. Il rapporto tra l’uomo e l’ambiente che lo circonda è diventato negli anni sempre più critico, estremo, e a volte ciò porta a conseguenze drammatiche. Le modalità con cui ciò si verifica sono stupefacenti: durante un’esplosione di rabbia, il nostro cervello agisce come una ghiandola impazzita, senza controllo, che secerne e sprigiona sostanze che inducono a comportamenti irragionevoli e sconcertanti, degenerando in una furia che in pochi momenti travolge ogni cosa. Ritengo, infatti, che gli innumerevoli e variegati segnali provenienti dall’ambiente in cui viviamo, e che quotidianamente raggiungono il nostro cervello, interagendo con esso, siano dotati, o meglio veicolino, oggi più che mai, una forte “carica biologica” capace di modificare, plasmare la sofisticata e delicata rete delle sinapsi neurali”.

Abbiamo visto che l’invidia è un sentimento che porta molto spesso alla rabbia. Il narcisismo, atteggiamento così diffuso nella contemporaneità, può anch’esso condurre a comportamenti aggressivi? Lo psichiatra Otto Kernberg affermava: “I narcisisti presentano varie combinazioni di intensa ambizione, fantasie grandiose, sentimenti di inferiorità ed eccessiva dipendenza dall’ammirazione e dall’approvazione altrui” e “in loro è tipica l’incertezza cronica e l’insoddisfazione di se stessi; la crudeltà e lo sfruttamento, conscio o no, nei confronti degli altri”.

 

“Il narcisista investe molte energie su di sé, sulla propria immagine, sul proprio egocentrismo, confidando nel proprio irresistibile potere di seduzione. Si tratta in realtà di un tipo di persona superficiale, incapace di instaurare rapporti autentici e profondi. Il narcisista vuole sentirsi ammirato e amato, e desidera esercitare il più totale potere e controllo sugli altri, non avendo però, in ultima analisi, alcun interesse reale per i propri simili.

Quando poi, per un qualsiasi motivo, le aspettative di successo, potere e agiatezza economica vengono a mancare, vacillano per un qualsiasi motivo, il narcisista può cadere in depressione o lasciarsi trasportare dalla rabbia contro se stesso e il mondo intero.

Il disturbo narcisistico può avere vari gradi di intensità, e al livello più estremo può produrre un tipo di personalità psicopatica riconoscibile molto spesso nei profili degli assassini seriali o di massa. La caratteristica principale di queste personalità criminali è proprio il cosiddetto acting out, cioè l’agire in forma impulsiva, antisociale senza provare il minimo pentimento per le conseguenze che scaturiranno dalle loro azioni e decisioni. Sono dunque, di solito, assassini a sangue freddo, che compiono l’atto omicida per avere una gratificazione immediata, e sono invece incapaci di tollerare il rifiuto e la sofferenza”.

 

Le metropoli moderne trasudano rabbia…

 

“È una rabbia che si respira, si palpa un po’ ovunque, pronta ad esplodere e a colpirci, lasciandoci spesso stupefatti per la sua carica di negatività e di violenza. Può essere premeditata, ma anche impulsiva, tradotta istantaneamente in un gesto o in una parola.

Ed è proprio in città, con tutte le sue pretese di modernità e civiltà, e non certo la savana o la jungla, a diventare teatro di una spietata lotta per la sopravvivenza e la sopraffazione tra esseri umani. Basta un futile motivo, come una parola di troppo o un parcheggio rubato, per far sprigionare una rabbia feroce, nelle sue brutali e devastanti modalità.

 

La vita contemporanea è estremamente stressante. Che cos’ha che fare lo stress con la rabbia? Nello stress c’è una componente di rabbia?

 

“Lo stress è uno stato di forte tensione, di sforzo breve o protratto del nostro organismo, messo in atto nel tentativo di “simpatizzare” con una sollecitazione, uno stimolo che attende una nostra risposta. Per fare ciò il nostro cervello costruisce una vera e propria reazione da stress, con la quale cerca di dare tutto il supporto possibile per neutralizzare rapidamente un pericolo, un’insidia, un nemico. In questo scenario la paura, la rabbia, insieme a un aumentato stato di allerta e agitazione, sono solo alcune delle risposte con cui ci apprestiamo ad affrontare una situazione che può avere effetti dannosi per noi. È quello che accadeva, per esempio, anche ai nostri antenati quando si preparavano a combattere un nemico o durante le battute di caccia.

Al giorno d’oggi non è produttivo, e nemmeno sano, affrontare una piccola difficoltà, o una persona con cui siamo in disaccordo, come se fosse una belva feroce in procinto di attaccarci. Il nostro organismo, tuttavia, condizionato com’è da migliaia di anni di lotta per la sopravvivenza, continua istintivamente a prendere tutto troppo sul serio quando si trova di fronte a un potenziale pericolo o insidia. Questo porta a un consistente impiego di energie che può avere due modalità alternative di rilascio: una reazione esagerata allo stimolo negativo, o l’accumulo in un surplus che si trasforma in rabbia”.

 

Questo significa che se, erroneamente, percepiamo in modo esagerato l’entità dell’offesa e decidiamo di non reagire in modo altrettanto esagerato, la rabbia rimane dentro di noi?

 

“Sì, e la rabbia accumulata agisce costantemente lasciando una sorta di “impronta mentale” che, dall’interno, continua a ricordarci la ferita inflitta al nostro amor proprio e il torto che abbiamo subìto.

Inoltre, la memoria di queste emozioni negative, distruttive, acuisce il nostro disagio, perché le esperienze negative tendono a sovrastare e ad annullare quelle positive. Diventiamo come ciechi, perché potremmo tranquillamente gioire di tante altre circostanze liete e importanti, ma quella sensazione sgradevole dovuta alla rabbia persiste e danneggia tutto il resto, rendendoci gravemente infelici”.

 

E lo stress accumulato a cosa può portare?

 

“Tutti gli stress negativi, di tipo cronico, possono determinare una costante situazione di disagio interiore che mina, tra le altre cose, il nostro sistema immunitario, arrivando a fiaccare, deprimere le sue risposte, lasciando in balia di germi potenzialmente dannosi il nostro organismo e la nostra salute. Rimanere in uno stato costante di rabbia, come per esempio provare un incessante odio nei confronti di qualcuno, può nel lungo periodo aumentare la nostra fragilità e la nostra suscettibilità, vulnerabilità a ogni sorta di malattia. Ci candidiamo, in altri termini, a diventare malati per sempre”.

 

Quali sono gli effetti sul nostro corpo?

 

“Si comincia gradualmente a soffrire di insonnia, stanchezza, mal di testa, ipertensione e tachicardia, oltre che di uno stato di forte irritabilità e di malessere di fondo”.

 

Dunque, la rabbia alimenta se stessa. Ma bisognerebbe cercare di capire la propria rabbia, di esserne consapevoli? Come può accadere che questa emozione negativa, agendo dentro di noi, si trasformi in pericoloso stress senza che quasi ce ne rendiamo conto?

 

“Quando ci accorgiamo che la rabbia si sta sedimentando e rischia di diventare un pericolo per il nostro equilibrio, e per la nostra serenità, è bene non tenerla dentro e parlarne, condividerla con chi ci sta vicino. L’importante è impedire alla rabbia di lievitare e di permetterle di creare ulteriori danni e ostilità verso noi stessi e gli altri”.

 

Invece, alcuni non riescono ad esprimere la propria rabbia, e ciò li fa cadere in uno stato d frustrazione. L’individuo si colpevolizza perché si sente incapace di affrontare i propri conflitti. Questa colpevolizzazione potrebbe condurre alla depressione?

 

“La rabbia ci avvelena l’esistenza, la vita. Quando noi, soprattutto in alcune circostanze, siamo affetti da certe emozioni negative, tra cui la rabbia, è come se fossimo bloccati da una barriera che ci impedisce di entrare in sintonia con gli altri, di comunicare in modo positivo con loro, di provare empatia. La diffidenza generata dalla rabbia conduce ad un distacco emotivo nei confronti del prossimo, che turba il naturale svolgimento del nostro vivere sociale, facendoci provare un profondo senso di colpa. Da questo sentimento alla sensazione di essere estromessi dal contesto sociale, alla solitudine più totale, il passo è breve, fino a diventare un fattore di scatenamento di una depressione già pronta a esplodere”.

 

La depressione è una delle principali patologie dell’uomo moderno. Chi è depresso è anche arrabbiato? E se lo è, lo è con il mondo o con se stesso?

 

“Chi è depresso prova rabbia verso se stesso perché è consapevole di non essere in grado di esprimere adeguatamente le proprie emozioni, e aggiunge all’elenco dei propri insuccessi anche l’incapacità di relazionarsi con gli altri.

Egli si sente responsabile della mancata realizzazione dei propri obiettivi e delle proprie scarse qualità. Ciò è ulteriormente aggravato dall’influenza del contesto culturale in cui viviamo, con le sue ulteriori verso un’attività incessante e fruttuosa, il conseguimento del successo e il possesso dei beni materiali.

Oggi possedere è un imperativo: ci circondiamo di cose e oggetti spesso inutili ed effimeri, in una sorta di materialismo spinto alle sue estreme conseguenze dove il modello di riferimento è quello del consumatore acritico, e non quello del cittadino consapevole.

Allora è inevitabile che, nel momento in cui si verificano simultaneamente determinate circostanze, come il fallimento nel raggiungimento di certi obiettivi, un calo generale dell’umore o altre difficoltà, e in presenza di una predisposizione genetica, insorga una depressione, che si manifesta in forme spesso distruttive per chi ne è affetto e per chi lo circonda”.

 

Chi è depresso è in grado di manifestare la propria rabbia, oppure è in preda di un tale stato di passività e abbandono da non riuscire neppure ad arrabbiarsi?

 

“Di solito il depresso si candida a essere il responsabile di ogni cosa, e sviluppa verso se stesso una rabbia perenne, che lo porta lentamente a danneggiare, infierire sulla propria vita ed esistenza. Raramente la rabbia del depresso si rivolge contro gli altri, e ciò può accadere quando si sente umiliato, incompreso, perché non riconosciuto nella sua sofferenza e dolore. Egli, anzi, si sente in colpa verso gli altri, perché è consapevole della propria inadeguatezza nei loro confronti. Ciò lo porta a caricarsi di colpe inesistenti, a sentirsi fallito e a rimproverarsi l’incapacità di prendere anche le decisioni più banali. Un’incapacità che bene esprime il senso di profonda paralisi e inadeguatezza che si impadronisce della sua mente”.

 

E qual è il rapporto tra disturbo bipolare e rabbia? Chi ne è affetto, passando continuamente dall’eccitazione alla depressione, è soggetto a particolari momenti di rabbia?

 

“Nel disturbo bipolare la rabbia si manifesta soprattutto durante la sua fase euforica, cioè nel polo iperattivo, disinibito di questo disturbo, in particolare quando queste persone vengono ostacolate, frenate nella loro affannosa ricerca di raggiungere un obiettivo ritenuto essenziale. L’intensa frustrazione, la sensazione di impedimento che ne consegue, può facilmente sfociare in feroci esplosioni di rabbia”.

 

Ma che cosa accade in queste persone? Che cosa le porta dall’iperattività alla depressione?

 

“Chi è affetto dal disturbo bipolare perde completamente l’equilibrio emotivo, oscillando come un pendolo tra due poli: una fase depressiva, che può durare diversi mesi, e un periodo di euforia e iperattività, che rapidamente sostituisce la prima.

Ciò ovviamente, oltre a destabilizzare profondamente la vita di chi la subisce, ha conseguenze negative anche nel contesto sociale in cui vive, perché chi lo circonda si ritrova ad avere a che fare con una persona improvvisamente instabile e poco affidabile, capace dei più bizzarri e radicali cambiamenti di comportamento e del modo di pensare e di agire”.

 

Dunque, il passaggio da una fase all’altra non è legato a stimoli esterni?

 

“Si tratta di patologie dotate di una loro cronologia, una sorta di rotta prestabilita, con una propria sequenza e ritmo, svincolata dall’ambiente esterno. Non c’è dubbio che certe sollecitazioni, e soprattutto lo stress, possono influire sull’insorgere di alcuni sintomi e sulla loro gravità, ma in genere si tratta di malattie slegate dal contesto sociale”.

Come si curano?

 

“Soprattutto con gli stabilizzatori dell’umore, perché il disturbo bipolare è una di quelle malattie che possono portare a sviluppare comportamenti imprevedibili e irresponsabili, nonché condurre al suicidio. La terapia deve essere tempestiva e prettamente farmacologica, e va mantenuta nel tempo con l’obiettivo di eliminare o attenuare sia l’insieme dei sintomi sia l’alternanza tra fase euforica e fase depressiva.

I farmaci stabilizzanti dell’umore devono essere assunti per lunghi periodi anche dopo la scomparsa dei sintomi, perché queste patologie possono ricomparire, riaccendersi nel momento più inaspettato”.

 

Ci sono comunque persone che, senza giungere a livelli patologici, sperimentano questo ondeggiamento dell’umore…

 

“Si tratta di oscillazioni fisiologiche, cambiamenti di umore di cui a volte non riusciamo a comprendere le cause, che ci fanno provare un senso di infelicità o di euforia improvvisi, ma che sostanzialmente fanno parte della normale fisiologia, dinamica emotiva, e che non interferiscono sostanzialmente con la qualità di vita, il rendimento lavorativo, i rapporti interpersonali e la vita di relazione”.

 

Parliamo anche di chi subisce una manifestazione di rabbia. Passiamo in rassegna le varie reazioni. Per esempio, c’è chi si paralizza… Non si tratta di un atteggiamento presente anche nel mondo animale?

 

“È l’atteggiamento di chi non si sente pronto a reagire quando viene investito da un’esplosione improvvisa di rabbia e aggressività. E allora rimangono fermi, perfettamente immobili, quasi a supplicare di non infierire su di loro, o per non irritare ulteriormente il loro aggressore.

Le vittime provano un profondo disagio, e sono incapaci di reagire e difendersi; non per mancanza di energia o capacità, ma solo perché la loro natura non è portata allo scontro violento. Subiscono l’esplosione di rabbia passivamente e si allontanano in silenzio, probabilmente arrabbiati con se stessi perché non hanno saputo reagire”.

C’è anche chi reagisce in modo compiacente, quasi condiscendente nei confronti dell’aggressore. Tu sei arrabbiato con me in modo violento, e io, intimorito dalla tua rabbia, accetto tutto. Tu mi insulti e io dico: “Sì, è vero. Sono una nullità. Hai ragione”.

 

“Questa mi sembra un’espressione di masochismo, ma entra in gioco anche una sorte di sindrome di Stoccolma, però allargata a livello sociale. Una specie di mutuo compiacimento, una complicità tra vittima e carnefice, che da una parte comporta l’intimidazione di chi subisce e dall’altra rafforza l’opinione che l’aggressività sia efficace, proprio perché incute una paura paralizzante.

Chi ti aggredisce ti può mettere in difficoltà, in imbarazza davanti agli altri, facendoti sentire profondamente sorpreso e inadeguato. Quindi si tende spesso ad accondiscendere, a non accettare di scendere su un piano che comporterebbe inevitabilmente lo scontro diretto”.

 

Davanti a un’espressione di rabbia c’è chi si blocca paralizzandosi, chi si allontana, chi assume un atteggiamento condiscendente. Ma quale dovrebbe essere invece la reazione più salutare per il nostro equilibrio e per il nostro benessere? In altre parole, quali impulsi dovrebbe inviare il cervello, il centro di potere di cui abbiamo tanto parlato?

 

“Penso che non esista una reazione, una risposta universalmente adeguata. Il nostro mondo ormai è universalmente sotto il dominio della violenza, che appare sempre più esasperata da un profondo senso di incertezza e insicurezza. In realtà, a perdere siamo un po’ tutti, perché dimostriamo di non possedere gli antidoti contro quella rabbia estemporanea, che si sprigiona ovunque, all’improvviso lasciandoci senza parole. Una delle soluzioni potrebbe essere il recupero graduale della dimensione sociale, la ricostruzione di un’agorà, del luogo dove le persone possano tornare a parlarsi, a confrontarsi, dove il dissenso venga espresso in termini formalizzati, e dove sia diffuso e accettato il pluralismo di idee e di opinioni.

E tuttavia ci stiamo sempre più allontanando da questo obiettivo, in primo luogo perché abbiamo ormai abbandonato la dimensione fisica della comunicazione: non vediamo più realmente la persona, il nostro interlocutore, e siamo quasi disabituati a notare le espressioni del suo volto. E nel momento in cui citroviamo davanti a qualcuno che si rivolge a noi in maniera aggressiva, ci scopriamo disarmati, impreparati a reagire. Dobbiamo riprendere in mano le redini della comunicazione, non rinunciando neppure a qualche occasione di sana, accalorata discussione. Sono confronti che, quando avvengono nel momento e per motivi opportuni, possono aiutarci a crescere, a rivedere e ad affinare le nostre posizioni, e che comunque ci allenano a non subire passivamente la rabbia e le prevaricazioni di chi ci vuole imporre a tutti i costi il proprio punto di vista. Accettarlo acriticamente è una forma di aggressione nei confronti di noi stessi”.

 

Quello tra vittima e carnefice è sempre stato un rapporto molto strano, sul quale si è detto e scritto tanto. Abbiamo appena citato la sindrome di Stoccolma, cioè la tendenza della vittima a giustificare le azioni del proprio carnefice, al punto da sviluppare una sorta di attaccamento nei suoi confronti.

 

“Si tratta di un legame soltanto apparente, che in realtà non è altro che una strategia messa in atto dal cervello per superare le emozioni che generano la paura e il pericolo. In una situazione di intenso stress emotivo e di forte trauma il legame tra paura e piacere è molto più stretto di quello che possiamo immaginare.

Nel caso delle conflittualità familiari, come negli abusi in famiglia, il meccanismo è diverso. Ci stupisce che la vittima esiti a troncare i rapporti con il proprio carnefice, o che comunque non cerchi di impedire attivamente le violenze subite. In realtà, diversi fattori intervengono per mantenere stabile, in un equilibrio perverso, quell’insano rapporto. A volte, per esempio, nella famiglia dove avvengono abusi si instaura una sorta di gioco delle parti in cui i protagonisti sono consci di interpretare un ruolo e vogliono, consapevolmente o meno, mantenerlo. È il caso delle famiglie che, in nome di un vuoto perbenismo, mettono tutto a tacere per paura dello scandalo, dello stigma sociale che si abbatterebbe su di loro”.

 

Il vittimismo potrebbe essere una conseguenza della rabbia trattenuta? Ci sono persone che si sentono perseguitate e si lamentano di nemici immaginari, di ipotetici torti subiti. Questo atteggiamento non potrebbe essere causato dalla loro rabbia, che non riesce a sfogarsi e si trasforma quindi in spirito di persecuzione?

 

“Il vittimismo è usato come alibi, giustificazione da molte persone, le quali, non essendo in grado di tollerare l’insuccesso o il mancato raggiungimento di un obiettivo, tendono a deformare la realtà e ad attribuire la colpa dei loro fallimenti ad un nemico immaginario, inventato, a un’ipotetica congiura, complotto ai loro danni, piuttosto che affrontare una lucida, e a volte umiliante, analisi della situazione reale. Chi attribuisce ad altri la responsabilità dei propri fallimenti sceglie una scorciatoia apparentemente comoda ma in realtà controproducente, perché in questo modo non gli sarà possibile progredire imparando dai propri errori”.

 

Che tipo di piacere procura al cervello l’atto di umiliare la propria vittima?

 

“L’umiliazione consente a chi la mette in atto di convertire la propria frustrazione in rabbia rivolta ad un bersaglio facile, non problematico. Procura in chi compie atti di prevaricazione un particolare piacere, perché offre l’opportunità di esercitare una forma di dominio su chi è completamente indifeso e non riesce a reagire. È il piacere del vigliacco che, incapace di imporsi con i forti o con chi lo sovrasta, lo fa infierendo sui più deboli”.

 

Chi manifesta la propria rabbia, apparentemente immotivata, in modo violento potrebbe essere stato a sua volta vittima di violenze?

 

“Sì, la vittima si trasforma spesso in carnefice. Per esempio, negli episodi di bullismo i ragazzi artefici dei soprusi sono spesso stati a loro volta vittime di maltrattamenti, fisici o psicologici, da parte di coetanei o di membri del gruppo familiare. Sono giovani che cercano di mascherare le proprie paure e frustrazioni, e il senso di impotenza che provano, dietro una facciata di aggressività, che dà loro l’illusione di essere forti e invulnerabili”.

 

Parlando di nuovo degli stimoli della rabbia, che relazione ci può essere tra le diete troppo sbilanciate o improvvisate e l’aggressività?

 

“La serotonina, che viene prodotta nel cervello a partire da un aminoacido essenziale per la sua sintesi, il triptofano, ricopre importanti funzioni per il nostro comportamento. Chi si sottopone a diete drastiche e improvvisate può andare incontro ad una considerevole riduzione di disponibilità di triptofano introdotto con gli alimenti, con conseguente calo di produzione di serotonina nel nostro cervello. Ciò può determinare squilibri biologici, che possono favorire la comparsa sia della rabbia sia dell’aggressività. E questo per il ruolo svolto dalla serotonina nel nostro cervello, che è quello di sostanza che si “oppone” ad altre sostanze come il testosterone, la noradrenalina, ecc. che invece favoriscono i comportamenti impulsivi. Quindi, un’alimentazione equilibrata può contribuire a favorire un comportamento altrettanto equilibrato ed organico”.

 

Che rapporto c’è tra il livello di carboidrati e i nostri comportamenti ansiosi e rabbiosi?

 

“Il livello di serotonina nel nostro cervello è in qualche modo regolato anche dalla quota, quantità di carboidrati ingeriti con gli alimenti. E questo perché i carboidrati costituiscono uno stimolo metabolico costante per incrementare la serotonina di cui il nostro cervello ha dispone.

È ormai accertato che questa sostanza è in grado di svolgere un’azione sia antipanico sia antiansia, ma anche di essere molto efficace nel contrastare, contenere i comportamenti più rabbiosi e impulsivi. Una drastica e protratta riduzione dei carboidrati, come può verificarsi in una dieta, alimentazione non corretta, non bilanciata, può determinare una parallela riduzione dell’apporto biologico, necessario a costruire la serotonina nel nostro cervello. Una carenza del genere può far aumentare i livelli di ansia e di inquietudine, perchè in un certo senso viene compromesso l’equilibrio chimico di tale organo”.

 

Dunque il legame fra cibo e umore è molto stretto. Uno studio pubblicato dalla rivista “Science” sottolineava il rapporto tra gli atteggiamenti aggressivi e il digiuno.

 

“Torna di nuovo in ballo il ruolo della serotonina, il neurotrasmettitore del buon umore, ma anche la sostanza che ostacola le azioni e le decisioni prese in modo troppo sbrigativo, impulsivo. Questa sostanza, come abbiamo già detto, ha bisogno di precursori, materie prime provenienti soprattutto da alcuni alimenti, per essere sintetizzata, prodotta nel nostro cervello. Pertanto, se non mangiamo in modo adeguato e corretto, a risentire è anche la produzione di serotonina, e ciò può provocare un aumento dei comportamenti aggressivi”.

 

 

 

1) Pubblichiamo per gentile concessione dell’editore uno stralcio dal saggio “Rabbia. Un’emozione che non sappiamo controllare”, di Rosario Sorrentino e Cinzia Tani (Mondadori, 2009). Riproduzione riservata.
*Dice di sé.
Rosario Sorrentino. Neurologo, fondatore e direttore dell’Ircap, l’istituto per la ricerca e la cura degli attacchi di panico presso la casa di cura Pio XI di Roma. www.rosariosorrentino.it   
Cinzia Tani. Giornalista e scrittrice, è autrice e conduttrice di programmi radiotelevisivi. www.cinziatani.com

 

REESE WITHERSPOONPenso che i bambini si sentano bene quando ricevono solo unpaio di cose che veramente desiderano. Cerco di rimanere

fuori dalle masse di regali, a loro non piacciono molto. Un paio

di cose bastano e gli piacciono di più.

(Da Girlpower.it”, 2007)

 

MUSICA Massimo Cotto - La sublime grandezza della musica è raccontare storie

Nel libro “We will rock you” ne sono raccontate 709, e per ogni canzone almeno una curiosità, un particolare inedito, un aneddoto sconosciuto, un retroscena da gustare (1)

Massimo Cotto*

Non capisco, ma mi affascina e spero non finisca mai di parlare. È il 1978, ho 16 anni. Sono in macchina con amici. Una voce esce dalla radio e mi porta lontano. Racconta di vestiti che svolazzano, di porte che sbattono, di visioni che danzano nel porticato mentre la radio trasmette Roy Orbison; davanti c’è una strada a due corsie che porta lontano, basta seguire la linea di mezzeria. Solo quando parte la musica, capisco che la voce sta giocando con i testi della canzone, sta costruendo una short story che parte dalle liriche ma va da un’altra parte.

Convergenze parallele, come si diceva una volta. Ed è lì, sull’armonica che benedice “Thunder road” di Bruce Springsteen, che io capisco due cose: che voglio fare questo da grande – essere una voce che racconta – e che la sublime grandezza della musica è raccontare storie. Belle, commoventi, vere, verosimili, folli, assurde, incredibili. Storie descritte nel testo o che riguardano la genesi del brano. Storie che ti restano dentro per sempre, che ti accompagnano per strada e che tieni in tasca come il più antico dei talismani. Se hai fortuna, se gli dei si ricordano di benedirti ogni tanto, ti capiterà persino non solo di ascoltarle, ma di essere il protagonista di una di quelle storie, o, almeno, e non è detto che sia una diminutio, lo spettatore. Com’è accaduto a me.

In “We will rock you”, uscito a novembre per Rizzoli, ne racconto 709. Storie di canzoni di ogni genere e stile, e per ogni canzone almeno una curiosità, un particolare inedito, un aneddoto sconosciuto, un retroscena da gustare, uno spunto su cui tornare domattina a mente fredda, magari con la voglia di investigare e scovare nuovi particolari. Raccontatomi dalla voce dei protagonisti o ricostruito da fonti attendibili. Non aspettatevi che io vi racconti tutto di una canzone, non è questo il libro: qui a tenere la scena e meritare gli applausi sono le quinte, il nascosto, i camerini, il trucco che si scioglie e mostra la realtà dietro il sogno, come quando Elizabeth McGowern si toglie il cerone nelle ultime battute di “C’era una volta in America”. È un mondo capovolto, dove è quel che sta dietro che illumina la sala. Lo scopo è raccontare e anche cancellare le leggende metropolitane che per anni si sono moltiplicate, magari alimentate dagli stessi artisti. Talvolta, infatti, essendo la realtà più anonima della fantasia, hanno fatto stampare la leggenda, inventando il mai accaduto. Ho provato a rimettere ordine. Il consiglio è di lasciarvi prendere la mano dalla suggestione. Rimboccatevi le coperte con queste storie. Il sogno è assicurato. E il risveglio è indolore.

 

 

Chelsea Hotel # 2, Leonard Cohen

 

Una delle tante meraviglie del poeta canadese. Cohen cominciò a scriverla nel bar di un ristorante polinesiano di Miami, nel 1971, e la finì ad Asmara, in Etiopia. Durante un viaggio aereo da New York a Shannon, in Irlanda, Cohen si fece aiutare per gli ultimi ritocchi da Ron Cornelius, chitarrista fidato e suo band leader in quattro album. Qui le versioni sul suo apporto differiscono: Ron dice che il brano è stato interamente scritto durante quel volo e che il # 2del titolo è un piccolo inganno di Cohen, che gli fece credere di aver realizzato per il disco una seconda versione, molto diversa da quella concepita in aereo; Leonard sostiene invece di aver preso dall’amico solo un cambio di accordi e che il brano s’intitola “Chelsea Hotel #2” perché racconta un incontro tra lui e Janis Joplin avvenuto realmente al Chelsea Hotel, e che si tratta dunque di un brano che vuole far rivivere un evento per una seconda volta.

Il Chelsea Hotel è un albergo decadente e bellissimo sulla 23esima strada di New York, nel quartiere di Chelsea. Lì hanno soggiornato per periodi lunghi delle loro vite Bob Dylan (che scrisse in quelle stanze “Sad eyed lady of the lowlands” per la moglie Sarah, come avrebbe lui stesso ricordato in un’altra canzone composta per lei, “Sarah”, contenuta nell’album “Destre”), Sid Vicious dei Sex Pistols (che nella famigerata stanza numero 100 uccise la fidanzata Nancy Spungen), Arthur Miller, Marilyn Monroe, Madonna, Norman Mailer, Nina Hagen, Grace Jones e infiniti altri artisti. È un luogo un po’ folle, strambo e naif: una volta uno scrittore disse che se ti veniva voglia di farti un po’ di cocaina, non dovevi nemmeno preoccuparti di uscire per procurartela; ti bastava sniffare la moquette, perché tutti i precedenti clienti ne avevano certamente lasciata cadere un po’.

L’incontro andò così: Janis Joplin è ferma davanti al montacarichi che i proprietari del Chelsea chiamano ascensore. Cohen si avvicina. Chiede: “Signorina, sta aspettando qualcuno?”.

Janis ride. In quegli anni nessuno la chiama signorina ed è certa che Leonard l’abbia riconosciuta. “Sì, sto aspettando Kris Kristofferson” risponde. Kris, attore (“Pat Garret and Billy The Kid”, “Alice non abita più qui”, “È nata una stella”, “Convoy”, “I cancelli del cielo”) e cantante, autore di quel “Me and Bobby McGee” che sarà l’unico Numero Uno, purtroppo postumo, di Janis.

Cohen sorride: “Lei è fortunata, signorina. Io sono Kris Kristofferson”.

Ridono insieme e insieme prendono il montacarichi e salgono in camera. In quegli anni andava così.

Nella canzone Cohen racconta l’incontro fisico con particolari stranamente crudi, insoliti per lui. Lei gli fa un pompino sul letto sfatto, mentre le limousine aspettano in strada (giving me head on the unmade bed, while the limousines wait in the street).

Poi, la strofa più bella, quella entrata nella leggenda: Janis stringe i pugni pensando a quelli come lei e Leonard ossessionati dalle forme della bellezza (and clenching your fist for the ones like us who are oppressed by the figures of beauty), quindi si avvicina allo specchio e si sistema un poco, ma capisce che più di tanto non può fare. Perciò dice: “Non importa, siamo brutti, ma abbiamo la musica” (you fixed yourself, you said, “Well never mind, we are ugly but we have the music”). Una strofa entrata nella leggenda.

 

Come together, The Beatles

 

E adesso che fare della canzone? John Lennon l’aveva scritta di getto, come spesso accadeva in quegli anni fecondi. Timothy Leary e sua moglie Rosemary erano andati a trovare lui e Yoko al Queen Elizabeth Hotel di Montreal, nella stanza al diciannovesimo piano dove tenevano un bed-in a favore della pace. Erano stati carini e John li aveva anche prontamente reclutati per il coro di “Give peace a chance”. In quell’occasione Leary aveva chiesto a John se avesse una canzone adatta a diventare lo slogan della sua campagna elettorale per diventare governatore della California. John aveva sorriso. Sapeva bene che Leary era pazzo e che la sua candidatura contro Ronald Reagan era nient’altro che una provocazione, al pari di quando aveva proposto di mettere grandi quantità di LSD nell’acquedotto di San Francisco, però si era comunque lasciato coinvolgere. Aveva preso lo slogan di Leary – come together, join the party – e ne aveva fatto una canzone. Gli piaceva il doppio senso, perché “party” significava tanto festa che partito politico e l’invito a unirsi al party aveva dunque una doppia valenza, sociale e ludica.

Dopo pochi giorni, però, e dopo che Leary l’aveva già fatta trasmettere dalle radio alternative di San Francisco, Lennon si era posto qualche domanda di troppo. Leary era simpatico, ma inaffidabile (e presto sarebbe finito in carcere e condannato a vent’anni per possesso illegale di marijuana, perché in America mica scherzavano in fatto di droghe, anche se leggere) e quella canzone poteva funzionare, a patto di cambiarne il testo. Non era dunque meglio darla ai Beatles? Lennon si rispose di sì ed entrò nelle session di “Abbey Road” con la canzone sottobraccio, dopo aver cambiato il testo, aggiunto qualche nonsense tipico dei suoi e anche qualche obliquo riferimento ai compagni di band: il santo tritasassi del testo è Harrison, mentre il tricheco con gli stivali di gomma è Paul.

E Leary? Si arrabbiò non poco, ma John rispose garbatamente: lui era un sarto e Leary un cliente. Ora che non aveva più bisogno del suo vestito, perché non sarebbe mai diventato governatore della California, poteva venderlo a qualcun altro, senza alcun senso di colpa.

 

Comfortably numb, Pink Floyd

 

Il pubblico di Filadelfia attende da ore. Ordinato, felice, eccitato. L’unico a stare male è Roger Waters. Ha dei dolori lancinanti allo stomaco. Ha contratto una forma non grave di epatite, ma ancora non lo sa. Non lo sanno nemmeno i medici, che gli fanno un paio di iniezioni allo stomaco per consentirgli di salire sul palco. Annullare il concerto sarebbe una follia, ancora più assurdo sarebbe tenerlo senza di lui, che ne è la mente – a volte lucida altre volte folle – dopo l’allontanamento di Barrett.

Waters è convinto di non farcela. Non riesce neanche ad alzare un braccio, si sente vuoto, distrutto. Ha paura di non riuscire nemmeno a suonare. Ha la vista annebbiata. Sale sul palco e spera che tutto vada per il verso giusto. Saranno le due ore più lunghe della sua vita. Vede poco, ma sente che la gente si diverte comunque. Nessuno sembra accorgersi che sta male. Eppure si sente imbambolato, intontito. Se non altro è felice perché il pubblico è felice. Si sente, insomma, comfortably numb, serenamente stordito. Quando, a distanza di due anni da quel concerto, nel 1979, David Gilmour gli fa ascoltare una musica che aveva composto per il suo album da solista, ma che all’ultimo momento aveva deciso di tenere fuori, Waters si ricorda di quella sensazione e scrive di getto il testo.

Anche se, da un punto di vista emotivo o del coinvolgimento, altre canzoni dei Pink Floyd possono essere più amate di questa, nel 1989 “Comfortably numb” è stata votata la più grande canzone dei Floyd di sempre dai lettori della fanzine dedicata alla band, “The Amazing Pudding”. Nel 2006, invece, l’assolo di David Gilmour è stato giudicato il più grande assolo di tutti i tempi dagli ascoltatori di Planet Rock. Non male per essere l’ultimo brano scritto a quattro mani da Roger Waters e David Gilmour.

 

Sexual healing, Marvin Gaye

 

Ostenda è una placida città portuale delle Fiandre occidentali, affacciata sul mare del Nord, dove a parte un bel lungomare e le opere dell’illustre cittadino René Magritte, non c’è molto da fare né da vedere. È un buen retiro, il luogo ideale dove rifugiarsi per dimenticare o ripartire. O disintossicarsi. Nel 1981 Marvin Gaye era lì per questo motivo, per capire se fosse possibile staccarsi dalla droga. Si era anche appena staccato dalla Motown – che era stata per lui una famiglia più che un’etichetta, una casa più che una casa discografica – e il momento era difficile. Le ultime incisioni avevano avuto un discreto successo ma non erano certo entrate nella storia. Sentiva che era finita un’epoca e che stava per aprirsene un’altra. Per questo aveva deciso di buttare giù i suoi ricordi, di fare il punto e pubblicare un’autobiografia. Per scriverla, aveva chiamato ad aiutarlo David Ritz, uno scrittore attento e sagace.

La prima cosa che Ritz notò, una volta arrivato nell’appartamento che Gaye aveva preso in affitto, fu l’incredibile collezione di fumetti porno dell’artista soul.

“Hey” disse tra il serio e il faceto, “mi sa che hai bisogno di una cura sessuale che ti faccia guarire.”

“Cosa?” replicò Gaye. “Di cosa stai parlando?”

“Sto parlando di sexual healing” ripetè Ritz.

Sexual healing? Questo è il titolo giusto per una canzone, pensò Gaye e invitò l’amico scrittore a buttare giù un testo, cosa che Ritz fece a tempo di record. Gaye, eccitato dal testo più ancora che dai suoi fumetti porno, registrò “Sexual healing” a Ostenda e si spostò a Waterloo per mixarlo, dimenticando però di accreditare Ritz come co-autore e provocando la fine della loro amicizia.

“Senza i miei fumetti non avresti combinato nulla” si difese Marvin.

“Senza il mio testo saresti ancora lì a leggere i tuoi porno” argomentò Ritz, che intentò una causa per ottenere i suoi diritti, vincendola dopo la morte di Gaye.

 

Smells like teen spirit, Nirvana

 

“Volevo scrivere la pop song definitiva, nello stile dei Pixies”. Così, nel gennaio del 1994, Kurt Cobain raccontava la genesi di “Smells like teen spirit”, singolo apripista del capolavoro “Nevermind”, anno di molta grazia 1991. L’idea del titolo fu suggerita a Cobain da Kathleen Hanna, la cantante dei Bikini Kill, che scrisse con lo spray Kurt smells like Teen spirit sul muro della sua stanza da letto, dopo una notte passata a bere e a disegnare graffiti per le strade di Seattle. All’epoca, Cobain era fidanzato con un’altra ragazza delle Bikini Kill, la batterista Tobi Vail, e dicendo che puzzava di Teen spirit, Kathleen voleva dire che gli abiti di Kurt e la sua pelle si erano impregnati del profumo della fidanzata.

A Kurt la scritta piacque molto, anche perché non la capì. Non essendo pratico di profumi femminili, non aveva la minima idea che Teen spirit fosse un profumo e avendo trascorso tutta la notte a parlare di ideali, anarchia e sogni, pensava che la frase di Kathleen fosse una bellissima metafora per dire che lo spirito, la ribellione e gli ideali della sua giovinezza si erano impossessati di lui. Si rese conto dell’errore solo mesi dopo l’uscita del singolo.

 

Absolute beginners, David Bowie

 

Quando controllarono la posta e trovarono l’invito, pensarono a uno scherzo. La vita del session man era bella e divertente – lavorare con grandi musicisti, aiutarli a trovare il suono giusto, a volte collaborare alla composizione – ma una cosa così non era mai capitata. Quando aprirono la busta, estrassero il cartoncino e cominciarono a leggere, venne loro da sorridere e da domandarsi se fosse una vera convocazione. “Siete gentilmente invitati a partecipare a una session con mister X agli Abbey Road Studios, il giorno tal dei tali, bla bla bla…”

“Mister X?” pensò Kevin Armstrong, ex-chitarrista dei Prefab Sprout.

“Mister X?” ripeté ad alta voce Matthew Seligman, già bassista con i Soft Boys e con i Thompson Twins. Eppure, la convocazione era firmata dal dirigente della Emi con cui stavano lavorando e che li aveva chiamati per l’ultimo disco di Thomas Dolby. I turnisti si parlarono tra di loro, per vedere se qualcuno ne sapesse qualcosa di più. Niente da fare. Alla fine decisero di andarci. Male che vada, si torna a casa.

Quando si materializzò David Bowie, tirarono un lungo sospiro di sollievo e ringraziarono Dio, perché se avessero mancato le registrazioni di “Absolute beginners” non se lo sarebbero mai perdonati. Non tanto per i risultati – la canzone fece sì da traino all’omonimo film di Julian Temple e ottenne un più che considerevole successo, ma fallì l’ingresso nella storia dei capolavori di Bowie – quanto per la modalità della registrazione. Bowie arrivò, infatti, con la canzone non finita, chiedendo esplicitamente ai turnisti di correggere e aggiungere, inventare o sottrarre. Bowie era eccitato all’idea di lavorare ad Abbey Road perché lo faceva tornare indietro ai tempi di “Heroes”, e anche i turnisti finirono per diventare “eroi per un giorno”. Nello spazio di un pomeriggio il brano fu completato e registrato, in una bella atmosfera di eccitazione collettiva, sotto la guida di mister X.

 

I don’t like Mondays, Boomtown Rats

 

Chi di noi non ha detto almeno una volta, sorridendo: “Non mi piacciono i lunedì”? Ma quando lo disse Brenda Ann Spencer, nessuno rise. Brenda Lee era una ragazza sedicenne di San Diego che aveva appena ucciso due adulti e ferito otto bambini e un poliziotto sparando dalla sua finestra di casa verso il cortile della scuola che aveva di fronte. Quando si sparse la voce che una pazza stava sparando da casa sua, un giornalista rintracciò il suo numero e le telefonò. Lei, incredibile a dirsi, smise di sparare e andò alla cornetta. Il giornalista le chiese perché stesse facendo tutto ciò e lei rispose semplicemente: I don’t like Mondays, non mi piacciono i lunedì. E poi tornò a sparare.

Bob Geldof stava rilasciando un’intervista in una college radio di Atlanta, in Georgia, nel 1979, quando le agenzie cominciarono a battere i lanci di quello che stava accadendo. Profondamente colpito, scrisse “I don’t like Mondays”, che rimane a tutt’oggi il più grande successo dei Boomtown Rats, anche se molte radio si rifiutarono di trasmetterlo per l’argomento trattato.

 

Daniel, Elton John

 

Se Elton John non avesse eliminato l’ultima strofa, ascoltando in parte le obiezioni della casa discografica, timorosa che il brano fosse troppo lungo e triste per diventare un singolo di successo, nessuno avrebbe mai avuto il minimo dubbio sull’argomento della canzone. Invece la storia dei due fratelli protagonisti di “Daniel” si è trasformata, a seconda dei casi, in mille storie diverse, le più drammatiche delle quali sostenevano che parlasse del fratello di Elton, morto in un incidente aereo.

Daniel, in realtà, è un veterano del Vietnam che torna a casa dopo aver perduto la vista in guerra (Your eyes have died but you see more than I, “i tuoi occhi sono morti, ma vedi più di me”). Torna nella sua cittadina nel Texas, accolto come un eroe, quando invece vorrebbe solo rimanere tranquillo nella sua fattoria, illudendosi di tornare alla vita di un tempo. Così decide di partire per la Spagna, per rifarsi una parvenza di vita e il fratello piange mentre lo vede andare via in aereo.

La canzone fu scritta e registrata lo stesso giorno. Bernie Taupin scrisse il testo e lo consegnò a Elton, lui chiamò i musicisti e via. Così andavano le cose, in quel 1973 e negli anni d’oro di Reginald Dwight, in arte Elton John.

 

 

1) Pubblichiamo per gentile concessione dell’editore uno stralcio da “We will rock you. Segreti e bugie. 709 canzoni come non le avete mai sentite”, di Massimo Cotto. Edizioni Bur Rizzoli. Riproduzione riservata.
*Dice di sé.
Massimo Cotto. Toro di segno zodiacale e di fede calcistica, è nato ad Asti il 20 maggio 1962. Giornalista, vive di note e di notes, perchè ama la musica e prendere appunti su carta. Affascinato dagli opposti perchè creano sempre movimento, non rinuncerebbe mai alla buona cucina, perchè, come diceva John Ford in Com’era verde la mia valle, “raramente ho incontrato persone le  cui parole fossero migliori di un buon pranzo”. Tentato sempre da ciò che è difficilmente realizzabile (per puntare all’aquila bisogna mirare alla luna), a volte esprime pensieri intelligenti, ma non sono quasi mai suoi. 

PIPPO BAUDORegali? Per andare sul sicuro scelgo cravatte, libri e cd. Menoindicate le cornici per le fotografie, vanno a finire nel cassetto.(Da “AdnKronos”, 2007)

 

TELEVISIONE Ivan Villa - La videocrazia, oltre l'ipocrisia dei benpensanti

La televisione moderna è fatta per persone che abbiano l’intelligenza di capire che quello che arriva sullo schermo è esclusivamente spettacolo e che la vita vera è un’altra cosa

Ivan Villa*

Dalla regia arriva la comunicazione che mancano 30 secondi alla messa in onda… l’assistente di studio fa sistemare il conduttore nella posizione concordata durante le prove… gli autori agguantano la loro postazione e mentre lo fanno già scrivono i primi spunti sulle loro ormai mitiche “lavagnette”… in cuffia il regista comunica ai cameraman qualcosa di benaugurale che ha a che fare con una balena… i proiettori fanno il loro lavoro e si posizionano nella memoria di partenza dell’apertura… i produttori, partecipi e disinvolti, controllano un’ultima volta la durata dei blocchi e si compiacciono del fatto che la macchina sia quantomeno pronta a partire… infine l’aiuto regia prende in mano le redini e coordina in cuffia la squadra: “attenzione siamo in onda in 5, 4, 3, 2, 1… gira sigla!”.
Questo è, più o meno fedelmente, quello che succede pochi istanti prima della diretta di uno show televisivo. In realtà, precedentemente, molto altro è già successo se si è arrivati “indenni” fino a quel momento e tante, tantissime api operaie, hanno fatto in modo che ancora una volta, come ogni sera, l’amichevole luce blu faccia capolino dalle finestre delle case italiane.
Dall’archetipo delle casalinghe di Voghera – che pure hanno affinato negli anni il loro senso critico – ai più smaliziati intellettualoidi che gravitano nell’ambiente sub culturale italiano, la televisione ha sempre unicamente lo stesso effetto: cattura! Provate a far caso a quanta gente si ferma, almeno per qualche secondo, con espressione più o meno partecipe e/o con bocca semi aperta, a fissare lo schermo magico. Chi vi negherà questa evidenza fa parte, con ogni probabilità, della categoria di cui sopra – smaliziati intellettualoidi in cerca di qualcosa su cui dissentire, per l’appunto. E… tranquillizzatevi, non c’è assolutamente nulla da recriminare in quanto “l’attrazione” è esattamente alla base del linguaggio per immagini.
Per le api operaie che lavorano nell’alveare dietro le quinte, invece, l’approccio è sostanzialmente diverso, perché per loro, a prescindere dal fatto che ciò che contribuiscono a mandare in onda sia lana grezza o seta pregiata, la televisione è un mestiere, solo, puramente e semplicemente un mestiere. Questa differente percezione della televisione è precisamente ciò che divide i due mondi: “l’operaio” televisivo, di cui chi vi scrive è un fiero rappresentante, e lo spettatore, ultimo e inviolabile fruitore del mezzo stesso. Basti considerare che noi “operai” mentre siamo in onda, sappiamo, grazie alla scaletta minuziosamente compilata da uno degli autori, che dopo 4 minuti saremo in pubblicità, che il blocco successivo durerà 18 minuti e che prima o poi qualcuno degli ospiti in studio dirà qualcosa che scatenerà la reazione smodata di qualcun altro che il conduttore a sua volta dovrà cercare di far ragionare.
Nonostante questa possa sembrare la caratteristica di una routine molto piatta, nessuno dei tanti colleghi potrà mai negare che in fondo il nostro sia un lavoro a tratti godibile, sicuramente privilegiato, e mai scontato. Ed è proprio sulla mancanza di “scontatezza” che si fonda il principio motore del nostro mestiere: un esempio? La migliore caratteristica di chi si occupa, ad esempio, della produzione è di essere un buon problem solver, perché di intoppi e scaramucce anche impensabili è disseminata l’intera giornata lavorativa in uno studio televisivo (sebbene qualche caro amico pratichi la scherzosa filosofia del “se avete qualche problema…ve lo risolvete!!!”, ma come detto, lo fa solo per gioco, anzi…).
Chiarito il modus vivendi di chi lavora dietro le quinte di uno spettacolo televisivo, resta da capire in che modo si manifesti la responsabilità del messaggio che dalle nostre regie, dai nostri tavoli di riunione, dalle nostre telecamere, inviamo allo spettatore.
Se criticamente partite dal concetto lapalissiano che la televisione, in quanto emblema dei media, sia in modo semplicistico un mezzo culturale, potete anche saltare la lettura del resto dell’articolo: qualche “intelligentone” ha sintetizzato “nei nostri palinsesti – e parliamo di quella televisione finora denominata generalista – il vuoto cosmico di input culturali è quasi pneumatico”. Sebbene questa analisi fondi le sue basi rispettando pedissequamente alcuni canoni intellettuali stabiliti da convenzioni comunicative di massa, è il vero concetto stesso di cultura a necessitare di un nuovo significato, più moderno e spregiudicato.
Nessuno potrà dire mai, in tutta coscienza, che una decina di ragazzi incattiviti e litigiosi, monitorati dall’occhio vigile di decine di telecamere, possano essere da esempio o monito per le generazioni future, semplicemente perché non sono stati messi lì per quello scopo. La televisione moderna è fatta per essere fruita da persone che abbiano l’intelligenza e la capacità critica di capire che quello che arriva sullo schermo è solo ed esclusivamente “spettacolo” e che la vita vera è un’altra cosa.
Se ci si accosta alla macchina dell’intrattenimento con questo atteggiamento disincantato, essa diventa godibile, forse a tratti ignobile, è vero, ma di fondo giustificabile perché, in quei 50, 90, o 120 minuti che siano, l’allontanamento dalle brutture del tessuto sociale attuale è un toccasana per la mente, già di per sé, sana. Il problema viene fuori quando con questa “meravigliosa giostra dello spettacolo” ci si relaziona in maniera poco cosciente, mischiando pericolosamente la vita di una donna che non vede la figlia da 15 anni con quella di un ragazzotto impomatato-lampadato-palestrato-lucidato-lobotomizzato che viene corteggiato da orde di seducenti e sedicenti aspiranti veline e carte copiative!
Quando nelle automobili della vita quotidiana, al supermarket sotto casa, nei vagoni di una metropolitana, la preoccupazione vera, sentita e profonda, diventa quella di discutere del motivo per cui due giovani donne più o meno note al pubblico, mentre patiscono la fame su un’isola deserta, se le siano date di santa ragione esibendosi nel famoso strappo spasmodico di ciuffi di capelli, tipico delle “mazzate” in gonnella o quando, peggio, intorno ad una tavola, durante un tipico italianissimo pasto serale, l’unico suono che si sente è lo starnazzamento che viene fuori dagli altoparlanti, ormai di altissima fedeltà, di un televisore con digitale terrestre incorporato e il mutismo regna imperante tra gli esseri umani attorno a quella tavola, allora è ora di correre ai ripari, allora è tempo di chiarire che quello a cui assistono è solo spettacolo.
La ragione fondante del fenomeno del travisamento della realtà, della sublimazione del reality show, ha un solo minimo comune denominatore: la totale mancanza di una struttura critica nel telespettatore medio; e tale mancanza ha a che vedere strettamente con un problema culturale di fondo, che ha radici ben più profonde del semplicismo dei detrattori dello show-biz. Lo spettatore canonico, colui che garantisce la sopravvivenza stessa all’industria televisiva, non ha mezzi sufficienti per porsi di fronte a essa con un atteggiamento distaccato ma superficialmente partecipe: non ha le basi culturali per farlo. Unendo i puntini, il disegno che, gradualmente si sta delineando è che, in un regime di videocrazia, il gap “intellettuale” è da ricercare a monte dell’esistenza della televisione commerciale stessa, la cui missione “culturale” è vanificata dall’uso che ne fa lo spettatore stesso.
È, perciò, negli anni della formazione che un individuo dovrebbe sviluppare l’attitudine alla criticità, costruire fondamenta solide per la propria struttura culturale; ed è compito essenziale, non già del professorone universitario ma finanche del maestro elementare, quello di preparare le nostre menti ad un comportamento sociale critico e sano. Solo con queste premesse dunque, il faceto della televisione moderna verrebbe giudicato ed evidentemente fruito così com’è: pura digressione dalle devastazioni del mondo che viviamo; di rimando, il serio, e con tale accezione intendo il cosmo dei programmi tv generalmente considerati più “alti”, verrà ascoltato con una maggiore serietà e con la consapevolezza che, nella maggioranza dei casi, quando la telecamera verrà spenta, anche la spietata giostra dei dissentimenti, dove poco prima si esibivano i contendenti di uno qualunque dei tanti ring televisivi pseudo-politici, si fermerà. Perché in fondo, anche quello è spettacolo.
Infine, se tutto quanto detto finora assumesse i contorni della dissertazione sterile, ci rimane sempre l’immutabile arma del libero arbitrio: sul telecomando di ogni televisore, c’è un piccolo tasto, generalmente di colore rosso, che ha la meravigliosa funzione di spegnerlo quando è acceso. E viceversa.
*Dice di sé.
Ivan Villa. Napoletano di nascita e figlio adottivo di “Mamma Roma”, rutila da qualche anno nel mondo dello spettacolo. Fin da età non sospetta ha sempre sognato di “fare la televisione” e nei momenti di dormiveglia, da qualche tempo, immagina di essere il produttore del “Saturday night live”. Quando è del tutto sveglio, più normalmente, è un direttore di produzione free-lance in programmi come “La Talpa” o “Buona Domenica”. Se non avesse fatto questo mestiere, avrebbe quantomeno provato a farlo.

Fabiana Proietti - Sulle strade della fiction. Le serie poliziesche americane nella storia della televisione

Mettere in primo piano: è quanto si impegna a fare la rivista online Close-up, che all’indirizzowww.close-up.it propone una vasta gamma di informazioni che vanno dalla programmazione cinematografica a quella teatrale, passando per la televisione e il mercato discografico. 
Non mancano attente recensioni dei più recenti prodotti editoriali, musicali e cinematografici. Proponiamo l’analisi del libro di Roberto Pastore “Sulle strade della fiction”

Fabiana Proietti

Lascia perplessi il titolo del certosino saggio di Roberto Pastore per Lindau. Appare infatti contraddittoria l’associazione “fiction” con “serie poliziesca”. E anche se l’autore nel primo, introduttivo, capitolo al mondo della serialità statunitense spiega con dovizia di particolari le diverse suddivisioni delle produzioni televisive, da quella narrativa traseriesserialminiseries e tv movie al dedalo di sottogeneri che replica quelli cinematografici, l’accostamento al termine generico di fiction non ci convince ancora, soprattutto per l’accezione che di fatto la parola ha assunto nel panorama italiano, assai lontano, per intenti e modalità narrativo-produttive, dal mondo televisivo americano.

Fatta eccezione per questo appunto, il libro si presenta particolarmente accurato dal punto di vista filologico, con una struttura ben delineata in cui Pastore sceglie prima di tutto di descrivere i caratteri della serialità statunitense, puntualizzando alcuni preliminari elementi necessari alla comprensione del fenomeno, e spesso confusi nel linguaggio comune.

Dal secondo capitolo, “Le serie poliziesche negli anni ’50 e ’60”, il proposito dell’autore si chiarisce del tutto : l’obiettivo di Sulle strade della fiction non è quello di lanciarsi in analisi tematiche, stilistiche o sociologiche su un nucleo di serie poliziesche. Si tratta piuttosto di una sorta di guida che, pur allontanandosi dalla critica in pillole del dizionario, tenta di orientare il lettore all’interno di un mondo che ha radici anche remote – relativamente, questo è ovvio, alla giovane età della serialità televisiva – di cui diviene interessante scandagliare quell’albero genealogico che ha portato agli exploit dell’ultima, illuminante stagione del poliziesco statunitense, capaci di attrarre verso il mondo televisivo anche gli appassionati del grande schermo.

Il viaggio, insomma, per arrivare alle serie di un nume tutelare del poliziesco come Jerry Bruckheimer è assai lungo e travagliato. Pastore, che forte di una laurea in Scienze Politiche si mostra ferrato nel descrivere le dinamiche economico-produttive in gioco dietro lo show serale delle emittenti americane, parte dai lontani anni Quaranta, in cui le ombre espressioniste del noir cinematografico finivano col riversarsi anche sul piccolo schermo, con serie che recuperavano gli stilemi hard boiled da Grande sonno o Mistero del falco, contando su titoli suggestivi come Mysteries of Chinatown o il programmatico Private Eye.

Passando attraverso gli “Investigatori antieroi” (Cap. 3) come il crepuscolare ma anche ironico Colombo e “I poliziotti delle metropoli”(Cap. 4) che va a cogliere la dimensione essenziale del genere poliziesco, Pastore sottolinea i passaggi chiave nell’evoluzione del genere, capace di ospitare al suo interno anche bizzarri ibridi baciati dal successo : tra questi, nella schiera dei detective edonisti compaiono le tre fanciulle di Charlie’s Angels, fenomeno di costume in cui le logiche dell’indagine poliziesca venivano immancabilmente sacrificate all’appeal della loro immagine.

Da Kojak a Starsky e Hutch, che intrecciano le loro avventure con i panorami di metropoli in pieno mutamento, si arriva a “Gli anni 80 : la metamorfosi”, in cui viene giustamente sottolineato come il decennio costituisca per la serialità americana, e il poliziesco in particolare, una nuova frontiera, in cui personalità rilevanti intervengono nella creazione di serial realizzando prodotti assolutamente innovativi, fondativi per una nuova estetica televisiva. È questo il caso di Michael Mann e del suo Miami Vice, la cui immagine viene giustamente riportata sulla copertina del saggio, a testimonianza di quanto le avventure di Sonny Crockett e Rico Tubbs abbiano rivoluzionato il mondo seriale alla luce di quella che Pastore definisce “estetica neobarocca”.

Non potendo purtroppo citare tutti i titoli – l’indice delle serie menzionate è assai ampio, così come la bibliografia, molto accurata – è però giusto sottolineare come il saggio di Roberto Pastore si estenda sino ai giorni nostri, con interessanti intuizioni sul panorama attuale del poliziesco volte a recuperare persino serie poco valutate come Blind Justice, inserendole in una appropriata riflessione sulla decadenza dei valori positivi, che vedono molte serie porre al centro delle proprie trame degli antieroi, personaggi moralmente discutibili eletti al posto dei vecchi eroi positivi, che si configura indubbiamente come uno dei dati più interessanti del nuovo detective drama.

Pur non entrando nel vivo dei singoli prodotti, ed è un peccato che non ne abbia la possibilità perché lo sguardo dell’autore sulla materia trattata ci sembra arguto, Sulle strade della fiction si configura come un ottimo testo per chi voglia immergersi nella storia della serialità poliziesca e cerchi una guida capace di fondere acute osservazioni di carattere estetico-narrativo con il dato storico-filologico.

 

RENATA TEBALDI
Preferisco attendere fino alla morte piuttosto che affrontare unadelusione. Che c’è di più bello dell’attesa di qualcosa che forseci verrà incontro fra un anno, un’ora, un minuto?(Da “Renata Tebaldi, la voce d’angelo”, 2005)
SOCIETÀ Domenico Mazzullo - Se la morte diventa un'abitudine

I mezzi di comunicazione mostrano, sempre più spesso, le immagini sconcertanti di inondazioni, terremoti, incendi, guerre nella completa indifferenza di chi le guarda

Domenico Mazzullo*

Viviamo in un’epoca e in un mondo in cui ci si abitua a tutto e forse proprio alla sua straordinaria capacità di abituarsi, la nostra specie umana deve la propria sopravvivenza, a dispetto e nonostante tutto e tutti, anche se stessa.

Siamo stati creati, oppure ci siamo evoluti da specie diverse, secondo due ipotesi contrastanti, e i nostri progenitori, i nostri avi vivevano nelle caverne o sulle palafitte, cacciavano e si procuravano il cibo con strumenti rudimentali, mangiavano carne cruda e si coprivano di pelli e in pochi secoli le nostre abitudini e i nostri stili di vita sono mutati enormemente, in maniera impensabile ed inimmaginabile.

Ma noi siamo rimasti, sostanzialmente, gli stessi. Salvo poche, piccole, superficiali, epidermiche differenze, l’uomo, l’essere umano è rimasto eguale, identico a se stesso, fuori e soprattutto dentro, nel proprio intimo, nella propria essenza, nella propria psiche.

E proprio quella stessa psiche è costruita, è strutturata in modo e maniera che ci si possa abituare a tutto, o quasi a tutto, anche alla morte, degli altri, naturalmente, perché a quella nostra non v’è tempo e modo per abituarsi.

E proprio a quella morte, a quella degli altri, in questi tempi ci siamo abituati straordinariamente, perfettamente, in maniera indolore, favoriti in questo dalla immensa capacità e potenzialità dei mezzi di comunicazione che ci mettono a contatto, in un attimo e in tempo reale, come si usa dire oggi, con le immagini, spesso sconcertanti che ci giungono da lontanissimo, dall’altra parte del mondo, che ci fanno assistere in diretta ad eventi catastrofici, quali inondazioni, terremoti, incendi, guerre, devastazioni ed altre sciagure, naturali e non, come se fossimo al cinema, assistendo ad un film di fantascienza, per vedere il quale abbiamo pagato il biglietto e lo abbiamo scelto volontariamente tra tanti altri.

Che differenza, infatti, dovrebbe fare, per la nostra coscienza, assistere ad uno spettacolo devastante, di fantasia, proiettato sullo schermo del cinematografo e uno spettacolo altrettanto devastante, ma di realtà, proiettato sullo schermo del nostro televisore domestico, sempre più somigliante ad uno schermo cinematografico, mentre mangiamo la domenicale lasagna o gli spaghetti con le vongole?

Che emozione, sconcerto, raccapriccio potrebbe suggerirci l’immagine di profughi in fuga da terreni devastati dalle acque impazzite, da tifoni e fortunali tropicali, dallo tsunami, di cui fino a poco prima ignoravamo l’esistenza?

Che sconvolgimento dovrebbe procurarci l’immagine dolorosa di soldati feriti e deceduti in Afghanistan, se le stesse immagini ci sono familiari nei film di guerra?

Per non parlare poi delle “morti annunciate e programmate”, quelle del sabato sera all’uscita dalle discoteche, o quelle apocalittiche del mese di agosto, suddivise ragionieristicamente in bilancio dell’esodo, per le vacanze e del controesodo, quasi che fosse un contributo fisso, un sacrificio umano inalienabile ed ineluttabile, ineludibile che gli umani sono tenuti a pagare, ogni anno al dio delle vacanze, il cui totem potrebbe essere rappresentato da un ombrellone piantato su una spiaggia assolata e gremita, un motoscafo velocissimo che sfreccia in mezzo ai bagnanti, una tavola da surf.

Ci sono poi, su un piano totalmente diverso, le morti di persone che, ignorate e sconosciute da vive, divengono famose solo quando non esistono più tra noi, per mano di altri, che li tolgono, li asportano, li escludono dal consesso umano e spesso rimangono misteriose e non risolte, almeno per quanto riguarda la giustizia degli uomini.

Tornano alla ribalta, proprio in questi giorni, l’omicidio irrisolto di via Poma a Roma e la vittima protagonista, Simonetta Cesaroni, che ancora attende giustizia e con lei, in un tragico connubio Emanuela Orlandi, le cui foto tappezzarono l’Italia. Si celebra il processo per il delitto di Perugia, che ha sconvolto il mondo studentesco e che ha portato all’onore delle cronache una città famosa per l’università appunto e per la cioccolata.

I periti dell’una e dell’altra parte giocano una macabra partita, per ora senza vinti né vincitori, sul terreno di gioco del delitto di Garlasco, anche esso funestato da una vittima giovanissima.

E per non far torto a nessuno e unire l’Italia, anche sotto questo aspetto, in un clima di celebrazioni per il 150° anniversario della sua unità, a Napoli un killer della camorra uccide davanti ad un bar e sotto gli occhi di tutti, ma anche delle telecamere, un pregiudicato, tranquillamente appoggiato al muro a fumare una sigaretta. Le telecamere registrano tutto e così assistiamo, beati noi, alla morte in diretta, ad un omicidio in diretta, ma anche, e ciò è ancora più sconcertante, se possibile, assistiamo alla tranquilla, serena, disinteressata indifferenza, di chi prosegue per la sua strada e scavalca addirittura, con abile maestria, il corpo della vittima agonizzante sul marciapiede.

Ma si sa, a questi spettacoli si è talmente abituati, che non possono suscitare altro che olimpica indifferenza.

La stessa indifferenza che ha contraddistinto i cittadini pochi mesi orsono, quando hanno assistito, senza minimamente scomporsi, all’omicidio, nella stazione della metropolitana di un uomo, suonatore ambulante di fisarmonica, ucciso per sbaglio, anch’egli sotto l’occhio imperturbabile delle telecamere, che hanno impietosamente registrato, per noi, la sua morte e ancor peggio il nostro disinteresse per uno spettacolo così banale ed usuale da non suscitare nessuno stupore e nessuna emozione.

Unica evidente, visibile preoccupazione, timbrare il biglietto per non correre il rischio di perdere il treno. E intanto un uomo moriva, mentre la moglie chiedeva invano aiuto.

E che dire di Brenda, il transessuale brasiliano incappato nel caso Marrazzo, non si sa ancora se morta suicida, o “suicidata” da altri, ma comunque colpevole di essere nata in un corpo sbagliato, di essersi trovata invischiata in cose più grandi di lei, di aver conosciuto persone pericolose?

In questo ultimo anno che volge ormai quasi al termine, gli dei non sono stati pietosi con la nostra povera Italia e ci hanno chiesto un contributo straordinario di vittime, di morti, oltre a quelle ordinarie e programmate. Il terremoto dell’Aquila e dell’Abruzzo, la strage dei nostri paracadutisti a Kabul, il disastro di Messina e dei paesi limitrofi, la scomparsa dei nostri militari nel C-130 a Pisa, e l’anno non è ancora terminato.

Ma anche a queste morti ci stiamo abituando, ci siamo abituati alle immagini della devastazione dell’Aquila, si è spento l’eco degli squilli di tromba del silenzio fuori ordinanza, per i morti di Kabul e già iniziano le polemiche e le proteste dei sopravvissuti siciliani.

Ci si abitua, ci si adatta, secondo un copione scontato e conosciuto, si gira pagina e… la vita continua… come è giusto forse, come è doveroso, come è nell’ordine delle cose.

“Chi muore tace e chi è vivo si dà pace”, secondo un vecchio proverbio che recitava mia nonna quando c’era bisogno di una consolazione a buon mercato.

Ma vi sono morti che non tacciono, morti che non danno pace a chi vive ancora, se è dotato, fortunato o sfortunato, a lui la scelta, di una coscienza umana.

Vi sono morti che continuano a gridare il proprio dolore, il proprio sconcerto, la propria solitudine, il proprio dramma interiore.

In genere non sono morti collettive, non sono morti gloriose, nel senso comune del termine, non sono morti che meritano uno spazio in televisione o alla radio, morti di cui non si parla per giorni e giorni, che non meritano i funerali di Stato con la presenza delle autorità, ma che, se vengono ricordate, meritano appena un trafiletto sul giornale locale, nella cronaca della città, se proprio avanza spazio e c’è bisogno di riempirlo.

Ma sono morti che lasciano il segno nelle nostre coscienze, se le abbiamo, nel nostro animo, nel nostro cuore, se ancora ci sentiamo di appartenere al genere umano e non abbiamo ancora abdicato a questa prerogativa.

Sono morti di persone semplici, anonime a volte, morti che interrompono vite normali, abituali, stancamente e pedissequamente condotte, vite di tutti i giorni, grigie, incolori, scialbe, segnate e caratterizzate da quegli atti comuni che tutti ci contraddistinguono e ci accomunano.

Morti che interrompono, con la loro drammaticità, la continuità, la semplicità, la normalità di una vita, apparentemente senza scosse e senza traumi, perché i dolori intimi, interiori, pudicamente, modestamente, vengono vissuti e sopportati in silenzio, nel chiuso del proprio cuore e del proprio animo, per una sorta di innato pudore e quasi vergogna della propria sofferenza; ma sono morti che innalzano, che elevano chi ha vissuto una vita nell’ombra e nel silenzio, che non si è mischiato al clamore di chi protesta a gran voce, che innalzano, dicevo, al ruolo di eroi, di eroi silenziosi, pudichi, timidi, vergognosi, persone che hanno vissuto silenziosamente e senza neppure saperlo, da eroi e che testimoniano “il coraggio e l’eroismo di tutti i giorni”.

Il coraggio e l’eroismo di una madre che lascia marito e figli in un paese lontano per venire a fare la badante ad una persona anziana, di cui non conosce neppure la lingua di un uomo che lascia la moglie e la figlia appena nata nella miseria dello Sri Lanka per venire a fare il cameriere in una città come Roma, di cui prima non sospettava neppure l’esistenza, il coraggio di una vedova che si adatta ad ogni mestiere per far studiare i figli, di un fratello che sacrifica quotidianamente la propria esistenza per prendersi cura, una volta morti i genitori, del proprio fratello down, di mariti o mogli anziani che continuano ad essere vicini al proprio coniuge, ridotto ormai ad un demente dal morbo di Alzheimer.

Ci sembrano pagine, episodi, usciti dal tanto vituperato “Libro cuore” di Edmondo De Amicis, da Dickens, da Victor Hugò, ma tuttora presenti e vivi, conosciuti da chi frequenta e conosce l’umanità nell’intimo e non si ferma alla superficie, proposta dal “Grande fratello”, o dall’ “Isola dei famosi”, cosiddetti reality, con termine orgogliosamente anglosassone, ma che di realtà non hanno proprio nulla.

Per scovare, per riconoscere, per scoprire questi “eroi di tutti i giorni”, non è necessario andare lontano, non è necessario avere lo spirito e le capacità di un provetto detective, non è necessario riferirci alle vite dei Santi.

Basta guardarci attorno, osservare, ascoltare le persone, guardarle negli occhi, vederle fare la spesa al mercato, o la fila alla cassa del supermercato, studiarle mentre confrontano i prodotti alla ricerca di quelli più economici, non spazientirsi, ma attendere con educazione che si orientino tra le monete che trovano nel borsellino e delle quali ancora non hanno imparato a riconoscerne il valore.

È sufficiente leggere i giornali, ma non le pagine della politica, internazionale o nazionale e men che meno quelle dello sport, o degli spettacoli, ma le pagine di cronaca, quelle nelle quali vengono narrati e racchiusi, scelti, non secondo l’importanza o l’interesse, ma secondo una misera logica degli spazi da riempire, gli avvenimenti, i drammi, le miserie di esseri umani qualunque, non degni di interessare i molti, ma utili per occupare un angolino della pagina, che sarebbe disdicevole e antiestetico lasciare in bianco.

Amo questi angolini, amo questi aspetti minimalisti della cronaca e delle notizie, perché molto meglio e molto più sinceramente dei tanti discorsi e delle parole inutili di persone autorevoli, mi danno il metro e la misura del mondo in cui mi trovo, temporaneamente, a vivere.

Ho parlato prima di morti, che spesso danno un senso ed una dignità ad una vita oscura, schiva, nascosta, pedissequamente vissuta, occultata, per pudore o per vergogna, ma non per questo, meno eroica e coraggiosa di tante altre che conosciamo e si mostrano fin troppo.

Il fatto risale a due mesi fa, ma è rimasto ben presente nel mio animo e nel mio cuore, nonostante i miei infruttuosi tentativi per cancellarlo, perché troppo doloroso.

Nel popolare quartiere romano di Centocelle, un pensionato di 76 anni affoga la figlia invalida al cento per cento, nel lavandino di casa e subito dopo si getta dal balcone del suo appartamento al quinto piano.

Due giorni prima gli era stato diagnosticato un tumore che lo avrebbe condotto rapidamente e inesorabilmente alla morte e ha ritenuto di non poter lasciare il peso e l’onere della unica figlia, disabile, alla moglie, anziana e anch’ella ammalata.

ha atteso che la moglie si assentasse un momento per recarsi in farmacia e ha messo in atto lo “insano gesto” come si sarebbe detto una volta. Approfittando della brevissima assenza della moglie ha trascinato la figlia di 46 anni in bagno, e ha immerso il suo viso nel lavandino pieno d’acqua.

La moglie appena rientrata lo vede nel momento in cui sta scavalcando la balaustra del balcone per gettarsi nel vuoto, ma non può far nulla per fermarlo.

Corre in strada, appena in tempo per vederlo ancora una volta, una ultima volta vivo, per ricevere il suo ultimo abbraccio e per abbracciarlo a sua volta, per pronunciare le ultime parole al marito, di amore e comprensione, di perdono, se fosse necessario: ”Lo so che lo hai fatto per me, ma non dovevi”.

Vorrei dire ancora tante cose, tante parole, ma mi sembrerebbero inutili e blasfeme, inadatte e fuori posto di fronte a questo dramma così profondamente umano.

Un solo interrogativo: “Ma in che mondo viviamo?”.
*Dice di sé.
Domenico Mazzullo. Medico-chirurgo, speta in psichiatria. Psicoterapeuta. Assolutamente laico e quindi profondamente libertario. Romanticamente illuminista. 

CAMERON DIAZUn buon proposito per il nuovo anno? Vorrei smettere di fumare,iniziare a indossare il reggiseno e dare uno stop alla mania

dello shopping!

(Da “Rumors.it” 2006)

 

COSTUME Elda Lanza - L'abito e il monaco

Il modo in cui ci vestiamo, oltre che dalla necessità di coprirsi, dipende in gran parte dalla moda, dalle tendenze sociali, dall’ambiente, dal progetto che ognuno vuole realizzare per se stesso. O da come ognuno vede se stesso o vuole che gli altri lo vedano

Elda Lanza*

Se in un tempo diverso dal carnevale io uscissi di casa indossando una mitria, passerei per stravagante, qualcuno potrebbe temere per la mia salute, altri potrebbero pensare a una moda irriverente. Certo a nessuno verrebbe in mente di chiamarmi Vescovo. Se la stessa cosa capitasse a un uomo in abiti talari, qualcuno potrebbe avere il dubbio se rivolgersi a lui chiamandolo Signor Vescovo o Sua Eccellenza: ma non ci sarebbero altri dubbi possibili. Quindi: l’abito fa il monaco.

Davanti a questa affermazione di sapore lapalissiano, chiunque sia portato a pensare che io sia convinta davvero che l’abito faccia il monaco, e cioè che ciascuno di noi mostri di essere quello che è attraverso l’abito che indossa – o l’idea di sé che vuole trasferire agli altri, sbaglia. Pur attingendo alla metafora, riesco a credere che un monaco, se monaco davvero, sarebbe monaco anche in un campo di nudisti.

Tuttavia non c’è dubbio che l’abito abbia un significato. L’abito, inteso come modo di vestire, è comunicazione. Non soltanto distingue – gli uomini dalle donne, anche se ci siamo inventati l’unisex; le divise comunque attribuibili a una funzione; le stagioni; le occasioni – ma si inserisce in una consapevolezza della comunicatività dell’abbigliamento, attraverso le singole scelte. Che oltre dalla necessità di coprirsi in gran parte dipendono dalle mode, dalle tendenze sociali, dall’ambiente, dal progetto che ognuno vuole realizzare per se stesso. O da come ognuno vede se stesso o vuole che gli altri lo vedano.

L’abito è comunicazione (parola di semiologo)

 

Che l’uomo comunichi oltre che con la parola attraverso un’infinità di segnali come la mimica facciale, i gesti delle mani, gli occhi e gli sguardi, la voce e le diverse inflessioni, la postura delle gambe, le variazioni fisionomiche, i tic – accarezzarsi continuamente capelli naso o baffi, mordersi le labbra o rosicchiarsi le unghie – è scienza praticata (programmazione neurolinguistica), che trasforma questi segnali in un’area di lingue codificate e convenzionali. Se un individuo picchia un pugno sul tavolo e un altro scoppia in una gran risata non è difficile per nessuno dedurre che uno è irato e l’altro allegro o divertito. Il significato dei segnali varia secondo i costumi, l’occasione, il modo, l’epoca e l’ambiente, perciò questi livelli di espressione possono essere considerati naturali o frutto ambientale e culturale. Applicando gli stessi criteri alla moda, possiamo asserire che la moda è comunicazione e l’abbigliamento un linguaggio articolato come la parola o il gesto. E che il nostro modo di vestire comunica.

Spesso siamo tentati di semplificare il concetto – che è nei fatti complesso. Ci lasciamo condizionare dai simboli e dal loro significato acquisito e codificato: il colore viola porta sfortuna, il bianco significa purezza, per fare due esempi banali. La recente moda del viola avrebbe convinto persino Wanda Osiris, notoriamente avversa a questo colore in teatro; e in quanto alla purezza del bianco, generalizzando basti pensare agli abiti da sposa e alle spose di oggi. Quindi il problema si fa complesso, appunto, perché i simboli cambiano, si trasformano, negano e affermano: mai allo stesso modo, per sempre. Per rendersi conto di quanto sia davvero difficile tracciare regole certe, sarebbe sufficiente dare un’occhiata persino superficiale all’evoluzione dei costumi, intesi come vestiti e come comportamenti, attraverso i secoli. Volendo restare nel momento attuale, basterebbe la confusione creata dall’allineamento sociale che vede senza imbarazzo gli anziani vestiti come i giovani; le donne e gli uomini con guardaroba intercambiabile, cravatta compresa; le esplicite ostentazioni di personali scelte sessuali.

 

Dalla foglia di fico al marchio

 

Decorazione, pudore e protezione sono, e non in questo ordine di priorità, le profonde motivazioni che inducono l’umanità a dedicare impegno, risorse, energie all’abbigliamento. In ambienti moderni tecnologicamente riparati, la protezione sembra il motivo di minor valenza. Tuttavia la storia dell’uomo ci insegna che proteggersi, anche dalle variazioni termiche, è stato uno dei primi segnali di sopravvivenza. Il coprirsi significava anche distinguersi e riconoscersi. Difendersi da avversità o malefici con segnali ai quali si attribuivano poteri di protezione soprannaturale, come pelli di animali, piume, amuleti, decorazioni, con una valenza più magica e simbolica che realisticamente pratica.

Sul pudore, in un’epoca in cui il nudo non fa scandalo ma esibizione, possiamo sorvolare. Ognuno ha del pudore un concetto personale. Dipende dalla propria sensibilità, dall’educazione ricevuta, dalla famiglia e dall’ambiente in cui si vive, dal proprio lavoro. Dal proprio corpo e da quanto a quel corpo si vuole attribuire. Escludiamo, quindi, che ci si copra per pudore, tranne per quelle parti che qualcuno valuta e ritiene ancora vergognose.

Resta la decorazione. Una macchina infernale che macina e produce miliardi. A fronte di questa realtà, mi sembra ingenuo sostenere che oggi ci sentiamo più liberi, più disponibili a imporre il nostro modo di vestire piuttosto che sottostare a regole precise. Questo è parzialmente vero se ci riferiamo a regole convenzionali: in chiesa si va a capo coperto (oggi non più); a cena una signora ha sempre spalle – e ascelle – coperte (oggi non più); a una prima all’opera si va in abito da sera (oggi non sempre e non più). Ma al di là di queste regole che consideriamo desuete perché patrimonio di un mondo che l’era tecnologica ha superato, nelle nostre scelte quotidiane nessuno di noi, comunque la pensi al riguardo, è mai assolutamente libero dalla macchina infernale della moda e della decorazione, e dai canoni ripetitivi del sistema industriale.

Chi non è più giovane ricorda di essere cresciuto con il culto della propria personalità. Ognuno di noi voleva essere unico, diverso, riconoscibile. Oggi la moda ci ha reso tutti uguali. Così uguali che gli stilisti – che un tempo cucivano il loro nome nelle fodere degli abiti e con caratteri modesti e appena percepibili – stampano i loro marchi in modo persino volgare perché ognuno si riconosca anche attraverso quel marchio. Nessuno è più libero di vestirsi come vuole, ma è libero di scegliere tra quello che trova. Tra quello che gli stilisti, non tutti maître à pensée, non tutti artisti sublimi, hanno deciso. Mai un vestito è fatto sulla misura di ciascuno e sulla misura della sua età, del suo corpo, della sua reale necessità. I modelli tutti uguali sono in fila su una stampella, tra cui scegliere dalla taglia 38 alla 50, alla portata di una ragazza di diciotto anni e di una donna di settanta.

Ognuno può scegliere invece quando indossarlo: almeno in questo ciascuno è libero. Anche libero di abbinarlo a qualcosa di diverso, di esibirlo o di nasconderlo. E in queste scelte, finalmente, ognuno di noi comunica con parole sue.

 

I simboli

 

Tra i simboli, il più ricorrente è senz’altro quello riferito alla sessualità: nasconderla o metterla in evidenza attraverso il modo di vestire. A proposito del valore simbolico della sessualità, la moda femminile per secoli ha giocato soltanto tra pudore e esibizione, mentre nello stesso periodo il guardaroba maschile ha accentuato uno sconsiderato ricorso a colori, simboli, stravaganze persino effeminate, che senza arrivare alle eccentricità di Re Sole sottolineano il protagonismo dell’uomo nella società, la supremazia maschile sulla donna, soltanto oggetto d’amore.

Durante i secoli che precedono la rivoluzione francese, alla donna si accorda il mito della sessualità, insito nella sua stessa natura: la donna è sesso, quindi non ha nessuna necessità di esporlo o di evidenziarlo, ma ha l’obbligo di custodirlo pudicamente nel grigio e nella modestia.

 

(Nell’alto Medioevo soltanto gli uomini sedevano a tavola, mentre alle donne era riservata la cucina. È stato Carlo Magno a imporre la donna a tavola, per ingentilire i modi della soldataglia e dei cavalieri secondo gli insegnamenti di Bonvesin de la Riva e, più tardi, di Giovanni Della Casa con il suo famoso Galatheo. La dama, sempre elegante, siede tra due uomini che hanno l’obbligo di servirla e di lasciarle scegliere i cibi; a lei si chiedono grazia, silenzio e… poco vino. Francesco da Barberino, 1300: E sia nel suo mangiare ordinata e cortese/ e bea poco e quel sia or temperato).

 

L’uomo, al contrario della donna, deve ricorrere a simboli che esplicitamente evidenzino la propria forza sessuale (tenuta coperta). Abiti fortemente colorati e ricamati, strutture e soprastrutture opulente per ingigantire la figura e renderla visibile e sovrana. Senza rivali. Negli scudi e negli stemmi spade e spadaccini, animali fortemente virili, svettare di torri e scettri appuntiti; nelle vesti opportune imbottiture nei calzoni ornate di fregi in oro per attrarre l’attenzione e aggiungere valore al simbolo; e per un lungo periodo, le scarpe. La moda che mette in evidenza le scarpe ha inizio nel IX secolo in Francia, con le famose poulaines dalla punta prolungata e aguzza, e si propaga con sconcertante rapidità in tutta Europa subendo modificazioni aberranti, come le punte che si incurvano verso l’alto fino a raggiungere mezzo metro di lunghezza. È stato necessario un editto di Carlo VIII per ritornare alle scarpe quadrate e tozze, mettendo in discussione il valore del sesso ma salvando i piedi.

 

(Una domanda, a questo proposito: qualcuno ha studiato il significato del ritorno, in campo maschile e femminile, delle orrende scarpe a punta lunga e aguzza di questi anni appena trascorsi? Una valenza sessuale di quale tipo: chi ha la punta delle scarpe più lunga ha vinto in sessualità?).

 

Altro simbolo importante legato all’abito è il riconoscimento. Riconoscere, attraverso il modo di vestire, chi si ha di fronte: l’amico, il nemico, il suddito, il superiore, il vincitore o il vinto. Un simbolo che permetta al primo incontro di cautelarsi e di proteggersi. Si ricorre a un decoro particolare per farsi riconoscere potente o crudele, per dominare con il censo di una corona o con il timore di una spada. Ricco o pezzente. Persino i mestieri si fanno riconoscere attraverso un particolare modo di vestire, e le varie maschere regionali o nazionali sono il contributo popolare alla necessità di farsi riconoscere al primo sguardo, al primo accenno. Non è un caso che Balanzone, la sgangherata caricatura bolognese di un dotto pasticcione, vesta una tunica nera e quel gran cappello a doppia ala, né lo sono la maschera di Pulcinella o l’abito di Arlecchino. Più ovvio in battaglia il riconoscimento dei soldati, tra amici e nemici, e delle varie armi distinte per fogge (non a caso divise), colori, bandiere, simboli.

 

Tra uomo e donna

 

La rivoluzione francese segna un brusco cambiamento, anche nel guardaroba femminile, che dal Rinascimento eccede in volume e leziosità. I simboli del censo e del potere cadono, e per un certo periodo vince l’illusione di essere tutti uguali e tutti in pace fraterna, insieme.

Da quel momento l’abbigliamento maschile inizia un nuovo percorso, progressivo e regolare, dalla parrucca all’abito borghese, ai jeans e giacca blu. Magari con cravatta. È più difficile riconoscersi e distinguersi, ma la cravatta dice molto. Averla o non averla in certe occasioni, annodata in un modo o in un altro. Fa giovane o meno giovane. Fa cordiale o riservato. Fa di sinistra o di destra. Fa artista o bancario. Fa arrampicatore sociale o bon-ton. In questi e in altri molti casi la cravatta fa la differenza.

Non molto diverso il percorso dell’abbigliamento femminile che incontra, in tappe successive, le suffragette e la Belle epoque, il primo tailleur (il trotteur) di Paul Poiret e i jeans. Le gonne fanno la differenza: si accorciano e si allungano segnando il tempo, sistematicamente, da Christian Dior a Mary Quant. Giorgio Armani reinventa il tailleur al femminile; la moda diventa creazione e i sarti stilisti. Nel 1920 la rivista di moda era la “Gazette du bon ton”oggi “Vogue”: una sfumatura.

La diversa scelta del colore, che segna soprattutto il guardaroba maschile, si fa discendere dalla prima rivoluzione industriale. Ci siamo lasciati alle spalle uomini agghindati in vesti colorate, ornate di ricami e pizzi, più adatti all’eleganza di una donna che al portamento di un uomo; abbiamo visto questi uomini, pur valorosi e combattenti, ingioiellati come manichini districarsi tra colletti alti e pieghettati, cappelli piumati, gambe fasciate in colori diversi, mantelle. La rivoluzione francese appiana queste esagerazioni, la rivoluzione industriale avanza diluendo i colori in un grigio totale. Si pensa che il grigio discenda dal lavoro nelle fabbriche, dalla polvere, dal fumo delle fornaci. Io credo che la scelta del grigio come colore universale del guardaroba maschile sia dipeso soprattutto da una scelta di sobrietà e di convenienza. Di rinuncia. Di sconfitta anche nei confronti della donna, ormai adeguata a una valenza attraverso la quale si riconosce.

Non c’è dubbio che in questo contendere tra uomo e donna, sul piano del sembrare e del mostrarsi, la donna abbia stravinto. Si veste a suo piacimento in pantaloni o in minigonna, secondo l’umore e l’occasione. Mostra e nasconde di sé quello e come vuole. Soprattutto, e questo è importante davvero, se ne infischia di essere quello che sembra.

 

(Anche a questo proposito avrei una domanda personale. Avendo perduto, in apparenza, tutti i simboli della virilità ai quali l’uomo ha attinto per secoli, pavoneggiandosi come un animale in calore che vuole essere riconosciuto e scelto, dopo gli anni appiattiti nel grigio, perché l’uomo moderno accetta oggi la competizione con il mondo femminile sul piano del sembrare e del mostrarsi? In nome di una maggiore sicurezza di sé la donna si è spogliata del grigio e della modestia e ha ritrovato la propria completezza nella spensierata accettazione del colore e della fantasia che una volta appartenevano all’uomo: che cosa spinge l’uomo a riconoscersi nuovamente in questa esuberanza creativa?).

L’arte di comunicare

 

Mentre il vocabolario linguistico resta invariato, semmai nel tempo si arricchisce di nuovi vocaboli e di più acute interpretazioni, la comunicazione neurolinguistica – quella che avviene attraverso i simboli, i gesti, i silenzi, la scelta del modo di vestire, è in continuo movimento. Per questo dicevo all’inizio che il problema è complesso: che interpretazione dare a tutti gli stimoli, volontari e non solo, che ci vengono proposti ogni giorno da chi ci circonda? L’età, il sesso, la condizione civile e economica, la cultura, l’ambiente, l’etnia: un’infinità di mutamenti che non possono essere condizionati da regole. Per avere un rapporto sintonico con gli altri, ognuno deve imparare da se stesso a scegliere le percezioni che riceve. A valutarle. A corrisponderle.

In un articolo di Joseph S. Nye leggo e riporto (e a questo proposito ringrazio anche Umberto Eco e Renato Sigurtà per aver attinto ad alcune note che mi sono state preziose): “Anche i segnali non verbali sono importanti nell’arte di comunicare dei leader. Alcuni leader capaci di ispirare il loro pubblico non sono grandi oratori. Non lo era il Mahatma Gandhi, ma il simbolismo del suo abito contadino bianco e del suo stile di vita parlavano più delle sue parole”. Nello stesso articolo, Nye cita anche Lawrence d’Arabia che alla conferenza di Pace di Parigi si recò in abiti beduini per drammatizzare la causa araba. Anche Barack Obama, nel suo discorso in Africa, ha detto: “Io ce l’ho fatta!”, evidentemente riferendosi al colore della pelle. Perché se Obama fosse stato bianco, la frase per gli africani avrebbe avuto un senso diverso e meno importante.

Simboli. La cravatta, il colore degli abiti e della pelle, la particolarità di certo abbigliamento che ha distinto glihippies i beats e il famoso montgomery blu, dall’abito grigio o borghese dei colletti bianchi; le scarpe da tennis anche con lo smoking; i capelli lunghi o rasati; i piercing; i tatuaggi. Simboli. Segnali: per comunicare se essere con o contro. Dipendenza o dominanza.

Sull’arte di comunicare anni fa ho scritto un libro (I riti della comunicazione – Sperling e Kupfer), che raccomandava a chi parla in pubblico di osservare alcune regole, dal vestito ai gesti, dalla scelta dei vocaboli al tono di voce, dallo sguardo ai tic. Ne usciva una figura di oratore perfetto che non ha riscontro nella realtà: nessuno che io abbia visto in questi ultimi anni mettersi di fronte a un pubblico o a una telecamera somiglia vagamente al mio oratore perfetto. Il mio modello era l’Oratore; questi che vedo sono quello che vogliono e devono essere: camicia slacciata e un po’ stropicciata, camicia con cravatta ma senza giacca, giacca e cravatta in tinta calzini, foulard al collo, golfino di cachemire color pastello con cravatta fuori o dentro, giacca slacciata, giacca allacciata… Sono sicura che questi semplici particolari dell’abbigliamento sono sufficienti a chiunque per individuare i vari personaggi ai quali mi riferisco, pur senza nominarli. Perché il tipo di abbigliamento scelto da ciascuno è parte importante – come un marchio – del loro progetto di comunicazione. Verranno ricordati – giudicati e riconosciuti – anche da quello. Il loro modo di vestire e di proporsi è quello che dicono. Il loro messaggio.

 

Le buone maniere

 

Un galateo anche nel modo di vestire? Direi di sì, secondo la testimonianza di Moncrit (1687–1770): “Per essere amati bisogna piacere e si può piacere se si contribuisce alla felicità degli altri” – che è come dire: se non si creano agli altri situazioni imbarazzanti. A nessuna donna, pur giovane e bellissima, verrebbe in mente di presentarsi in bikini a una cena formale; e nessun uomo andrebbe a un convegno in tenuta da tennis, anche se firmata da uno stilista famoso. Qualcuno lo fa: e allora si chiama trasgressione. E la trasgressione è un modo di comunicare la non appartenenza, la non adesione a. Dominanza o dipendenza, appunto.

Nessuno è immune dalla ricerca ragionata dell’abito per l’occasione, anche i più accaniti difensori della propria libertà in fatto di vestire. Un amico, che in jeans e maglione difende accanitamente la propria libertà di vestirsi come vuole, in una trasmissione televisiva alla quale è stato invitato, si è presentato correttamente in giacca e cravatta. Si fa. Per cortesia verso chi ci ospita; per rispetto verso il pubblico. E per coerenza con l’argomento di cui si parla: c’è un modo di vestire adatto al salotto o alla platea. Spesso si mescolano: mai per incertezza, ma per calcolo. Come quel noto giornalista contro, che invece di sbracciarsi in televisione urlando scamiciato e sudaticcio, scarica cattiverie di ogni genere in perfetta tenuta gentleman, capelli a posto e sorriso – gelido – sulle labbra, tono della voce da educanda. Non per caso. Lui mescola le informazioni da bravo ragazzo ricevute in famiglia con un messaggio preciso: sono informato e inattaccabile, quindi sono diverso da tutti.

 

(“Vestiti, usciamo” di Luigi Settembrini descrive meticolosamente e in modo bizzarro ciò che è consentito al guardaroba di un uomo per ogni occasione. Le donne, invece, sanno perfettamente sbagliare da sole).

 

Anche il galateo è comunicazione, e se da una parte tende a evitare situazioni fastidiose per gli altri (gomiti sulla tavola, masticare a bocca aperta, parlare a voce alta), dall’altra fornisce le regole per presentare di sé la parte che consideriamo piacevolmente gradevole e composta, e adatta all’ambiente. Quanto più le buone maniere sono imparate precocemente e interiorizzate (vedi la famosa battuta: signori si nasce), tanto più rende alcuni comportamenti come la pulizia personale e non solo, il governo delle proprie emozioni, l’ordine, la cortesia verso gli altri, abitudini fortemente radicate. Evidentemente naturali.

Due persone che si incontrano, inviano e ricevono informazioni reciproche, semplici ma non banali: come il sesso, l’età apparente, lo stato di salute, l’abbigliamento. È inevitabile avere immediatamente attraverso queste informazioni un’idea della persona che si ha di fronte. Se il giudizio che ne deriva è sbagliato, dipende da chi guarda, perché l’informazione non è manipolata. Al contrario del messaggio: che ha sempre l’intenzione di trasmettere un pensiero, una scelta, una provocazione. Il messaggio e l’informazione non sono quindi la stessa cosa.

Le buone maniere, come il linguaggio verbale, rispettano un codice in grado di trasmettere informazioni e messaggi. Semplificando potremmo dire che sono informazioni le regole imparate da piccoli, messaggi i comportamenti imparati da adulti affinché ciascuno, volendo, possa adeguarsi all’ambiente che vuole semplicemente conquistare, in cui vive e lavora. In generale, quanto più si riesce a trasformare i messaggi in informazioni, tanto più ci sentiremo migliori.

 

(A me rimane ancora in sospeso una domanda: perché al monaco è stato consentito di togliersi la tonaca?).
*Dice di sé.
Elda Lanza. Da Oltre vent’anni per nove mesi l’anno veste in jeans, camicie rigorosamente bianche, classiche giacche blu di pesi diversi secondo la stagione, mocassini e niente pellicce. In estate, eccezionalmente, pantaloni bianchi e lunghe tuniche, raramente di colore. Un solo grande anello (ne ha una collezione) e sulle tuniche una sola grande spilla (mai insieme). Da oltre vent’anni ha i capelli bianchi raccolti sulla nuca. Da oltre vent’anni si illude di non essere cambiata. 

BELPAESE Giancarlo Livraghi - Viva l'Italia si tratta di capire quale

Le radici del futuro sono nella storia. L’Italia non è nata con l’unificazione politica 
centocinquant’anni fa. Ha una precisa identità da più di duemila anni. Una nuova 
rinascita ha bisogno di un nuovo rinascimento

Giancarlo Livraghi*

E’ difficile dire o pensare “Viva l’Italia”. Strane parole, vero? Sembra che nessuno riesca a prenderle sul serio. È ragionevole che un “grido” di quel genere oggi sembri retorico, antiquato, imbarazzante. Ci si può esprimere in modo più sobrio con altrettanta convinzione. Ma è proprio la convinzione che manca. Molto più spesso lo si dice in modo desolatamente ironico, amaramente deluso.

L’autocritica è una risorsa intelligente. Ma l’autolesionismo, diffuso nella nostra cultura, è un’altra cosa. Non guardiamo i nostri difetti per cercare di correggerli. Né ce ne vantiamo con arroganza, come fanno (talvolta con malagrazia) i paesi più orgogliosi. Ci accontentiamo di brontolare e lamentarci, come se fossimo condannati a una decadenza irreparabile e l’unica risorsa fosse cercare di “arrangiarci” nelle pieghe di un inesorabile declino.

Sembra che “sentirsi italiani” sia una cosa da tirare in ballo solo quando si tratta di una partita di calcio o di qualche altro evento sportivo.

Non siamo nazionalisti – e questa è una qualità. Non siamo xenofobi, se non quando un’ondata di immigrazione, non adeguatamente prevista e poi male gestita, fa spuntare un razzismo da cui credevamo di essere immuni. Ma non dimentichiamo che l’Italia, fin dalle origini, è sempre stata una mescolanza di etnie e culture diverse – e questo non è un problema, è una risorsa.

Sono italiano? Non lo so. Ho avuto la fortuna di nascere in un ambiente aperto alla diversità. Fin da bambino capivo e parlavo più di una lingua, vivevo fra scaffali di libri di varia provenienza, cercavo di imparare da tutti e da tutto quello che trovavo. Non mi sono mai riconosciuto nel “prototipo di italiano” come lo propongono gli schematismi e i luoghi comuni. Mi sento sempre più estraneo a quella che “sembra essere” l’Italia e a quello che esprime la (pseudo) cultura più diffusa e più visibile.

Ma straniero non sono. Ci sono cose e persone, in tutte le regioni, per cui ho affetto, rispetto e simpatia. Anche quando (e con l’andazzo attuale succede spesso) faccio fatica a sentirmi italiano, sono comunque un sincero amico dell’Italia. E mi fa soffrire vederla malata, umiliata, intontita.

Molti paesi cercano di coltivare un’apparenza migliore della loro realtà. L’Italia fa il contrario. E lo squallore del suo apparire inquina e corrode il suo essere.

Si sta cominciando a parlare del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia, nel 2011. Si stanno già moltiplicando i dissensi, i distinguo, le delusioni. Con l’aria che tira, sarà difficile che sia una festa.

Comunque ci vuol altro che qualche effimera celebrazione per ritrovare il senso di che cosa sia l’Italia e che cosa voglia dire essere italiani.

Il problema è che c’è un serio difetto di prospettiva. La storia dell’Italia (e la sua identità) non è cominciata con il Risorgimento (che infatti voleva dire ri-sorgere, non nascere per la prima volta). L’Italia non ha 150 anni. Ne ha più di 2500.

Un’esegesi storica sarebbe lunga e complessa, ma il fatto è che c’erano territori e culture chiamate Italia prima della fondazione di Roma. Già due millenni fa, ai tempi di Cesare, una larga parte della penisola era territorio metropolitano – che poco dopo si estese anche più a nord del Rubicone. Non era una colonia, i suoi abitanti eranocives. Non c’è dubbio che si chiamasse Italia, come è sempre stato in tutti i secoli seguenti.

Il latino non era solo la lingua di Roma. Insieme al greco era il patrimonio comune di tutto l’impero e la lingua internazionale di riferimento – come è stata più a lungo, e più diffusamente, di qualsiasi altra, anche indipendentemente dal controllo militare o politico del territorio. In parte lo è ancora (per esempio, ma non solo, nel linguaggio della scienza).

Dilaniata da guerre e invasioni, frammentata in comuni, signorie e dominazioni straniere, comunque l’Italia era sempre, inconfondibilmente, l’Italia.

Non è mai stata solo una “espressione geografica”, anche se la particolarità della sua posizione e struttura “fisica” è, oggi come sempre, uno degli elementi della sua identità (1).

Al tempo in cui nasceva la “letteratura in volgare” non c’era dubbio che esistesse l’Italia – e che fosse in difficoltà.

Così diceva Dante Alighieri (Purgatorio, canto VI, 76-78)

 

Ahi serva Italia, di dolore ostello

nave senza nocchiere in gran tempesta

non donna di province, ma bordello.

 

In questo lamento c’è un’insidiosa, inquietante attualità.

 

E Francesco Petrarca (Canzoniere, CXXVIII)

 

Italia mia, benché il parlar sia indarno

a le piaghe mortali

che nel bel corpo tuo sì spesso veggo …

 

Con un’accorata invocazione alla madre benigna di cui ama la bellezza, la natura, l’arte, la storia e la cultura. Il diletto almo paese in cui (benché “emigrato” in Francia) si riconosce – ma che vede lacerato da guerre, violenze, faide e congiure.

Oggi non sono (o almeno non sembrano) così sanguinose le “piaghe mortali”, ma è difficile sottrarsi alla percezione che l’Italia sia malata, con un’insidiosa mescolanza di sindromi nuove e antiche.

Eppure in quella sofferente Italia stava maturando il Rinascimento. Una straordinaria, fertile mescolanza della riscoperta dell’antico con l’invenzione del moderno.

Quel ciclo si è ripetuto, in altri modi, anche in epoche successive. Ed è quella la via migliore, se non l’unica, per uscire dalla palude in cui oggi siamo impantanati.

Non siamo condannati a un’irreversibile decadenza. Non siamo quella desolante Italia che il ventenne Giacomo Leopardi descriveva (riecheggiando il Petrarca) nel 1818.

 

O patria mia, vedo le mura e gli archi

e le colonne e i simulacri e l’erme

torri degli avi nostri,

ma la gloria non vedo... (2)

 

Non abbiamo bisogno di malinconiche rimembranze. Non serve versare lacrime sul destino della alma terra natia o formosissima donna ridotta a una larva del suo passato, che “nuda e inerme” siede in terra negletta e sconsolata. Per quanto sia (o sembri) confusa, ottusa e degradante, oggi non è quella la nostra condizione.

Capire la nostra storia non vuol dire rimpiangerla. Ma senza la forza delle nostre radici saremmo molto più deboli nel guardare al futuro.

Le “glorie” sono tutte del passato, da mettere nel polveroso armadio della nostalgia? Non è vero. Sono passati poco più di cinquant’anni da quando un paese povero, intontito da una stupida dittatura, afflitto da un esteso analfabetismo, massacrato da un’orribile guerra, ha trovato la forza di reagire, con quello che il mondo sorpreso chiamava “il miracolo italiano” (e non si trattava solo di economia).

Ancora oggi ci sono persone, organizzazioni e imprese che (lontane dalle cronache del peggio e anche, in generale, dalle luci della ribalta) stanno facendo cose, e producendo risultati, di cui (se ci badassimo) potremmo essere orgogliosi.

Il mondo pensa che in Italia ci sia molta corruzione. Purtroppo è vero. Non si tratta solo della piaga del crimine organizzato (che non è limitato ad alcune regioni, invade tutto il paese). O della rete di intrallazzi e consorterie che nessun tentativo di “pulizia” riesce a sradicare. C’è un’acquiescenza, un rassegnato “così va il mondo”, che costringe anche le persone più oneste e corrette ad accettare di essere circondate da un’equivoca atmosfera di “tolleranza”.

La corruzione è dovunque. In parecchie parti del mondo è peggio che da noi. Ciò che ci distingue non è il fatto di esserne contagiati, ma la diffusa percezione che sia un male inguaribile – o addirittura una cosa “normale”.

Il mondo pensa che gli italiani siano superficiali. Non è vero. Ma molti che “ci rappresentano” sono ostinatamente impegnati a farlo sembrare.

Siamo sommersi nel culto del futile e dell’inutile. Succede in ogni parte del pianeta.

Ma da noi è diventato lo stile dominante, il prototipo culturale (3).

Quasi tutte le persone che conosco (e anche molte che incontro per caso) sono gentili, cortesi, amichevoli – anche consapevoli e attente. Ma quanto potranno resistere l’umanità e il buon gusto alla quotidiana esibizione della volgarità, della villania, della superficialità, della stupida arroganza?

L’Italia è un paese di straordinaria bellezza. Per paesaggi naturali e tesori artistici.

Ma quando la chiamiamo “il belpaese” lo facciamo con un certo disprezzo, identificandola con un blando formaggio industriale che non è cattivo, ma è cosa da poco in confronto alla straordinaria ricchezza e varietà della nostra cucina (che non è solo il piacere di mangiar bene, ma anche la testimonianza di un patrimonio culturale).

Non è vero che siamo superati, rincitrulliti, condannati alla decadenza. Ma la nostra “cultura dominante” non riesce a riscattarsi da un masochistico degrado.

Anche se c’è poco da giubilare, ben venga un “giubileo” nell’ormai vicino 2011 – se (cosa di cui, purtroppo, dobbiamo dubitare) potrà essere un’occasione per ragionare su chi siamo e dove stiamo andando.

Ma centocinquant’anni sono troppo pochi. Con tutto il rispetto per il Risorgimento, che non è né la leggenda stantia degli agiografi, né quella cosuccia da poco che oggi ci pare, l’immenso serbatoio della nostra cultura ha radici molto più profonde – in due millenni e mezzo di travagliata, ma illuminante, storia.

Se il degrado continuasse, ognuno individualmente potrebbe sopravvivere, andando all’estero o “arrangiandosi” in qualche miope rifugio campanilistico. Mentre i valori della nostra cultura potrebbero essere coltivati (come è già accaduto) da altri, a modo loro, in diversi paesi.

Ma è meglio (per noi e per il mondo) che ritrovi la sua identità – cioè che sia viva l’Italia, senza punto esclamativo, ma con tutto l’impegno e il rispetto che merita. Nei fatti, non nelle invocazioni. Nella cultura e nel fare, non nella retorica.

C’è bisogno di un risveglio, di un Rinascimento (con la R maiuscola). Nonostante le deprimenti apparenze contrarie, ne siamo capaci, come lo eravamo secoli fa – in condizioni spesso più difficili e travagliate di quelle di oggi.

Se aspettiamo che qualche soluzione (chissà quale) venga “dall’alto”, rischiamo di piangere per altri mille anni. Mentre i più attivi o fortunati se ne vanno in Svizzera o in Australia – e chi resta si ingegna a fare il servitore di qualche califfo.

Ma mille laboriose formichine possono fare di più di un disorientato e torpido pachiderma. Cominciando con l’aprire qualche piccola breccia nell’esasperante muro di gomma dei manierismi, dei servilismi, delle abitudini e della disinformazione.

Non si potrà trovare il nutrimento nella banale ed effimera retorica dei proclami e delle celebrazioni. Ma vogliamo provare a uscire dal pantano? Certo nessuno ci regalerà un “miracolo”, ma ritrovare il lume della ragione potrebbe produrre risultati sorprendenti.

 

Mi sono fatto prendere da una crisi di ottimismo? No, non sono così stupido.

Sto solo cercando di dire (a me stesso prima che a chiunque altro) che lamentarsi non serve, deprimersi è triste quanto inutile, subire è miope, rassegnarsi è umiliante, obbedire è debole, non basta sfogarsi nel pettegolezzo e in qualche pasquinata. È meglio rimboccarsi le maniche e cercare di fare qualcosa.

 

 

1) Proviamo a guardare un mappamondo, un planisfero o una fotografia satellitare. Pochi paesi, in tutto il pianeta, sono così chiaramente e facilmente distinguibili come questa bella penisola in mezzo al Mediterraneo.

2) Quando i primi moti carbonari erano minuscoli e clandestini, l’unità politica non era neppure un’ipotesi, il più scettico e “pessimista” dei nostri poeti dell’Ottocento su una cosa non aveva dubbi: l’invocata “patria” era l’Italia e doveva ritrovare la sua identità.

3) Esempi del malcostume e delle grottesche prospettive culturali si trovano in “La stupidità non ha età” –gandalf.it/stupid/nonaeta.htm
*Dice di sé.
Giancarlo Livraghi. Se avesse mille vite, farebbe mille mestieri. È curioso di tutto, ma al centro della sua attenzione ci sono sempre la comunicazione e la cultura umana. Afflitto da inguaribile e impenitente bibliofilia, ha anche scritto alcuni libri (il suo preferito è “Il potere della stupidità”). Il suo sito online è http://gandalf.it 

TIZIANO FERROVoglio farti un regalo, qualcosa di dolce, qualcosa di raro,non un comune regalo, di quelli che hai perso, mai aperto,

o lasciato in treno o mai accettato. Di quelli che apri e poi

piangi, che sei contenta e non fingi.

(Da “Il regalo più grande” in “Alla mia età” 2008)

 

 

STUDIO 254 Gianna Pala Contini - Intervista di una neo donna ad un ex uomo

Una coraggiosa conversazione allo specchio cerca di fare chiarezza sul fenomeno della transessualità di cui tanto si parla, ultimamente, spesso senza cognizione di causa e a sproposito

Gianna Pala Contini*

In un momento storico in cui molto si dice dell’identità di genere, ho avuto la possibilità di raccontarmi, grazie a questo meraviglioso spazio che Cesare Lanza mette a disposizione degli iscritti alla sua accademia Studio 254. Si può cambiare sesso e continuare ad avere una vita di dignità e rispetto, molte sono le testimonianze: io sono solo una fra mille.

 

Perché ti definisci un ex uomo?

 

“Perché in fondo è la realtà ed io non rinnego il mio passato: sono quella che sono proprio grazie ad esso! La mia conoscenza, la mia consapevolezza ed il mio potere oggi, sono frutto del mio vissuto, proprio in quella forma che poi io ho deciso di modificare. La mia essenza è intrisa del mio passato, rinunciarci significherebbe snaturare e tradire me stessa.

Per me ex uomo non è un’offesa, ma semplicemente una connotazione ed un valore aggiunto.

In questo periodo, dopo il caso Marrazzo, in cui si parla spessissimo di transessuali, trasgender, in cui si parla al maschile o al femminile indifferentemente e si parla soprattutto, molto spesso a sproposito, della disforia di genere, creando ancor più confusione nella gente, che molto poco conosce del fenomeno, voglio semplificare e chiamare le cose col loro nome, per fare un distinguo tra l’identità e la sessualità, che è un’altra cosa”.

Mi puoi spiegare meglio?

 

“Col termine transessuale, in realtà, s’intende una persona che ha deciso di passare dall’identità di nascita a quella che percepisce a livello mentale, psicologico ed emotivo, quindi da uomo a donna o viceversa, in poche parole, come si dice solitamente, una persona che sta cambiando sesso. Ma quando si parla di sesso, soprattutto in un paese come il nostro, in cui la sessualità è vissuta in maniera frustrante, perché giudicata e colpevolizzata, si crea una marea di confusione. La transessualità diventa qualcosa che ha a che fare con qualche perversione o distorsione sessuale, mentre riguarda solo l’identità”.

 

Che significa allora cambiare sesso?

 

“Sesso come identità o sesso come sessualità? Perché il termine è ambivalente, si può usare in entrambi i casi”.

 

Beh! Ma non è la stessa cosa? Uno cambia la propria identità e di conseguenza anche la sessualità.

 

“E no! C’è molta differenza. Uno può decidere di diventare donna o uomo e fare una scelta sessuale omosessuale o eterosessuale”.

 

In che senso?

 

“Una persona può decidere di migrare dal sesso maschile a quello femminile, continuare ad andare con le donne e quindi la sua scelta sessuale è di omosessualità, oppure sceglie di andare con gli uomini e in questo caso diventi donna eterosessuale. Questo vale anche per la donna che diventa uomo, naturalmente”.

 

Oddio che confusione!

 

“Semplice non è, ma di perverso non c’è assolutamente niente. La mente umana è imponderabile e tra il genere maschile e femminile c’è una serie di varianti e composizioni che fanno la vita ricca di differenze”.

 

Qual è la causa della transessualità?

 

“È difficile dirlo. Può svilupparsi già nei primi anni di vita, durante l’adolescenza o, più raramente, in età adulta. Le ultime ricerche scientifiche parlano di una predisposizione genetica ed è stato scoperto un dimorfismo sessuale del cervello, opposto al sesso biologico. Per quanto mi riguarda non ricordo d’essermi mai sentita maschio, anche se, in una parte della mia vita, ho dovuto esserlo per convenienza sociale, ma, appena ho potuto, ho agito per adeguare la mia fisicità alla psiche, sennò sarei impazzita”.

 

È un percorso difficile?

 

“Può essere difficile e doloroso, dipende molto dal contesto nel quale lo si compie. Io nasco in una piccola città di provincia, in Sardegna, terra antica e molto radicata nelle tradizioni, da genitori semplici, molto onesti, a cui è stato insegnato di seguire le orme dei padri, la cui libertà è segnata dal rispetto degli altri e condizionata da quello che dicono gli altri. Per poter fare quello che ho fatto, ho dovuto prima strutturare e rafforzare la mia personalità, per liberarmi da tutti i condizionamenti familiari e sociali”.

 

E adesso?

 

“Sono stata brava. I miei genitori, che hanno fatto un meraviglioso percorso interiore, mi adorano e sono fieri di me, i miei amici, gli ex compagni di scuola e d’infanzia mi stimano: diciamo che ho fatto un buon lavoro e nessuno mi ha rinnegato”.

 

Come hai fatto?

 

“Ho comunicato col cuore la mia verità, ho parlato con amore dei miei dolori, del mio disagio, del mio desiderio di vivere, delle mie speranze e dei miei sogni, ho scelto, insomma, di condividere me stessa con loro”.

 

Cosa pensi del caso Marrazzo?

 

“È un gran brutto affare che non ha giovato a nessuno. Viviamo in un paese ipocrita e giudicante dove tutti “fanno”, ma di nascosto e quando si viene a sapere qualcosa di qualcuno, tutti inveiscono e sbraitano come ossessi. Questo ipotetico scandalo ha danneggiato innanzitutto lui, in quanto personaggio politico, la moglie, i figli e sopratutto la figura dei transessuali che, come al solito, sono stati identificati nella figura stereotipata e falsa di pervertiti sessuali che conducono una vita depravata. Tutto è stato strumentalizzato, per fare audiencenaturalmente. Massacrare esseri umani per avere più ascolti è ormai un malcostume che appartiene a tutti media e a chiunque può capitare d’esserne l’oggetto. La figura del trasgender si presta in maniera particolare perché è un fenomeno sconosciuto e misterioso, del quale si può pensare ed immaginare tutto: il morboso, si sa, incuriosisce parecchio!

 

Ma tu adesso chi sei?

 

“Io sono io. Artisticamente nasco come cantante lirico, con una voce di ben quattro ottave, che mi permetteva di affrontare un repertorio variegato dalla musica antica a quella moderna. Cantavo contemporaneamente in ben quattro registri differenti, basso, baritono, contralto e soprano. L’eccezionalità dell’estensione e la tecnica agguerrita mi hanno permesso di affrontare il difficile repertorio dei castrati del settecento. Ho fatto prime mondiali a Parigi, ho cantato in importanti teatri italiani ed esteri ed ho eseguito opere, che non si davano da duecento anni, riesumate appositamente per me. Hanno scritto addirittura un’opera in cui interpretavo contemporaneamente sei personaggi, sia maschili che femminili, cantando in tutti i registri. Era un escamotage per tirar fuori il mio femminile, almeno sul palcoscenico”.

 

E poi?

 

“Nel momento di transizione mi sono ritirata dalla carriera per poter avere tutto il tempo e l’energia necessaria per compiere il mio percorso. Avvenuto il quale, non avendo più necessità del palco per esplicare il mio femminile, potendolo vivere nel quotidiano, ho deciso di ritornare sulle scene, questa volta come attrice e da qui parte la mia vera vita, l’altra la reputo solo una preparazione a questa”.

 

Come sei arrivata all’accademia Studio254?

 

“Come cantante lirico avevo cognizione del mio valore e del mio talento. Come attrice avevo già fatto un film con Monicelli, due fiction per la tv, un Goldoni in teatro, vari spettacoli di cabaret, avevo presentato un format ed un talk sul satellite, ma avevo bisogno di una maggior conferma delle mie qualità.

Mi sono iscritta all’accademia di Cesare Lanza per confrontarmi e sperimentarmi e qui, già a metà anno, ho avuto la possibilità di esibirmi, di girare un corto come protagonista; poi c’è stato lo spettacolo finale dove ho fatto una performance molto applaudita, fino alla “Berlusconeide”che ha avuto un gran successo. Diciamo che Lanza mi ha dato subito molte possibilità per capire dove sono arrivata e sono talmente entusiasta che quest’anno mi sono riscritta. Frequento la classe di autori tv e giornalismo per poter ampliare la mia preparazione”.

 

Cosa ti aspetti ora?

“Il meglio sicuramente. Voglio diventare una grande attrice. Voglio essere felice e realizzata in tutti gli ambiti della mia vita”.

 

Ci riuscirai?

“Dipende da me, da quanto lo desidero e da quanto ci credo. Quello che di brutto ho passato mi è di stimolo perché, nel mio riscatto, c’è la possibilità che altri trovino la forza di fare il mio percorso con coraggio e determinazione, superando remore e difficoltà con disinvoltura”.

 

Un consiglio per tutti?

“Amare veramente la vita, altrimenti diventa veramente tutto impossibile e direi anche inutile”.
*Dice di sé.
Gianni Pala Contini. Di natura curiosa, per necessità coraggiosa, per scelta “libera di essere”, per inevitabilità pratica e concreta, ma per elezione sognatrice ed idealista, alla continua ricerca dei perché dell’esistenza, in continua ed inarrestabile evoluzione e mutamento, da biologa a cantante lirica, da uomo a donna, da attrice a scrittrice, da timido a estroversa, da depresso a euforica: le si consiglia vivamente di vivere una vita alla volta, altrimenti rischia nelle altre di annoiarsi. 

SCIENZA Tiziana Stallone e Domenico Mazzullo - Bulimia, una malattia della psiche

Le cause di questo disturbo del comportamento alimentare sono molteplici 
e sarebbe riduttivo attribuirle solo ad una banale questione estetica

Tiziana Stallone e Domenico Mazzullo*

Quando oggi si parla di disturbi del comportamento alimentare, la mente vola a immagini sconcertanti di giovani anoressiche, decedute per il sottopeso estremo non più compatibile con la vita, di modelle che rincorrono una magrezza non più umana, per corrispondere sempre di più a canoni estetici non naturali e artificialmente indotti, frutto di una stupida, quanto pericolosa moda dei tempi.

Ci si indigna verso i canoni attuali estetici e non solo, imposti da una società del cosiddetto benessere e consumistica, che detta e impone regole, a volte mortali.

I disturbi del comportamento alimentare non sono solo questo e, soprattutto, non dipendono esclusivamente dai tempi moderni. Il solo pensarlo o convincersene, rischierebbe di sminuire o ridurre ad una banale questione estetica, ad un capriccio dell’appetito, quelle che sono delle pericolose patologie di cui si ammalano in primis i giovani e per le quali, non di rado, i giovani muoiono.

Oltre alla temuta anoressia nervosa, esiste un’altra forma di disturbo del comportamento alimentare, noto con il nome di bulimia nervosa, a mio avviso ad oggi ancora incompreso, soprattutto nelle cause scatenanti, e talvolta incautamente sottovalutato, prima di tutto da chi ne è colpito, specie nelle primissime manifestazioni della malattia.

La ragazza bulimica (o il ragazzo bulimico, anche se questa patologia può colpire in età adulta), a differenza della persona che soffre di anoressia nervosa, è normopeso o in lieve sovrappeso, non presenta segni fisici evidenti della patologia, ha gli esami del sangue spesso nella norma, pertanto si muove nella quotidiana indifferenza riguardo al suo stato di salute. I genitori, parenti, amici di chi soffre o ha sofferto di bulimia nervosa, sono raramente o solo parzialmente informati della patologia, a volte in una fase ormai avanzata, quando il morbo ha preso il sopravvento e si è radicato, quando è più difficile porvi rimedio.

Se l’aspetto del paziente bulimico è normale, il suo animo può essere inquieto, l’umore disforico e altalenante. L’insicurezza, il senso di inadeguatezza, di sconfitta, di alienazione, di impotenza lo attanaglia e a lungo andare la vita di chi soffre di bulimia può divenire durissima.

La bulimia nervosa origina dalla psiche e di contro, a effetto boomerang, sulla psiche ha importanti ripercussioni, in particolare sul tono dell’umore, ed è per questo che dovrebbe essere trattata come malattia dell’ ”anima”, della mente, e solo secondariamente come problema del corpo e di come questo corpo si rapporta ai tempi moderni ed alla moda. La bulimia non è la malattia dell’appetito abnorme, come il nome stesso lascerebbe intendere. Ridurre la bulimia a una banale questione da liquidare dietro la scrivania di un nutrizionista, sarebbe una grave leggerezza.

L’etimologia della parola bulimia si fa risalire al greco bous (bue) e limos (fame); molte varianti furono coniate dal latino medievale bulinos o bolinos e dal francese medievale bolisme, tradotto letteralmente come “fame bovina”, ovvero avere un appetito grande quanto quello di un bue o la capacità di mangiare un bue.

Riferendoci alla storia, la bulimia nervosa, è un quadro clinico proposto alla comunità scientifica come diagnosi autonoma solo a partire dal 1979, anno in cui uno psichiatra del Maudsley hospital di Londra, Gerald M.F. Russell, pubblicò sulla prestigiosa rivista “Psychological medicine” un articolo che sarebbe presto diventato un riferimento classico: la bulimia nervosa, una pericolosa variante dell’anoressia nervosa, descrivendo questa patologia come caratterizzata da crisi di fame incontrollate seguite da tentativi di compenso di vario genere (vomito, esercizio fisico forsennato, digiuni), osservata in trenta pazienti il cui peso corporeo era per lo più nella norma o poco al di sotto o al di sopra di questa.

Meno rappresentativi di quella che è la drammatica essenza della bulimia nervosa, sono gli stili alimentari bulimici dell’antica Roma, descritti da Seneca (Ad Marciam XIX) con le lapidarie parole Vomunt ut edant, edunt ut vomant, con le quali dipinse il mangiare per vomitare e vomitare per mangiare, in riferimento a certi atteggiamenti diffusi dove i voraci commensali, avevano l’abitudine di provocarsi il vomito più volte allo scopo di rendere interminabili i banchetti. La bulimia dei romani era una forma di ingordigia edonistica, condivisa e codificata dalla società dell’epoca, che assomigliava assai poco alla bulimia nervosa che oggi conosciamo, la cui abbuffata è solitaria e segreta, assediata dai sensi di colpa.

Nella quarta edizione del Diagnostic and statistical manual of mental disorders (DSM-IV), manuale di riferimento per la diagnosi in psichiatria, la bulimia nervosa è definita e descritta seguendo un criterio sintomatologico (cioè attraverso l’elencazione dei sintomi che presentano i pazienti). Il paziente bulimico presenta abbuffate associate a modalità inappropriate per impedire l’aumento di peso (vomito autoindotto talvolta accompagnato da uso ripetuto di lassativi o di diuretici, digiuno e eccessivo esercizio fisico). Gli episodi bulimici sono accompagnati dalla perdita di controllo e l’abbuffata è interrotta da fattori esterni o dall’insorgenza di un malessere fisico ed è spesso seguita da senso di colpa, depressione o disgusto per se stessi. Il tipo di cibo assunto è in genere dolce o ipercalorico. Le crisi bulimiche avvengono in solitudine, spesso sono pianificate; esse seguono a stati di stress, depressione o restrizioni alimentari spinte o da sentimenti di insoddisfazione riguardo al peso o alla forma del corpo. I pazienti con bulimia nervosa sono normopeso, nelle donne in età fertile il ciclo mestruale è regolare. Tuttavia, le proprie forme corporee sono percepite in maniera alterata, sintomo noto come dismorfofobia, ed il peso corporeo è sempre e, comunque, considerato eccessivo.

In tema di diagnosi, con una mal celata nota polemica verso il Manuale DSM-IV, attualmente di riferimento nella Sanità pubblica, riteniamo che il concentrarci eccessivamente sui sintomi, potrebbe far perdere di vista l’eziologia, ovvero la causa, che ha originato il disturbo, in questo caso la bulimia. La comprensione delle cause è, invece, imprescindibile per formulare una diagnosi corretta e per strutturate una corretta terapia che sia d’aiuto.

Sulla base della nostra esperienza, per indagare le cause della bulimia, una prima grande distinzione andrebbe fatta tra bulimia primaria bulimia secondaria. Mentre la bulimia primaria è un disturbo a sè stante, la bulimia secondaria è derivabile da altre patologie organiche o psichiche quali per esempio: la depressione, sindromi ansiose, ipocondria, ritardi mentali, alcolismo, demenze, trattamenti farmacologici con antidepressivi, antipsicotici, cortisone, antistaminici, ecc…

Ci torna ad esempio in mente il racconto straziante di un uomo, che ha iniziato a sviluppare una compulsione verso il cibo dopo la prematura menopausa chirurgica della moglie, a causa di un tumore all’utero. Il conflitto in lui originatosi tra l’amore per la moglie ed il dolore della sfumata paternità, hanno indotto un profondo stato depressivo, che ha scatenato e slatentizzato delle abbuffate notturne. Un altro esempio frequente di bulimia secondaria, è quella conseguente all’iperfagia, associata alla assunzione di cortisone. Con motu proprio ed una scelta del tutto personale, che può essere senza dubbio non condivisa, possiamo ascrivere a questa forma di bulimia secondaria, anche tutti gli episodi, sempre purtroppo più frequenti oggi, di comportamenti alimentari alterati e patologici, tesi e miranti alla ricerca di una magrezza, o meglio detto, di una forma corporea, che corrisponda ai canoni estetici del tempo e che permetta di uniformarci e appiattirci su questi, trovando in questa uniformità, un motivo di rassicurazione, di identificazione personale, di gratificazione estetica, di incorporazione in un gruppo.

La causa della bulimia secondaria va ricercata nella patologia primaria responsabile, verso la quale va anche indirizzata la terapia.

Nella bulimia primaria il discorso eziologico si lega indissolubilmente a quello della struttura di personalità del paziente stesso e in questo ambito dobbiamo ricorrere necessariamente alla distinzione, alla suddivisione in due sottogruppi.

Un primo sottogruppo comprende i pazienti che affetti da quella che definiamo –bulimia primaria univoca nel quale la compulsione è unica verso il cibo e solo verso questo, e si associa ad un’ideazione ed attenzione ossessiva nei confronti del proprio corpo, del peso corporeo, della propria prestanza fisica, che viene ricercata e mantenuta con comportamenti espulsivi e condotte di eliminazione di diversa natura, ad esempio iperattività, vomito provocato, lassativi, diuretici, ecc…

In questo caso la compulsione si esplica verso il cibo e l’ossessione verso il proprio corpo, la propria forma corporea e il mantenimento di questa. Ne consegue da ciò che nel paziente affetto da tale tipo di bulimia, la compulsione verso il cibo comporta necessariamente in ottemperanza all’ossessione verso la propria forma corporea, degli atteggiamenti compensativi atti a mantenere questa nei parametri desiderati. Ove questo non è realizzato si producono dei violentissimi sensi di colpa, con comportamenti autopunitivi e lesivi della propria autostima. Tali atteggiamenti sono simili nella violenza coercitiva a quelli analoghi nell’anoressia nervosa primaria.

I pazienti ascrivibili alla bulimia primaria univoca, caratterizzata da una compulsione solo verso il cibo, presentano una personalità rigida con una forte componente ossessiva, portata ad un severo autocontrollo dei propri impulsi, cui sfuggono solo gli impulsi alimentari e, conseguentemente, un rigido e severo tentativo di compensare le trasgressioni, con un meccanismo compensativo severo ed ossessivamente autocontrollato. Se ne deduce quindi una personalità rigida e coartata nei confronti della quale gli impulsi bulimici rappresentano una fuga da un eccessivo autocontrollo. Lo stesso autocontrollo viene esercitato sulla propria forma corporea. Da ciò ne consegue il fatto pratico che il peso corporeo è normale o leggermente in eccesso, nonostante le trasgressioni alimentari. Si potrebbe pensare che questi pazienti potrebbero essere dei pazienti anoressici, se non ci fossero queste trasgressioni alimentari ad un rigido autocontrollo sempre presente. La rigidità di personalità è, infatti, la stessa che nei pazienti anoressici. Mentre in questi ultimi però l’autostima legata all’autocontrollo è molto forte, nei bulimici invece è estremamente scarsa. Si potrebbe paradossalmente sostenere che questi pazienti bulimici, sono degli anoressici mal riusciti.

Un secondo sottogruppo comprende pazienti affetti da una forma che definiremmo -bulimia primaria multicompulsiva- in cui l’atteggiamento compulsivo non è singolo verso il cibo, piuttosto generalizzato verso tutte le forme di piacere, per cui accanto alla compulsione verso cibo, o in alternativa a questa, si osservano altre forme compulsive ad esempio verso il fumo, verso il gioco d’azzardo, verso il collezionismo, verso gli acquisti, verso l’alcool, verso il sesso e la droga. Venendosi così a configurare un quadro compulsivo generalizzato nel quale la compulsione verso il cibo, rappresenta una delle possibilità, forse quella più a portata di mano.

Nei pazienti di questo sottogruppo non vi è nessuna attenzione al proprio aspetto corporeo e quindi spesso sono obesi e privi di sensi di colpa verso le proprie trasgressioni.

La struttura di personalità dei bulimici multicompulsivi è diametralmente opposta rispetto ai bulimici univoci, nei quali come abbiamo detto, la bulimia verso il cibo rientra nell’ambito di una più generale bulimia o compulsività verso gli aspetti edonistici e gratificanti della vita. Il bulimico di questo sottogruppo, infatti, è bulimico di tutto ciò che gli procura piacere tra cui anche il cibo. La sua struttura di personalità è tutt’altro che rigida, anzi è molto portata alle autoconcessioni e alle autogratificazioni. La sua compulsione, abbiamo detto, riguarda tutti gli aspetti gratificanti dell’esistenza. Quindi accanto al cibo e solo per fare alcuni esempi, il sesso il gioco d’azzardo, l’alcol, le droghe, l’acquisto incontrollato di oggetto e di beni di consumo, che poi non utilizza, il collezionismo. Caratteristica fondamentale è un’assoluta incapacità di controllo dei propri impulsi. Se ne deduce che sul piano alimentare vi è un’iperalimentazione incontrollata, senza nessun comportamento compensatorio o espulsivo, con conseguente grave aumento ponderale, che però non comporta nessun senso di colpa o alcuna autorecriminazione. Ma sono a portata di mano le più varie autogiustificazioni. Per quanto riguarda la condotta sessuale, il paziente bulimico multicompulsivo raramente è una persona fedele, ma si comporta piuttosto come un collezionista di avventure e di esperienze, superficiali quanto insoddisfacenti. La struttura di personalità appare, quindi, tutt’altro che rigida, anzi estremamente lassista.

Sul piano filosofico si potrebbe dire che mentre il paziente bulimico univoco è uno stoico, il paziente bulimico multicompulsivo è un epicureo.

Si comprende, quindi, da quanto detto, che sotto il termine bulimia, sono sottese strutture di personalità diametralmente opposte, che corrispondono quindi a diversi comportamenti.

Lungi dal voler con quest’articolo coprire interamente il complesso panorama dei disturbi del comportamento alimentare, e con la speranza di essere riusciti a fare maggior chiarezza sulle molteplici e variegate cause che possono scatenare la bulimia, vorremmo con quando raccontato far passare un messaggio per noi di fondamentale importanza.

Il rapporto di chi soffre di bulimia nervosa con il cibo e con le proprie forme corporee, è solo l’epifenomeno, la punta dell’iceberg di una complessa e indaginosa questione che origina nella psiche e che non va ricercata esclusivamente nell’ambiente e nei tempi moderni.

Pertanto, come disturbo della psiche, la bulimia va affrontata, senza generare pericolosi ritardi nella cura, rivolgendosi senza timore ad un medico, speta in psichiatria ed esperto in disturbi del comportamento alimentare, che può effettuare una diagnosi, e iniziare un’opportuna terapia, anche grazie all’eventuale alleanza terapeutica con altri esperti, come nutrizionisti, internisti o psicoterapeuti.
*Dice di sé.
Tiziana Stallone. Tiziana Stallone. Biologo nutrizionista e dottore di ricerca in anatomia. Libero professionista. Le sue passioni: lavoro, musica, cinema, alberi e cimiteri.

Domenico Mazzullo. Medico-chirurgo, speta in psichiatria. Psicoterapeuta. Assolutamente laico e quindi profondamente libertario. Romanticamente illuminista.

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